22 November, 2024
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“In Sardegna possiamo avere buona sanità senza che sia riconosciuta l’insularita’?”

Sono trascorse diverse stagioni da quando il Comitato per l’inserimento del principio di insularità in Costituzione ha coinvolto le comunità regionale e nazionale, e tutti gli schieramenti politici, perché la richiesta al Parlamento fosse percepita globalmente come un’azione del popolo sardo mobilitatosi attraverso gli strumenti concessi dalla Costituzione.Nonostante il mutato quadro politico nazionale e regionale, si attendono azioni concrete perché il riconoscimento diventi realtà legislativa atta ad emancipare la Sardegna dallo stato di perenne contrattazione con i vari governi che si succedono. La disparità che l’isola subisce si è ben appalesata con la non elezione di alcun candidato sardo al Parlamento UE a fronte della folta rappresentanza siciliana; tale anche in virtù dei voti dei Sardi. Condividendo tuttavia la Sicilia la battaglia per l’Insularità sarebbe stato un paradosso la rinuncia ad un parlamentare in favore della Sardegna. E’ scontato di conseguenza che il riconoscimento richiesto presuppone anche la ridefinizione dei collegi elettorali. Il Comitato continua a voler essere portavoce dei sardi e a voler riunire le forze politiche, le rappresentanze della cultura e della ricerca, a prova che élite e popolo devono e possono cooperare per il bene comune. Per due volte una cospicua percentuale di Sardi ha sottoscritto la volontà di aderire prima al Referendum e poi alla proposta di legge popolare da portare al Parlamento. Nel mentre altre Regioni più ricche si sono mosse per avere più autonomia e maggiori vantaggi economici. Vantaggi che aumenteranno le disparità tra loro, la nostra isola, e le altre che si sono unite alla Sardegna nell’azione che ha quale obiettivo il superamento della condizione geografica come ostativa per le pari opportunità. La Costituzione non prevede diseguaglianze tra cittadini nel godere i diritti fondamentali: istruzione, salute, accesso al lavoro, mobilità. Spesso in Sardegna non sono diritti goduti con la stessa agibilità delle altre regioni. Il Comitato è convinto che persistere nel negare pari opportunità non solo è incostituzionale ma: 1. accrescerà ulteriormente il divario economico con il resto del Paese anche per la contribuzione fiscale negativa che la pone al penultimo posto, davanti alla sola Calabria; 2. continuerà a porre l’isola nella condizione assistenziale da rigettare 3. isolerà sempre più l’economia della Sardegna da quella globale accrescendo la dipendenza che contraddice le dignità sancite dalla Costituzione. Il Comitato per l’insularità ritiene, dunque, che l’attuale condizione contraddica gli artt. 2 e 3 della Costituzione che impongono “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” e di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Ecco perché l’azione che abbiamo promosso non è la difesa di maggiore assistenza pubblica, bensì l’infrastrutturazione, materiale e immateriale, nella traiettoria dei compiuti diritti per tutti i cittadini. A tutt’oggi sono inattuati lo stesso diritto primario al lavoro, con una crescente emigrazione anche qualificata; quello sancito dall’art. 9 ovvero all’istruzione, con territori ultimi nelle valutazioni internazionali e nazionali, e al rispetto del paesaggio e dell’ambiente in contraddizione con il principio comunitario, ad esempio, del “chi inquina paga”, pilastro sul quale si sono sviluppate le politiche ambientali della comunità europea a partire dagli anni ’70; ed è inattuato l’art. 32 sul diritto alla salute, che appare quanto mai indebolito in Sardegna, al punto da indurre una crescita della mobilità passiva che –lungi dall’essere l’espressione della libera scelta del cittadino- rischia sempre di più di rappresentare la cartina di tornasole della crescente sofferenza del sistema. IN SARDEGNA, POSSIAMO AVERE “BUONA SANITA’” SENZA CHE SIA RICONOSCIUTA L’INSULARITA’? Non c’è dubbio che il buon funzionamento della sanità in un’isola abbia implicazioni diverse rispetto al resto d’Italia. Il trasferimento di un paziente da una regione all’altra, che presenta sicuramente criticità anche quando viene effettuato su gommato o su rotaia, diventa un vero e proprio pellegrinaggio quando riguarda le famiglie sarde, costrette a spostarsi oltre Tirreno. Ma altrettanto complesso è anche l’aggiornamento professionale di qualsiasi operatore di sanità oppure la possibilità di avere centri di riferimento per patologia che siano facilmente raggiungibili e abbiano sufficiente massa critica di prestazioni erogabili. E’, dunque, del tutto evidente la necessità di conoscere nel dettaglio tutti i numeri