19 July, 2024
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1 L’antropologia dentro le miniere e le miniere dentro l’antropologia

L’antropologia come disciplina scientifica, quindi al di là della sua impropria estensione a etichetta abusata, ha maggiormente studiato le tappe positive e ascendenti del progresso umano attraverso le verificabili esperienze storico-materiali che trasformano la nostra naturale animalità nei modi culturali di farsi umani e di fare umanità, a vari livelli: individuale e sociale, di genere e di specie. Per esempio, dalla stazione eretta e al camminare, dalla manualità alla scrittura e all’arte, dalle attività individuali fino alle cooperazioni familiari e locali. Questo versante dell’antropologia positiva risulta assai ampio rispetto a quello dell’antropologia negativa che, viceversa, studia e documenta le esperienze che negano e sopprimono umanità, altrui e proprie, con varie pratiche e modi anche di violenza. Per esempio dai femminicidi alle guerre, fatti di triste attualità. L’antropologia ha teorie specifiche, nate nel 1871 e mutate nel corso del tempo, pur mantenendo la fondamentale e democratica concezione di cultura che comprende ogni esperienza umana. In quanto disciplina scientifica l’antropologia ha affinato nel tempo la propria metodologia che assomma lo spoglio di fonti scritte e il rilevamento di fenomeni documentabili con la produzione di nuove fonti: scritte e orali, fotografiche, audiovisive e filmiche. Dopo più di un secolo del suo percorso, l’antropologia è entrata nelle miniere e le miniere sono entrate nell’antropologia, determinando nuovi livelli di conoscenza e di approfondimento delle esperienze umane, soprattutto nel sottosuolo. La genealogia di riferimento per tali studi nelle miniere fa capo agli ultimi decenni del Novecento, all’antropologa June Nash e al suo libro edito nel 1979 sulle miniere di stagno boliviane: We eat the mines and the mines eat us. Dependency and exploitation in Bolivian tin mines. Solo agli inizi di questo secolo si giunge all’indicazione di una specifica antropologia mineraria, indicata e perimetrata come campo specialistico in ambito anglofono nel 2003, con il testo The Anthropology of mining di Ballard and Banks.

Nell’espansione dell’Antropologia mineraria non mancavano studi singolari che in ambiti locali indagavano le esperienze minerarie. In Italia, per esempio i primi studi antropologici editi su Carbonia risalgono al 1980 a livello internazionale. Sono infatti documentati negli Atti del Convegno Internazionale di Storia Orale che si tenne ad Amsterdam in quell’anno. Quei documenti, ora assai incrementati, riguardavano produzioni poetiche in sardo espresse prevalentemente da minatori o da loro fatte proprie, sia improvvisate e sia stampate in fogli volanti o in libretti di letteratura popolare ambulante. Fanno parte di un importante corpus documentario poetico, proprio della cultura operaia dei minatori, che può essere messo in dialogo con i documenti di altri centri archivistici o museali minerari, italiani ed europei.

Vorrei sostenere, a partire da questo punto documentario da mettere in un’ampia rete, che le temporalità antropologiche e culturali delle esperienze minerarie non si riducono al solo periodo estrattivo e neppure ad un inerte periodo cosiddetto post-minerario. Mi pare invece necessario partire da quei documenti storici per mettere in luce gli aspetti che concernono l’antropologia del rischio, lavorativo e non solo, individuale e non solo, nel passato e nel presente, avviando un nuovo corso di impegni programmatici di ricerca nelle scuole e nelle università, a partire dai morti in miniera ma estendendo la visione dei rischi e dei modi per farvi fronte democraticamente nei nuovi studi. Riprenderò successivamente il cruciale nodo del rischio e della securitas come ambito di poteri propri nell’esperienza mineraria.

L’approccio volto verso l’antropologia dei rischi a partire da quelli minerari implica l’esigenza di prendere in conto nuovi e attuali dibattiti nei quali l’antropologia mineraria giunge con una recente e più ampia definizione e perimetrazione. Riguarda la cosiddetta Antropologia delle risorse estrattive che fa capo a un libro collettaneo, The Anthropology of Resource Extractions, curato da D’Angelo e PiJpers e pubblicato nel 2022. Rispetto al libro di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola, I minatori della Maremma, edito nel 1956 sono trascorsi 66 anni. Dal mio testo pubblicato nel 1989 Tra il dire e il fare. Cultura materiale della gente di miniera un Sardegna, son passati 33 anni. Ribolla per certi aspetti impliciti e Carbonia per altri aspetti più espliciti, sia pure in tutta modestia, possono porgere le ricerche svolte sul loro terreno come etnografie situate come anticipazioni documentarie su mondi di vita e di lavoro sotto la terra che ebbero successivi sviluppi internazionali, specialmente per le perdite di vite umane e di ambienti vitali nei processi lavorativi. Cercherò di mettere in luce come tali processi eccezionali e quotidiani fossero non solo subiti, ma anche governati autonomamente dai minatori, attraverso l’emergere di soggetti di decisione e di scelta: attraverso processi di soggettivazione capaci di agentività, di agency, nonostante le condizioni di dipendenza o assoggettamento ai poteri dominanti.

Dal 2003 al 2022, come ho detto, l’intestazione di antropologia mineraria si è allargata con la dizione di Antropologia delle risorse estrattive, fino a comprendere un vasto complesso di attività di prelievo dalla natura. In tale ambito, in cui gli stessi minerali di discarica rimangono risorse di riabilitazione produttiva e ambientale, appaiono nuove temporalità minerarie. Inoltre, le miniere possono ora materializzarsi anche come specifici centri, idonei per particolari ricerche scientifiche. Tuttavia, rimane faticosamente aperto il problema di ciò che un materiale come il carbone può diventare e diventa storicamente risorsa, e di quale tipo, nei processi di valorizzazione secondo possibilità non solo scientifiche e tecniche, ma anche politiche. Penso al mancato sviluppo degli usi chimici del carbone Sulcis, data l’opposizione monopolistica della Montecatini e la conseguente riduzione del carbone a esclusiva risorsa energetica. Lascio aperta questione del rapporto fra materiali e risorse per seguire il corso generale delle esperienze minerarie. In generale, nel corso del processo di industrializzazione degli ultimi 50 anni l’attività estrattiva è triplicata, con la spinta soprattutto dai Paesi del cosiddetto BRIC: Cina, Brasile, Russia, India. Nuove materie prime, come cobalto e litio insieme a nichel e rame, hanno fatto emergere nuovi protagonisti. Molte miniere impoverite determinano ora maggiori disastri ecologici: per un’oncia d’oro si scassano 30 tonnellate di roccia. Le miniere, comunque, offrono direttamente a 40 milioni di persone opportunità insieme a sfide e rischi di vita. Le attività minerarie sono determinanti negli attuali assetti di consumo, di lavoro e di vita.

Particolarmente in questi ultimi decenni l’antropologia è entrata nelle miniere e le miniere sono entrate nell’antropologia. Numerosi studi antropologici penetrano ora nelle attività, nei processi, negli effetti estrattivi sulla vita quotidiana per capire dinamiche storiche, economiche, sociali, politiche, ambientali, con un approccio integrato. Tali dinamiche in vari casi rimuovono il dato di fondo: che l‘estrazione riguarda risorse non rinnovabili e pertanto esauribili. La dipendenza dai minerali in vari modi cresce e definisce mondi correnti di lavoro e di vita anche in base alla esauribilità dei giacimenti minerari e ai conflitti sul futuro che ricchezze e penurie minerarie acuiscono.

