Il nostro iceberg si sta sciogliendo. Come affrontare le sfide in una Sanità che cambia – di Antonello Cuccuru
Diversi anni fa, quando sono stato nominato direttore della Struttura complessa delle professioni sanitarie, ho ricevuto in regalo un libro – da alcuni colleghi dell’area dell’emergenza, da cui provenivov-: “Il nostro iceberg si sta sciogliendo” di John Kotter e Holger Rathgeber.
Un testo che mi è piaciuto subito e che nella vita ho usato diverse volte, soprattutto, negli incontri con il middle management (livello intermedio costituto dagli ex coordinatori assistenziali) o nelle lezioni ai corsi di laurea delle professioni sanitarie.
“Il nostro iceberg si sta sciogliendo”, è una favola che insegna ad affrontare in modo efficace la sfida del cambiamento. Questa favola, apparentemente semplice, racconta la storia di una colonia di pinguini che da sempre abitano su un iceberg in Antartide.
La storia ruota intorno a 6 personaggi principali, 6 caratteri e 6 modi di reagire all’inevitabile cambiamento che la colonia di pinguini dovrà affrontare: Fred, Alice, Louis, Buddy, il Professore e NoNo sono come le persone che ci circondano quotidianamente. La storia fa sorridere, perché ognuno di noi può ritrovarsi in uno di questi pinguini ed ognuno di noi può ritrovare un collega, un amico, un sindacalista o un manager.
I nostri amici pinguini sono convinti che quella che per generazioni è stata la loro casa (o il loro ospedale, nel nostro caso) lo sarà per sempre, ma un giorno Fred, curioso e osservatore, scopre che l’iceberg si sta sciogliendo e rischia di spaccarsi in mille pezzi mettendo a serio rischio la sopravvivenza di tutti.
Deve assolutamente fare qualcosa, ma lui è un pinguino qualunque e teme di non avere sufficiente autorevolezza per farsi ascoltare da tutta la comunità. Preoccupato per la gravità della sua scoperta, decide di farsi coraggio e di informare il Consiglio direttivo, detto anche il Gruppo dei Dieci, composto dai leader della colonia. Coinvolge Alice, una pinguina concreta e tenace, il membro del Consiglio che è disposta ad ascoltarlo ed a prenderlo seriamente in considerazione.
Insieme verificano l’effettiva gravità del pericolo che li minaccia e decidono di informare tutti i membri del Consiglio direttivo, compreso il Pinguino capo.
Si verifica ciò che molto spesso accade anche nella nostra realtà lavorativa: scetticismo, ostacoli, paura dell’ignoto, fermezza sulle proprie posizioni anche di fronte all’evidenza. Non sarà facile convincere i leader a comprendere che il loro mondo sta cambiando e che tutta la comunità dovrà adattarsi al cambiamento prendendo rapidamente delle decisioni importanti.
Non è facile accettare che tutto ciò che hai costruito negli anni, tutto ciò che sei abituato a vivere (il lavoro a due passi da casa), vedere e riconoscere come familiare, d’un tratto non sia più lì, non sia immutabile e invulnerabile.
Sempre con l’apparente semplicità di una favola, ma in realtà densa di concetti, la storia prosegue raccontando, con semplicità e chiarezza, come la colonia di pinguini riesce a comprendere il problema, a mettere in atto un’efficace comunicazione per informare tutta la comunità senza diffondere il panico, ad analizzare insieme la situazione individuando vantaggi e svantaggi delle scelte possibili, e ad impostare con impegno e passione un buon lavoro di squadra, per motivare tutti a trovare la soluzione migliore e metterla in pratica con successo.
Quella dei pinguini è una storia di resistenza al cambiamento, di un’eroica vittoria su ostacoli apparentemente insormontabili, di confusioni, di intuizioni, di problemi, di tattiche ingegnose per superarli. E’ la storia di un tempo in cui il cambiamento non può essere più evitato.
