La storia della Chiesa è segnata da vicende che spesso hanno intrecciato il sacro col profano, la politica con la teologia, la verità con la menzogna. Tra queste spiccano due casi emblematici, separati da oltre quattro secoli ma accomunati dalla dinamica di accuse sospette, mirate a ostacolare potenziali candidati al soglio pontificio: il cardinale Giovanni Gerolamo Morone nel XVI secolo e il cardinale Giovanni Angelo Becciu ai giorni nostri. Entrambi i prelati si sono trovati al centro di processi controversi che sollevano interrogativi sul potere, la trasparenza e la giustizia all’interno della Chiesa.
Il caso Morone: l’eresia come arma politica al tempo dell’Inquisizione
Il cardinale Giovanni Morone (1509-1580) fu un diplomatico di spicco e un protagonista del difficile dialogo con i protestanti durante la Riforma. Servì diversi papi, svolgendo un ruolo importante nel Concilio di Trento; la sua carriera però fu bruscamente interrotta dall’elezione del papa Paolo IV (Pietro Carafa), figura intransigente e ostile alle aperture di Morone.
Già prima di salire al soglio pontificio, quando era capo dell’Inquisizione romana, Paolo IV aveva avviato indagini contro Morone, ufficialmente per sospetti di eresia, ma in realtà per neutralizzare un rivale nella corsa al papato, a cui aspirava. Una volta eletto, Paolo IV lo accusò formalmente di aderire alla dottrina luterana della «salvezza per fede», condannata dal Concilio di Trento nel 1547, e dette l’ordine al cardinale «nepote» Carlo Carafa di farlo arrestare e imprigionare a Castel Sant’Angelo. L’ordine fu eseguito il 31 maggio 1557.
Dopo l’arresto del Morone, Paolo IV affidò la conduzione del processo contro di lui a una commissione di cardinali presieduta dal nuovo capo dell’Inquisizione romana, Antonio Ghislieri, la quale ne dichiarò però l’ortodossia. Ciononostante, Paolo IV continuò a considerarlo sospetto, offrendogli una grazia che egli rifiutò, preferendo difendersi con una dettagliata memoria in cui confutava tutte le accuse rivoltegli e dichiarava la propria innocenza. Restò perciò prigioniero a Castel Sant’Angelo fino alla morte del pontefice, avvenuta il 18 agosto 1559.
Per scongiurare un’eventuale futura elezione a papa del Morone, Paolo IV, prima della sua morte, emanò la bolla «Cum ex apostolatus officio» del 15 febbraio 1559, che sanciva l’ineleggibilità al soglio pontificio di chiunque fosse stato sospettato di eresia.
Dopo la morte di Paolo IV, i cardinali presenti a Roma decisero, con la maggioranza di 13 voti su 25, di liberare il Morone e di ammetterlo al conclave, che si tenne dal 5 settembre al 25 dicembre 1559, nel quale risultò eletto il cardinale Giovanni Angelo Medici, che prese il nome di Pio IV. Il nuovo pontefice impresse una brusca svolta alla politica del suo predecessore, facendo arrestare e processare il cardinale Carlo Carafa, che fu condannato a morte per omicidi, malversazioni e abusi vari nonché per eresia con sentenza del 4 marzo 1560, eseguita il giorno successivo tramite strangolamento. Contemporaneamente Pio IV impose una rapida conclusione del processo contro il Morone, che fu assolto da ogni imputazione, con sentenza del 6 marzo 1560, sottoscritta personalmente dal cardinale Ghislieri per volontà del papa, affinché questi restasse vincolato alla stessa anche in futuro.
Nonostante la riabilitazione, le ombre del passato preclusero però al Morone la possibilità di diventare papa. Nel conclave tenuto dopo la morte di Pio IV per l’elezione del nuovo pontefice, uno dei maggiori favoriti risultò, a un certo punto, il cardinale Morone che stava per essere eletto per acclamazione. Alla sua elezione, però, si oppose il cardinale Ghislieri che lo aveva fatto incarcerare e lo aveva inquisito per eresia ai tempi del pontificato di Paolo IV. Ghislieri fece presente che non era opportuno elevare al soglio pontificio un cardinale che era stato sospettato di eresia e la cui innocenza, sebbene fosse stato assolto, non era stata del tutto provata, come risultava dagli atti del processo ancora in suo possesso. Con questa manovra riuscì a sventare l’elezione del cardinale Morone, che considerava suo avversario, e a favorire quella propria, che avvenne il 17 gennaio 1556, consentendogli di ascendere al soglio pontificio col nome di Pio V. Ancora una volta, un’accusa senza fondamento solido si rivelava un’arma per sventare l’ascesa di un avversario.