Le esperienze di Carbonia e di Ribolla, per esempio, si possono configurare nell’ambito che è stata definita democrazia del carbone (Mitchell 2011) per indicare il materializzarsi storico di protagonisti con differenti interessi, dipendenze e poteri, in termini di moderne inuguaglianze imposte e di nuove aspirazioni rivendicate. L’antropologia entrando nelle miniere ha colto i nodi di differenze asimmetriche di poteri, anche di vita, nelle umane relazioni lavorative. I mondi globali di macro-livello appaiono pertanto mentre interagiscono con quelli locali e di micro-livello in modi di inuguaglianze che sono per certi versi simili, per altri differenti.
Carbonia e Ribolla sono primariamente accomunate da rischi collettivi di vita subiti, in temporalità di differenti: il 1937 e il 1954. A questo riguardo inizierò prendendo in esame, sinteticamente e selettivamente, documenti ufficiali dei due incidenti mortali collettivi che avvennero in questi due centri carboniferi. Successivamente, prospetterò alcuni passi di ricerca comparativi e integrativi, dinamicamente volti al futuro nei due luoghi minerari oggetto della nostra attenzione.

2 Carbonia

Attingo notizie dalla relazione ufficiale dell’incidente avvenuto a Pozzo Schisòrgiu il 19 ottobre 1937. Redatta il 23 ottobre, tale relazione (reperibile nel testo di Mauro Pistis, edito da Giampaolo Cirronis Editore del 2022 dedicato a questo incidente) descrive il comportamento degli operai che si erano allontanati dal luogo di esplosione dopo aver caricato e acceso 39 mine. L’aria del cantiere era satura di pulviscolo di carbone, atto alla combustione per l’alto tenore di sostanze volatili in un ambiente con un solo fornello d’areazione. Determinante fu l’intensificazione produttiva giornaliera di carbone in quel luogo poco areato, tuttavia, l’incendio e l’esplosione venivano ufficialmente considerati non prevedibili. Alcuni provvedimenti di sicurezza, presi nel periodo successivo alle morti, dicono invece implicitamente le cause che alimentarono i rischi lavorativi vitali che determinarono i gravissimi fatti che fecero contare 14 morti. Tuttavia, nella relazione ufficiale si fece appello a varie ragioni giustificative per l’Azienda carbonifera: dalle maestranze non specializzate alla carenza di personale tecnico direttivo.

I dati importanti raccolti utilmente da Mauro Pistis nel suo libro sui fatti accaduti nella miniera di Schisòrgiu, richiedono però alcune elaborazioni antropologiche per individuare significative temporalità minerarie, a partire dalle morti collettive e individuali che considero ora congiuntamente. Per esempio in epoca fascista dal 1922 al 1943, dalla marcia su Roma alla fine dell’ultima guerra, i deceduti nelle miniere di Carbonia furono 154. Nel periodo della ricostruzione post bellica, dal 1943 al 1954, i morti in miniera furono 124. Dal 1955 al 1992, furono 35. Si tratta di cambiamenti non solo quantitativi, ma che riguardano resistenze e contrasti, assai forti anche in epoca fascista, sui poteri di vita. Entro questa lunga piega conflittuale, troviamo anche elaborazioni e conquiste per nuove sicurezze vitali, realizzate meglio dai minatori in epoca post-fascista, per quanto parliamo ancora generalmente di sicurezze sul lavoro ancora ampiamente disattese. Unendo gli eccidi collettivi alle morti individuali, vorrei mettere in luce due tipi d’intensificazione estrattiva. Il primo di moltiplicazione delle volate in zone di abbattimento non sufficientemente areate. Il secondo di intensificazione del lavoro fisico attraverso i cottimi e l’addomesticamento dei corpi.

In questo secondo percorso io desidero assumere il ‘farsi buon minatore’ o bravo minatore come maestro di vita, i temi del saper fare come saper vivere nel fondo, riferendomi a quell’insieme di pratiche minerarie che Giovanni Contini chiama complessivamente professionalità. Riassumendo al massimo, è utile a tal fine seguire il corso delle relazioni che riguardano i cottimi con le varianti dei Bedaux imposti e, per contro, le resistenze e le contrapposizioni dei migliori minatori che influenzarono comportamenti e valori diffusi nelle miniere specialmente carbonifere in vari decenni dopo l’incidente del 1937 e dopo il fascismo.

Richiamo l’elaborazione del minatore pensante e progettante le armature e le volate sicure per sé e per gli altri, realizzata dai migliori minatori del Sulcis, diffusa pedagogicamente contro la configurazione della «bestia lavorante» che i cottimi minerari imponevano come modello di modernità industriale di ascendenza tyloristica, o americano-fordista come aveva ben visto Antonio Gramsci. Del modello del minatore progettante il lavoro sicuro, per sé e per gli altri, dobbiamo saper cogliere due specifiche valenze. Un verso riguarda la svalutazione della professionalità considerata quantitativamente, cioè come pura “bestializzazione” del lavoratore nei contrasti politico-culturali in miniera. L’altro versante concerne le produzioni di insicurezze nei rischi minerari che l’accelerazione dei ritmi produttivi determinava a scapito dell’attenzione precauzionale. Le interviste a Quirino Melis, a Vincenzo Cutaia, a Delfino Zara, minatori di Carbonia, proiettate nel Museo della Grande Miniera di Serbariu, documentano l’eccezionale valore culturale di carattere universale dei minatori locali come produttori di sicurezze vitali nell’autonomo governo dei cottimi. La produzione materiale di spazi e tempi di lavoro sicuri in miniera da parte dei minatori di Carbonia ha una precisa temporalità storica, come abbiamo visto. Tuttavia, tale produzione di sicurezze vitali permane nel presente non tanto come memoria inerte, ma piuttosto come lascito culturale che può alimentare e orientare nuove risposte in vari rischi di vita del nostro presente. Si tratta di una pagina bianca per una nuova temporalità culturale mineraria, possibile e tutta da scrivere.

In questo quadro la produzione di vita lavorativa sicura è determinata dal farsi buon minatore e, pedagogicamente, dal lavoratore come agente di sicuro lavoro ragionato e pertanto maestro di vita. Successivamente un ruolo fondamentale ha avuto l’ingresso più recente di alcune donne in miniera nel 1980 come aiuto minatrici e nel 2006 con mansioni specifiche di addette alla sicurezza. Importanti documenti audiovisivi e filmici illustrano questa nuova fase securitaria di speciale importanza per la presenza delle donne nel sottosuolo. Tuttavia, nuovi studi devono essere intrapresi. Andiamo ora a Ribolla, cercando contatti e differenze con le esperienze dei minatori carboniesi, esperienze tragiche e non solo.

3 Ribolla

Il 4 maggio 1954 morirono nel sottosuolo di Ribolla 43 minatori, mentre estraevano carbone. L’esperienza mineraria di Ribolla è stata pensata fin qui con profondo impegno scientifico e democratico. Ciò emerge chiaramente da importanti contributi editi. Il libro di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola I minatori della Maremma, uscito nel 1956 e ristampato nel 2019, illustra bene la forza e la debolezza dei minatori e delle loro organizzazioni nell’impari conflitto per far riconoscere le responsabilità della Montecatini sul piano giuridico in merito alla morte collettiva in miniera. Alla fine del libro compaiono 17 interviste giornalistiche a protagonisti dei fatti di Ribolla. Le interviste sono assai sintetiche in ragione della scarsa loquacità dei minatori. In realtà il metodo dell’intervista giornalistica, in generale, non è quello dell’incontro e del dialogo antropologico in profondità. Tuttavia, un minatore parla della sua partecipazione allo sciopero contro il Bedaux, ragion per cui fu licenziato. Tre minatori risultano provenienti dalla Sardegna. Due, invece, avevano lavorato in miniere sarde ed erano poi tornati a Ribolla. Appaiono notizie importanti sia sul Bedaux e sia su una certa mobilità dei minatori nelle miniere italiane. I minatori sono presenti nel libro collettaneo intitolato Ribolla una miniera, una comunità nel XX secolo. La storia e la tragedia. In quell’opera, pubblicata nel 2005, era esplicitata anche l’esigenza di continuare ad approfondire alcuni problemi, essenzialmente di ordine storico che non richiamo per brevità.

