Da ieri a domenica, al teatro Massimo di Cagliari, “La torre d’avorio”, avvincente pièce di Ronald Harwood, con Luca Zingaretti e Massimo De Francovich.
Si alza il sipario su “La torre d’avorio”, avvincente pièce di Ronald Harwood (autore del celebre “Servo di scena”) che racconta il drammatico scontro tra due opposte visioni del mondo prendendo spunto dall’infamante accusa realmente rivolta a Wilhelm Furtwängler, il grande direttore d’orchestra tedesco, di aver indirettamente “collaborato” con il regime nazista per aver scelto di restare in Germania negli anni più bui e tragici della sua storia. Una decisione difficile e per certi versi pericolosa, resa possibile dal suo immenso prestigio – che lo proteggeva da eventuali rappresaglie per le affermazioni fortemente critiche in particolare sulle discriminazioni e persecuzioni contro gli ebrei – motivata dal non voler tradire la bellezza né privare il suo popolo della cultura. Una linea di condotta comprensibile e coerente per un uomo che aveva dedicato la propria esistenza all’arte ma interpretabile, per esempio dal brutale maggiore Arnold, incaricato dell’inchiesta, come un segno di cedimento se non di simpatia nei confronti del Führer e dei suoi gerarchi, anche per aver rappresentato l’eccellenza germanica agli occhi del mondo, contribuendo all creazione dell’immagine distorta di una presunta superiorità e perfezione della stirpe ariana.
“La torre d’avorio” – il cui titolo originario, “Taking Sides” ovvero schierarsi, prender partitosegnala l’importanza dell’impegno, specialmente degli intellettuali, e di chi per il suo ruolo pubblico possa rappresentare un esempio per i cittadini – ha debuttato in prima regionale domenica 23 febbraio, in replica lunedì 24 febbraio alle 21.00 al Nuovo Teatro Comunale di Sassari per la Stagione di Prosa 2013-14 del CeDAC nell’ambito del XXXIV Circuito Teatrale Regionale Sardo, e da ieri sera fino a domenica 2 marzo (fino a sabato alle 20.30 e domenica alle 19.00) nel cartellone de “La Grande Prosa al Teatro Massimo” di Cagliari firmata CeDAC.
Protagonisti sulla scena Luca Zingaretti, che firma anche la regia, nel ruolo del maggiore Steve Arnold, l’ufficiale americano insensibile al fascino dell’arte e della cultura cui è affidata l’istruttoria, e Massimo De Francovich, nei panni sicuramente scomodi di un Wilhelm Furtwängler accusato di essersi reso complice del regime, mettendo il proprio indiscusso talento al servizio di un’ideologia distopica e feroce. Completano il cast de “La torre d’avorio”, nell’allestimento di Zocotoco, con la bella traduzione di Masolino D’Amico, Paolo Briguglia, con Gianluigi Fogacci, Francesca Ciocchetti e Caterina Gramaglia, mentre le scenografie di Andrè Benaim e i costumi di Chiara Ferrantini, sottolineati dal disegno luci di Pasquale Mari, suggeriscono le atmosfere sospese di un irrituale processo alle intenzioni, nello scontro tra un uomo in divisa incapace di apprezzare il fascino della musica classica e dunque di inchinarsi davanti al genio di uno dei più grandi direttori del Novecento, e il grande maestro tedesco.
Il nodo centrale – se sia compito dell’artista prendere apertamente posizione, schierandosi contro le ingiustizie e l’orrore, o magari scegliendo un volontario esilio pur di non soggiacere e non mescolarsi con un potere efferato; o se l’arte, e in generale la cultura, appartengano a una sfera diversa, e possano esercitare la loro influenza sugli animi indipendentemente dalle qualità umane e dai comportamenti di chi ne è interprete – resta irrisolto. Harwood chiama il pubblico a farsi giudice, o meglio a interrogarsi sui diritti e i doveri di tutti gli esseri umani di fronte alla storia: il punto di vista dei vincitori prevale su quello dei vinti, e una valutazione degli eventi a posteriori, quando tutta la verità sull’orrore è stata rivelata, non può forse applicarsi retroattivamente a chi si è trovato a scegliere in condizioni difficili, e ha cercato di fare del proprio meglio in tempi inusuali.
