26 July, 2025
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Egregio sig. direttore.
leggo sul suo giornale un articolo sul “criminale fascista” Siddi Lorenzo, opera, del prof. Alberto Vacca, autore, tra l’altro, di un pregevole volume sull’attività dell’OVRA in Sardegna.
Il professore, nell’articolo, mi chiama in causa per aver pubblicato, nel 2003, un testo, frutto di un’intervista che “il criminale fascista” Siddi Lorenzo mi avrebbe concesso, essendo io suo compagno di fede politica, cosa non esatta in quanto mentre Siddi era nel MSI, il sottoscritto, dal 1976, militava, in sponde politiche diverse, se non opposte, rispetto al MSI. Ma le assicuro che se anche avessi avuto idee politiche “estreme”, questo non avrebbe minimamente influito sul fatto che quando scrivo come storico ciò che mi preme è capire perché gli uomini e, nella fattispecie i sardi, si comportino in un certo modo, ciò che determina il loro agire, la fase storica e politica in cui si sono  trovati a vivere. Tutte le altre considerazioni precostituite  di tipo morale e giudiziario le lascio volentieri a coloro che si travestono da preti più o meno laici e giacobini, e da magistrati, anch’essi più giacobini che laici. Per inciso quel mio testo fece parte della mia tesi di specializzazione in “Studi Sardi”, successivamente fece parte, nel 2009. del volume pubblicato a Sassari “L’ultima frontiera  dell’onore – I Sardi a Salò” a cui L’Unione Sarda dedicò l’intera pagina culturale. Alla presentazione del libro a Sassari, partecipò il presidente provinciale dell’Istituto storico della resistenza, prof. Aldo Borghesi, che parlò per più di un’ora elogiando il mio volume. Volume che mi fu poi richiesto dall’Istituto storico della resistenza di Torino. L’ultima edizione del mio libro, sempre col capitolo dedicato a Siddi Lorenzo, è stato pubblicato a Varese nel 2023. In tutto questo lasso di tempo, con decine di recensioni, non ho mai ricevuto le accuse che mi fa il prof. Vacca.
Il testo, secondo Vacca: «Offre una ricostruzione  fortemente di parte intesa a riabilitare la figura di Siddi e negare i crimini per cui era stato condannato».  A me non interessava assolutamente offrire una ricostruzione di parte, né tanto meno procedere a una riabilitazione di cui il Siddi non aveva e non ha assolutamente bisogno, né tanto meno ho negato quei fatti che il prof. chiama “crimini”, in ossequio alle sentenze di alcune corti piemontesi. A proposito, risulta una qualche inchiesta delle corti giudiziarie locali per l’assassinio, a guerra finita, del più grande pittore sardo, Giuseppe Biasi?  Il racconto di Siddi da me riportato fa a pugni con quanto testimoniato dai suoi accusatori, uno dei quali scampò alla fucilazione perché fece il nome dei propri compagni. Ebbene, qui il prof. ha ragione! Divento uomo di parte! Tra il racconto di Siddi, un sardo onesto e leale, e quello dei suoi nemici, mi schiero senza se e senza ma col mio conterraneo. Per concludere, quando Siddi mi parlò della partigiana Lola, non manifestò nessun rancore, né tanto meno odio, anzi mi confessò  di aver visitato, nel dopoguerra, il monumento a lei dedicato.
Ma le accuse del prof. Vacca non si fermano al periodo bellico, ma vanno ben oltre: «Nel nuovo contesto politico e sociale, Siddi avviò un’opera sistematica di revisione della propria storia, diffondendo una versione dei fatti completamente falsa e autoassolutoria. Si presentava come vittima di accuse ingiuste, tentando di cancellare la memoria dei crimini per i quali era stato condannato». Il prof. non dice dove e quando, in quali scritti, Siddi  avviò un’opera di revisione della propria storia, anzi accadde esattamente l’opposto: Siddi non ha mai rinnegato la sua adesione alla RSI, né ha mai sottaciuto i fatti d’arme che lo hanno visto protagonista, anzi se ne vantava. Ho la vaga impressione che il prof. Vacca descriva un Siddi Lorenzo quale immagina sia stato. E sbaglia. Il sottoscritto l’ha conosciuto e frequentato per anni e posso assicurare che il Siddi in carne e ossa era completamente diverso da come viene descritto. Era certamente fascista, ma soprattutto era un sardo doc, anzi un sardo-fascista.
Angelo Abis

  1. L’eroe della prima guerra mondiale

Nato a Senorbì, Vitale Piga (1895-1974) si distinse giovanissimo come tenente pilota dell’aeronautica militare durante la prima guerra mondiale. Il suo nome divenne noto per un episodio che riassume in sé lo spirito tragico e cavalleresco del conflitto aereo, prima che l’ideologia totalizzante e la meccanizzazione bellica ne annientassero il senso romantico.

Il 13 luglio 1917, il tenente Vitale Piga fu protagonista di un drammatico scontro nei cieli del Trentino, durante una missione su Caldonazzo. L’obiettivo era il lancio di manifestini di propaganda nelle retrovie nemiche: un’azione tanto simbolica quanto rischiosa, che richiedeva coraggio e grande senso della missione. Decollato dal campo di Pergine, il velivolo di Piga fu intercettato da due caccia austriaci. Nel combattimento perse la vita l’osservatore, il tenente Renato Semplicini, mentre Piga, con il velivolo gravemente danneggiato, fu costretto ad atterrare in territorio nemico nei pressi di Levico, dove venne fatto prigioniero.