Seguendo le orme di Paolo IV, Pio V condusse una lotta senza quartiere contro quella che definiva la «peste dell’eresia», ritenendo che essa avesse contaminato persino i vertici della Chiesa, come dimostrava, a suo dire, il caso del cardinale Morone. Sebbene l’ortodossia di Morone fosse già stata accertata, Pio V riaprì le indagini contro di lui, intenzionato a farne un esempio per dissuadere ogni possibile deviazione dottrinale tra i massimi esponenti ecclesiastici.
Un episodio cruciale della lotta antiereticale di Pio V fu il processo contro Pietro Carnesecchi – ex segretario di Clemente VII e amico del Morone – che venne condannato a morte per eresia.
Durante gli interrogatori, Pio V offrì a Carnesecchi la possibilità di avere salva la vita, a patto che fornisse prove incriminanti contro Morone. Carnesecchi, tuttavia, scelse la via del martirio, dichiarando fino alla fine della sua vita l’ortodossia del cardinale. Il 1° ottobre 1567, egli fu giustiziato in modo brutale a Castel Sant’Angelo: non essendosi staccata la testa dal collo al colpo della mannaia, il boia dovette completare la decapitazione con una spada, e il corpo venne poi bruciato lentamente su un rogo ostacolato dalla pioggia. Le sue ceneri furono probabilmente gettate nel Tevere. Lo stesso giorno, Pio V convocò i cardinali in Vaticano – che poteva essere raggiunto solo passando per Castel Sant’Angelo – obbligandoli a contemplare il macabro spettacolo del corpo carbonizzato di Carnesecchi, un monito severo contro l’eresia. Il cardinale Morone, però, evitò di presenziare al concistoro, scegliendo di rimanere fuori Roma per non assistere alla tragica fine del suo amico.
Solo con la morte di Pio V e l’elezione di Gregorio XIII nel 1572, il cardinale Morone vide riconosciuta pienamente la sua innocenza. Riabilitato, tornò a ricoprire un ruolo di rilievo nella diplomazia della Santa Sede, confermando la sua fedeltà alla Chiesa nonostante le dure prove subite.
Il caso Becciu: la corruzione come arma politica contemporanea
Il cardinale Angelo Becciu, nato nel 1948, ha ricoperto ruoli di primo piano nella Curia romana, incluso quello di Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Tuttavia nel 2020 è stato accusato di peculato e truffa aggravata. A differenza del cardinale Morone, Becciu non è stato incarcerato, ma è stato destituito dai diritti connessi al cardinalato con un provvedimento controverso che ha suscitato clamore e sconcerto. La destituzione di Becciu, presentata come «rinuncia», è avvenuta con modalità che richiamano più il potere assoluto di un monarca medievale che le garanzie di un sistema giuridico moderno.
Le accuse contro Becciu riguardano presunti favori economici concessi ai propri familiari e irregolarità nella gestione dei fondi vaticani. Il processo che lo coinvolge è stato segnato da un’opacità che ha alimentato dubbi sulla trasparenza della giustizia vaticana. Anche in questo caso, il contesto suggerisce che le accuse siano strumentali a dinamiche di potere interne alla Curia. Il Vaticano, infatti, oggi come ieri, è teatro di lotte intestine tra fazioni opposte, e il caso Becciu è un esempio di giustizia piegata a fini politici.
Secondo la sentenza del tribunale vaticano, emessa il 16 dicembre 2023, il cardinale Becciu avrebbe commesso due peculati e una truffa aggravata. Il primo peculato sarebbe consistito nella sottrazione alla Santa Sede della somma di 200.500.000 dollari USA a favore del finanziere Raffaele Mincione ed altri, con la motivazione dell’acquisto di un palazzo sito in Londra, 60 Sloane Avenue, che sarebbe risultato vantaggioso per le finanze vaticane. Il secondo peculato si sarebbe concretizzato con l’appropriazione della somma di 125.000 euro per trasferirla al fratello Antonino, con l’intermediazione della Caritas della diocesi di Ozieri. La truffa aggravata sarebbe consistita nell’erogazione della somma di oltre 570.000 euro, sottratta alle casse della Segreteria di Stato, alla signora Cecilia Marogna con la motivazione che fosse destinata alla liberazione di una suora sequestrata in Mali, mentre in realtà serviva per le spese personali della stessa. Becciu è stato condannato perciò a cinque anni e sei mesi di reclusione, a una multa di 8.000 euro e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Dagli atti del processo però emerge un paradosso perché risulta che non ha trattenuto per sé neppure un euro. Come hanno dimostrato i suoi difensori nel corso del processo, Becciu non ha commesso alcun peculato né alcuna truffa, perché nel caso specifico mancano sia l’elemento oggettivo che soggettivo dei reati. Il peculato consiste nell’appropriarsi a proprio vantaggio o di altri di una somma di denaro o di altro bene della pubblica amministrazione in modo doloso, cioè con la consapevolezza e l’intento di arrecare ad essa un danno per trarne un profitto illecito per sé o per altri. Ebbene, dal processo non è emersa alcuna prova che Becciu abbia agito per procurare a sé, a Mincione e al proprio fratello un profitto illecito a danno della Santa Sede. In relazione al reato di truffa, va osservato che, se esso fosse stato commesso, Becciu avrebbe assunto il ruolo del truffato e non del truffatore. Le somme versate alla signora Marogna erano infatti destinate alla liberazione di una suora sequestrata. Eventuali utilizzi impropri di tali fondi per scopi personali, avvenuti all’insaputa di Becciu, non possono in alcun modo essere a lui imputati. Dal processo è emerso che le azioni di Becciu non erano finalizzate al perseguimento di interessi personali o privati, ma solo ed esclusivamente alla realizzazione degli obiettivi istituzionali della Santa Sede: nel primo caso, un investimento; nel secondo, un’iniziativa caritativa.