La resistenza al cambiamento è l’ostacolo più grosso alla nostra sopravvivenza e, mi sia consentito, sia di quella professionale che di quella personale. Applicando la metafora alla nostra sanità locale, ci rendiamo conto che anche la sanità del Sulcis Iglesiente rischia di sciogliersi e di sbriciolarsi in tanti pezzi. In questo ultimo anno abbiamo temporaneamente sospeso (dire chiuso è pericoloso e rimanda a realtà di finitudine) le attività della Rianimazione di Iglesias, dell’Ortopedia e Traumatologia del Sirai e Cto, dell’Urologia e della Neurologia e, nei prossimi mesi, rischiamo di perdere altri pezzi per mancanza di specialisti. Tutto questo impone un cambiamento urgente della nostra organizzazione.
John Kotter e Holger Rathgeber hanno usato la metafora della colonia di pinguini su un iceberg che si sta sciogliendo per identificare le tappe necessarie a un pinguino marginale alla colonia (Fred) per convincere gli altri ad avviare una strategia di cambiamento. A tal fine, Fred ha bisogno di creare un “senso di urgenza” rispetto alla necessità del cambiamento e all’importanza di agire tempestivamente, di costituire un gruppo coeso di promotori del cambiamento, di sviluppare una strategia di cambiamento efficace (nel caso, spostarsi su un altro iceberg), di adottare una strategia comunicativa capace di rimuovere le resistenze e di motivare i membri alla partecipazione attiva. Fred e i suoi compagni, infine, si trovano nella necessità di istituzionalizzare una cultura del cambiamento, in modo da rendere l’organizzazione capace di adattamenti continui.
Il cambiamento non è, dunque, frutto di strategie pertinenti, quanto di un’azione organizzata rivolta al superamento delle resistenze al cambiamento stesso, ovvero dei tentativi di rimandare, rallentare o impedire l’adozione di innovazioni organizzative (Ansoff, McDonnell, 1990). Nell’attuale spaccato di sgretolamento della sanità del Sulcis iglesiente, ma consentitemi di dire dell’intera Regione Sardegna, sarebbe facile scegliere di chiedere di più, invocare maggiori risorse. Ma sappiamo che le nostre richieste sarebbero destinate a non sortire gli effetti sperati.
In un contesto caratterizzato da un dibattito pubblico che raramente fa i conti con numeri ed evidenze, sono convinto che il management della sanità dovrebbe assumersi le responsabilità di un esercizio di realismo.
Quando diciamo che bisogna cambiare rotta per il futuro della sanità pubblica, pensiamo in primo luogo alla necessità di dire la verità, per riuscire a ragionare pragmaticamente su cosa fare per continuare a garantire la sostenibilità del SSN nel quadro di compatibilità dato. Questa operazione verità è necessaria e indispensabile per ricreare intorno al servizio sanitario pubblico quella cornice di condivisione collettiva di motivazioni e obiettivi comuni che è stata alla base dell’introduzione, nel 1978, della copertura universalistica della salute dei cittadini e, da ultimo nel 2020, della tensione positiva che ha permesso di superare, tutti insieme, una emergenza sanitaria violenta e inaspettata come quella da SARS-CoV2. Non possiamo continuare a organizzare i nostri servizi come se l’unica garanzia possibile dei LEA fosse affidata all’offerta di prestazioni. È necessario cambiare iceberg, abbandonare la logica della rincorsa alle prestazioni e puntare su un governo deciso della domanda. È questa, probabilmente, la strada obbligata per continuare ad assicurare l’universalismo del SSN, garantendo a ciascuno ciò di cui ha effettivamente bisogno nel momento in cui ne ha necessità, e coniugando appropriatezza e sostenibilità con produzione di valore per il singolo cittadino e la collettività.
Le strutture territoriali previste dal PNRR, Case e Ospedali di comunità e Centrali operative territoriali, così come la digitalizzazione, sono una straordinaria opportunità per trasformare i servizi che offriamo ai cittadini, mettere in discussione una volta per tutte le logiche prestazionali, ripensare i modelli di presa in cura e puntare con decisione sulla medicina di iniziativa, sull’integrazione dei percorsi e sull’appropriatezza.
