13 January, 2025
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Urge salvare la Sanità. Quando? Da chi? Come? – di Mario Marroccu

Il naufragio della Sanità italiana e, soprattutto, di quella sarda, è noto e lo vediamo certificato in un documento che circola in Europa. C’è scritto che la Sanità italiana è al 22° posto tra le 27 Sanità degli Stati dell’Unione. Nel 2006 eravamo all’11° posto. Dato che i 5 Stati che vengono dopo l’Italia sono press’a poco nelle stesse pessime condizioni, potremmo dire che noi italiani siamo all’ultimo posto.
L’istituto di statistica che ha pubblicato il rapporto si chiama EHCI (Euro Health Consumer Index). Se si considera che la Sardegna, in Sanità, è all’ultimo posto fra le regioni italiane, e che il Sulcis Iglesiente è all’ultimo posto nelle province sarde, potremmo anche pensare che il CTO e il Sirai siano gli ospedali più poveri in Europa.

Il degrado sanitario va di pari passo con il degrado demografico e ci stiamo abituando a questo lento peggioramento senza reagire. Anche questo secondo fenomeno sociale è certificato da un rapporto ufficiale, quello della SviMez (Sviluppo Mezzogiorno) redatto su dati governativi. Sanità e spopolamento sono tristemente sono collegati. Si pensi che oggi, alle scuole medie ed elementari, abbiamo 120.000 tra bambini e ragazzi; è previsto che fra 10 anni saranno meno di 77mila. In conseguenza di questo andamento demografico sono state applicate, anche per le scuole così come è avvenuto per gli ospedali, le logiche ingegneristiche e contabili dei relativi ministeri per cui, dal 2018 ad oggi, sono state cancellate 1.000 classi e sono stati chiusi 29 istituti scolastici.

«Con i ragionamenti derivati dalle logiche contabili della burocrazia ministeriale vengono eliminati servizi essenziali la cui qualità e diffusione capillare sono condizioni socialmente e territorialmente inclusive, soprattutto nelle aree più deboli e distanti dai centri maggiori» (Istituto di statistica dell’Università di Cagliari).
In questi giorni si sta discutendo la nuova Riforma sanitaria della Regione Sardegna. Nessuno ha la più pallida idea dell’indirizzo che darà alla Sanità sarda e, soprattutto, a quella delle Province. Visto che i tempi di presentazione si stanno allungando, forse c’è ancora speranza che il progetto contempli la partecipazione popolare all’identificazione di norme di salvataggio condivise.
I sardi, con i soldi dei loro contributi, vogliono essere curati subito, bene, gratuitamente e vicino a casa. Tanto più lo vogliono ora che l’età media è molto avanzata, con il 25% di ultrasessantacinquenni, e un calo demografico pari allo 0,8 bambini per coppia. E’ evidente che per mantenere lo stesso numero di abitanti dovremmo mettere al mondo 2 bambini per coppia. Ciò significa che la popolazione sta lentamente scomparendo per due motivi:
1 – perché il 25% di anziani ha già percorso oltre i due terzi del proprio arco vitale;
2 – perché il numero di nascite (0,8) è insufficiente a sostituire il numero (2) dei genitori.
Preso atto che esiste una progressiva riduzione del “Welfare” non si può fare a meno di notare che tale la curva di riduzione è sincrona e simmetrica al calo della partecipazione popolare alle consultazioni elettorali, che sono la massima espressione dello esercizio di “Democrazia”. Per effetto della rinunciamassiva all’esercizio democratico del diritto di voto stiamo vivendo gli effetti surreali di uno stato di “democrazia con carenza di popolo”.
Alle ultime consultazioni regionali sarde hanno espresso la loro volontà di avere un proprio rappresentante solo il 52% degli aventi diritto al voto. Questo dato certifica che il 48% dei sardi non ha voluto nominare un suo rappresentante al Consiglio regionale. Questo problema di “democrazia senza il popolo” è molto grosso e difficile da risolvere. Invece alle ultime consultazioni per le elezioni dei sindaci ha partecipato il 60% degli aventi diritto mentre alle consultazioni nazionali ha partecipato il 64% degli aventi diritto. Questi dati suggeriscono l’idea che esista una diversa propensione popolare a nominare i propri rappresentanti. In Sardegna prevale la propensione a votare i sindaci.

