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Ci accodiamo alla lunga fila di macchine che, partita dal centro di Asiago, imbocca l’antica strada per Trento e, superato il Passo di Vezzena, piega a destra costeggiando le rovine del Forte di Busa Verle, per addentrarsi nelle strette stradine snodantesi tra le fitte abetaie del Bosco Varagna e dei Marcai, fino a raggiungere il dosso prativo della malga dove, sotto il cielo terso del mattino, spicca solitario un cippo commemorativo.
Ci troviamo in Regione dei Marcai di Sopra, nel territorio del Comune di Levico, in Provincia di Trento, nel punto dove cento anni fa passava la 1ª linea del fronte italo-austriaco della Grande Guerra, per partecipare all’annuale appuntamento dei Marcai, una vera e propria Giornata Commemorativa curata dal Comitato Organizzatore composto dalla Famiglia di Marco e Stefano Ambrosini e Amici di Asiago, quest’anno inserita nel contesto celebrativo del Centenario della Prima Guerra Mondiale.
Sotto l’abile regia del Luog. (ris) Antonio Pinna, Storico della Brigata “Sassari” e profondo conoscitore delle vicende belliche della Grande Guerra svoltesi nel Fronte degli Altipiani, alla presenza delle locali Associazioni d’Ama, la giornata è iniziata con la cerimonia dell’Alzabandiera, issando sui pennoni, insieme, i vessilli dell’Italia e della Repubblica Federale d’Austria e rendendo, con la deposizione di un cuscino di fiori, il doveroso omaggio ai Caduti che riposano nel grembo di queste montagne.
Quest’anno, soprattutto, a favore delle giovani generazioni e per coloro che di Asiago non sono, il luog. Pinna ha voluto spiegare il vero significato di questo evento rievocativo che trova origine nella giornata di San Giovanni del 24 giugno di 100 anni fa, inserito nel contesto più ampio della Prima Guerra Mondiale.
Per meglio capire quanto qui accadde, è necessario fare un salto nella storia, tornando indietro ad un secolo fa.
All’epoca – ha spiegato il luog. Pinna – la frontiera meridionale tra il millenario Impero A.U. e il giovane Regno d’Italia, ricalcava l’attuale confine amministrativo tra le Regioni Veneto e Trentino e, nel settore di nostro interesse, correva lungo la linea di cresta dei monti settentrionali dell’Altopiano strapiombanti in Val Sugana, toccava i Castelloni di San Marco, Cima Isidoro, Cima della Caldiera, l’Ortigara, le Cime Dieci, Undici e Dodici, Cima Portule, Cima Larici, Porta Manazzo e, giunta a Cima Manderiolo, piegava decisamente verso sud ovest, scendeva lungo la Valle Sparavieri, attraversava la strada della Val d’Assa all’altezza dell’Osteria del Termine, presso la quale era ubicato il posto di frontiera tra i due Stati, con le rispettive dogane. Proseguiva quindi per Malga Camporosà e Malga Posellaro, fino a Cima Norre, per congiungersi alla testata della Val d’Astico con la linea di confine che correva lungo i contigui Altipiani di Lavarone e Folgaria.
Ed è in prossimità di questa linea di confine che nel periodo compreso tra il 1907 e il 1914, l’Austria, al tempo alleata dell’Italia nella Triplice Alleanza, realizzava una cintura fortificata con opere corazzate, dall’aspetto non proprio amichevole verso un paese alleato, aventi il duplice scopo: nell’ipotesi difensiva, quello di sbarrare le vie d’accesso della pianura veneta verso Trento; nell’opzione offensiva, quello di poter radunare alle sue spalle una consistente massa d’urto che, sfruttando il fuoco di preparazione e di accompagnamento delle opere permanenti, sarebbe discesa attraverso le valli prealpine nella pianura veneta.
Dalla valle dell’Adige alla valle del Brenta sorgeva così una linea di opere corazzate, che sugli Altipiani di Folgaria, Lavarone e Vezzena, faceva capo ai forti: del Doss del Sommo, del Sommo Alto, di Malga Cherle, di Belvedere, di Campo di Luserna, di Busa Verle, di Spitz Verle o Cima Vezzena, a seconda della denominazione austriaca o italiana.
