Radici scomode: la nipote antifascista alla scoperta del nonno fascista. Fascismo e coscienza nella storia di Barbara Serra – di Alberto Vacca

È recentemente uscito in libreria «Fascismo in famiglia», il nuovo e coraggioso libro di Barbara Serra, nota giornalista italo-britannica con una lunga carriera nel giornalismo internazionale, tra BBC, CNN, Al Jazeera e Sky News. In questo intenso lavoro, Serra affronta una delle domande più spinose e irrisolte della storia italiana: abbiamo davvero fatto i conti col nostro passato fascista?
Per rispondere, Serra parte da sé, dalla propria storia, scavando nella biografia di famiglia e, più precisamente, nella figura di suo nonno, Vitale Piga, che fu podestà di Carbonia durante il Ventennio. L’indagine è al tempo stesso personale e storica, affettiva e politica, e si trasforma pagina dopo pagina in un viaggio dentro le zone grigie della memoria collettiva e individuale.
Il libro ha il tono di un’inchiesta condotta con rigore giornalistico e partecipazione emotiva. Serra non si accontenta di ricordi familiari vaghi o versioni addolcite della realtà: consulta archivi pubblici e privati, esamina documenti ufficiali, atti amministrativi, lettere, testimonianze. Ne emerge un quadro composito e complesso, dove il ritratto del nonno si arricchisce di sfumature, ma non elude il giudizio morale.
La domanda che aleggia sin dalle prime pagine è tanto semplice quanto destabilizzante: «Mio nonno era un fascista buono?». La risposta, che arriva gradualmente ma con crescente chiarezza, è negativa. Nonostante non emergano episodi di violenza diretta o crudeltà, Vitale Piga non si distaccò mai dalla politica del regime. Anzi, ne fu parte attiva, amministrando la città di Carbonia secondo i principi e i codici del fascismo, senza mai prenderne le distanze, né allora né dopo.
Vitale Piga, infatti, non fu un «fascista buono», ma piuttosto un «buon fascista», nel senso più pieno del termine. Aveva assimilato e praticato fino in fondo i tre precetti fondamentali della retorica fascista: «Credere, obbedire, combattere». Dei tre, quello che più sembrava appartenergli per indole e vissuto era «combattere»: Piga era stato un eroe della prima guerra mondiale, un tenente pilota dell’aeronautica militare. Il 13 luglio 1917, l’aereo su cui volava insieme all’osservatore tenente Renato Semplicini fu abbattuto dall’asso ungherese Josef Kiss. Nell’impatto Semplicini perse la vita, mentre Piga fu catturato e fatto prigioniero.
Nell’estate del 1935, mentre l’Italia si prepara alla guerra d’Etiopia, scrive due lettere al Duce per offrirsi volontario in una missione suicida, in nome della Patria e dei suoi due figli. Una proposta tanto estrema quanto emblematica, che non verrà accolta dal Ministero dell’Aeronautica, lasciando Piga a una vita ancora lunga, che si concluderà per cause naturali molti anni dopo. Ma quell’episodio basta a chiarire il tipo di adesione che animava la sua militanza: non tiepida, non opportunistica, ma convinta, orgogliosa, profondamente ideologica.
Il merito principale del libro è quello di trasformare una vicenda familiare in uno specchio dell’Italia intera. Serra non cerca assoluzioni, non indora la pillola, ma si mette a nudo in prima persona, mostrando quanto sia difficile – e necessario – fare i conti con ciò che si è ereditato, anche quando quella eredità è scomoda, dolorosa, in conflitto con i propri valori.
L’indagine su Vitale Piga diventa così l’occasione per interrogare una nazione che ha spesso preferito rimuovere, dimenticare, archiviare il proprio passato sotto etichette comode come «brava gente» o «fascismo all’italiana». Il libro ci mette di fronte alla realtà che, in molti casi, il fascismo non è stato solo una parentesi imposta dall’alto, ma un sistema condiviso e amministrato anche da persone comuni, padri, zii, nonni – appunto – che hanno collaborato con il regime senza mai pentirsene.
«Fascismo in famiglia» è un libro che scava, interroga e disturba. Non semplifica, non assolve, ma mette in moto una riflessione profonda su ciò che siamo stati e su ciò che ancora ci portiamo dentro. Con una scrittura sobria e coinvolgente, Barbara Serra riesce a intrecciare il dato storico con la memoria personale, il racconto intimo con l’analisi politica.
È un’opera che andrebbe letta nelle scuole, discussa nei talk show, usata come chiave per rileggere quel periodo storico non come un monolite ideologico, ma come una rete diffusa di scelte individuali che ancora oggi ci interrogano.
In tempi in cui il discorso pubblico sembra indulgere sempre più spesso a forme di revisionismo storico, con dichiarazioni che minimizzano la gravità del fascismo e ne esaltano i presunti meriti, il libro di Barbara Serra suona come un richiamo alla responsabilità. Quella di conoscere, di ricordare, ma anche di riconoscere – nei gesti, nei silenzi, nelle omissioni – le responsabilità di un passato che è tutt’altro che sepolto.
«Fascismo in famiglia» non è solo un’indagine su un nonno, ma un’operazione di verità su una memoria nazionale ancora fragile. È un atto di coraggio e di amore per la storia, anche quando fa male. Serra ci mostra che la memoria non può essere selettiva e che il vero antifascismo, oggi, passa anche attraverso la capacità di guardare in faccia i propri fantasmi, anche quelli che hanno il nostro stesso cognome.
Alberto Vacca
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