Si conclude domani, giovedì 8 maggio, la stagione di prosa 2013/2014 del CeDAC al Teatro Electra di Iglesias.
Viaggio nella Storia con “Una cena veramente straordinaria/ L’amore, la vita, la morte ai tempi del ghetto”, lo spettacolo del Teatro Barbaro liberamente ispirato a “Il muro di Varsavia” di John Hersey, in cartellone domani (giovedì 8 maggio) alle 11.00 in matinée per le scuole, e ancora alle 20.30 al Teatro Electra di Iglesias per l’ultimo appuntamento con la Stagione di Prosa 2013-14 firmata CeDAC – nell’ambito del XXXIV Circuito Teatrale Regionale Sardo.
La pièce originale – ideata, scritta e diretta da Senio G.B. Dattena, protagonista sulla scena assieme a Maria Loi e Evelina Bassu sulle note della fisarmonica di Maurizio Serra – affronta l’incubo della Shoah dal punto di vista delle vittime, gli ebrei di Varsavia, prigionieri dietro il muro del ghetto, sottilmente consapevoli della prossima catastrofe ma ancora pienamente immersi nel respiro della vita.
“Una cena veramente straordinaria” trae spunto dagli immaginari diari di un giornalista e aspirante scrittore, Noach Levinson (in un certo senso un alter ego di John Hersey, giornalista e scrittore statunitense, autore del romanzo pensato in chiave di docufiction): davanti alle prime persecuzioni nella Polonia occupata dai nazisti e alla costruzione del muro intorno al quartiere ebraico nella città vecchia, Levinson avrebbe deciso di documentare quei fatti straordinari, con l’idea di trarne materiali per un’opera letteraria. Quei taccuini avrebbero finito per trasformarsi in una testimonianza – in presa diretta – dell’orrore ma anche dei sempre più fragili segnali di un’apparente normalità: la capacità umana di adattarsi all’ambiente e alle circostanze, unita all’incredulità con cui venivano accolte le notizie sui campi di sterminio, fece sì che nel ghetto si ricostituisse paradossalmente una società assolutamente speculare, con le sue gerarchie e le sue leggi, a quella esterna. L’inquietudine sottile e l’idea della morte, sempre presente, non riuscivano a togliere peso e significato alle piccole incombenze quotidiane e la fame, il freddo, la miseria non bastavano a cancellare, anzi mettendoli alla prova finivano con il rafforzare gli affetti e i legami familiari.
Quasi una profezia capovolta, in cui è sotteso il ricordo dei pogrom e di antiche e recenti discriminazioni, s’invera nella realtà terribile del ghetto di Varsavia; e quel muro fatto costruire agli stessi ebrei delimita la loro prigione, diventa il segno concreto e tangibile di un’esclusione dalla comunità dei viventi, il confine di un luogo in cui il tempo resta come sospeso in vista dell’inevitabile fine. Un’attesa del nulla che si riempie di emozioni, desideri, slanci del cuore: in quel limbo, prima che si compia un destino già scritto dai vincitori (sulla pelle dei vinti) con la follia della “soluzione finale”, nascono amori e amicizie, si celebrano riti e perfino feste, si accolgono i nuovi nati e si piangono i defunti, ogni istante diventa (ancor più) prezioso. Il diario di Noach Levinson registra pensieri e parole, minuti frammenti di una quotidianità che verrà cancellata all’indomani della rivolta del Ghetto di Varsavia, ultimo e disperato tentativo di non arrendersi al male. Sono le voci, i ricordi, i sentimenti degli abitanti del quartiere, i loro sogni e rimpianti, l’eco delle loro vite a emergere dalle pagine del romanzo, per risuonare ancora sulla scena.
Un’invenzione letteraria – le annotazioni sui taccuini, il tentativo riuscito di nascondere quell’estrema testimonianza sottraendola alla distruzione, l’avventuroso percorso fino in Israele poi in America di quel materiale così scottante – riesce così a restituire un volto, un’identità a quegli uomini e donne, giovani e anziani, bambini e ragazzi travolti nell’onda nera della Storia. John Hersey – già vincitore del Premio Pulitzer nel 1945 con “A Bell for Adano” sulla Sicilia durante la seconda guerra mondiale e autore di “Hiroshima” sugli effetti delle prime esplosioni atomiche – sceglie di raccontare l’esistenza all’interno del ghetto di Varsavia attraverso le parole dei protagonisti, affidando a un giornalista e aspirante scrittore il compito di testimoniare la verità. Il presunto Archivio Levinson – in bilico tra la realtà dei documenti e delle interviste, e l’immaginazione dello scrittore – rappresenta così la chiave per narrare “l’amore, la vita e la morte ai tempi del ghetto”: non un distaccato reportage giornalistico, ma il racconto in tempo reale di ciò che accade giorno per giorno sotto gli occhi del protagonista. “Il muro di Varsavia” è un romanzo in cui fiction e cronaca si intrecciano, la verità storica verificabile fornisce l’ordito su cui si costruisce una trama fatta delle tante, troppe esistenze prigioniere del ghetto.
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