I forti erano stati realizzati in calcestruzzo e armati con artiglierie allocate in opere corazzate, ad eccezione dello Spitz Verle, armato di sole mitragliatrici in casamatta per la difesa vicina ma che, in virtù dei suoi 1.908 m di altezza, era l’occhio austriaco sull’Altopiano dei Sette Comuni, ovvero l’osservatorio dei sottostanti Forti di Luserna e di Busa Verle che avevano il compito di interdire l’avanzata delle fanterie italiane verso il Passo di Vezzena.
Per fronteggiare tale minaccia, il governo italiano provvide a realizzare, a difesa della valli prealpine, una serie di opere di difesa permanenti che, per il settore di nostro interesse, facevano capo allo Sbarramento Agno-Assa, suddiviso in tre settori: il I di Schio, il II di Arsiero e il III di Asiago. Quest’ultimo aveva il compito di interdire al nemico la discesa attraverso la via della Val d’Assa, dalla sua testata alla confluenza nella Valle dell’Astico. Esso si appoggiava ai preesistenti forti di Punta Corbin e del sottostante Forte di Casa Ratti, e alle nuove opere corazzate di Campolongo e del Verena. L’azione di interdizione di queste 4 fortezze sarebbe stata integrata dal fuoco delle artiglierie mobili pesanti campali postate a Porta Manazzo e Casare Manderiolo a nord, e delle artiglierie mobili da campagna postate sui Monti Meatta, Mosciagh, Interrotto e Rasta, a potenziamento dell’interruzione stradale della Tagliata della Val d’Assa, presso Camporovere.
Un colpo di cannone partito alle 3,55 del mattino del 24 maggio 1915 dal Forte Verena, dava avvio anche sul fronte degli Altipiani alle operazioni della Prima Guerra Mondiale, passate alla storia come la Guerra dei Forti.
Nel giro di poche ore una valanga di ferro e di fuoco si abbatteva sui forti di Luserna e di Busa Verle, i quali non potevano attuare un efficace tiro di controbatteria a causa della maggior gittata dei cannoni da 149 A di cui disponevano i forti italiani, e soprattutto per il dominio di quota che aveva su di essi il Forte Verena.
Precedute dal fuoco di preparazione, in direzione delle posizioni nemiche del Passo di Vezzena scattano le fanterie della 34ª Divisione Italiana, Brigate “Treviso” (115°-116° F.) e “Ivrea” (161°-162° F.). Il loro obiettivo non è tanto quello di raggiungere Trento (l’azione risolutiva si sarebbe svolta sul fronte principale dell’Isonzo) quanto quello di impadronirsi della cintura fortificata nemica ed eliminare così la minaccia che essa costituiva quale base di partenza per lo sbalzo offensivo avversario verso la pianura veneta.
L’azione sulla destra è affidata agli Alpini dei Battaglioni “Val Brenta” e “Bassano”. Sono i battaglioni di casa: il Battaglione “Bassano”, composto dai giovani di leva reclutati sull’Altopiano; il Battaglione “Val Brenta”, costituito dai “Veci” alpini dell’Altopiano, richiamati alle armi con la Mobilitazione Italiana.
Gli Alpini dei due Battaglioni, buoni conoscitori dei posti, partendo dalle loro posizioni del Ghertele, Cima Larici e Porta Manazzo, risalgono le pendici boscose del Costesin e dei Marcai, con obiettivo il Forte più alto, lo Spitz Verle e il suo osservatorio in quota, che indirizza il tiro delle batterie nemiche sulle fanterie italiane. Ma giunti a distanza d’assalto sono respinti dalla reazione delle 7 mitragliatrici nemiche postate in opera corazzata.
Un’azione diversiva (il 30 maggio) punta sul Busa Verle. Ma, superato il primo dei tre ordini di reticolati, i Fanti della Brigata “Ivrea” e gli Alpini del “Bassano” trovano l’amara sorpresa di un ostacolo attivo pressoché sconosciuto: i campi minati disposti attorno al forte. Battuti dal fuoco delle artiglierie nemiche e dalle mitragliatrici della difesa vicina, gli Alpini ripiegano sulle posizioni dei Marcai, dove realizzano una serie di avamposti, le cui tracce sono ancora visibili ai margini del bosco.