La sentenza che ha condannato Becciu solleva seri dubbi sulla correttezza del processo e sulla imparzialità del sistema giudiziario vaticano, dal punto di vista sia procedurale che sostanziale, perché le regole sono state cambiate in senso sfavorevole all’imputato mentre il processo era in corso e la condanna è stata basata sull’interpretazione arbitraria ed estensiva dell’articolo 1284 del Codice di Diritto Canonico che non configura un reato penale, ma ha una valenza solo civile.
Questa decisione risuona come un duro colpo per l’immagine del cardinale e del Vaticano.
Ciò che desta particolare stupore, in questa vicenda, è il silenzio mantenuto da papa Francesco. La domanda che sorge spontanea è se il Pontefice desideri che il cardinale Becciu sia assolto o condannato. In qualità di diretto superiore del cardinale e garante ultimo delle decisioni amministrative e operative compiute sotto il suo pontificato, papa Francesco è probabilmente l’unico in grado di conoscere a fondo l’operato di Becciu. Non si può escludere che sia stato proprio l’aver eseguito fedelmente i suoi ordini a renderlo oggetto di ostilità e trame interne al Vaticano. La questione solleva interrogativi sulla possibilità che il papa intervenga per correggere un evidente errore giudiziario. Papa Francesco troverà il coraggio di ristabilire la giustizia o il cardinale Becciu dovrà attendere la sua morte per vedere riconosciuta la propria innocenza, come avvenne per il cardinale Morone, che fu riconosciuto innocente solo dopo la morte di Paolo IV?
Parallelismo tra due vicende: l’abuso di potere nella Chiesa
L’analisi comparativa del caso Morone e del caso Becciu rivela un inquietante denominatore comune: l’utilizzo strumentale della giustizia come arma politica all’interno della Chiesa cattolica.
Mentre il caso Morone si inscrive nel contesto storico dell’Inquisizione, caratterizzato da una forte centralizzazione del potere e da un’applicazione rigida dell’ortodossia, il caso Becciu si inserisce in un’epoca caratterizzata da una maggiore consapevolezza dei diritti umani e dei principi di legalità.
Tuttavia, le modalità con cui è stato gestito il processo a carico di Becciu evidenziano come le dinamiche di potere all’interno della Chiesa siano rimaste sostanzialmente inalterate. Nel caso di Morone, l’accusa di eresia servì a Paolo IV per eliminare un rivale potenziale. Nel caso di Becciu, l’accusa di corruzione si intreccia con le lotte di potere interne alla Curia, dove le fazioni utilizzano strumenti mediatici e giudiziari per consolidare il proprio dominio. Morone e Becciu restano due vittime illustri, accomunate dall’essere state travolte da una macchina del potere che, in nome della salvaguardia dell’ordine interno, non ha esitato a sacrificare l’individuo per ragioni che appaiono lontane non solo dai principi di giustizia ma anche dal Vangelo. Questi due casi evidenziano un problema più profondo: la necessità di maggiore trasparenza e giustizia all’interno della Chiesa.
L’opacità con cui vengono gestite queste vicende non solo danneggia le persone coinvolte, ma mina anche la credibilità dell’istituzione ecclesiastica agli occhi dei fedeli e del mondo. È urgente pertanto avviare una profonda riforma delle istituzioni ecclesiastiche. Un’istituzione che dice di fondarsi su principi universali come la giustizia e la verità non può tollerare che il potere venga utilizzato per manipolare i processi e perseguitare i propri avversari. La credibilità della Chiesa, già messa a dura prova, dipende dalla sua capacità di garantire trasparenza, equità e un sistema giudiziario realmente indipendente.
Alberto Vacca