19 December, 2024
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Perché raccontare è terapeutico e poi aiuta gli altri a comprendere…

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21 aprile 2018, ore 9.30 circa…

Arrivo al P.S. dell’Ospedale Sirai di Carbonia seguendo un’ambulanza che porta mia madre in codice rosso.

Rasserenata e fiduciosa, grazie al pronto intervento serio, professionale ed attento, da parte dell’equipe dell’associazione Auser di Carbonia, mi accingo a seguire mia madre, preciso sorda e cardiopatica, all’interno del reparto dove riceverà le prime cure… faccio un solo passo appresso ai volontari, quando una voce acida e stridula mi blocca dicendo che non posso entrare perché la mia presenza disturberebbe il loro lavoro, c’è troppa gente, non capisco, prima di me erano appena entrati tre parenti di tre pazienti diversi, loro passerebbero io no!!! Non mi lascio certo intimorire, rivendico i miei diritti e rimango a fianco di mia madre.

La classe non è acqua e la signora in questione cerca di intavolare una discussione da mercato del pesce… io ovviamente lascio cadere e mi concentro sull’assistenza a mia madre.

Il resto della mattinata passa tra le cortesie e la professionalità di personale medico ed infermieristico, qualificato ed umanamente stupendo… il sorriso che cura prima della medicina non manca ed è veramente terapeutico. Per fortuna l’acidità non è contagiosa…

Ringrazio tutti e seguo mia madre in medicina dove verrà ricoverata per alcuni giorni…

Ed in quel momento che si aprono le porte del Paradiso…

La dottoressa che prende in cura mia madre, decide che la paziente, anche se sorda, debba essere visitata senza la presenza della figlia. Dopo aver visitato mia madre, la stessa dottoressa che, forse a causa dello stress lavorativo, non aveva neanche salutato, mi chiama al suo cospetto per farmi una serie di domande a cui devo rispondere molto velocemente anche se non capisco cosa voglia sapere, perché, parole testuali: «Non ha tempo da perdere con i parenti»!

Il tutto senza mai guardarmi in faccia, eppure mi rivolgo a lei molto educatamente…

La bellissima esperienza continua in reparto, tra due ore di lenzuola bagnate di pipì e mia madre coricata sopra, o pranzo con la puzza di cacca, poco edificante per la signora che la porta addosso ed umiliante per chi deve subire l’olezzo.

Se poi una signora anziana, nei pressi della sala medici, osa chiedere a che ora sono le visite, ecco che si sente rispondere, sempre dalla stessa dottoressa: «Gli orari se li vada a leggere all’ingresso, io sono una dottoressa!».

Ma il massimo della signorilità lo raggiunge la domenica sera successiva al 21 aprile, quando, entrando in camera sgarbatamente, manda via tutti i parenti aggiungendo con voce soave verso di me: «Si tolga da mezzo le palle!».

Ecco che allora ti chiedi a cosa serva, combattere per cercare di salvare un servizio, se poi devi farti curare da certi “personaggi”...

Senza poi contare il “figo” che ti riceve senza camice, stravaccato sulla sedia e che ti ride in faccia screditando ogni tua parola… a difesa della collega… magicamente diventata uno zuccherino in sua presenza…

Ora, comprendo il fatto che, per via dei tanti innumerevoli tagli non si lavori poi bene ma, quel che non capisco è perché prendersela con i parenti dei pazienti, che, giorno dopo giorno vedono venir meno la dignità del proprio caro costretto a subire umiliazioni in dosi a volte veramente esagerate.

Dopo circa trent’anni di “frequentazione ospedaliera” al Sirai di Carbonia, posso dire che ci lavorano medici, infermieri, oss, addetti alle pulizie, etc., etc., per cui sarebbe necessario stendere tappeti rossi per professionalità, serietà, puntualità ed umanità… Tanto di cappello al loro lavoro quotidiano, spesso reso difficilissimo da lungaggini burocratiche o “capi” poco qualificati.

Mi rendo perfettamente conto che tutti possano avere “una giornata storta”, ma questo non li autorizza a “far del male” a titolo gratuito a chi già di suo sta soffrendo personalmente o di riflesso.

Era importante per me farvi vivere questa esperienza per dar voce a chi non ha coraggio di “raccontare” o a chi, uscito dall’ospedale, non ha voglia di raccontarlo e vuole solo dimenticare, ma anche per far riflettere tutte quelle persone che ogni tanto dovrebbero «lasciare la divisa o il camice per mettersi il pigiama» e trascorrere qualche ora da paziente, senza aiuto dei loro parenti.

Credo proprio che nel loro “cuore” qualcosa cambierebbe… anche se, come diceva un famosissimo artista… «Signori si nasce… non si diventa!»

Nadia Pische

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