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Uomini, donne e bambini che salpano dalle coste africane, o dai paesi vicini in guerra, fuggono da un regime oppressivo, dalle difficoltà economiche di un paese in ginocchio, dalle conseguenze dei cambiamenti climatici, dalle violenze. I volti, gli sguardi, i corpi segnati di coloro che bruciano le frontiere per raggiungere l’Europa e sognano una vita, normale. Sono le storie dei migranti che attraversano il deserto e il mare della speranza. Storie che non vanno dimenticate ma al contrario, raccontate, per testimoniare quello che succede nel «giardino di casa nostra, il Mediterraneo. Perché in mare non può morire nessuno, ed è compito e dovere di chiunque si trovi lì, soccorrere le persone in pericolo». Così ha spiegato Isabella Trombetta, Communication Officer di SOS Mediterranée Italia agli studenti dello IED Cagliari, protagonista del terzo incontro tenutosi martedì a Villa Satta per il ciclo di open lesson “Respect! Persone. Futuri. Luoghi” dedicati ai temi di interesse sociale. Originaria di Reggio Calabria, laurea all’Università LUSS di Roma in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, tra il 2017 e il 2018 ha svolto l’incarico di Communication Officer per due mesi a bordo della nave di salvataggio “Aquarius”, come responsabile delle comunicazioni fra l’imbarcazione di soccorso e gli uffici a terra e, soprattutto, è stata il canale di comunicazione fra la nave e la stampa a bordo. Oggi svolge lo stesso ruolo negli uffici a terra. Un compito importante che l’ha vista impegnata anche nel raccogliere le testimonianze dirette delle persone che venivano salvate (la Aquarius ha sottratto alla morte in mare quasi 30.000 persone in tre anni di attività), restituendo così storie, voci e volti a quella dimensione umana che in genere viene ignorata dal racconto delle migrazioni, spesso superficiale e fatto di soli numeri e statistiche.
«I cardini di SOS Mediterranée si fondano su tre principi fondamentali: soccorrere e salvare le vite delle persone che rischiano di morire ogni giorno annegate; assisterle e proteggerle una volta che sono a bordo, e poi raccogliere e raccontare le testimonianze dirette delle loro storie. Ed è qui che entra in gioco il Communication Officer, così come i giornalisti e i fotografi sulla nave. Perché le immagini e gli occhi di chi vede a volte credo parlino più di mille parole.»
Contrastare il diffondersi dell’informazione errata, delle fake news, spesso strumentalizzate dalle politiche distorte del terrore e della diffidenza che contribuiscono a generare paure, insicurezza, odio, diventa quindi determinante per chi svolge questo incarico, così come è fondamentale consegnare alla società civile e politica la verità sostanziale dei fatti attraverso una informazione corretta e una comunicazione genuina sui diversi canali social, basata sulle testimonianze dirette.
«La disinformazione ha generato molta confusione tra ciò che è il problema dei fenomeni migratori, molto grande e complesso, e l’obbligo di prestare soccorso in mare, che è imprescindibile. Così come è previsto dal diritto nazionale e internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare. E proprio a causa di una errata informazione le ONG sono così passate dall’essere citate come “gli angeli del mare” nei primi articoli, poi a ”taxi del mare”, fino a “trafficanti”.»
