S’intitola “L’ho fatto per il mio paese”, la surreale commedia, ideata e scritta (a quattro mani) da due autori affermati e apprezzati come Francesco Freyrie e Andrea Zalone (drammaturgo e sceneggiatore il primo, attore e doppiatore il secondo, entrambi con una lunga esperienza in tv) – in collaborazione con l’istrionico Antonio Cornacchione, anche protagonista sulla scena accanto ad un’attrice come Lucia Vasini, dotata di irresistibile vis comica e versatile talento.
La scoppiettante pièce racconta lo strano incontro/ scontro tra un’esponente del governo, una ministra appartenente all’élite culturale e economica, stimata docente e moglie di un ricco finanziere e uno degli ultimi idealisti, un sognatore che pensa di cambiare il mondo ma intanto deve fare i conti con un amaro presente, tra bollette e conti da pagare e la temuta lettera di licenziamento già in tasca. Il tentativo di rivalsa del moderno donchisciotte sfocia in un atto disperato, dalle conseguenze imprevedibili: le due visioni opposte della realtà sono inconciliabili, una signora dell’alta borghesia, ammantata di prestigio intellettuale difficilmente potrà comprendere il dramma di chi vive una condizione di perenne precarietà, impegnato nella dura lotta per la sopravvivenza. Dal dialogo impossibile tra due universi paralleli scaturirà un “inferno terrestre” con effetti grotteschi ed esilaranti – come spesso accade, davanti alla catastrofe si ride per non piangere.
In tournée nell’Isola sotto le insegne del CeDAC nell’ambito del XXXIV Circuito Teatrale Regionale Sardo, “L’ho fatto per il mio paese” debutterà – in prima regionale – domani (giovedì 3 aprile) alle 20.30 al Teatro Electra di Iglesias, per approdare venerdì 4 aprile alle 21.00 al Teatro comunale di San Gavino Monreale, dove inaugurerà la Stagione del CeDAC; poi sabato 5 aprile alle 21.00 al Teatro Garau di Oristano e infine domenica 6 aprile sempre alle 21 al CineTeatro Montiggia di Palau.
Nel segno graffiante della satira, lo spettacolo racconta la realtà contemporanea e le contraddizioni del Belpaese negli anni della crisi; gli errori e l’inadeguatezza di una classe politica che appare sempre più distante dalla realtà, incapace di cogliere i segnali di un’emergenza sociale sempre più diffusa, con le nuove povertà, la crescente disoccupazione e le generazioni perdute dei giovani (e ex giovani, ora più che quarantenni) senza speranze né lavoro. Cronache quotidiane di una tragedia annunciata, e inasprita dalla frattura sempre più profonda tra l’élite al potere e la gente comune: fabbriche e imprese chiudono, falliscono i negozi, aumenta la criminalità e intanto si riducono le risorse del welfare, si tagliano i fondi per l’istruzione e la cultura, vien meno il fondamentale patto di solidarietà.
Fragili equilibri economici e politici, sempre più in balìa dei mercati finanziari, e il confronto tra le (ex) potenze occidentali e gli stati emergenti disegnano scenari inquietanti: difficile individuare soluzioni adeguate, temperare la competitività con la qualità della vita, recuperare almeno una parte del benessere che sembrava frutto irrinunciabile del progresso, della civiltà delle macchine e di un’idea condivisa di società giusta.
L’evidenza di una tragedia in atto, non sembra però sfiorare chi regge le sorti del mondo – per cecità, insensibilità e indifferenza, o forse null’altro che una resa a priori con la scelta di preservare solo determinate istituzioni (monetarie) per scongiurare il rischio di un temuto default sul piano internazionale, mentre l’economia implode sotto il peso dei debiti, dei mancati pagamenti, delle tasse, di un costo della vita sempre più alto e di standard qualitativi sempre più bassi. Forse semplicemente i vecchi parametri e le vecchie regole che consentivano di tenere sotto controllo i bilanci non bastano più, occorre inventare nuove forme di sviluppo sostenibile, venuto meno il miraggio di una crescita inesauribile e inarrestabile; e magari tenere conto di quel BIL – benessere interno lordo – vero indice della prosperità di un paese – invece di misurare tutto sul PIL, indicativo solo delle performances di un’economia mercantile, per ritrovare nei fatti e nelle intenzioni la cura del bene comune.
“L’ho fatto per il mio paese”: così la protagonista della pièce si difende e insieme rivendica la natura del suo sacrificio e della sua dedizione, che forse mascherano la necessità di colmare un vuoto emotivo, una perdita di senso dell’esistenza nella consuetudine dei riti mondani, nella frequentazione di quella parte della società tanto simile a lei, in cui si riflette e di cui è perfetta espressione. Un’insoddisfazione segreta e inconfessabile, o forse solo il desiderio o il bisogno di compiere un gesto di buona volontà l’hanno spinta a scendere in campo, ad assumere un incarico di responsabilità; ma chi si trova ai vertici deve essere conscio del peso e dell’influenza delle sue azioni; i tagli e gli esuberi, semplici numeri sulla carta, feriscono nella realtà persone vere, distruggono sogni e speranze, con l’unico vantaggio di far tornare (temporaneamente) i conti.
Il suo antagonista è un uomo apparentemente ingenuo, provato dalle dure battaglie dell’esistenza che non hanno però intaccato la sua fede nella possibilità di costruire un domani migliore: lo stridente contrasto tra i suoi progetti e i suoi ideali e la verità di una società che lo rifiuta e lo respinge, rinchiudendolo nel limbo dei senza lavoro, produce la scintilla di rabbia e disperazione che lo porterà a compiere (quasi) una follia. Un gesto eclatante, capace di attirare l’attenzione, per mostrare al mondo la sua indignazione, o forse cambiare il corso degli eventi, influire su quelle decisioni prese dall’alto con totale indifferenza e insofferenza verso il dolore che può scaturirne.
Il finale della storia, non priva di suspense – tra colpi di scena e inattese rivelazioni – come si conviene ad un’opera contemporanea, è tutto da scoprire, per la curiosità e il piacere di quanti andranno a teatro!