Non possiamo accontentarci di aggiungere queste nuove strutture territoriali al nostro sistema di offerta dei 3 Distretti socio sanitari, dobbiamo cogliere questa occasione per ripensare modalità e obiettivi della presa in cura, soprattutto delle cronicità e delle fragilità, anche valorizzando i preesistenti servizi sul territorio. La vera posta in gioco dell’attuazione di quanto previsto da PNRR e DM77, al di là della dimensione strettamente strutturale, risiede nella nostra capacità di ripensare e riprogettare i servizi sanitari e i loro modelli organizzativi e di fruizione da parte dei pazienti.
Case e Ospedali di comunità, Cot, investimenti in assistenza domiciliare per concorrere al mantenimento dell’autosufficienza, scelta del domicilio del paziente come setting privilegiato per l’assistenza territoriale, realizzazione di strutture intermedie, rafforzamento della medicina generale e delle cure primarie, nuovo modello di organizzazione del territorio in relazione ed integrazione con le strutture ospedaliere. Dobbiamo guardare a tutti questi elementi come a un’opportunità per ripensare il modello di presa in cura. Sono tutti punti di una agenda obbligata per affrontare con successo la stagione attuale, con un occhio al quadro epidemiologico presente e futuro e al peso crescente di cronicità e comorbidità, e un altro alla tenuta e allo sviluppo del Sistema sanitario regionale.
Dobbiamo concentrare la nostra attenzione sulla mission effettiva del Ssn, che è produrre salute, non prestazioni, e garantirne la sostenibilità nella accezione più completa della parola, tenendo conto dei bisogni di salute, della nostra capacità di produzione, della esigenza di utilizzo appropriato ed equo delle risorse. Le transizioni demografica ed epidemiologica richiedono nuove politiche, a partire da investimenti organizzativi che abbiano il coraggio di innovare e riformare le vecchie modalità di erogazione dei servizi, lasciandosi definitivamente alle spalle le logiche prestazionali e puntando sulla appropriatezza allocativa in relazione alla tipologia di bisogni via via emersi e consolidati.
L’invecchiamento della popolazione, le cronicità, i nuovi bisogni di cura ed assistenza, la pressione dell’innovazione tecnologica e le ricadute di tutto ciò, richiedono un definitivo cambio di paradigma e di prospettiva. Non possiamo garantire efficacemente la tutela della salute continuando a privilegiare l’erogazione di singole prestazioni. La partita vera si gioca sull’intero percorso di presa in cura, soprattutto, per le cronicità, e sui suoi esiti in termini di salute e di qualità della vita.
Un approccio di questo genere favorirebbe una riorganizzazione dei servizi sanitari basati sulla centralità della costruzione dei percorsi integrati di presa in cura intorno ai pazienti con la loro patologia, condizione, i loro bisogni, in maniera da massimizzarne il valore per fasce o gruppi di popolazione portatori di quegli specifici bisogni e non guardando prioritariamente alle prestazioni e ai servizi erogati.
Tutte queste riflessioni rischiano, tuttavia, di lasciare il tempo che trovano se non facciamo i conti con le questioni che riguardano le risorse umane, tra le più complesse da affrontare e da risolvere.
Pesano certamente alcuni fattori esterni al settore, altri decisamente più specifici, come i livelli retributivi inadeguati o le condizioni di lavoro. Alle carenze di medici, soprattutto, per alcune aree specialistiche, si aggiunge il dato sull’età media. Nel 2020 il 56% del personale medico italiano aveva più di 55 anni di età, il valore più alto tra tutti i paesi dell’Unione europea. Oggi, inoltre, rischiamo di assistere impotenti alla fuga dei nostri operatori sanitari. Solo nel 2021 hanno lasciato il Ssn in 5mila. Nella nostra Asl si sono licenziati cardiologi, ortopedici e neurologi per andare a lavorare altrove, perché non siamo riusciti a motivarli. Non possiamo permettercelo, e non dobbiamo permetterlo. A tutto questo, si deve aggiungere che il rapporto tra il numero di medici e infermieri in servizio, il cosiddetto skill mix, non è cambiato nel tempo. Le crescenti difficoltà di reclutamento riguardano anche il personale delle professioni sanitarie e, in prospettiva, in misura più rilevante rispetto alla componente medica, con un preoccupante calo del numero di iscritti ai corsi di laurea.