Probabilmente la conoscenza diretta è uno stimolo che induce l’elettore a concedere la propria fiducia ad una persona nota e più prossima.
Probabilmente i fenomeni dell’astensionismo, della riduzione delle strutture scolastiche, dell’assistenza sanitaria e il calo demografico hanno un comune nesso causale. Gli esperti di statistica suppongono che l’effetto negativo sull’aggregazione sociale peggiorerà coll’ulteriore destrutturazione del sistema ospedaliero e scolastico provinciale oggi esistenti nei territori lontani dai centri maggiori. Ciò avrà un costo per le famiglie: nuove spese per raggiungere il luoghi lontani dove si genera istruzione e sanità. Solo chi avrà solide possibilità economiche potrà affrontare le spese per istruire i figli e curare i propri familiari.

E’ evidente che la nave della spesa sociale ha perso la rotta e che dovrebbe rientrare in un percorso virtuoso prima che si instauri una deriva della “democrazia” dei servizi. Tale evento è possibile quando il bilancio economico delle famiglie porta alla differenziazione sociale tra i cittadini che possono e quelli che non possono studiare e curarsi. Si realizzerebbe un ossimoro: un governo democratico che induce una differenza sociale per ottenere il godimento al diritto basilare di istruzione e salute. Sarebbe un fallimento della Costituzione stessa.
Pertanto la risposta alla domanda: «Quando salvare la Sanità?» E’: subito.
La risposta alla seconda domanda: «Da chi salvarla?» E’: da tutti noi che abbiamo rinunciato alla partecipazione democratica alle scelte della politica.
La risposta alla terza domanda: «Come salvarla?» E’: rispettare le rappresentanze democratiche.
Oggi la maggiore rappresentanza democratica risiede nei sindaci, sia per il maggior consenso popolare di cui sono dotati, sia per diritto costituzionale al riconoscimento (art. 114) dei Comuni al coinvolgimento nella amministrazione dei servizi di base dello Stato come sanità e istruzione, in cooperazione con province e regioni.
Pertanto, ad essi sindaci dovrebbe essere conferito la possibilità di fare proprie proposte vincolanti sul come produrre una “Riforma sanitaria regionale” aderente al bisogno popolare e di controllarne i risultati.
La precedente legge di Riforma sanitaria regionale era perfetta nella sua struttura giuridica. Era talmente perfetta che probabilmente non era stata concepita dai consiglieri regionali ma da un apparato burocratico aduso a confezionare leggi. Il risultato di quella legge fu il trasferimento del potere amministrativo dalle ASL ad una struttura regionale centrale. Le ASL di fatto non ebbero più potere di assumere il personale e di indire gare d’appalto per l’acquisto del materiale sanitario, e di quant’altro serve a far funzionare gli ospedali.
I medici venivano selezionali tramite un concorso regionale globale cosicché, appena assunti sceglievano le sedi più prestigiose situate nelle città capoluogo. Gli ospedali delle province vedevano assegnarsi medici che subito dopo chiedevano e ottenevano il trasferimento a Cagliari o Sassari. Con questo metodo perdemmo anestesisti, chirurghi, cardiologi e specialisti essenziali. Le Unità operative si svuotarono di specialisti e caddero in disuso. Simile destino subirono le spese per strumenti e innovazione tecnologica. Inoltre, quella legge non prevedeva alcun piano per gestire la medicina di base.
Non si previde di instaurare un rapporto di collaborazione con l’Università per la formazione continua e la specializzazione dei medici ospedalieri nello stesso ospedale in cui venivano assunti. Non si regolamentò alcun rapporto tra medici di base e medici ospedalieri per instaurare un rapporto di osmosi professionale continua. Non si regolamentò quali compiti dare agli ospedali DEA di I livello (provinciali) e quali dare ai DEA di II livello regionali. Ne conseguì che i DEA II livello (Brotzu di Cagliari e Santissima Annunziata di Sassari) si misero a curare patologie frequenti (calcoli, prostate, tumori intestinali, ernie, fratture, infarti, ictus, etc.) dimenticando che queste erano destinate agli ospedali DEA di I livello messi al centro delle loro Province. Ciò provocò la defunzionalizzazione degli ospedali provinciali e l’accumulo di pazienti in fila alle porte del Brotzu fino a mandarlo in crisi.
Fu uno squilibrio letale per gli ospedali provinciali e per gli stessi ospedali regionali.
Quella legge, inoltre, rese inefficace la funzione di controllo e proposta a cui hanno diritto i sindaci e i presidenti di Provincia.
Per fortuna, visto che i tempi per la presentazione della nuova Riforma sono ancora lunghi, esiste tutto il tempo per consultare i sindaci e far formulare a loro la proposta di nuova Riforma sanitaria adattata alle esigenze dei territori provinciali.

Mario Marroccu

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