Cercherò di riprendere ancora in mano il tema, caro Giovanni Contini, ch’egli designa come la professionalità dei minatori. Attraverserò il versante del lavoro a cottimo a Ribolla e la sua rilevanza nelle esperienze dei minatori, attraversando i loro scioperi e vedendolo con la lente dell’antropologia della vita quotidiana che poteva alimentare certe configurazioni individuali e sociali, anche identitarie. Per esempio, poteva alimentare il formarsi di figure di minatori maggiormente produttivi e capaci di più alti guadagni, insieme ad altre figure di lavoratori che controllavano maggiormente i rischi e operavano creando sicurezze per sé e per gli altri, mentre maturavano una coscienza critica che alimentava anche gli scioperi.

Consideriamo nel dopoguerra, precisamente nel 1951 e cioè pochi anni prima della tragedia, un momento cruciale a Ribolla fu costituito proprio dalla lotta al cottimo individuale, introdotto dalla Montecatini. A questo i minatori locali contrapponevano il mitigato e unitario cottimo collettivo con un corollario di proprie concezioni democratiche sul valore del lavoro che attraversava l’Europa. In qual contesto, l’elaborazione di una piattaforma rivendicativa su salario e tempi di lavoro, com’è stato notato da Adolfo Pepe (in I. Tognarini – M. Fiorani, Ribolla una miniera, una comunità nel XX secolo. La storia e la tragedia, Firenze, Edizioni Polistampa, 2005:20), fu una rivoluzione antropologica per una redistribuzione democratica dei poteri, prima che l’espressione di una forza contrattuale sindacale. La redistribuzione democratica dei poteri, specialmente dei poteri di vita, fu la cruciale posta in gioco nelle lotte per i cottimi, sia a Carbonia e sia a Ribolla, perché praticare ritmi di lavoro intensificati poteva distrarre i minatori dall’attenzione ai pericoli e ai rischi.

Forse non è stata adeguatamente messa in luce finora la portata dei poteri che a mio avviso riguardavano sia la forza culturale propria della professionalità securitaria di vita condivisa, sia i poteri di vita in campo (e a rischio) in miniera con i cottimi, come biopoteri. Credo che gli studi di Giovanni Contini, assunti in un’ottica prettamente antropologica, aprano un’utile pista di ricerca in questa direzione di grande portata storico-culturale. Illuminando meglio anche le vicende della tragedia di Ribolla come fatti di interesse globale nella piega dei cottimi, possiamo collegarli al tylorismo e al fordismo, visto attraverso le lenti sia di Antonio Gramsci e sia di Michel Foucault: la bestializzazione umana come de-professionalità connessa ai rischi di vita in miniera. Nel doppio attacco della politica aziendale alla professionalità e insieme alla vita è necessario saper vedere, a mio avviso, la portata dello scontro democratico di quegli anni di crisi, subito dopo che il carbone era servito alla ricostruzione post bellica. Spostiamo un attimo lo sguardo sul carbone. Se il carbone come risorsa energetica poteva apparire in quegli anni già insidiato dal petrolio, rimane da chiedersi perché il carbone è rimasto in tale stato di risorsa come mero combustibile e perché non è stato possibile sviluppare progetti alternativi per gli usi chimici del carbone, mentre il monopolio chimico della Montecatini dettava legge sulle scelte economiche nazionali.

Carbonia e Ribolla con i loro morti hanno distanze temporali e geografiche, ma anche qualche prossimità di esperienze democratiche, almeno per le lotte contro i cottimi che andrebbero forse ancora indagate nelle forme di resistenza, di contrasto, di elaborazioni alternative, secondo i periodi, compreso quello di Consigli di Gestione. Spero che rimanga qualche ulteriore scavo da fare nella direzione delle esperienze di conflitto quotidiano, contrastive e alternative ai cottimi che erano materializzate nel sottosuolo dai minatori.

Procedo in fretta, riprendendo le note sulla professionalità che Giovanni Contini colloca in modo obliquo nel lavoro estrattivo delle cave di Marmo mettendo in luce la sapienza empirica dei capi-cava. Sullo stesso piano empirico si situava la capacità sperimentale, un tempo attribuita solo ai dirigenti mentre nelle gerarchie costitutive dell’organizzazione, detta presuntuosamente scientifica, del lavoro minerario si riduceva l’esperienza operaia alla sola dimensione fisico-manuale. Contini, per sottolineare la professionalità operaia cita Raul Rossetti e il suo Schiena di vetro, pubblicato nel 1989. Usa le citazioni per introdurre la visibilità di uno stile personale di “lavoro ben fatto” che poteva essere acquisito osservando gli altri mentre lavoravano e sperimentando in proprio, come traguardo intellettuale, non solo nelle armature. Ho ricevuto, particolarmente a Carbonia, racconti importanti. Riguardavano, oltre che l’importanza delle armature prodotte e degli stessi disgaggi di rimozione dei pericoli, specialmente le progettazioni delle volate che tenevano conto della variabilità della roccia. Sui saper fare dei minatori che erano realizzazioni di alta professionalità, e anche di alto saper vivere condiviso, ho ricevuto importanti racconti di lavoro e di vita nelle miniere carbonifere.

Contini parla di un’autonomia lavorativa raggiunta dal minatore e ad esso riconosciuta. Io ho raccolto testimonianze di relazioni assai conflittuali per giungere a tali riconoscimenti di autonomia da parte dell’Azienda contro la bestializzazione dei cottimi. Il “bravo minatore” di Carbonia, riconosciuto dai compagni di lavoro anche come maestro, era capace di produrre accuratamente vita per sé e per gli altri. Era quindi capace di produrre spazio e futuro condiviso. Sulla produzione di tempo di vita condivisa come produzione di futuro condiviso bisogna meditare ancora e assai profondamente, perché a mio avviso tale esperienza mineraria costituisce un lascito culturale di viva attualità nei vari rischi vitali del presente. Egli sottolinea giustamente la conoscenza complessiva della miniera da parte dei minatori, conoscenza che permetteva di cogliere gli indizi di pericolo. Tuttavia, egli tiene opportunamente in conto anche l’imprevedibilità dell’ambiente minerario. Per questo aspetto ho appreso dai minatori incontrati che le variabilità della roccia non consentono saperi algoritmizzati, ma un continuo problem solving inventivo, una capacità creativa di trasformare, di volta in volta, i problemi che la roccia impone nei rischi, facendoli diventare opportunità di cambiamento positivo di vita e di futuro condiviso.
Alla luce di un nuovo e doppio sguardo storico e antropologico, multisituato nelle miniere carbonifere di Ribolla e Carbonia, cosa unisce i due centri minerari, oltre le morti collettive e individuali?

Pensieri ravvicinati fra Carbonia e Ribolla

A mio avviso, dobbiamo saper guardare alla carne viva delle loro lotte contro i cottimi come lotte non solo salariali e professionali, ma specialmente per i diritti alla vita e per la produzione di futuro e di spazio democraticamente condiviso. In questa attuale luce Ribolla offre il profilo collettivo degli scioperi, mentre Carbonia porge anche il lato singolare del farsi autonomi in quotidiani conflitti di ogni “bravo minatore”, di un minatore nel farsi soggetto di eccellente professionalità per dare sicurezze di vita a sé stesso e agli altri. Oltre gli scioperi e gli eccidi collettivi come fatti collettivi ed eccezionali, mi pare necessario guardare pertanto in modo complementare anche alle esperienze singolari con le lenti di un’antropologia mineraria della vita lavorativa quotidiana. Insisto nell’incoraggiare gli studi sui mondi minerari quotidiani perché riscontriamo che, nel corso dei 50 anni di studi che hanno alimentato l’antropologia mineraria, si può registrare un ampliamento di ricerche dal lavoro all’impresa mineraria con direttori ed esperti. Tuttavia, l’indagine sulle esperienze della vita quotidiane è ancora considerata imprescindibile per non pochi antropologi e antropologhe.