Riprende martellante il tiro del Verena e degli obici pesanti campali di Porta Manazzo sul Busa Verle, sbriciolando le difese in casamatta. Il presidio austriaco, blindato all’interno, vive nel più totale isolamento il profilarsi, da un momento all’altro, dell’incubo dell’assalto delle fanterie nemiche. Pertanto fa sortire le sue pattuglie esploranti per individuare le posizioni sulle quali si è attestato il nemico.
Nella terza decade del mese di giugno, di presidio alle posizioni avanzate italiane dei Marcai, sono gli Alpini della 62ª Compagnia del “Bassano”. La notte sul 24 giugno è di vedetta l’Alpino Marco Ambrosini, da Asiago, terzogenito di sei figli maschi di Marco e Barbara Slaviero. Un boccetto appena ventenne, della classe 1895, al suo battesimo del fuoco.
La notte è stellata. Al caldo diurno delle giornate del solstizio, segue il freddo gelido della sera. L’alpino Ambrosini scruta nell’oscurità: ogni rumore nella notte potrebbe essere indizio della presenza del nemico. Da giorni il rancio non arriva in linea, le corvée non riescono ad avanzare sulle mulattiere battute dall’artiglieria avversaria. Si va avanti con le razioni dei viveri di riserva: carne in scatola e gallette a colazione, a pranzo e a cena. L’Alpino pensa che a un tiro di schioppo, dietro i monti alle sue spalle, c’è Asiago e la sua casa. A quest’ora, pensa, i vecchi genitori staranno consumando la cena, al tepore della stufa ancora accesa. Chissà, forse, proprio quel piatto di zuppa, minestra o minestrone caldo, tante volte snobbato, ma che ora avrebbe scaldato lo stomaco e le sue membra intirizzite.
È la notte di San Giovanni, la notte in cui in tutta l’Italia brillano i falò delle stoppie accese nelle aie, per celebrare l’antica festa del raccolto. Il S. Ten. Congiu, l’Ufficiale Medico della Compagnia – (riportato sul monumento come “Congiù” e mai identificato come sardo prima che il luog. Pinna lo facesse notare, sottolineando anche l’errato accento sull’ultima vocale del cognome) – raccontava che, in questa notte, nella sua Sardegna, le coppie che saltano il falò mano nella mano, annunciano alla comunità il loro fidanzamento e che la stretta di mano fra due Amici, fatta davanti al fuoco acceso, lega questi con un vincolo sacro più di un giuramento e saldo più di un legame di sangue. Da quel momento, per tutta la vita, essi saranno Compari. Compari di San Giovanni.
Ma quelli che l’Alpino Ambrosini e i suoi compagni vedono brillare ai margini del bosco, non sono i fuochi di San Giovanni. Sono focolai accesi dalle pattuglie nemiche sortite dal Busa Verle con l’intento di incendiare il bosco per stanare le fanterie italiane.
Al grido d’allarme segue immediato il tiro delle vedette nel tentativo di mettere in fuga le pattuglie nemiche che proseguono la loro opera nefanda protette dal fuoco di due mitragliatrici postate su una piccola altura prospiciente le linee italiane. Le raffiche rabbiose della schwarzlose si abbattono sul margine del bosco, investono il posto di vedetta dell’Alpino Ambrosini, sistemato dietro un grosso abete. Spazzati dalla furia dell’arma, i pezzi di corteccia e dei rami volano tutt’intorno. L’Alpino si stringe all’improvvisato riparo, quasi a volersi fondere con il tronco scosso dai proiettili che vi si conficcano in successione. È uno di quegli attimi in cui uno crede sia giunta la sua ora. Gocce di sudore freddo imperlano la fronte mentre davanti agli occhi passa ogni istante della breve vita vissuta. Ed è allora che, muta e silenziosa, si leva al cielo la preghiera, nella notte di San Giovanni.