Un’esperienza molto importante e formativa per Isabella che nel 2015 ha intrapreso poco più che ventenne come percorso naturale dei suoi studi universitari mentre collaborava a un progetto S.P.R.A.R (Servizio per la protezione di richiedenti asilo e rifugiati), ma nata anche dall’esigenza di unirsi ai tanti giovani con il desiderio di rimboccarsi le maniche e offrire il proprio contributo di fronte all’aumento esponenziale delle vittime in mare e delle tragedie continue e inimmaginabili che si stavano consumando sulle rotte del Mediterraneo, davanti a casa nostra. Un racconto appassionato che ha illustrato ai partecipanti al talk nell’Aula Magna Francesco Morelli di IED Cagliari tutto quello che succede a bordo di una nave ONG. A partire dall’organizzazione interna dello staff composto da tre equipaggi: quello marittimo; l’equipaggio di SOS Mediterranée che comprende circa dieci soccorritori tra cui un coordinatore o capitano, un communication officer e il fotografo; e infine l’equipaggio di Medici Senza frontiere, partner medico a bordo, composto da un medico, due infermieri, un’ostetrica, un mediatore culturale e il personale umanitario. Tutti professionisti di vari ambiti, di diversa provenienza e estrazione sociale accomunati dall’esperienza nautica e da training formativi molto impegnativi, che decidono di dedicare il loro tempo, impegno, risorse e passione al salvataggio dei naufraghi, lasciando per alcuni mesi la loro casa e i loro affetti. «Tanti volti, tanti sorrisi, tanti italiani, tante persone che si danno da fare». E ancora, ha raccontato come intervengono le ONG nell’ambito della suddivisione delle zone di responsabilità per il soccorso (SAR – Search And Rescue) tra i vari Stati che si affacciano sul Mediterraneo, i passaggi di comunicazione obbligatori in fase di soccorso tra ONG e MRCC (Maritime Rescue Coordination Centre), ovvero i centri di coordinamento dei soccorsi costieri rispettivamente: italiano, maltese e libico. Questi centri hanno il compito di assegnare alle navi che hanno effettuato il salvataggio in mare un porto sicuro (place of safety), il più vicino in cui poter approdare e che garantisca i diritti umani fondamentali, tra assunzioni e ripartizioni delle responsabilità però spesso contraddittorie: «Tripoli viene assegnato dalla guardia costiera libica come porto sicuro, malgrado le numerose denunce di violazioni di diritti umani e degli indicibili orrori dei loro centri di detenzione, da cui gli stessi migranti che salviamo in mare fuggono», ha aggiunto la responsabile della comunicazione di SOS Mediterranée. Tante le curiosità dei ragazzi e delle ragazze in aula anche in merito agli aspetti più tecnici delle operazioni di salvataggio, ad esempio su come avviene l’identificazione del target, che nel linguaggio specifico utilizzato a bordo si intende l’intercettazione delle persone in pericolo in mare.
«Gomiti fissi per reggere il grande binocolo, ci guardi dentro e scruti bene l’orizzonte, facendo il giro completo della parte più alta della nave. Si deve fare piano e con attenzione, perché se guardi da una parte e nel frattempo a pochi metri di distanza passa dall’altro lato una imbarcazione in difficoltà significa che in un attimo la puoi perdere, e che trecento, quattrocento e più persone molto probabilmente moriranno.»
E poi il racconto di alcune storie di chi ce l’ha fatta. Tra questi la disperazione di un padre che ha dovuto scegliere tra salvare i propri figli dal rischio di torture e violenze inaudite, o da una morte quasi certa, ed il rischio di vederli morire affogati in mare; di donne che hanno subito abusi atroci e maltrattamenti; di una madre fuggita dal suo paese africano con le sue due bambine per evitare che venissero sottoposte alla violenza dell’infibulazione; o di bambini non ancora adolescenti torturati come uomini adulti. Storie di drammi umani ma anche di sorrisi e di momenti di gioia indescrivibili, di vite umane salvate.
«Su questa nave ho incontrato tante belle persone e tante storie che mi hanno cambiato, reso più consapevole. E ho incontrato nell’equipaggio anche una gioventù europea e non solo (a bordo c’erano anche ragazzi e ragazze dagli USA e dall’Australia), che mi ha restituito un po’ di speranza, che stavo incominciando a perdere. Giovani che non si danno per vinti, perché nonostante quello che la società ci dice si può fare la differenza, si può fare realmente qualcosa per cambiare le cose. Io dico sempre che si può iniziare anche dalle piccole cose, a partire dal nostro atteggiamento», ha commentato Isabella in chiusura della open lesson, invitando tutti a visitare il sito ufficiale https://sosmediterranee.it/ e i canali social, Facebook: SOS MEDITERRANEE Italia, Twitter: @SOSMedItalia e Instagram: sosmediterraneeitalia .