Attacco al cuore del problema Sanità. Si può fare – di Mario Marroccu
Nonostante l’incredibile impatto del disagio sanitario che tutti viviamo è difficile trovare un vero progetto per il ripristino del sistema assistenziale nei discorsi di chiamata al voto. Nei programmi sulla salute descritti da tutte le parti in causa si trova una flebile elencazione di lamenti, di desideri per il bene comune, con sentimenti moderati, paciosi e anche irenici.
Il tutto si riduce a ciò che dice i PNRR dei tempi di Mario Draghi:
– digitalizzazione della Sanità territoriale,
– evitare l’aumento della spesa corrente,
– interventi su attrezzature e miglioramento delle strutture murarie degli ospedali.
– vi è poi una sequenza di pii desideri per garantire la felicità dei malati, dei vecchi e dei bambini.
Ma nulla di concreto per imporre la marcia indietro ai fallimenti della politica passata in sanità.
Nella terminologia corrente, sia giornalistica che politica, si dà per acquisito che esista un apparato sanitario “centrale” e uno “periferico”. Nessuno protesta se si definisce un ospedale come “ospedale di periferia”. Questa catalogazione terminologica non esiste in nessuna legge dello Stato. L’acquisizione di tale linguaggio deriva dal fatto che nell’ultimo decennio è stata creata una sorta di catena di dominio sanitario che tiene correlate fra di loro strutture sanitarie predominanti (hub) e strutture sanitarie periferiche (spoke); quest’ultime sono in uno stato di sottomissione funzionale. Si è arrivati ad attribuire una sorta di scala sociale diversa agli ospedali a seconda della loro localizzazione territoriale.
Si parla, infatti, di ospedali centrali a Cagliari e Sassari e di ospedali periferici in tutte le altre province.
Alcuni ospedali sono altamente visibili mentre altri sono esclusi fino all’invisibilità. L’opera di marginalizzazione degli ospedali provinciali, inferiorizzati fino alle condizioni attuali, è ben descritta nelle cronache sanitarie quotidiane.
In passato non era così. Le USL (Unità Sanitarie Locali) erano, per legge, “articolazioni” del Sistema Sanitario Nazionale (SSN); ognuna aveva autonomia programmatoria, economica e amministrativa.
Quando si decise di passare dalle USL alle ASL (Aziende Sanitarie Locali) e quando si votò il referendum per l’abolizione di alcune Province sarde, ebbe inizio la emarginazione che comportò l’abolizione o la riduzione di servizi pubblici come la Giustizia e la Sanità provinciale che furono progressivamente concentrati a Cagliari e Sassari.
Si arrivò al massimo della emarginazione sanitaria quando si attuò la centralizzazione sanitaria in un’unica azienda regionale chiamata dapprima ATS e poi ARES. Per far nascere questo nuovo Ente si procedette allo svuotamento del cuore amministrativo delle ASL provinciali, dei loro fondi, del loro personale e delle loro competenze.
Dopo questa operazione iniziò la discesa delle ASL provinciali dalla posizione di Enti dotati di autonomia finanziaria e programmatoria a strutture marginali.
Un “antropologo del lavoro” saprebbe spiegarlo meglio: la “marginalità” in cui si trovano oggi le ASL di provincia corrisponde ad una volontà di “non integrazione” e di “non partecipazione” di questi enti, alle decisioni che sono oggi riservate a sedi lontane ed estranianti. E’ un meccanismo che ha trasformato i sistemi sanitari provinciali in sobborghi della Sanità. Eppure le leggi dello Stato non prevedevano questa involuzione ma tutt’altro.
La prima legge-madre che parlò di “autonomia” per i Comuni, le Province e le Regioni fu la Costituzione del 1948 agli articoli 116 e 119. Quegli articoli ci dettero l’autonomia organizzativa e finanziaria che vennero confermate 20 anni dopo dalle leggi 128 e 132 del 1968. Quelle leggi dettarono norme sull’ordinamento degli ospedali.
Gli ospedali pubblici vennero distinti in tre livelli:
– ospedale zonale,
– ospedale provinciale,
– ospedale regionale.
– L’ospedale zonale doveva fornire tutti i servizi di base come: Medicina Interna, Chirurgia Generale, Anestesia, Ostetricia, Pediatria, Traumatologia, Pronto Soccorso, Radiologia e Laboratorio.
– L’ospedale provinciale doveva fornire gli stessi servizi dell’ospedale zonale, in più era dotato di qualche altra specialità per garantire 24 ore su 24 l’urgenza ed emergenza.
– L’ospedale regionale aveva le stesse specialità dell’ospedale provinciale ma in più era dotato di altri reparti per patologie rare o poco comuni che necessitavano di personale e di attrezzature speciali. Il fattore “rarità patologica” comportava la necessità di “concentrare” in un’unica sede regionale tutti i casi. Si trattava di: neurochirurgia, trapianti d’organo, cardiochirurgia, chirurgia toracica, chirurgia vascolare, grandi ustionati, chirurgia plastica, chirurgia pediatrica, chirurgia ginecologica-oncologia, onco-ematologia, chemioterapia, radioterapia e altre strutture organizzative ultra-specialistiche assimilabili alle attuali “brest unity”, “prostate unity”, “pancreas unity”, etc. Erano gli unici casi in cui era ammessa la “centralizzazione”.