Il lascito culturale di un’antropologia quotidiana della vita lavorativa mineraria nei rischi e sui rischi, che riguarda i saper fare professionali minerari sicuritari, può essere fatta valere sia come riserva culturale storicamente specifica, sia come paradigma opportunamente declinabile e trasferibile, di autentico saper vivere in condizioni di rischio di vita, non solo subito ma anche governato e governabile perfino in condizioni di estrema sottomissione. Si tratta di produzioni di sicurezze vitali democratiche che toccano il nostro presente.

Questo è il lascito che l’antropologia mineraria o delle risorse estrattive dona all’’antropologia generale, alla storia sociale come alla storia culturale, non solo locale, della nostra contemporaneità. Tale lascito culturale del saper produrre tempi e spazi di vita democraticamente condivisi, apre le miniere chiuse ad una nuova temporalità culturale e antropologica. Si tratta di un lascito non tanto di memoria, ma soprattutto di progetto: come incitamento per elaborare, individualmente e in gruppi, inedite soluzioni per innovativi modi di lavoro e di vita sicuri, di fronte a vecchi e a nuovi problemi ostacolanti le vite, naturali e umane, cioè per produrre, a partire dalle miniere chiuse, innovativi progetti di vite e futuri democraticamente condivisi.

Nell’auspicio che i nostri pensieri che avvicinano Carbonia e Ribolla facciano crescere speciali qualità di iniziative che ravvicinano ancor più e ancor meglio sia associazioni culturali e sia istituzioni locali democratiche vi porgo un affettuosissimo abbraccio.

Cagliari 17 maggio 2024

Paola Atzeni

Volge al termine l’ottava edizione del Cooking Quiz, il Concorso Didattico Nazionale che coinvolge le classi quarte gli Istituti Alberghieri d’Italia, nato per coniugare formazione e divertimento e che si concluderà con la Finale Nazionale prevista mercoledì 22 maggio alle 10:30 al Teatro Olimpico di Roma.

35.000 gli studenti coinvolti nel concorso didattico che si è svolto, per il secondo anno, in due versioni: il “Cooking Quiz in presenza” con lezioni presso gli istituti scolastici coinvolti tenute dai formatori di Peaktime, dagli esperti di ALMA, La Scuola Internazionale di Cucina Italiana, e dagli Chef di FIC (Federazione Italiana Cuochi) e il “Cooking Quiz digital” caratterizzato da collegamenti digitali con le Scuole, che hanno potuto giocare e assistere a distanza alle prestigiose lezioni.

Nel corso del road show, ai ragazzi sono state trasferite nozioni e informazioni importanti con l’obiettivo di verificarne poi il grado di apprendimento attraverso la gamification. Dopo una prima parte di formazione strettamente legata alle materie di studio dei ragazzi, proposta dagli esperti del Comitato Scientifico del Cooking Quiz e una parte “etica” presentata dai formatori Alvin Crescini e Daniela Rinaldi con approfondimenti e focus su tematiche come sana e corretta alimentazione, valorizzazione delle eccellenze eno-gastronomiche del territorio, lotta allo spreco alimentare e corrette modalità di raccolta differenziata, nella seconda fase, quella di verifica, gli studenti si sono sfidati all’interno della propria scuola proprio per decretare le migliori classi che voleranno a Roma in vista dell’evento finale.

Il tour ha raggiunto le studentesse e gli studenti degli istituti della provincia di Sud Sardegna con ottimi risultati. Gli alunni della classe 4B Sala-vendita dell’IPIA “E. Loi” di Sant’Antioco si “sfideranno” a Roma con le classi finaliste provenienti da tutta Italia per decretare i CAMPIONI NAZIONALI DEL COOKING QUIZ 2024 per gli indirizzi “ENOGASTRONOMIA” – “SALA-VENDITA” e “ARTE BIANCA”. La scuola è campione in carica: è infatti la terza classificata per l’indirizzo Enogastronomia dell’edizione 2023.

All’evento finale al Teatro Olimpico ad accogliere i ragazzi ci saranno gli Chef della N.I.C. (Nazionale Italiana Cuochi) accompagnati dal Presidente F.I.C. (Federazione Italiana Cuochi) Rocco Pozzulo. In più, l’ospite ALMA di quest’anno strizzerà l’occhio al giovane pubblico in platea, con la presenza della FEA – Freestyle Elite Agency, collettivo che racchiude i migliori rap freestyler nazionali in attività, che si esibiranno in una show dedicato ai temi del concorso.

Anche in questa edizione uno spazio di fondamentale importanza è stato riservato al corretto riciclo degli imballaggi principalmente utilizzati in cucina grazie alla collaborazione dei Consorzi Nazionali per la raccolta, il riciclo e il recupero degli imballaggi BIOREPACK, CIAL, COMIECO, COREPLA, COREVE e RICREA. I Consorzi Nazionali partecipanti al Cooking Quiz garantiscono l’avvio al riciclo degli imballaggi, promuovendo un notevole risparmio di materia ed energia e posizionando il nostro Paese come un esempio virtuoso a livello globale.

 

L’Italia conta, dal primo gennaio 2024, 58 milioni di abitanti. I nati del 2023 sono stati 379.000. Appena 8 anni fa furono 473.000 (quasi 100mila in più). Il Sulcis Iglesiente che due anni fa aveva 119.000 abitanti, ne ha perso il 2% l’anno; dovrebbe essere oggi intorno ai 117mila. Fra 15 anni la nostra popolazione provinciale scenderà a 100.000 abitanti e sarà composta prevalentemente da ultra-sessantacinquenni. Vi saranno pochissimi bambini e pochi adulti in età lavorativa e, fra 40 anni, la Sardegna sarà severamente spopolata. Un cambiamento regressivo del genere non avverrà in Germania, Francia, Spagna, Svizzera, Nord Europa, Inghilterra e Stati Uniti. Avverrà solo da noi in tutto il mondo occidentale.

La regressione avverrà in modo limitato nel Nord Italia, dove esiste un rapporto di quasi due bambini per coppia; avverrà un po’ di più nel Centro Italia e Sud, dove nascono 1,2 bambini per coppia; sarà grave in Sardegna, con la nascita di 0,9 bambini per coppia; sarà molto grave nel Sulcis Iglesiente dove nascono 0,8 bambini per coppia. Sembra incredibile che il Sulcis possa perdere tanti abitanti, eppure è un fenomeno già visto in altre specie animali familiari.

