Ascanio Celestini, tiranno per una sera, parla alla nazione. Sold out per “Discorsi alla nazione” – circuito Cada Die Teatro, presso il Teatro La Vetreria di Pirri.
Lo spettacolo è iniziato, o no? Celestini parla, con le luci ancora accese, mette le mani avanti e, dopo aver definito la sua ultima fatica uno studio, si spinge oltre definendola una performance sperimentale – di ricerca – per poi subito domandarsi: «Ma come cazzo si fa questa sperimentazione?» Lo fa senza pretendere o tentare di dare risposta, ma riuscendo – fin dalle prime battute – a farci entrare a gamba tesa nel suo delirio lucidissimo, che poi è il nostro.
In “Discorsi alla nazione” non parliamo dell’Italia, ci rassicura, dopo averci inquietato proiettandoci idealmente in un futuro non troppo lontano e nemmeno improbabile. In Italia non c’è una guerra civile ed in Italia, non piove ininterrottamente.
Nel paese in cui ci porta sì, ma la pioggia è sulla bocca di tutti, mentre della guerra si tace, ignorandola e continuando a (soprav)vivere per quanto si possa. D’altronde «nella guerra ne muoiono molti, ma mai tutti, invece quando piove si bagnano tutti» dice Celestini che è già personaggio, quando a noi sembra parli introducendo lo spettacolo: è un qualunque uomo di sinistra, della sinistra dei però. Quella sinistra affetta da autismo (e qui sì che parliamo d’ Italia) che non riesce ad esprimere un vero dissenso, ad andare oltre a certi dogmatismi, la sinistra che si nutre di tragici luoghi comuni o, spesso tradisce o ignora la Costituzione: «Ripudiamo la guerra però, se tutto il mondo si muove contro Gheddaffi, è bene andarci anche noi; Il Ministro Kyenge “di colore”, ma è un pappagallo, variopinta?; le “negre col culo di fuori” che stanno a Via Casilina ed i figli che ci domandano che mestiere facciano: Il mestiere più antico del mondo – rispondiamo – col pericolo che il bambino ci diventi archeologo, oppure ancora “Ruby minorenne? Non è che però mi sembri proprio la piccola fiammiferaia, e tanto, tanto altro”. Finta tolleranza che spesso sfocia in insofferenza, sentenze da bar che toccano omossessuali, immigrati, donne, sentenze sempre introdotte da un “Sono di sinistra, però (…gli zingari puzzano)». Viene poi chiamata in causa la Sinistra dei partiti, quella ancorata agli scranni in Parlamento, quella che vota esponenti che piacciono tanto alla destra. Ce n’è per tutti, partendo da Bersani, arrivando a Renzi, passando per la Bindi e Vendola.
Stridono nelle orecchie le registrazioni di discorsi istituzionali, comizi, requisitorie ad introduzione di questo prologo, strutturato con grande abilità: Pinochet (scritto tutto attaccato), D’Alema, Marchionne, Berlusconi, Margareth Thatcher, Joseph Ratzinger, Grillo, Fidel Castro ed altri. «Ho lavorato sulla violenza del linguaggio cui ci hanno abituato i mezzi di comunicazione di massa, ad esempio, uno dei discorsi riportati– racconta Celestini- è quello fatto da Bettino Craxi in Parlamento nel ‘92, quando sostenne che buona parte del finanziamento politico fosse irregolare o illegale: partendo da questo presupposto lui disse chiaramente che il sistema “poteva” essere considerato persino criminale. Interessante, se risentito a distanza di vent’anni.»
La capacità affabulatoria dell’autore assume una nuova veste, si scosta dal legame profondo con l’istituzione totale che aveva fino ad ora caratterizzato i suoli lavori: fabbrica, carcere, call center, anche se, per molti versi è vicino all’ultimo “Pro Patria”, partorito nel 150° anniversario dell’Unita di quest’Italia “metà giardino-metà galera”. Era il 1849, anno in cui si realizzava un sogno: il risorgimento repubblicano. La vita di tanti giovani in cambio del suffragio universale maschile, dei beni ecclesiastici riconsegnati al popolo e delle basi per una futura democrazia. Poi sono arrivati i Savoia, i fascisti, la Democrazia Cristiana, per giungere al ventennio del Cavaliere decaduto. E ora? Ora affrontiamo un tempo incerto: «Stiamo affondando nelle sabbie mobili» senza conoscere nemmeno la profondità e la vastità della palude, in un precariato esistenziale e lavorativo.