delle necessità sanitarie isolane per poter meglio articolare la risposta. Non si può, infatti, dimenticare come, secondo i dati CREA, nel 2017 la sanità regionale sarda è quella che ha il maggior costo pro capite in Italia (2137 euro/anno), con un numero di medici impegnati nel settore pubblico pari al 2,7 per mille, ben al di sopra della media nazionale, che è di 1,7 per mille abitanti. Rispetto alle assegnazioni del Fondo sanitario Nazionale per la garanzia dei Lea, che nel 2018 ammontano a circa 3016 milioni di euro/anno, la Sanità sarda spende annualmente almeno 300 milioni di euro in più. Ciò nonostante la performance del sistema (sempre misurata dal CREA Sanità) sia stata nel 2018 la peggiore d’Italia e la “qualità percepita” da parte del cittadino sia bassissima. Non va inoltre dimenticato come, a seguito dell’accordo con lo Stato del 2006, l’intero ammontare della spesa sanitaria gravi oggi sulle casse del bilancio della Sardegna: questo significa che abbiamo margini di organizzazione del nostro SSR assai più ampi delle altre regioni italiane e sostanzialmente non possiamo essere sottoposti a commissariamento da parte dello Stato (come invece avviene in molte altre regioni del sud che non hanno i conti in ordine), ma significa anche che –in assenza di una ricontrattazione del rapporto con lo Stato- siamo costretti a pagarci da soli tutti i costi, dirottando sulla sanità i soldi che potrebbero essere utilizzati in altri settori per garantire sviluppo e nuova economia. Gli 82 milioni di euro (è quasi il costo di un nuovo ospedale!) che –nel 2017- rappresentano il dato riferibile alla spesa per la mobilità passiva, cioè all’impatto sulle casse regionali dei pazienti sardi che scelgono (o sono costretti) di farsi curare fuori dai confini regionali, rappresentano la cartina di tornasole del problema: con questa somma che esce dal nostro bilancio e finisce nelle casse di altre regioni italiane, vengono pagati medici, apparecchiature tecnologiche, innovazione e ricerca di altri sistemi sanitari regionali, con conseguente ulteriore depauperamento del nostro sistema assistenziale. Al tema dell’insularità e della perifericità, in Sardegna si aggiunge quello della vastità dell’estensione del territorio, della difficoltosa mobilità interna e della dispersione della popolazione che inducono a pensare come almeno una parte del disavanzo annuo non sia legato a carenze organizzative, ma rappresenti il costo della insularità e della marginalità e come tale debba essere affrontato dallo Stato in termini di riequilibrio dei fondamentali diritti di salute, garantiti dall’articolo 32 della Costituzione. Diventa, dunque, inevitabile ed urgente ragionare sui costi dei trasporti, su quelli della formazione, su quelli relativi all’aggiornamento professionale, sulle difficoltà crescenti di garantire la presenza di specifiche specializzazioni sanitarie, che oggi sono moltiplicate dalla marginalità conseguente alla insularità e dalla spirale negativa innescata dalla carenza di risorse disponibili. Non c’è tempo da perdere. E’ senz’altro inevitabile che la classe dirigente sarda smetta di considerare la Sanità come terreno di conquista elettorale e di bottino politico e si interroghi invece in modo maturo sulla complessiva impostazione di un sistema che faccia i conti con le sempre più evidenti esigenze di sostenibilità. Ma, nel contempo, la comunità nazionale a cui apparteniamo deve prendere atto dello svantaggio che ci deriva dalla nostra condizione di insularità e perifericità! E’, pertanto, indispensabile: 1) Che la Sardegna ridiscuta il suo rapporto con lo Stato sulla sanità. I diritti di salute sono imprescindibili per ciascun cittadino italiano ed è elemento specifico di coesione sociale che essi siano garantiti in modo simile su tutto il territorio nazionale. E’ dunque inaccettabile che lo Stato assegni interamente alla Regione il compito di provvedere economicamente alla garanzia di tali diritti in quanto è del tutto evidente che la capacità di rendere disponibili risorse da parte di una regione che è in forte sofferenza economica, come la Sardegna, sia del tutto diversa rispetto a quella presente nelle regioni italiane più ricche. Se vogliamo continuare a garantire l’equità delle prestazioni e la universalità degli accessi che sono alla base della legge istitutiva del SSN, è indispensabile che la tutela dei Livelli di Assistenza sia affidata alla azione di controllo e di perequazione centrale dello Stato; 2) Che sia misurato e accertato il maggior costo per il sistema sanitario sardo di identici livelli di prestazione rispetto alle altre regioni italiane, derivante dall’insularità e dalla perifericità.

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