L’alpino risponde al fuoco e prega. Prega che l’albero regga alla violenza del tiro nemico e che la batteria da montagna postata poco più indietro metta a tacere la mitragliatrice nemica e il suo canto di morte. Prega che il fuoco non divampi nel bosco, facendo fare a lui e ai suoi compagni una fine orrenda. Finalmente, respinte dalla reazione italiana, le pattuglie nemiche rientrano al Forte Verle.
L’Alpino Ambrosini Marco è salvo!
La notte umida non permette al fuoco di propagarsi e i focolai sono facilmente spenti dagli Alpini.
Ma, se a tutto ciò vi è una spiegazione scientifica e razionale, per l’uomo di montagna radicato ai valori di Fede incrollabili, è la Provvidenza Divina che interviene a mutare il corso delle cose.
Stabilizzatasi la situazione nel settore degli Altopiani, nel settembre del 1915 il Battaglione Alpini “Bassano” venne inviato nel fronte dell’Isonzo. È lontano dai monti natii quando a maggio del 1916 la violenza della Strafexpedition si abbatterà sull’Altopiano dei “Sette Comuni”, cacciando via gli abitanti dai paesi distrutti. A difendere i monti di casa accorreranno i Battaglioni Piemontesi e Lombardi del 2° e 5° Reggimento Alpini e i Fanti Sardi della Brigata “Sassari”, «la Brigata dei miei nonni – sottolinea con orgoglio il Luog. Pinna – e in tempi più recenti la mia Brigata, che bagnando di sangue le contese cime del Monte Fior, Monte Castelgomberto e di Monte Zebio, scriverà su questi monti gloriose pagine di storia».
Il Battaglione “Bassano” tornerà sui monti di casa in occasione della controffensiva italiana, coprendosi di gloria sull’Ortigara, sulle Melette e infine sul Grappa.
Terminata la guerra, ricostruite le case distrutte, ricomposti i nuclei familiari rientrati dal profugato, pianti i Caduti sul fronte russo nella Guerra Mondiale successiva, l’Alpino in congedo Marco Ambrosini e i suoi compagni d’arme vollero tornare quassù, nei luoghi che videro il loro battesimo del fuoco e il sacrificio dei loro vent’anni, ritrovando il vecchio abete con ancora i segni delle ferite della guerra. E, da allora, tutti gli anni, il giorno di San Giovanni, quasi a voler sciogliere un antico voto formulato in quella tragica notte, si ripete la gita tra questi monti, caratterizzata da tre momenti principali: il ringraziamento a Dio con la celebrazione della Santa Messa al campo; il rancio con il minestrone caldo, tanto desiderato nelle fredde notte di veglia, offerto ai presenti dalla Famiglia Ambrosini; e, infine, in questi prati dove 100 anni fa aleggiava la morte, oggi sono i canti e i balli della gioia e della vita, nel ritrovato segno di Amicizia tra due popolazioni, quella Veneta e quella Trentina, non più divise dalla sbarra del Termine, ma ora riunite sotto un’unica Bandiera.
Con il passare del tempo anche il vecchio abete cessò di vivere. Ma a perpetuarne il ricordo, il “Vecio” Alpino fece erigere nel 1969 il primo corpo del monumento e, successivamente, in occasione del 60° anniversario del fatto d’Armi, la seconda parte, quasi a voler eternare, con i nomi dei comandanti incisi sul marmo, il ricordo della sua Compagnia e del suo Battaglione.
In cima fece scrivere la lapidaria frase “Che iniziarono la guerra”. Frase, questa, osservava il luog. Pinna, che lo colpì, sin dalla prima volta che ebbe occasione di leggerla. Si chiedeva, infatti: «Perché iniziarono e non, più correttamente, fecero o parteciparono?»
«Il segreto – ha proseguito il Luog. Pinna – è nascosto nelle prime due parole: che iniziarono, infatti, sottintende la frase ma non ebbero la sorte di concludere!»