E’ ancora il personaggio a sentenziare in conclusione del prologo: «Eravamo libertari e siamo diventati liberisti», aggiungerei reazionari da divano, limitati, razzisti, figli delle contraddizioni e dei fallimenti, dell’andamento storico che abbiamo subìto e, forse, meritato in questi anni.
Da questo momento in poi il buio si fa fitto, si accende solo qualche luce flebile, proveniente da torce elettriche piantate in verticale; vi è qualche sedia. La scenografia è volutamente scarna e a noi sembra di entrare in un incubo, in cui sentiamo le gocce di pioggia picchiettarci il cervello: la voce di una donna durante una telefonata, sollecita chi di dovere a rimuovere un cadavere dall’ingresso dell’abitazione in cui vive, ed intervalla cinque monologhi (la voce registrata è quella di Veronica Cruciani); è così che ci accorgiamo di essere effettivamente arrivati in quel paese di cui dicevamo in apertura, quello in cui piove ininterrottamente ed è in atto una guerra civile, cui porrà rimedio (forzato) un cinico tiranno in chiodo di pelle nera e camicia a fantasia anni ’70, che i sudditi non hanno scelto, mentre è lui ad aver scelto loro.
Brevi ed incisivi monologhi (scritti e snocciolati sapientemente) divengono istantanee di uomini e donne, abbandonati a se stessi, che non provano più sdegno per la guerra ed attendono che il tiranno prenda le redini della situazione e, pur non affacciandosi da un balcone, dichiari loro le sue bieche intenzioni. Sempre Celestini è il portiere del condominio dove vivono coloro che si raccontano, «dandoci un quadro della loro vita privata e della violenza che alberga nel loro animo, figlia e allo stesso tempo madre della realtà che si trovano a vivere»: inevitabile rintracciare una terrificante somiglianza con le tipologie umane italiote descritte nel prologo, altri uomini e donne del però, ma in situazioni ulteriormente paradossali: uno di essi passa l’intera giornata appostato come un cecchino alla finestra e spara chiunque gli capiti a tiro; un’altro condomino schiaccia con l’auto un senegalese che gli aveva venduto caro l’ombrello rosa che, paradossalmente, aveva smesso di farlo sentire invisibile rendendogli una vita sociale e l’amore filiale, cui non era abituato e portandolo alla follia. Due fra i tanti.
«Ho immaginato alcuni aspiranti tiranni che provano ad affascinare il popolo per strappargli il consenso e la legittimazione – racconta l’autore-: parlano senza nascondere nulla. Parlano come parlerebbero i nostri tiranni democratici se non avessero bisogno di nascondere il dispotismo sotto il costume di scena dello stato democratico”. Inevitabile, in seguito al discorso del despota, riflettere sul significato di tirannia e democrazia, arrivando a sostenere che «le due cose siano in realtà due facce della stessa medaglia, e che la sopraffazione del più debole sia in verità propria della natura umana.»
Degno di nota un passo in cui si ricorda l’operato politico di Gramsci, alto 1,50 m ma riconosciuto come “gigante” e l’elogio di una lotta di classe, che poco ha fruttato alla classe subalterna, da sempre più intelligente e meritevole dei tiranni. «Perché noi siamo al potere – chiede il despota – e voi non contate niente?» Ieri come oggi, oggi come domani, vi teniamo in pugno a nostro piacimento, poche carote e molti colpi di bastone.
23/11/2013 – Nella stessa giornata Ascanio Celestini ha presentato “Incrocio di sguardi” (conversazione su matti, precari, anarchici e altre pecore nere) ed. Eleuthera di Ascanio Celestini e Alessio Lega
Info: http://www.cadadieteatro.it/index.php
Grazie all’ufficio stampa, nella persona di C. Marcis
Cinzia Crobu