Fino al 1970 sembrava impossibile che potessero scomparire le rondini ma da allora iniziò un progressivo calo dei loro arrivi. Gli studiosi scoprirono che la riduzione del numero delle rondini era dovuto ad un calo della fertilità dei maschi. Il fatto venne attribuito all’aumento della radioattività terrestre, conseguente ai numerosi esperimenti nucleari nel deserto africano. Nonostante l’avvio degli accordi per la cessazione degli esperimenti nucleari, la fertilità delle rondini peggiorò; allora si scoprì che le rondini stavano ulteriormente perdendo fertilità anche a causa dei prodotti chimici ampiamente utilizzati in agricoltura. Oggi le rondini sono una rarità. Il fenomeno dell’inquinamento ambientale tossico per l’uomo divenne chiaro per la prima volta nel 1915, con  l’impiego del gas “Iprite” da parte dei tedeschi durante la prima guerra mondiale. Un inquinamento ambientale massivo avvenne in Sardegna nel 1950, quando fu avviata  la grande operazione Rockfeller, con l’impiego di agenti chimici per eradicare la malaria. Per estinguere la zanzara anofele, la Sardegna venne irrorata con quantità colossali dell’insetticida DDT. La malaria venne eradicata ma il DDT inquinò la terra, le acque e l’ambiente vegetale; le quantità di DDT che arrivarono al mare attraverso lo scolo delle acque piovane fu talmente grande che ne arrivò perfino al polo Nord. Si rinvenne l’insetticida anche nel grasso delle foche e degli orsi bianchi che si nutrivano di pesci che rientravano dal Mediterraneo dopo avervi deposto le uova. Contemporaneamente iniziò a diminuire la fertilità dei maschi umani. Gli scienziati scoprirono poi che il DDT ingerito con gli alimenti possiede sull’uomo un effetto antiandrogeno, cioè blocca il sistema ormonale delle ghiandole della fertilità. Successivamente, si scoprì che anche gli anticrittogamici organofosforici dell’agricoltura hanno effetti ormonali femminilizzati per il maschio. Senza saperlo, era stata attuata un’opera di depressione della fertilità maschile attraverso l’inquinamento chimico ambientale. Oltre all’infertilità nelle coppie,  negli stessi decenni del dopoguerra e del “miracolo economico” si iniziò a registrare un aumento dei tumori in generale. L’osservazione corrisponde cronologicamente allo sviluppo delle industrie chimiche, alle estrazioni minerarie e alle industrie di trasformazione metallurgiche, soprattutto dei metalli pesanti. Quei fenomeni patologici evolvettero in parallelo con l’inquinamento ambientale da causa industriale e, come si sa, le vie del passaggio degli inquinanti dalle industrie all’uomo sono infinite.  

Le persone di una certa età ricorderanno che negli anni ‘50-’60 era pericoloso fare un viaggio a Milano indossando una camicia bianca perché il colletto della camicia diventava rapidamente grigio-scuro a causa del deposito di “smog”. Questo termine indica le polveri sottili emesse dai camini delle industrie, commiste all’umidità dell’aria. Milano, la città dei camini industriali perennemente fumanti, attuò un programma di ricollocamento in altra sede delle industrie e dei relativi camini per motivi di salute pubblica. Era contemporaneamente il periodo della crisi delle miniere del Sulcis e dell’Iglesiente. L’esigenza del Nord Italia di liberarsi dall’inquinamento ambientale e l’esigenza di posti di lavoro nel Sud Sardegna imposero alla bussola della politica la direzione da prendersi. Così le industrie vennero portate in Sardegna e nacque il polo industriale più grande e più inquinante d’Italia: quello di Portovesme. L’inquinamento ambientale non era una novità per la nostra provincia, dove da secoli si coltivavano miniere di metalli pesanti e da molti decenni si coltivavano le miniere di carbone Sulcis, portatrici di malattie degenerative, silicosi, tumori, TBC.

I sanitari che hanno lavorato negli ospedali di Carbonia e Iglesias sanno che in questo territorio esistono un numero di tumori e una varietà di malignità istologiche che ha pochi paragoni in Europa. Non se ne conosce il dato statistico certo per la carenza storica di un registro dei tumori locale, pertanto, ciò di cui si tratta riguarda osservazioni dei medici e degli anatomopatologi che si sono confrontati con i tumori del Sulcis Iglesiente dal 1950 ad oggi. Ciò che viene riferito è coerente con le preoccupazioni esplicitate dal Governo nel 1990 nell’atto di dichiarazione del Sulcis come “Area ad alto rischio di crisi ambientale”. Un esempio di patologia molto nota è dato da un particolare tipo di cancro urologico. Si tratta del carcinoma uroteliale che colpisce frequentemente la vescica e raramente il rene. Diversi anni fa una rivista pubblicò che nel Nord Italia quel tipo di cancro colpiva il rene nel 3% di tutti i cancri renali. Confrontando con i dati dell’ospedale Sirai di Carbonia, si scoprì che nella nostra area invece quel tipo di tumore è percentualmente molto più frequente rasentando il 30%, cioè 10 volte tanto che a Milano. 

Considerato che il carcinoma uroteliale è in diretto rapporto con l’inquinamento da causa industriale e ambientale, si comprende quanto maggiore sia stata la nostra esposizione rispetto ai milanesi. Questa esperienza è un’ulteriore conferma del danno ambientale e alla salute che ci pervenne con il ricollocamento delle industrie inquinanti dal Nord Italia al Sud Sardegna.

Il trasferimento di materiali inquinanti da altri luoghi verso il Sulcis non è mai finito. Pochi giorni fa una nave ha scaricato, destinati a Portovesme, 8 containers pieni di “fumi d’acciaieria” con livelli radioattivi oltre i limiti consentiti, fermati ai controlli. Si tratta di materiali di risulta provenienti da fonderie o industrie a noi sconosciute contenenti: mercurio, vanadio, arsenico, berillio, rame, cobalto, cesio, e chissà che altro. In genere la provenienza è dall’Est Europeo. Circa 30 anni fa ad una nave simile venne impedito di scaricare un carico radioattivo formato da “fumi d’acciaieria” che pare provenissero dalla centrale nucleare ucraina di Chernobyl. 

Nella delibera sulla dichiarazione di “ Zona ad alto rischio di crisi ambientale” pubblicata dal ministro dell’Ambiente il 30 novembre 1990, sta scritto che dai camini del polo industriale di Portovesme allora venivano eruttati nei nostri cieli tre tonnellate di polveri ogni ora. Un’enorme quantità di polveri, provenienti dalla lavorazione di materiali inquinanti, pari a 70 tonnellate emesse ogni giorno poi ricadeva sulle case, sulle piante, sui suoli, sulle colture, sui prati dei pascoli, sui corsi d’acqua e in mare. L’erba assorbiva le sostanze tossiche, gli animali al pascolo se ne nutrivano, noi mangiavamo carni e latte di tali animali assumendone le sostanze chimiche incluse. Similmente avveniva con frutta, ortaggi e cereali. Ciò avvenne per 20 anni. Nel mare della laguna di Santa Caterina i mitili oggi sono scomparsi; i piccoli crostacei, i muscoli e i pesci si sono rarefatti. Esiste un’ordinanza che vieta la pesca di arselle e muscoli della laguna a causa dell’alto tasso di metalli pesanti nelle loro polpe. Nonostante la solenne promessa di grandi finanziamenti da parte dallo Stato per disinquinare il nostro ambiente, il danno è ormai perenne e irrisolvibile. L’unico provvedimento assumibile da parte dello Stato è l’impegno alla sorveglianza sanitaria continua della popolazione e alla cura immediata in loco. Purtroppo, però, nonostante l’impegno di salvaguardia della salute preso con noi dal ministero dell’Ambiente nel 1990, oggi sta avvenendo il contrario.

In contrasto con l’evidenza dell’alto rischio patologico che corriamo, stiamo tutti assistendo alla chiusura progressiva dei nostri ospedali, alla sottrazione di personale sanitario, alle lunghe liste d’attesa. Per curarci dobbiamo migrare verso altri territori, spesso, a nostre spese. 

Tale condizione è diventata obbligata  dopo l’avvenuto depotenziamento degli 8 ospedali provinciali delle 8 province sarde (Olbia/Tempio, Sassari, Nuoro, Oristano, Ogliastra, Medio Campidano, Sulcis, Cagliari). Il depotenziamento di 6 Asl è avvenuto per sottrarne le funzioni e accentrarle nell’unica super-ASL di Cagliari. Ciò fu attuato per ridurre le spese di tutta la Sanità sarda e per farlo si creò un’unica ASL sovrana, a Cagliari. Ci eravamo illusi che la democrazia sanitaria realizzata dalla legge 833/78 sarebbe durata nel tempo.

