L’ex direttore de L’Unione Sarda Anthony Muroni propone «Un polo sardo, sardista e indipendentista per eleggere senatori fuori dai poli italiani».
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Mancano ormai pochi mesi alle elezioni Politiche e anche in Sardegna si anima il dibattito, soprattutto tra i movimenti e quanti credono che si possa creare qualcosa di nuovo, per “smuovere” le acque ed iniziare a gettare le basi per un futuro diverso per la nostra Isola. Il giornalista Anthony Muroni, ex direttore de L’Unione Sarda, da mesi molto attivo su questi temi nei social network, propone «Un polo sardo, sardista e indipendentista per eleggere senatori fuori dai poli italiani». Qualche giorno fa ha presentato la sua proposta, con un intervento pubblicato nel suo blog, che proponiamo integralmente. Il confronto è aperto e sicuramente da oggi in avanti il dibattito sarà molto animato. Questa testata è pronta, come del resto ha sempre fatto, ad accogliere ed ospitare interventi su questi temi, ovviamente a condizione che, anche se molto critici, siano rispettosi delle posizioni altrui.
Di seguito l’intervento integrale di Anthony Muroni.
Mentre in molti pensano alla Regionali 2019, io sono da tempo convinto che l’appuntamento decisivo per una mini rivoluzione politica in Sardegna sia quello delle elezioni politiche 2018.
Tutti dicono che in questo momento esistono praterie per creare qualcosa di nuovo, capace di intercettare – in maniera costruttiva – la disaffezione e lo sdegno dei cittadini nei confronti dei partiti tradizionali. E tutti dicono – tanto da notare un certo riposizionamento di Pd e Fi in chiave autonomista – che è rilevabile a occhio nudo una certa crescita del sentimento sardista e identitario.
Ancora: tutti dicono che è però difficile pensare a un successo elettorale di un terzo (o quarto) polo in chiave isolana, a causa dei soliti problemi. La legge elettorale (regionale), la frammentazione, la competizione tra piccoli leader, la tendenza di un elettorato ancora non maturo a rifugiarsi nel cosiddetto “voto utile” (che inganno!) o, peggio ancora, nel voto clientelare.
Tutti processi che hanno – fisiologicamente – alla base non solo l’ideologia o l’idealità ma un buon tasso di convenienza e utilitarismo. Del personale politico e degli elettori stessi.
Bene. Alle elezioni politiche 2018, a causa di alcune congiunzioni astrali, c’è la possibilità concreta di attuare una mini rivoluzione ideale, senza perdere di vista la concretezza, la necessità di non sprecare il voto e la competizione – costruttiva e non distruttiva – tra le diverse declinazioni di proposte sarde, sardiste, autonomiste e indipendentiste.
Andiamo con ordine, esaminando una a una la criticità che hanno fin qui fatto dire a molti che lo spazio per una proposta con cuore e anima in Sardegna non è ancora del tutto praticabile.
Il punto di partenza è la legge elettorale. Tanto ostile è la diavoleria messa su da Pd e Fi nel 2013 (imperniata su un bipolarismo che vive di rendita), che ha lasciato senza rappresentanza nelle istituzioni circa 150mila sardi, tanto incredibilmente “amica” è quella che regolerà – a meno di improbabili riforme dell’ultimo secondo – l’elezione degli otto senatori sardi.
Per la Camera alta è in vigore il cosiddetto “Consultellum”, la legge elettorale frutto della modifica da parte della Corte Costituzionale della legge elettorale approvata dal governo Berlusconi nel 2005, il famoso “Porcellum”.
Si tratta di una legge proporzionale, senza alcuna forma di premio di maggioranza, che consente di fare alleanze e coalizioni: diverse liste possono presentarsi insieme con i propri simboli sulla scheda.
Per eleggere senatori, le liste devono ottenere almeno l’8 per cento dei voti. Le coalizioni devono ottenere almeno il 20 per cento dei voti e i partiti che ne fanno parte almeno il 3 per cento.
