Il 17 di gennaio, con la festa di sant’Antonio Abate, o come si dice in numerosi luoghi della Sardegna, di sant’ Antonio de su fogu, il carnevale dell’anno 2015 è entrato in piena attività.
Sant’Antonio de su fogu perché la leggenda narra che il santo monaco, abbia donato all’uomo, che ancora non ne aveva il dominio, il fuoco, rubandolo alle braci infernali, approfittando del trambusto provocato dal maialino che era entrato nell’inferno, sfuggendo alle mani del suo protettore. Ecco spiegata la presenza del porcellino, che compare nell’iconografia tra le braccia del Santo, il quale tra le sue numerose incombenze avrebbe anche quella di protettore degli animali.
Ogni paese, anche in Sardegna, ha per il carnevale, una maschera tipica, spesso anche uguale o simile a quella di altre comunità, la cui origine si perde, per usare una frase fatta ed abusata, nella notte dei tempi.
Ecco allora che Mamoiada ha le sue maschere antichissime dal terrificante aspetto, i Mamuthones, Ottana ha i boes dalle lunghe corna, i merdules e sa filonzana, terribile parca nostrana che con un taglio netto delle sue forbici da tosatore, spezza il filo della vita, a Orotelli i Turpos, sa maschera a lenzolu di Aidomaggiore, e così di seguito con l’esercito di Maimones, Urtzus, Bardianos, Majaias, Bundus o gli inquietanti Colonganos, fino a re Jorgi, re Giorgio, il fantoccio che viene bruciato nell’ultimo giorno della festa come simbolo di morte e rinascita della natura in primavera, stagione annunciata e propiziata dalla fine del carnevale.
Carbonia è, forse, l’unica città della Sardegna a non avere alcuna maschera la cui origine si possa far risalire da una tradizione popolare antica, di quelle che i nonni tramandano ai loro nipoti e che hanno ricevuta in eredità dai loro antenati, attraversando gli anni e le generazioni.
E’ questa una condizione ovvia, dato che la nostra è, come direbbero gli inglesi che di tradizioni se ne intendono, una new town, una città nuova, contando appena 76 anni e qualche mese, un’età considerevole per un essere umano ma, ritenuta poco più che neonata, per la vita di una città.
Iglesias, di anni, ne conta almeno 758, per non parlare dalle più antiche Porto Torres, Alghero, Sassari e Cagliari o della vicina Sant’Antioco, che gli anni li conta a millenni, potendo vantare, nientedimeno che lontanissime origini fenicie, centinaia di anni prima dell’era cristiana.
Ma giovani o vecchie che siano le città, prima o poi danno vita alle loro particolari tradizioni. Ecco allora che si è cercata una maschera, che in qualche modo fosse ancorata a qualche aspetto specifico e caratterizzante della città e dei suoi abitanti.
Qual è, ci si è chiesti, l’elemento più significativo della città, che le ha addirittura dato il nome?
E’ stata la naturale risposta. Poi, per creare un qualcosa che potesse essere una maschera, le si è aggiunto, artificiosamente, un animale cornuto non legato ad alcun fatto, episodio o ricordo che, in qualche modo, lo giustificasse. E’ nato così Crabò, una sorta di chimera, un capro tutto nero, di aspetto vagamente diabolico.
Ora, tutto è lecito in carnevale, ma mi domando, non sarebbe meglio legare questa nascita ad un episodio, ad un fatto accaduto o a un personaggio realmente esistito?
Avanzo, dunque, un invito ai vecchi minatori, a coloro che parteciparono alla fondazione della città a far emergere dai propri ricordi qualche fatto o personaggio che potrebbe ispirare la maschera di Carbonia.
Poiché però, chi predica deve almeno un poco razzolare, comincio io ad offrire un primo contributo in questa ricerca.
Ecco un episodio, accaduto nei primi anni del dopo guerra: mi è stato raccontato da un vecchio minatore di Carbonia, il cui nome, come chiesto da lui, per ora non svelerò.
Erano quelli gli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale e, l’Italia tutta era cosparsa di macerie e distruzioni, e non solamente materiali.
Il nostro territorio, che aveva attraversato quella tragedia pressoché indenne dagli orrori di una occupazione militare e dalla guerra civile, era comunque economicamente in condizioni di grande povertà.
Fortunatamente la ricostruzione del Paese richiedeva l’utilizzo di ogni risorsa disponibile, quindi anche il carbone del Sulcis, pur non essendo di ottima qualità, doveva essere estratto e utilizzato per produrre calore ed energia. Le miniere erano dunque aperte e la produzione incrementata. Un lavoro in miniera era ambito e relativamente facile da ottenere, anche se gli stipendi erano modesti e aggrediti dalla svalutazione che, inevitabilmente era sopraggiunta a seguito della sconfitta.
Pastori, contadini e reduci erano stati assunti in gran numero e, chi poteva, si ingegnava con lavoretti extra ad arrotondare il magro salario.
Chi coltivava un orticello, chi integrava il cibo acquistato al mercato o allo spaccio, con verdure colte nei campi, o chi, come Pietro, allevava un piccolo branco di porci che, con il permesso della società, faceva pascolare e ingrassare nei terreni della Carbosarda, tra tralicci metallici dei pozzi minerari e mucchi di sterile.
Il luogo preferito, da Pietro, per il pascolo dei maiali, era una porzione di terreno, oggi compresa tra i supermercati Lidl ed Eurospin.
Era quella, una zona il cui sottosuolo era tutto un intrico di gallerie per la coltivazione mineraria e, alcune di queste (gallerie), si trovavano molto vicine alla superficie, tanto vicine che la volta di una di esse, indebolita da recenti pioggie, cedette d’un tratto, coinvolgendo nel crollo il branco di porci di Pietro, momentaneamente incustodito perché, il proprietario era al lavoro. Sprofondarono dunque gli animali nel sottosuolo, insieme alla terra del crollo, per cui, non potendo più risalire alla superficie, cominciarono a vagare placidamente nelle gallerie. Fino che, giunta ormai l’ora vicina alla fine del turno, si imbatterono in un gruppo di minatori che si avviavano verso la gabbia per la risalita.
Supponiamo che lo stupore degli operai vedendosi davanti, nella luce fioca delle lanterne il branco grufolante, fosse maggiore di quello dei maiali che volevano continuare la loro esplorazione sotterranea. Certamente si sa, che superati i primi momenti di sorpresa cominciarono le risate e i commenti salaci, mentre già si scatenava l’inseguimento ai corpulenti visitatori.
- Ma aundi seus, anti pigau a trabballai finzas is proccus ?
- Labai, labai commenti d’anta a pagai? A figumorisca? Custa mi da deppu arregordai, ci funti puru is proccus minadoris.
Ecco come nacque la leggenda dei maiali minatori.
Giuseppe Mura