Alle criticità del reclutamento, si aggiunge la difficoltà di non poter contare sulla piena disponibilità delle risorse in organico, a causa delle assenze e delle limitazioni per inidoneità. Una survey condotta dalla Federazione italiana delle aziende sanitarie e ospedaliere (Fiaso) su tutto il territorio nazionale per gli anni dal 2019 al 2022 documenta assenze dal lavoro per aspettative, permessi, legge 104, malattia, in crescita del 21,4% e un valore complessivo, nel 2022, del 18% di dipendenti assenti dal lavoro.
Altro fenomeno rilevante riguarda le limitazioni (alla movimentazione di pazienti o carichi, ai turni notturni o alla reperibilità, psichiatriche, psicosociali, da stress), che interessa il 12% degli operatori sanitari. Limitazioni, anch’esse, in crescita nello stesso periodo (+48%),e concentrate per il 65% nella fascia di età al di sopra dei 51 anni.
Nella Asl del Sulcis Iglesiente, dei 681 dipendenti afferenti alle professioni sanitarie, che prestano servizio nei 3 presidi ospedalieri, il 37% ha un giudizio di idoneità alla mansione specifica con limitazioni/prescrizioni e il 34% usufruisce dei permessi di cui alla L. 104/92.
A determinare la situazione attuale, ha concorso una pluralità di elementi. Sicuramente una programmazione inadeguata, in particolare degli accessi alle specialità, incrementati solo di recente, prevedendo anche la possibilità per i medici in formazione, di partecipare ai concorsi già dal secondo anno di specializzazione. Le norme per il reclutamento del personale sono vetuste, appesantite da numerosi adempimenti formali. La loro semplificazione, salvaguardando l’accertamento dei requisiti complessivi di accesso al Ssn, appare ormai improcrastinabile.
I sistemi di valutazione sono inadeguati, poco utili nelle forme attuali per la valorizzazione delle competenze, la premialità appiattita a vantaggio di riconoscimenti economici diffusi. Un quadro che, nell’insieme, lascia poco spazio a percorsi di carriera e sistemi di incentivazione interessanti per le nuove leve che decidono di venire a lavorare nella nostra Asl.
Sarebbe opportuno restituire alle aziende la capacità di scegliere come impiegare le risorse. Le risorse umane, così come i farmaci, sono un fattore produttivo indispensabile. E se provassimo a cambiare rotta e invece di stabilire quanto ogni azienda può investire in capitale umano in termini di tetto di spesa, utilizzassimo un valore legato alla produzione?
Ma dobbiamo anche essere in grado di guardare ai nostri operatori riconoscendone il ruolo di professionisti e valorizzandolo in pieno, lasciando a ciascuno la possibilità di investire sulla propria professione. Tutti, dagli infermieri al management strategico, devono poter guadagnare di più se producono risultati.
In questo scenario, le future proposte di policy è bene che tengano in debita considerazione consistenza numerica, profilo organizzativo ed erogativo dei nostri ospedali e le opportunità per un loro potenziale riorientamento produttivo. Non si tratta soltanto di rifocalizzare i nostri stabilimenti, ma, soprattutto, di programmare interventi infrastrutturali sistemici finalizzati alla realizzazione di un ospedale di dimensioni medio-grandi, in grado di esprimere una capacità di offerta all’avanguardia in termini di funzionalità sul piano logistico, impiantistico, organizzativo e tecnologico. In altri termini, non si tratta di tagliare posti letto per acuti, ma, al contrario, l’obiettivo deve essere quello di accorpare quelli che ci sono per raggiungere maggiore massa critica e conseguente “competence” clinica.
L’accorpamento dei posti letto esistenti al Sirai e al Cto in un presidio più grande consentirebbe due altri grandi vantaggi strutturali:
– la possibilità di concentrare anche le tecnologie e le grandi attrezzature, potendone quindi disporre di un numero inferiore, ma più moderne, quindi clinicamente più efficaci e più produttive, da usare con un tasso di saturazione della capacità produttiva più alto;
– una sicura riduzione dei costi di gestione, sia per l’effetto economia di scala, sia per l’effetto garantito dal rinnovo infrastrutturale.