Negli ospedali zonali e Provinciali erano presenti tutti i servizi specialistici ospedalieri che curavano le condizioni patologiche più frequenti e comuni ed erano: Medicina generale, Chirurgia generale, Urologia, Pediatria generale, Ortopedia e Traumatologia, Neurologia, Ostetricia e Ginecologia,
Psichiatria, Neurologia, Nefrologia e dialisi, Geriatria, Pneumologia, Pronto Soccorso e Chirurgia d’Urgenza, Anestesia e Rianimazione; erano inoltre attivi i servizi di: Laboratorio, Anatomia patologica, Radiologia, etc.
La comune Traumatologia domestica ,della strada e del lavoro doveva essere immediatamente assistita dagli ospedali provinciali d’urgenza mentre i traumi del cranio, del torace, dei grandi vasi, venivano riservati agli ospedali regionali.
Anche le città capoluogo possedevano i loro ospedali zonali e gli ospedali provinciali. In tali città erano e sono tutt’oggi presenti le strutture ospedaliere universitarie che hanno lo scopo di fare ricerca e insegnare. Gli ospedali universitari sono in genere in prossimità o all’interno delle città capoluogo e sono a servizio di tutta la Sardegna. Così come gli ospedali universitari, anche gli ospedali regionali, che si trovano a Cagliari e Sassari, non hanno una città di appartenenza ma vanno identificati come strutture regionali, appartenenti a tutti i sardi Questa precisazione, apparentemente ridondante, è utile per spiegare ciò che segue sulla evoluzione della rete ospedaliera sarda e anche per chiarire lo stato di diritto alla pari, di tutti i malati sardi in quegli ospedali.
La legge sulla nuova rete ospedaliera sarda del 2017 distingue gli ospedali in:
– Ospedali di Base (corrispondente agli ospedali zonali)
– Ospedali DEA di I livello (corrispondenti agli ospedali provinciali)
– Ospedali DEA di II livello (corrispondenti agli ospedali regionali).
Questa è la legittima dizione con cui si distinguono oggi gli ospedali. E’ cambiata la terminologia ma la sostanza è uguale. Chi utilizza l’espressione “ospedali periferici” commette un abuso di interpretazione, perché non esistono “ospedali territoriali periferici”: tutti gli ospedali hanno lo stesso valore di “centralità”.
Ogni ospedale, in ragione delle competenze attribuitegli dalla legge, deve essere, nell’ambito della propria competenza, “HUB” di se stesso (cioè “centrale”). Gli ospedali regionali sono “hub” esclusivamente per le specialità di Neurochirurgia, Cardiochirurgia, trapianti d’organo e patologie rare ed eccezionali.
In Sardegna, tra pubblico e privato, esistono 39 strutture ospedaliere, di cui:
– 4 centri ospedalieri universitari (Sassari e Cagliari),
– 2 aziende ospedaliere regionali (Brotzu di Cagliari),
– 7 ospedali provinciali DEA di I livello:
– Olbia (ospedale Giovanni Paolo II)
– Oristano (ospedale San Martino)
– Nuoro (ospedale San Francesco)
– Cagliari (SS Trinità)
– Cagliari (policlinico di Monserrato)
– Carbonia (Sirai e completamento DEA del CTO con funzioni di base di Iglesias)
– San Gavino Monreale (ospedale Nostra Signora di Bonaria)
– 2 Ospedali DEA di II livello (San Michele di Cagliari e SS Annunziata di Sassari)
– 11 case di cura private
– 14 ospedali di base
Totale: 39 ospedali.
I DEA di I livello sono di fatto gli ospedali “provinciali” della vecchia dizione (legge 128/1968).
Le competenze di questi ospedali sono: Chirurgia generale, Urologia, Ortopedia e Traumatologia, Ostetricia e Ginecologia, Medicina Interna, Terapia intensiva, Cardiologia. Emodinamica, Nefrologia, Dialisi, Pediatria, Gastroenterologia, Geriatria, Pneumologia, Neurologia, Psichiatria, Oncologia, Anestesia e Rianimazione, Anatomia Patologica, Dipartimento diagnostico per immagini, Laboratorio, Virologia, Immunologia, Centro trasfusionale, Riabilitazione e fisioterapia, Accettazione e Pronto soccorso DEA di I livello con astanteria per medicina e chirurgia d’urgenza, etc.
I DEA di I livello devono essere, nelle loro competenze, “Hub” di se stessi; cioè devono essere totalmente autonomi e autosufficienti, pronti ad affrontare patologie anche di altissima difficoltà.
