“Nessun destino è segnato”, il libro che racconta la storia ultratrentennale di Casa Emmaus
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Questa è la storia di una casa, di una famiglia che ha accolto, in 33 anni, circa 6.000 ragazzi in gravi difficoltà, perché avevano smarrito la strada e perso l’amore per la vita. Persone con problemi psichiatrici, dipendenze patologiche, ridotte in uno stato di grave povertà, migranti, detenuti, minori. A casa Emmaus sono sempre stati considerati solo e soltanto come esseri umani, senza fare alcuna distinzione all’ingresso.
Parla di questo il libro “Nessun Destino è segnato”, racconta una storia iniziata a Iglesias alla fine degli anni ’80, grazie ad un gruppo di volontari e ad un professore di storia e filosofia, Nico Grillo, che ha avuto il sogno ed il coraggio di tramutare un’utopia in realtà.
Casa Emmaus, nata nel 1988 in una casetta ai piedi del Marganai, come piccola comunità per minori, opera oggi attraverso sei strutture accreditate dalla Regione Autonoma della Sardegna e gestite con grande professionalità e dedizione da equipe multi-professionali e qualificate, composte da 80 persone, suddivise nelle diverse strutture.
Autore del libro è il giornalista Luca Mirarchi, collaboratore de L’Unione Sarda, che con queste risposte rilasciate per un’intervista dopo l’uscita del libro – pubblicato da Alfa Editrice e presente in tutte le principali librerie della Sardegna, oltreché sugli store online – ci racconta la sua esperienza di scrittura in modo chiaro e diretto.
Come nasce il libro “Nessun destino è segnato”?
«Ho trascorso un anno collaborando alla comunicazione di Casa Emmaus. Nei primi sei mesi mi sono dedicato, soprattutto, all’organizzazione di un congresso, “Aprire Orizzonti”, che si è svolto nel novembre 2019. Gli altri sei mesi li ho dedicati principalmente alla realizzazione del libro. L’idea è venuta alla direttrice della comunità, Giovanna Grillo, e io non mi sono tirato indietro, anche se non è stata un’esperienza facile. La professione ti spinge ad indagare più a fondo possibile nella storia dell’intervistato, la sensibilità ti fa indietreggiare quando ti rendi conto che stai andando a toccare delle corde emotive sensibili dell’interlocutore. In questo caso le tematiche trattate, il dolore che hanno provato molti degli intervistati e le difficoltà che hanno dovuto fronteggiare nella vita hanno reso l’operazione ancora più complessa: bisognava muoversi lungo un crinale sottile, cercando di equilibrare le due esigenze. È quello che ho cercato di fare. Ognuno di loro mi ha trasmesso qualcosa».
Le storie ci aprono ad un mondo di cui non siamo i soli abitanti. Di quale mondo ci parla il tuo libro?
«Sono le storie di chi ha smarrito la strada ma ha trovato la forza di mostrare la sua debolezza, il coraggio di farsi aiutare. Sono le storie di persone che spesso provengono da contesti socioculturali fortemente penalizzanti, ma anche quelle di persone che pur non avendo incontrato particolari ostacoli, in apparenza, sono cadute vittime della dittatura delle dipendenze: questo le rende ancora più vicine a noi, perché viene da chiedersi cosa avremmo fatto, se ci fossimo trovati al loro posto. E poi ci sono le storie degli operatori – educatori, psicoterapeuti, psichiatri, coordinatori delle varie strutture – che ogni giorno investono tutte le loro energie nello sforzo di migliorare la vita di persone che la società aveva dimenticato. A prescindere dal risultato che sarà ottenuto. Perché anche solo fare qualcosa per aiutare una persona in difficoltà ripaga dello sforzo che è stato impiegato».
Il racconto si colloca nella relazione tra chi narra e chi accoglie ciò che viene narrato. A chi ti rivolgi con questo libro?
«Non avevo in mente un lettore ideale mentre scrivevo. Certo, ho pensato che sarebbero stati interessati gli animi più vicini a tematiche di carattere sociale, ho immaginato che il libro sarebbe potuto diventare un testo utile da presentare nelle scuole, ma essenzialmente quando scrivo cerco soprattutto di fare bene il mio lavoro, il resto viene da sé. In questo caso si trattava di dare voce a chi non ha voce, nel modo più chiaro, neutrale e dettagliato possibile. Chiunque dimostri interesse verso queste pagine mi rende felice».
All’interno delle tante presenti nel libro, qual è la storia che ti ha colpito maggiormente?
«La storia di una signora elegante e discreta di circa sessant’anni che nel libro ho scelto di chiamare Fabrizia, per tutelare la sua privacy come ho fatto con gli altri utenti o ex utenti della comunità che mi hanno offerto la loro testimonianza. Mi ha colpito perché apparentemente aveva tutto per essere felice, mentre invece la sua vita si sgretolava senza che quasi se ne rendesse conto, senza che quelli che la circondavano muovessero un dito, forse per quella scarsa attitudine a interessarsi del prossimo che troppo spesso si maschera come discrezione, riservatezza o qualche sinonimo di “buona educazione borghese”.
Per aiutare le persone a volte bisogna superare queste ritrosie. Fabrizia poteva essere nostra madre o una nostra zia, nascosta dietro la rispettabilità delle nostre case. Ma in ogni casa, spesso senza rendersene conto, o addirittura col proposito di fare del bene, si mettono in moto dinamiche che possono lasciare cicatrici profonde nel cuore di chi le abita. È un invito che rivolgo a me stesso: fare una domanda in più, se qualcuno non riesce a dire con le parole la sofferenza che rivela il suo sguardo; chiedere cosa c’è che non va, non accontentarsi di risposte evasive, trovare un po’ di tempo in più per capire come si sente davvero chi abbiamo di fronte. Potrebbe valerne la pena.»
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