L’errore da non compiere, che purtroppo si registra frequentemente nel Ssn, è mantenere l’utilizzo delle preesistenti facility, non avendo il coraggio attuativo – dei pinguini – di saltare su un altro iceberg e di concentrare tutte le attività in un nuovo ospedale, come inizialmente progettato.
Continuare a puntare su due presidi ospedalieri anche se con diversa vocazione (elezione Cto e urgenza emergenza Sirai), presenta diversi svantaggi:
a) si impedisce la compiuta concentrazione delle attività, l’unificazione dei percorsi di fruizione in un unico luogo, l’aumento potenziale del lavoro multi-professionale;
b) crescono esponenzialmente i costi di gestione dispersi su più strutture;
c) si perde l’effetto comunicativo agli occhi dei cittadini e degli utenti, rinunciando all’occasione di offrire un unico luogo simbolico di fruizione, moderno e funzionale, dove trovare il portafoglio completo dei servizi. L’alto indebitamento del paese, infatti, impone di focalizzarsi su impieghi in conto capitale, capaci, nel medio periodo, di razionalizzare la spesa corrente, non essendo immaginabile che nel lungo periodo essa possa crescere costantemente.
Non dobbiamo dimenticare infine, che il DM 70 esprime un marcato indirizzo verso il riorientamento delle risorse e, considerando l’evoluzione dei modelli assistenziali negli ultimi anni, appare inevitabile l’attivazione di una riflessione profonda verso alcuni punti rispetto al quale risulta parziale nel proprio sviluppo: sul fronte ospedaliero, intensità di cura e reti cliniche che vadano anche oltre quelle tempo-dipendenti; guardando oltre il setting ospedaliero, una maggiore spinta all’integrazione funzionale con setting di cura a minore intensità assistenziale e con il territorio.
La nostra sanità si sta sciogliendo, ma dobbiamo saper cogliere le altre opportunità per vincere la sfida. Ma per fare questo è necessario che il top management aziendale punti sul cambiamento ipotizzato dal prof. John Kotter.
Il professore di leadership alla Harvard Business School, nel 1996 definisce il suo modello di cambiamento in otto passi compresi nelle tre fasi di preparazione, sviluppo e coltivazione o consolidamento.
PREPARAZIONE
1. Creare la necessità.
Evidenzia ai decisori le minacce del non cambiamento e il bisogno di cambiare al più presto. Descrivi loro gli scenari e le forze che mutano le condizioni, e ciò che fanno i concorrenti o i migliori.
2. Formare il team.
Costituisci la squadra che dovrà realizzare il cambiamento, individuando le persone più entusiaste e facendone gli “evangelisti” del cambiamento.
3. Creare la visione.
Fai vedere agli altri come sarà la situazione a cambiamento avvenuto, dove si vuole arrivare, quali saranno i vantaggi.
SVILUPPO
4. Comunicare la visione.
Condividi la nuova visione con tutti i soggetti effettivamente o potenzialmente interessati al cambiamento. Insisti per rinforzare la comunicazione già fatta.
5. Rimuovere gli ostacoli.
Agevola gli agenti di cambiamento e ascolta i contrari per capire le loro ragioni e orientarle verso il cambiamento. Rimuovi gli ostacoli tecnologici, organizzativi e burocratici.
6. Fissare obiettivi a breve.
Spingi gli agenti di cambiamento a realizzare obiettivi limitati e provvisori, che però diano la sensazione di successo e possano così rinforzare la motivazione dei protagonisti. Questi obiettivi permettono anche di aggiustare il tiro nel caso che i risultati non siano del tutto soddisfacenti.
CONSOLIDAMENTO
7. Consolidare i successi.
Sostieni e conferma i miglioramenti raggiunti, rinforzandone gli effetti; tieni presente che il sistema tende a tornare com’era prima.
8. Incorporare i cambiamenti.
Metti a sistema i cambiamenti raggiunti e consolidati, facendoli diventare la regola della nuova organizzazione. In molti casi operazioni di successo, non confermate nel tempo, hanno finito con l’esaurirsi lasciando frustrati quelli che ne erano stati gli artefici. Quest’ultima fase è simile a quella di chi coltiva le piante per tutto l’anno per ottenere un buon raccolto.
Antonello Cuccuru
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