I voti vengono contati a livello regionale e non sono sommati a livello nazionale e tutti i senatori vengono eletti tramite preferenze.
Se si considera che alle Regionali 2014 – quando ancora il sentimento “identitario” non era percepito come oggi – le varie forze extra italiane (alcune candidate in maniera autonoma, altre alleate con Pd o Fi) hanno incassato oltre 190 mila voti (quasi il 30% del totale), i freddi numeri dimostrano che esiste una potenzialità tale da far competere questo fronte per l’elezione non solo di uno ma forse di ben due senatori.
Cosa significa questo? Che ai poli imperniati su Pd e FI, e al M5S, resterebbero solo sei posti. Con tutte le conseguenze, rivoluzionarie, del caso. E con un sicuro terremoto, capace di condizionare il quadro delle successive Regionali.
Calma, però. C’è da rispondere a un sacco di contestazioni preventive: i leader indipendentisti e sardisti non si metteranno mai d’accordo; come si fa a conciliare Pili con Maninchedda, i sardisti con gli eredi di Sardegna Possibile. Poi due più due non fa quattro e via “pibincando”.
Ora, non che fin qua queste obiezioni non siano state fondate. E non che – soprattutto – non sia difficile pensare a una piattaforma di governo comune (dunque, una proposta vincente per le Regionali) fra tutta la galassia identitaria. Ma qua stiamo parlando di altro.
Parliamo di tecnica e di rappresentanza. Di protesta da incanalare senza sprecare i voti e di competizione alla luce del sole.
Andiamo, ancora una volta, con ordine.
Se è vero che anche in Sardegna è cresciuto il sentimento di delusione verso Pd e Fi e non sembra aver attecchito, in alcuna forma, il M5Stelle, esiste uno spazio per i movimenti identitari? I risultati del 2014 e i sondaggi dicono di sì.
Esiste uno strumento tecnico che consente di non “sprecare” il voto dato a questi movimenti? Sì: è la legge elettorale per il Senato.
Esistono controindicazioni “programmatiche e ideologiche” rispetto alla formazione di una coalizione “tecnica” tra partiti e movimenti della galassia indipendentista? No, non ne esistono. Perché si compete non per governare l’Italia né la Regione autonoma, ma per cercare di dare alla Sardegna una rappresentanza in Parlamento slegata dai grandi poli, con tutto ciò che ne conseguirà. Sarà sufficiente presentarsi dentro la medesima coalizione – pur ognuno col proprio simbolo, la propria identità e le proprie convinzioni – per non “sprecare” il voto.
Sì, ma chi ci dice che non inizino subito discorsi del tipo: «Ma perché io, di Unidos, dovrei contribuire a far eleggere uno del Partito dei Sardi? O perché io, di Liberu, dovrei far eleggere uno del PsdAz?».
Questo sentimento autolesionista va contro la logica. Perché si potrebbe rispondere: «E perché, non coalizzandoti, dovresti far invece eleggere uno del Pd o di Fi? Cosa ci guadagneresti e cosa ci guadagnerebbe la Sardegna?».
Ma non solo. Il sistema delle preferenze non “blocca” il consenso o la previsione della rappresentanza. Si tratterebbe – in sostanza – di primarie interne alla coalizione: le preferenze metterebbero in concorrenza tra loro le diverse idee di indipendentismo, di autonomismo e di autodeterminazione. A quel punto, chi può dire se i più votati saranno del PsdAz, del PDS, di Unidos, di un’aggregazione con sentimenti ancora più indipendentiste o singole personalità indipendenti? La sfida si presenterebbe come affascinante, con la possibilità – grazie alla competizione, in positivo – di far crescere ancora di più il campo della coalizione.
Potrebbe essere l’inizio di una rivoluzione. Se premiato dai numeri, l’esperimento costituirebbe anche il lancio ideale in vista delle Regionali 2019.
Non pensarci – e non iniziare a organizzarsi – sarebbe un delitto.
Anthony Muroni
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