Intervento del presidente del Geoparco Tarcisio Agus sul recupero della Galleria Anglo Sarda a Montevecchio.
[bing_translator]
Mercoledì 23 maggio, il Parco Geominerario Storico ed Ambientale della Sardegna e le comunità minerarie di Guspini ed Arbus, hanno recuperato, grazie all’intervento dell’assessora dell’Industria e della Società Igea, la Galleria Anglo Sarda a Montevecchio.
Galleria storica, tra le prime aperte lungo il filone minerario del Guspinese – Arburese, deve il suo nome allo sfruttamento affidato dalla “Montevecchio” alla compagnia “La Piemontese – Compagnia Reale Anglosarda” con l’obbiettivo di accelerare i lavori ed aumentare il profitto.
L’avvio del cantiere è datato 1852 a levante del filone Sant’Antonio, intersecando concentrazioni eccezionali di galena. L’Anglo Sarda per questa sua caratteristica venne usata come location per l’accoglienza del Principe Tomaso di Savoia, giunto nel 1877 a Montevecchio, per inaugurare la nuova laveria che ancora oggi porta il suo nome. Le cronache dell’epoca riportano dell’allestimento di un sontuoso pranzo in suo onore entro la Anglo Sarda, presso un gradino sfavillante di galena argentifera.
Di quella sontuosità mineraria oggi rimangono poco più di frammenti di filone che si possono ancora scoprire fra le concrezioni minerali, con aggregati cristallini che passano dal giallo paglierino, al rosso bruno, sino al verde azzurro. Interessanti risultano tutte le tecniche di armature della galleria ancora presenti in legno di castagno, ma si trovano anche quelle più recenti con le centine in acciaio. Lungo il percorso si può osservare il fornello di areazione, il fornello di riempimento e di scarico. Sono ancora visibili i così detti “traverso banco”, le gallerie di coltivazione che raggiungevano il filone minerario disteso verticalmente, con una inclinazione di 30° .
Il percorso di visita raggiunge anche la canna del Pozzo Sant’Antonio, a meno 25, che in superficie è sormontata dalla splendida struttura mineraria che racchiude il castello del pozzo, con le sue splendide ed ampie finestre lignee di richiamo gotico e la merlatura di richiamo medioevale.
Oggi certamente non riecheggiano più il frastuono dei locomotori, alcuni ancora in situ, o le perforatrici di varia natura e dimensioni, spesso portate a spalle da uomini grondanti di polveroso sudore. La più simpatica e maneggevole la chiamavano amorevolmente “Sa Pisitedda”, “La Gattina”. Possiamo solo immaginare il duro lavoro entro quegli spazi quasi a misura d’uomo, senza il consumo di altra roccia che non fosse necessaria per strappare le vene d’argento dalle viscere della terra. Bisogna attraversare la galleria in silenzio, pensando alle centinaia di uomini che vi hanno speso la vita, in particolare quando le perforatrici lavoravano a secco e la meccanizzazione non aveva fatto ancora capolino in miniera. La fatica delle braccia era l’unica forza e per bucare la montagna si faceva ricorso all’esplosivo, mentre le gallerie diventavano canne di fucile dalle quali bisognava proteggersi, in angoli appositi o in bracci di altre gallerie che non fossero sulla verticale, dove la forza esplosiva della volata rigurgitava detriti e forza d’urto.
Un mondo sotterraneo fatto di pericolo e di sudore, ma anche di solidarietà e di conquiste sociali che meritano d’essere conosciute, perché la storia di quegli antri non può esser disgiunta dalla storia degli uomini, donne e bambini che vi hanno operato, dentro e fuori la miniera.
Il Presidente
Prof. Tarcisio Agus
NO COMMENTS