Il maggiore Arnold/ Luca Zingaretti e il maestro Wilhelm Furtwängler/ Massimo De Francovich incarnano le due contrapposte visioni, in un duello di personalità sul tema cruciale – se sia ammissibile convivere con un incubo, semplicemente concentrandosi sul senso della bellezza, astraendosi dalla realtà politica e sociale, o se sia indispensabile prendere posizione, e nessun testimone possa dirsi innocente o estraneo ai fatti. Ciascuno di loro è espressione di una differente sensibilità: per il primo contano solo i fatti e le azioni concrete, e non vi sono eccezioni basate sulle capacità e sul talento, tutti devono fare la loro parte; il direttore d’orchestra, inopinatamente sotto processo – per quanto avesse preso apertamente le distanze dal regime, e privatamente avesse cercato di aiutare colleghi e conoscenti, ma anche semplici sconosciuti, a sottrarsi alle persecuzioni – costretto a scendere dal piedistallo e a cercare di giustificare le proprie scelte, mostra, ma solo fino a un certo punto, la propria umana fragilità, senza peraltro rinunciare a difendere il proprio ideale di un’etica e un’estetica intangibili, al di là del bene e del male.
Alfiere della bellezza, Furtwängler era stato, suo malgrado, una stella di prima grandezza negli anni del caduto regime, ma anche un faro nella notte della ragione in cui era precipitata la Germania, e l’Europa intera; aveva cercato di usare il proprio ascendente per perorare la causa degli artisti e musicisti ebrei, in nome del principio che una grande nazione non possa rinunciare ai suoi migliori e più preziosi talenti; ed era stato a un certo punto costretto a “prendersi una vacanza” per non diventare a propria volta una vittima della follia nazista.
Agli occhi di Arnold, i meriti in campo artistico e culturale non hanno peso, o rappresentano semmai pericolose aggravanti; e mentre l’ufficiale continua a cercare le prove di una più diretta compomissione, se non di un legame di Furtwängler con Adolf Hitler e i suoi gerarchi, partendo dalle chiare dimostrazioni di stima e ammirazione di quell’enclave di melomani, sfilano i testimoni.
I racconti – veri o falsi, spontanei o estorti – rappresentano altrettante tessere di un mosaico il cui disegno resta però ambiguo, come per certi versi ambivalente è stato il comportamento del maestro nella strenua difesa della sua arte. La rozza ferocia e aggressività dell’ufficiale americano sembra far pendant con quelle dei nazisti, in una cieca e insensata brama di distruzione: si cerca il capro espiatorio, la punizione esemplare, da presentare al mondo come simbolo della purezza e delle ragioni dei vincitori, da un lato, e quindi dall’altro delle colpe dei vincitori. La logica perversa della guerra – già denunciata da Eschilo nei suoi “Persiani” – non ammette chiaroscuri, confini incerti tra il bene e il male: sulle macerie delle città distrutte, sulle tombe dei caduti e in questo caso tra i fantasmi di milioni di morti, vittime di un genocidio, si cerca di costruire una pace durevole, seppure “in armi” come si scoprirà poi, non c’è posto per dubbi e esitazioni. Tra i più interessanti e apprezzati drammaturghi del Novecento, Ronald Harwood – sudafricano di origine ebraiche, appassionato di musica classica – sembra trovarsi nella posizione ideale, quasi super partes per esprimere un giudizio a posteriori su Furtwängler e il nazismo. Ma il compito del teatro è interrogarsi sul presente e sulla storia, sulla natura umana e le sue debolezze, dar voce all’inquietudine: “La torre d’avorio”/ “Taking Sides” non offre risposte ma sollecita una riflessione sul presente e sul passato, sull’astrazione intellettuale e la necessità di immergersi nel fango e “sporcarsi” con gli aspetti concreti dell’esistenza. Un dilemma irrisolto. Un enigma affascinante cui ognuno può e deve dare risposta.
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