– S.Ten. Giovanni Cecchin, da Marostica, M.O. al V.M., ferito a morte il 19 giugno 1917 a quota 2.105 di Monte Ortigara, alla testa della sua 94ª Compagnia, ceduta nell’aprile 1916 al neo costituito Battaglione Alpini “Sette Comuni”, anch’esso reclutato sull’Altopiano;
– Ten. Santino Calvi, da Bergamo, tre M.A. al V.M., caduto il 10 giugno 1917 sulla conquistata quota 2.103 di Monte Ortigara, dove il battaglione Alpini “Bassano”, nappina verde del 6° Reggimento Alpini, scriveva una delle più belle pagine della sua storia;
– S.Ten. Medico Antonio Congiu, da San Vito, in Provincia di Cagliari. Un Alpino decorato con la M.A. al V.M., venuto dalla lontana Sardegna a morire il 10 giugno 1917 a quota 2.103 dell’Ortigara, dove aveva sistemato il posto di medicazione per prestare soccorso alle centinaia di Alpini agonizzanti nel Passo dell’Agnella.
Ecco il senso dei monumenti. Ognuno di loro reca sottintesa la scritta “per non dimenticare”.
Perché la storia del nostro Paese, quella non scritta sui libri di scuola, è fatta di uomini sconosciuti e semplici, che in un momento difficile per le sorti dell’Italia, seppero mettere da parte l’interesse personale per il bene comune e diedero grande prova di compattezza, lealtà e senso del dovere, sacrificando la loro giovinezza per coronare il sogno di Unità Nazionale a lungo perseguito dagli Eroi del Risorgimento.
Mi fermo cercando di “intervistare” un po’ tutti gli artefici della emozionante giornata: la famiglia Ambrosini (Marco – che porta il nome del nonno – e il fratello Stefano, le loro mogli, Cleofe e Sonia, e i loro figli), poi Don Giovanni, il “Beta”, il “Patao”, il “Pomo”, “il Taja”, il “Toni”, “l’Alfeo”, solo per citarne alcuni, e i tanti ragazzi: le nuove generazioni che a loro volta tramanderanno ai posteri i valori appresi nella giornata odierna.
Stefano Ambrosini, parco di parole, è visibilmente soddisfatto: le trecento razioni di minestrone da lui preparato, sono andate a ruba. Anche io ho voluto fare il bis. Era proprio buonissimo! Qua e là sul prato è un fiorire di tovaglie e plaid colorati. Ognuno, delle centinaia di presenti, offre ciò che ha portato: pane, soppressa, funghi sott’olio, dolci, del buon vino, perfino la birra alla spina e il caffè preparato su un’antica stufa da trincea. E, sicuramente, non poteva mancare, da parte nostra, nel segno dell’antica Amicizia Sardo-Veneta, il mirto e il filu’e ferru.
Chiedo a Marco Ambrosini e ai presenti di conoscere un po’ di più la storia del monumento eretto da suo nonno omonimo. Tutti mi rimandano però ad Antonio Pinna, a cui quassù tutti vogliono molto bene, tanto da chiedersi se, anziché in Sardegna, non sia, in realtà, cresciuto sui monti dell’Altopiano. «Ha visto – mi fa notare un anziano signore – come ha citato, senza mai leggere, nel loro esatto ordine i nostri monti, le nostre valli, i forti austriaci e italiani? Perché Antonio, “il Pinna”, è uno di noi!».
Da Presidente dell’Associazione Un Ponte fra Sardegna e Veneto non posso che gioire per tali manifestazioni di grande stima e sincero affetto.
All’imbrunire, ammainate le Bandiere e ripuliti i prati, ci incolonniamo sulla strada del ritorno. La fermata obbligatoria è all’Osteria del Vecchio Termine, là dove un tempo passava l’antico confine tra l’Austria e l’Italia. Nella locanda, che fu alloggio della Guardia di Finanza di servizio alla frontiera, l’ultimo brindisi e l’augurio di ritrovarci ancora, fra un anno, tutti insieme davanti al Monumento dei Marcai.
Un modo semplice, ma veramente sentito, per ricordare le semplici e allo stesso tempo nobili figure del passato e quanto su questi monti essi fecero, come diceva Emilio Lussu, per inseguire un antico sogno di Libertà e di Giustizia.
Per questo, Essi hanno sacrificato la loro giovinezza. Per questo, Noi abbiamo il dovere di non dimenticare.
Elisa Sodde
Bosco dei Marcai (TN), 24 giugno 2015.