Oggi, dopo aver vissuto l’inefficacia della “Dichiarazione di zona ad alto rischio di crisi ambientale” che avrebbe dovuto garantire la sorveglianza della salute nell’area comprendente i territori di Carbonia, Portoscuso, Gonnesa, San Giovanni Suergiu, Sant’Antioco, stiamo per vedere di peggio: sta avvenendo che tre regioni del Nord Italia ci vogliono tagliare fuori dalle garanzie dell’articolo 116 e 117 della Costituzione che dettero alla Sardegna lo status di “Regione Autonoma Speciale” con il diritto alla protezione economica garantita dal “Fondo Perequativo”. Tale fondo nacque per equipararci, dal punto di vista “strutturale”, alle regioni più dotate nei seguenti campi: Sanità, Istruzione, Trasporti pubblici locali. Quel dettato costituzionale non venne mai realizzato e non risulta a tutt’oggi rispettato. Per quanto riguarda la Sanità del Sulcis Iglesiente, non abbiamo avuto reali miglioramenti rispetto alle strutture ospedaliere del dopoguerra (nel dopoguerra avevamo 750 posti letto ospedalieri tra Carbonia e Iglesias, oggi ne abbiamo molto meno di 300). I trasporti pubblici oggi sono costituiti da una poverissima rete ferroviaria e da trasporti aerei e navali costosi e insufficienti, e con la sostanziale assenza del rispetto del diritto alla “continuità territoriale col continente”. Con la proposta di legge di “Autonomia regionale differenziata” in discussione in Parlamento. potrebbe avvenire il declassamento delle scuole e, soprattutto, delle Università sarde. Se avvenisse un inferiore finanziamento delle nostre Università, i titoli di laurea sardi potrebbero valere molto meno di quelli acquisiti nelle università del Nord Italia. Si capisce cosa avverrebbe ai concorsi tra i candidati sardi e quelli del Nord Italia. Questa legge sull’Autonomia differenziata sta inventando un’anomalia dell’amministrazione dello Stato non prevista dalla Costituzione: sta inventando le “Regioni sovrane” del Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) che non avranno bisogno né del Parlamento per varare leggi né dell’Italia unita per formare un’unica Nazione.

Così va la Storia. Noi sardi nel 1854-56 facemmo la guerra di Crimea per ingraziarci i francesi e ottenere il loro appoggio per liberare il Lombardo Veneto quando era l’estrema periferia del dominio Austroungarico. Poi ci prendemmo le industrie inquinanti del Nord per salvarle dall’inquinamento e cedemmo a quelle industrie la nostra salute in cambio di lavoro. Da quella nostra disponibilità sono poi derivati l’inquinamento, i tumori, lo spopolamento, il mancato rispetto del nostro Statuto e oggi il mancato diritto al “Fondo Perequativo” costituzionale. 

Nel 2024 non abbiamo più i nostri ospedali provinciali, i nostri tribunali, la nostra rete ferroviaria e i porti ad essa afferenti. Fra 40 anni non avremo più la nostra popolazione, estinta a causa di una politica che sta ignorando le regole democratiche della partecipazione popolare e che sta consentendo progetti di sfruttamento delle risorse naturali di questa terra e delle persone che la abitano.

Mario Marroccu

E’ di 4 persone denunciate, centinaia di strumenti illegali di cattura e numerosa selvaggina, il bilancio di un’operazione antibracconaggio nel Sulcis e nel Sarrabus.
Sequestrata anche una micidiale tagliola.
Le due distinte operazioni hanno avuto luogo nelle località Marzaloi in Agro di Uta e Santa Rosa a Capoterra, entrambe nel Parco regionale di Gutturu Mannu.
Il personale della stazione forestale di Uta ha sorpreso in flagranza di reato due individui, pensionati già noti per reati di bracconaggio, intenti a posizionare cavetti d’acciaio per ungulati e, soprattutto, una pericolosissima tagliola. La micidiale trappola era posizionata in un sentiero e finalizzata a catturare grossi ungulati (cervi e cinghiali) cagionando gravi rischi a carico delle presone che transitano in quei luoghi. Una siffatta tagliola, se azionata da un malcapitato escursionista, avrebbe cagionato lesioni gravissime. Il suo potente meccanismo è tale, infatti, da cagionare ferite profonde e la rottura delle ossa.
Nel corso delle successive perquisizioni domiciliari sono stati sequestrati altri strumenti di cattura, nonché selvaggina oggetto di bracconaggio.
In località Conca Arrubia in agro di Villasimius, il personale della stazione forestale di Castiadas ha sorpreso in flagranza due bracconieri, già noti per reati venatori, intenti a posizionare reti per uccellagione. A questi sono state sequestrate 27 reti e 45 tordi, catturati con strumenti illeciti.
Le operazioni, con il concorso delle stazioni forestali di Pula, Teulada, Sinnai e Campuomu, hanno consentito di bonificare vaste aree da strumenti  di cattura illegali e dannosi per la biodiversità, come reti per uccellagione e cavetti per cattura di cervi e cinghiali.
L’intervento si inquadra nei servizi di intensificazione del controlli  nel territorio a tutela in particolare delle specie migratorie impegnate in questo periodo nel  “rientro” dalle zone di svernamento verso le zone di nidificazione nell’Europa continentale.
Il fenomeno infatti non è grave come i decorsi decenni, ma merita un contrasto duraturo ed appropriato.
Il Corpo forestale ha operato con la proficua collaborazione dei volontari dell’associazione tedesca del CABS (COMMITTEE AGAINST BIRD SLAUGHTER).
Se da una parte sono evidenti i segnali che testimoniano il continuo aumento dell’impegno attivo per la tutela della biodiversità della Sardegna, tuttavia il fenomeno dell’uccellagione nel Sud Sardegna non è oggi eradicato, anche perché persone inconsapevoli e insensibili ai valori ambientali e della legalità, ancora oggi alimentano il fenomeno illecito continuando ad acquistare le “grive”.

Ferrero è una delle più grandi industrie dolciarie al mondo e la più grande azienda alimentare italiana, con una visione realmente innovativa e globale, che mette al primo posto i propri prodotti e le proprie personeunendo le capacità artigianali della tradizione alla tecnologia più all’avanguardia. Il Gruppo effettuerà nuove assunzioni, che riguarderanno operai, tecnici, operatori, responsabili e tante altre figure, le quali dovranno avere entusiasmo, curiosità, flessibilità, proattività, capacità di comunicazione, di organizzazione, di negoziazione e interpersonali,attitudine al problem solving e al lavoro di squadra. Gli Operai, che saranno inseriti nei diversi stabilimenti presenti sul territorio nazionale: S. Angelo dei Lombardi (AV), Alba (CN), Caprarola (VT), Pozzuolo Martesana (MI) e Balvano (PZ), dovranno supportare la produzione dello stabilimento, movimentare e scaricare le materie prime in entrata sulle linee di produzione ed occuparsi di tutte le attività di imballaggio ed avere cura e attenzione per i clienti e i prodotti; gli Operatori della Catena di Fornitura dovranno condurre e monitorare gli automatismi dell’impianto supportandone la manutenzione, coordinare le spedizioni dei prodotti finiti in uscita, gestire anomalie e allarmi monitorandone attentamente il funzionamento dell’impianto, creare i report e controllare le performance e il raggiungimento dei dati logistici richiesti; i Tecnici Assemblatori Meccanici dovranno organizzare l’area di lavoro e gestire strumenti e attrezzature, preparare il materiale relativo ad una commessa, assemblare e montare gli impianti industriali, ottimizzare tempi e costi delle attività e compilare database attività di installazione ed avviamento; i Responsabili Progetto IT Consumatori dovranno definire attività, tempistiche e responsabilità per i diversi flussi evidenziando tappe fondamentali e risultati finali, coordinare i flussi di progetto garantendone la corretta attuazione, facilitare la gestione del cambiamento necessaria per passare dal progetto al processo, monitorare lo stato dei lavori in termini di risultati finali e tempistiche, fornire aggiornamenti a tutte le parti interessate, supportare i dipartimenti acquisti e legale e facilitare la gestione del cambiamento. 