I 7 ospedali DEA di I livello devono essere alla pari sia per dotazione di personale che di attrezzature ultra-sofisticate, e devono essere strutturati in modo completo e soddisfacente in modo da garantire un altissimo livello di assistenza, 24 ore su 24, nelle loro specialità.
Questi 7 ospedali (su 39) sono la vera struttura portante della rete ospedaliera sarda che, perfettamente e uniformemente compenetrata nel territorio, non lascia vuoti nell’assistenza di base e d’urgenza.
Gli Ospedali di Base, coadiuvati dalla Case di Cura, sono deputati a compiti di assistenza di base e non sono compatibili con le funzioni ininterrotte di emergenza-urgenza h24.
Quella testé descritta è la base di legittimità su cui si basa il disegno politico amministrativo descritto dalla legge regionale (rete ospedaliera 2017) affidato alle nostre autorità comunali, provinciali e regionali. Purtroppo, esistono deviazioni dallo spirito della legge che indica il corretto indirizzo verso cui vanno pilotati i nostri ospedali. Di tali deviazioni esistono dichiarazioni ufficiali autorevoli. Tali dichiarazioni sono state pubblicate e documentate in un documento pubblicato pochi giorni fa da ARES (agenzia regionale salute). Nel documento sul “Piano preventivo delle attività 2024-2026” la stessa ARES riconosce le difficoltà, e deficienze esistenti, e le denuncia con questa espressione: «…si evidenziano le criticità dei presidi ospedalieri della ASL Sulcis Iglesiente, caratterizzati da problemi come il pensionamento di Personale difficilmente sostituibile, un’età media elevata del Personale con limitazioni funzionali e lavori edili incompleti, e si sottolinea la necessità di una revisione dell’organizzazione ospedaliera…. in parallelo con la riconsiderazione della rete Ospedaliera Regionale, affinché possa rispondere in modo adeguato alle esigenze del territorio».
La dichiarazione che certifica le cause che sono alla base del deficit organizzativo che ARES ha reso pubblica necessita di provvedimenti. Essi vanno concentrati sulla legge di riforma sanitaria regionale del giugno 2020; tali provvedimenti possono essere presi solo dalla politica.
In quella legge esistono le disposizioni che hanno mandato in stallo la Sanità pubblica.
In essa esistono articoli che hanno totalmente invertito il senso della famosa legge 833 del 1978 che istituì per la prima volta la Sanità gratuita per tutti, il Sistema Sanitario Nazionale e il Fondo Sanitario Nazionale. Tutt’oggi quella legge è considerata la più grande legge della Repubblica dal dopoguerra ad oggi.
Il Sistema Sanitario Nazionale della 833/78 era basato sulle USL (Unità Sanitarie Locali). Le USL erano concepite come “articolazioni territoriali” del SSN. In base agli articoli 116 e 119 della costituzione le USL dovevano godere di “autonomia gestionale e finanziaria”. L’“autonomia” si concretizzava nella capacità di: programmare, acquistare e assumere personale autonomamente entro i limiti degli organici definiti dalla legge. L’“autonomia” veniva gestita dal “Comitato di gestione” e dal suo “Presidente” che venivano eletti dai Consigli comunali delle città del territorio provinciale.
La presenza di tali figure politiche territoriali garantiva il funzionamento di una “cinghia di trasmissione” delle istanze democratiche dalla popolazione al Sistema Sanitario.
Le USL entrarono rapidamente in competizione fra di loro in termini di efficienza, e si inaugurò il periodo di più rapida crescita del sistema sanitario con grande soddisfazione dei cittadini.
L’attuale sistema della ASL sarde è diversissimo:
– all’interno della amministrazione delle ASL provinciali non esiste più alcuna rappresentanza politica della popolazione;
– è esclusa la comunicazione continua e diretta tra politici locali e il centro regionale direttivo;
– le ASL provinciali non possono né assumere autonomamente il personale necessario, né fare acquisti diretti.
– le ASL sono prive di fondi propri ad hoc.
Un’Azienda che non può né assumere né acquistare, di fatto non ha alcuna autonomia.
La Grande Riforma 833/78 è stata capovolta. Di fatto esiste una catena di dominio che prevede un unico centro direttivo regionale che ha lo scopo di pianificare il programma pluriennale sanitario che, purtroppo, ignora la diversità dei territori sardi.
Il cuore del problema della Sanità sarda è esattamente quello su decritto: l’inesistenza di autonomia delle ASL.
Non si vede traccia di idee di soluzione del problema in nessuna dichiarazione programmatica esposta in questi giorni.
Al fine di riportare il cittadino al centro della Sanità sembrerebbe opportuno integrare qualche punto alla legge 24/2020 per:
1 – introdurre figure politiche territoriali tra gli organi della ASL,
2 – conferire autonomia finanziaria alle ASL al fine di liberarle dalla immobilizzazione per incapacità di spendere,
3 – consentire alle ASL la possibilità di assumere autonomamente il personale sanitario di cui ha bisogno.
Mario Marroccu
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