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Di cinese ho sempre avuto gli occhi, così mi dicevano, quando ero piccina piccina. Occhi a mandorla e scuri, tutti mi guardavano esclamando: «Oh, ma che bellina, sembra proprio una cinesina!»
Crescendo poi, con l’andare del tempo non è stato poi così tanto evidente questo mio particolare asiatico e, onestamente, pensavo di non avere altre affinità con questa Nazione, la Cina, oltre al mio debole per la loro cucina. Ma, tra un involtino primavera ed un raviolo al vapore, ho scoperto un altro legame. Un incontro fortuito ed inaspettato è arrivato a sconvolgere completamente la mia vita, una presenza un po’ ingombrante, fastidiosa. Come le visite a sorpresa in casa. Quelle che quando rispondi al citofono e chiedi «chi è?», sentendo la risposta poi, esclami sussurrando: «Oh no, e itta boiri immou custu? Che p…e!». Solo che, a differenza dell’ospite qui citato in esempio, lui è arrivato da me senza suonare, senza chiedere nemmeno il permesso di entrare nella mia casa, nella mia vita, nel mio corpo.
È arrivato come un fulmine a ciel sereno e ha creato una tempesta interiore, un uragano di emozioni che ti assalgono, ti divorano. E così la testa inizia subito a mettersi in moto, viaggiando su ogni binario, ogni corsia: c’è quella dell’ansia, la paura, la preoccupazione, i sensi di colpa, le responsabilità verso il prossimo.
Inizi a fare calcoli diventando un genio della matematica, manco fossi Einstein.
E poi, ti senti spaesato, ti manca completamente la terra sotto i piedi.
Ti affidi a chi sicuramente può farti capire meglio di chiunque altro cosa fare, come comportarti. Seguendo anche un po’ la coscienza e l’intelligenza, cercando subito soluzioni che tutelino tutti e prima di tutto i tuoi cari. Chiami quello che poi sarà il tuo primo faro, quello che illuminerà il cammino da quel momento in poi: il medico di famiglia. Colui che molto spesso critichiamo perché «non capisce nulla», non ci dà la ricetta che volevamo e poi «mamma mia non risponde mai al telefono!!!»
Proprio con lui/lei inizi ad avere informazioni più sicure e diventa un po’ il tuo migliore amico in quel momento, lo consideri sì, un professionista che sa quel che dice ma diventa anche una valvola di sfogo non indifferente. A lui/lei da quel momento poni i tuoi mille quesiti e inizi a calmare un po’ le acque. Si ragiona insieme e si cerca di pensare e capire dove, come, quando questo ospite invisibile è arrivato da te.
Ma il «Perché? Perché a me?», quello non te lo può spiegare nessuno e te lo chiedi e forse d’istinto ti arrabbi e pensi «ma quello non doveva fare così». Ma per quanto uno si sforzi a cercare risposte, quelle non si troveranno, resterà un bel rebus impossibile da risolvere.
Non ci sono risposte, non ci sono colpevoli.
Anche se forse il colpevole è in ognuno di noi, perché ognuno di noi è responsabile di ciò che fa e ognuno di noi è responsabile dell’altro. Ma in quel momento non ci pensiamo. E no, perché il pericolo non è mai vicino a noi, è sempre lontano, è sempre in televisione, in Cina, in Lombardia e nelle altre zone rosse. Invece sono io, sei tu, siamo tutti. Ma quando ci succede non si può dare la colpa a qualcuno, perché quello che per noi è il colpevole è a sua volta vittima di un altro che, è vittima di un altro ancora. È una catena infinita con un solo responsabile. Quel responsabile che, purtroppo, ha colpito sì anche me, perché ho abbassato la guardia troppo presto, perché ci fidiamo di stare in famiglia, tanto siamo noi e chi incontriamo?
E invece no. Ho capito che è proprio la famiglia la trappola peggiore. Dove non ci sono barriere, protezioni, igienizzanti. Ci sono invece baci, carezze, abbracci e contatti. Cene e pranzi, aperitivi, chiacchierate spensierate. Sì, perché tutti noi abbiamo voglia e bisogno di riprenderci in mano ciò che era nostro. Una normalità strappata a tutti e che ritroviamo nelle riunioni familiari. Ed io così, con gli occhi a mandorla e mangiando ravioli al vapore, ora mi posso proprio considerare legata alla Cina per sempre. Ha portato il Covid dentro di me, mi ha infettato con la sua positività ma soprattutto mi ha reso forte. Perché io questo virus me lo mangio dentro un involtino primavera, perché non sa minimamente contro chi sta combattendo. Queste sono le esperienze di vita che vorresti non succedessero mai e che, quando ti succedono, allora inizi ad aprire gli occhi. E capisci anche che il paese dove vivi non è fatto solo di chiacchiere fastidiose e curiosità per fare lo scoop del giorno. Queste vengono completamente annientate da chi invece dimostra solidarietà ed altruismo davanti alla nostra solitudine e paura. Davanti ad una persona che non solo può star male fisicamente ma che moralmente si ritrova con le spalle contro il muro. Vittima dei propri pensieri e isolata dal resto del mondo per tutto il giorno. In questi casi si ringrazia e santifica chi ha inventato la tecnologia. Perché il telefono può fare grandi cose, il contatto con l’esterno e con i propri familiari lontani è un sollievo ed una ventata di positività.
Io non posso dare insegnamenti, perché non sono la persona più giusta per farlo ma posso, con questa mia testimonianza, raccontare la mia vicenda che delle volte definisco una disgrazia. Ma poi penso a chi, per il Covid, non cammina sulle sue gambe ed è costretto su un letto di ospedale, magari intubato. Magari in fin di vita. Io nella mia sfortuna mi ritengo fortunata sì, perché cammino sulle mie gambe e respiro a pieni polmoni, i miei. Ho capito che il virus si insidia nel tuo corpo andando a toccare i tuoi punti deboli e bisogna lottare da soli, nessuno può aiutarti fisicamente. La mia guerra contro questo nemico è già iniziata e voglio vincerla per i miei figli, mio marito e la mia famiglia. Pensiamo tutti che potrebbe capitare ad ognuno di noi, facciamo attenzione sempre e tendiamo una mano a chi si trova in difficoltà, perché sentire la vicinanza e l’affetto delle persone anche solo mandando un saluto, può fare tanto.
In bocca al lupo a tutti noi, positivi e non. Perché davvero siamo tutti sulla stessa barca.
Stefania Puddu