Per verificare tutte le figure…

L’articolo completo è consultabuile nel sito: http://diariolavoro.com/ferrero_6.html .

Il 12 maggio, Giornata Internazionale dell’Infermieristica, è stato declinato in chiave provinciale invitando nel nostro Sulcis Iglesiente presso la sede l’assessora della Cultura Ilaria Portas, la sindaca di Villamassargia Debora Porrà, i consiglieri regionali Luca Pizzuto, Gianluigi Rubiu, Alessandro Pilurzu, per approfondire con gli infermieri e le infermiere alcuni contesti che in prospettiva andranno affrontati nel corso della XVII legislatura.

E a proposito di cultura, tema del confronto, il presidente dell’Ordine Graziano Lebiu ha posto l’accento sull’«impegno quotidianamente profuso dalla professione per sviluppare un sistema salute a misura di cittadino, ma soprattutto di “collegare la funzione di cura e assistenza che discende da tale impegno alla dimensione intellettuale e culturale del ruolo” e dell’essere infermiere e infermieri, infermiere pediatriche “sostenuti da un insieme di valori e di saperi scientifici».

Notevoli benefici economici e sociali nel nostro territorio «possono derivare anche per il tramite dell’iniziativa culturale di livello internazionale che rappresenta il Museo Filatelico Infermieristico, unico nel suo genere, a Villamassargia».

«Il Museo meriterebbe più attenzione e collaborazione da parte delle istituzioni regionali, soprattutto per la prospettiva e l’opportunità di entrare nel circuito museale regionale, valore aggiunto per l’intera comunità civica, residenziale e turistica nel Sulcis Iglesiente per tutte le bellezze di cui già dispone.»

La sindaca di Villamassargia Debora Porrà ha richiamato l’attenzione di tutti sulle «potenzialità del Consorzio AUSI di Iglesias Monteponi che può fungere da polo didattico per la formazione post base di I e II ad esempio il Master di Infermieristica di Famiglia e Comunità che nel territorio è una figura fondamentale di cui ASL Sulcis è privo», proseguendo con la proposta «di approfondire tutte le opportunità culturali in un tavolo tecnico ad hoc ed in un territorio che è già di suo un museo a cielo aperto».

L’on. Luca Pizzuto ha auspicato «una collettiva riconversione delle mentalità dell’azione amministrativa anche locale» e ha concordato con la sindaca Debora Porrà che «occorre riprendere la battaglia per la Facoltà di Scienze Infermieristiche nel Sulcis Iglesiente per dare opportunità di un percorso di studio universitario anche a chi non può permetterselo per motivi di grande sofferenza occupazionale».

L’on. Gianluigi Rubiu ha riportato al tavolo di confronto il tema della «qualità della vita delle infermiere e degli infermieri, troppo spesso professione sottoposta ad indebite pressioni sia organizzative interne che sociali esterne per il mal funzionamento della sanità nel suo complesso, per l’arrancare della medicina di prossimità, e per il persistere di un qualche dualismo tra Iglesias e Carbonia conseguente anche all’imposta unificazione di realtà sanitarie diverse e complesse per storia e conformazione geografica».

Per l’on. Alessandro Pilurzu, intervenuto da remoto, «la cultura non solo arricchisce le nostre vite, ma può anche catalizzare la crescita economica, creando opportunità per il nostro territorio e attrarre investimenti che favoriscano la sostenibilità della nostra comunità. La cultura è il motore anche del progresso sociale. Investire in essa è investire nel futuro della Sardegna e del Sulcis Iglesiente».

Ha chiuso i lavori Ilaria Portas, assessora regionale della Cultura e della Pubblica Istruzione. «La parola d’ordine territorio significa che nessuno dei 377 comuni della Sardegna e i 23 del Sulcis Iglesiente in materia di Cultura deve essere considerata periferia e nessuna comunità civica deve restare indietro e sentirsi politicamente isolata. La formazione assume un punto fermo in una stagione nuova e con importanti inversioni di tendenza, ad iniziare dal mondo accademico che guarda con interesse ad un’Università diffusa nel Sulcis Iglesiente e una logica e conseguente reale prospettiva di riscatto sociale ed economico. Più sedi periferiche, più opportunità di studio per molti e per chi non ha disponibilità. Il Museo Filatelico ha tutte le carte in regola per perfezionare le pratiche di inserimento nel circuito museale sardo e l’Assessorato sin d’ora è disponibile a collaborare per valutare i requisiti minimi e i parametri ministeriali per diventare una realtà culturale di tutto rispetto. Turismo e cultura, politica ed infermieristica possono viaggiare in direzioni convergenti.»

La giornata si è conclusa con la visita delle autorità al Museo Filatelico Infermieristico.

 

Anche quest’anno, il 1° Maggio, a Cagliari, la Festa di Sant’Efisio ha trasformato la città nel luogo dove si incontrano la fede, le tradizioni e i colori dell’Isola, in un unicum di impareggiabile bellezza, sempre attesissimo e seguito dall’intera comunità sarda e ovunque nel mondo, con grande partecipazione ed affetto.

Il servizio di Alessandro Cantone.

La Natzionale sarda parteciperà alla Corsica Cup dal 22 al 25 maggio 2024, con la nazionale siciliana, la Corsica e la rappresentativa di Saint-Martin.

Il tecnico della Natzionale sarda, Vittorio Pusceddu, ha convocato i seguenti 20 calciatori, tra i quali ci sono 2 dell’Iglesias, 2 del Carbonia, 1 della Verde Isola.

Oltre ai 2 convocati che attualmente vestono la maglia biancoblù (Porcheddu e Dore), tra i convocati ci sono ben 5 ex del Carbonia (Werther Carboni, Matteo Saias, Fabio Porru, Alberto Piras, Alessandro Aloia).

Portieri;

Werther Carboni (Sassari Calcio Latte Dolce)

Gabriele Mereu (Tharros)

Difensori:

Francesco Canu (Sassari Calcio Latte Dolce)

Matteo Saias (Kosmoto Monastir)

Luca Melis (Ghilarza)

Andrea Congiu (Orvietana)

Fabio Porru (Iglesias)

Alessio Fadda (Atletico Uri)

Centrocampisti:

Alberto Piras (Kosmoto Monastir)

Francesco Bianco (Macomerese)

Gianluigi Illario (Iglesias)

Andrea Porcheddu (Carbonia)

Giovanni Piga (Sassari Calcio Latte Dolce)

Giovanni Boi (Verde Isola)

Andrea Manca (Villasimius)

Daniele Orro (Ghilarza)

Sandro Scioni (Ferrini)

Attaccanti:

Alessandro Aloia (Costa Orientale Sarda)

Alessio Virdis (Tempio)

Gabriele Dore (Carbonia)

Il calendario.

Semifinali:

22 maggio ore 19.00 a Corte (Stadio Santos-Manfredi): Corsica-Sardegna

23 maggio ore 19.00 a Corte (Stadio Santos-Manfredi): Sicilia-Saint-Martin

Finali:

25 maggio ore 14.30 ad Afa (Stadio Municipal d’Afa): Finale terzo/quarto posto.

25 maggio ore 19.30 ad Ajaccio (Stadio Mezzavia Ange Casanova): Finalissima.

E’ ufficiale: l’11 maggio è divenuta la “Giornata Identitaria Iglesiente”. In memoria dell’eccidio dell’11 maggio 1920 il Consiglio comunale, riunito in seduta straordinaria nello stesso giorno ma dell’anno 2024, con atto solenne ha votato, all’unanimità, l’importante riconoscimento. Una celebrazione delle vittime e degli altri minatori di quella tragica giornata, passata alla storia, che con coraggio, spinti dalla disperazione, affrontarono le guardie regie nel tentativo di chiedere aiuto per condizioni di vita migliori. “Un movimento dei minatori della Sardegna, come ha ricordato Fausto Durante, segretario generale della Cgil Sardegna, presente alla proclamazione, che ha creato le condizioni, nel 1904, per indire il primo sciopero generale”. Presenti alla proclamazione, in un’aula gremita di figuranti, anche i sindaci della Valle Anzasca, nella Val d’Ossola, con cui Iglesias, dal 2016, è gemellata, oltre diversi sindaci del territorio.

La proclamazione della Giornata Identitaria Iglesiente da parte del Consiglio comunale segue la rievocazione storica di quel tragico 11 maggio 1920 per la quale, quest’anno, il Centro storico di Iglesias, con i suoi abitanti, hanno riportato indietro le lancette della storia a quei giorni inquieti e tragici grazie all’impegno dei ragazzi e ragazze dell’associazione “11 maggio 1920” e del loro pigmalione, prof. Gianni Persico, che per anni, con i colleghi e gli alunni della scuola primaria e secondaria dell’Istituto Comprensivo Eleonora D’Arborea, veri artisti in erba, ha riproposto una pagina tragica della nostra storia cittadina.  

La rievocazione storica.

Come un immenso set cinematografico le stradine e le piazze del cuore della città si sono popolate, di buon ora, di centinaia di donne, bambini e uomini vestiti con gli abiti dell’epoca, portati in modo dignitoso ed impeccabile, intenti nelle attività quotidiane, tra notabili e proprietari terrieri con le loro signore, intellettuali, artigiani e commercianti, tanti bimbi giocosi ignari della drammaticità della situazione che occorreva e poi loro, le donne, madri, mogli e fidanzate, veri pilastri familiari, di quegli uomini di miniera che lottavano da anni per avere condizioni di vita e di lavoro migliori per essi e per le loro famiglie, condannati ad una realtà che poche alternative offriva. 

Marcello Serra ha scritto: «…potrebbe dirsi che la storia della Sardegna si identifica sostanzialmente con quella delle sue miniere». Carlo Levi le miniere di Iglesias le descriveva così: «…A Monteponi è quasi notte, la valle stretta è piena di un rumore notturno di macchine, ripercosso dalle pareti dei monti; il cielo è sparso dei fumi che salgono dalle miniere, dalle rosse montagne di detriti, fino al brillare dei lumi lontani di San Giovanni, quando riempiono le strade, tornando dal lavoro, verso Iglesias, stormi di operai in bicicletta…una più antica storia di lavoro umano è condensata e compresa in queste miniere, che furono già cartaginesi e romane e pisane, abbandonate e riaperte tante volte, ricchissime di vicende…»

La storia. 

La sera del 10 maggio 1920 i minatori di Monteponi decisero, vista l’intransigenza a trattare da parte della direzione della miniera, che l’indomani avrebbero scioperato per rivendicare il pagamento, negato, di una mezza giornata persa nei giorni precedenti, per protestare contro l’aumento del prezzo del pane. Il preludio è stato raccontato magistralmente, in un’atmosfera di grande commozione, la sera del 10 maggio, nella piazza Municipio, attraverso le voci narranti di Gianni Persico, Grazia Villani e Fabrizio Congia. Ha chiuso la serata il coro Concordia Villae Ecclesiae. 

L’indomani, 11 maggio, circa duemila minatori, provenienti da Campo Pisano, San Giovanni e Monteponi marciarono verso il Municipio, arrabbiati ma fiduciosi di ottenere soddisfazione alle loro giustificate richieste chiedendo aiuto e sostegno al sindaco Angelo Corsi. Con loro anche il vice direttore della miniera di Monteponi, ing. Andrea Binetti, obbligato dai minatori ad accompagnarli. Al loro arrivo, tra la via Satta e la piazza del Comune, però, trovarono un folto schieramento di guardie regie con l’ordine di fermare il corteo. Lo scontro fu inevitabile e tutto si compì in pochi istanti: i suoni degli spari dei moschetti delle guardie risuonarono in tutte le strade del centro, superando le urla dei minatori che tentarono di mettersi in salvo. Seguirono pochi istanti di irreale silenzio, poi la realtà si palesò in tutta la sua drammaticità: una trentina di operai furono feriti dai colpi esplosi dalle guardie, di questi 5 morirono subito, altri due a distanza di alcuni giorni per le ferite riportate. Loro erano: Raffaele Serrau, 23 anni, Pietro Castangia, 18 anni, Emanuele Cocco, 37 anni e Attilio Orrù, 40 anni, tutti di Iglesias, Salvatore Meles, cinquantenne, di Bonarcado, Efisio Madeddu, 40 anni di Villaputzu e Vittorio Collu, 18 anni, di Sarroch. 

Erano trascorse da poco le 10.00 del mattino. Le urla delle donne e la disperazione dei compagni di lavoro sono state riproposte, dinnanzi a centinaia di persone, in un clima di autentico dolore e commozione, dai figuranti, cittadini comuni, che con la loro attenta e profonda partecipazione hanno permesso che questa tragica pagina di storia continui ad essere ricordata. La rievocazione storica si è conclusa, come sempre, con il corteo dei figuranti e delle autorità, preceduti dai bravi musicisti della banda Verdi, verso il cimitero dove è stata deposta una corona d’alloro sulla lapide dei caduti, tra i canti del Coro di Iglesias

Per i membri dell’associazione promotrice «questo rappresenta l’anno zero. Contiamo di far crescere, negli anni, questa rievocazione perché diventi un monito contro le ingiustizie nel mondo del lavoro. Ringraziamo l’amministrazione comunale per il sostegno e per l’importante riconoscimento con l’istituzione della giornata identitaria e le diverse associazioni cittadine che ci hanno supportato. Ma soprattutto ringraziamo le centinaia di concittadine e concittadini che hanno risposto al nostro invito e che hanno permesso, con la loro sentita e commovente partecipazione, la grande riuscita della manifestazione dimostrando uno straordinario senso di appartenenza alla città e ai suoi valori». 

Per il sindaco Mauro Usai: «Quella di oggi, per la città di Iglesias e per tutta la nostra comunità, è una giornata storica. Tutti uniti nella memoria di una giornata tragica, che ha creato un solco profondo, un prima e un dopo, nella storia della lotta dei lavoratori e delle lavoratrici di miniera, destinato a rimanere impresso nella nostra identità. Vogliamo ricordare i caduti dell’11 maggio e tutte le vittime che hanno sacrificato la propria vita per chiedere condizioni di vita e di lavoro migliori. Perché questa data deve diventare il simbolo della nostra identità costruita sui valori della democrazia, del lavoro e della giustizia sociale».

Un patrimonio enorme, un lascito ereditario materiale e immateriale, che per il sindaco «assume un valore ancora più rilevante per il recupero di quei luoghi da riscoprire e da rilanciare, ma anche un capitale umano figlio delle competenze di tante persone che portano avanti la memoria e la consegnano in dote ad un futuro da costruire insieme».

Carlo Martinelli