L’episodio fu raccontato da lui stesso in una relazione scritta il 6 dicembre 1918, dopo il suo ritorno dalla prigionia. Il documento, sobrio e dettagliato, è oggi una delle fonti principali per comprendere l’accaduto, ma anche lo spirito con cui Piga affrontava la guerra.

Si riporta qui la relazione, che mostra la precisione militare del racconto e, tra le righe, la tensione emotiva di chi ha visto la morte da vicino.

Correggio 6-XII-918

La mattina del 13 luglio 1917 ebbi ordine di eseguire una ricognizione d’orientamento ed il lancio di manifestini pei prigionieri russi nelle retrovie austriache del settore fra l’Adige e il Brenta.

Era a bordo con me il Ten. Oss. Semplicini il quale, doveva eseguire una serie di fotografie.

Partii dal campo di Casoni (Bassano) alle otto antimeridiane dovendo essere alle 8.30 già in quota all’imboccatura della Val Sugana.

Avrei dovuto colà trovare un apparecchio da caccia che mi avrebbe scortato. Invece non v’era.

Dopo mezz’ora di inutile attesa partimmo ugualmente.

Attraversammo il fuoco di sbarramento antiaereo del Forte Panarotta, del Forte Busa Verle, Cima 12, Forte Spitz Verle, Cima Mandrioli, eseguendo fotografie ed il lancio dei manifestini nei pressi di Levico e Pergine.

Dopo questo, come avevamo deciso prima della partenza, ci dirigemmo verso la Valle dell’Astico onde rientrare da quella parte.

Si sarebbero così evitate le batterie automobili del Ghertele, del Verena e di Monte Rovere, accorse colà numerose per l’azione dell’Ortigara.

Vedemmo allora a circa 1.000 metri sotto noi un apparecchio da caccia nemico che si avvicinava e qualche minuto dopo ci arrivò una raffica di mitragliatrice, dalla coda.

Virammo subito per aver l’avversario di fronte.

Ebbe così inizio il combattimento che doveva finire circa un’ora più tardi.

L’aereoplano austriaco era un «Tse-tse» da caccia con la velocità di 175 Km. l’ora.

In principio potemmo tenergli fronte tanto da costringerlo più volte ad allontanarsi per poter ritentare gli attacchi. Ma poco dopo giunse in suo aiuto un altro apparecchio, un «Brandenburg» armato di due mitragliatrici che aprì immediatamente il fuoco contro noi. Ci presero così dai fianchi.

Cercammo di riavvicinarci alle linee sempre combattendo.

Ma ben presto, alcuni fili di comando colpiti da pallottole non mi permettevano più le brusche manovre e feci cenno all’osservatore di sparare alle spalle ché avremo cercato di fuggire.

Uno degli apparecchi ci attaccò allora di fronte sbarrandoci la strada. Vedendo che non cambiavamo rotta si spostò di fianco e, ad una trentina di metri, ci lanciò delle raffiche di fuoco.

Una pallottola colpì l’osservatore al labbro inferiore e mentre questi in piedi, continuando il tiro, mi faceva cenno, un’altra, lo colpì alla testa attraversandola dalla tempia destra alla guancia sinistra. Le altre colpirono varie parti dell’apparecchio.

Il Ten. Semplicini, già dell’8° fanteria si accasciò immediatamente e non si mosse più.

Cercai allora di fuggire; ma giunto sopra Levico, altri colpi giuntemi dalle spalle, mi colpirono il serbatoio principale. Cercai di adoperare quello di riserva, ma mi accorsi che anche quello era stato colpito fin da prima.

Scesi spiraleggiando per non sforzare i fili di coda, i più colpiti.

Atterrai in un orto nei pressi della stazione di Levico non riuscendo a raggiungere un campo di atterraggio sito nei pressi del lago.

Poco prima di me era atterrato anche il primo apparecchio nemico colpito, credo, dagli ultimi colpi del mio osservatore. Ma, a mia domanda, il Feldwebel Kiss (secondo “asso” austriaco) mi disse d’aver avuto un guasto al motore.

Non potei incendiare il mio aereoplano. Avevo un bengalotto distruttore ma non funzionò. Prima che potessi prendere i cerini da sotto gli indumenti di volo ero in mezzo ad una brigata di fanteria austriaca che si trovava nella città a riposo. Venne anche il generale comandante la divisione che fece rendere gli onori militari al mio osservatore e che si congratulò con me per il combattimento.

Mi fece fare poi delle rimostranze dall’ufficiale d’ordinanza perché non avevo ringraziato.

Venni trattato in modo molto cavalleresco e gentile da tutti gli aviatori austriaci.

[Relazione fornitami cortesemente dallo storico Paolo Varriale, che l’ha riprodotta nel suo libro

«Gli assi austro-ungarici della Grande Guerra» (Editrice Goriziana, 2012)]

Difficile, oggi, leggere queste righe senza percepirne la compostezza e la dignità, l’equilibrio tra dramma e lucidità tecnica. Ma quel che colpisce maggiormente è il tono quasi distaccato, da soldato che compie semplicemente il proprio dovere, anche nell’eccezionalità di un’ora di combattimento contro due nemici, con l’aereo danneggiato e il compagno morto al suo fianco.

Piga fu trattato da prigioniero d’onore, in una delle rare occasioni in cui, anche in tempo di guerra, si riconosceva il valore morale, oltreché militare, del proprio avversario. Il generale austriaco che ordinò gli onori al caduto italiano, e le congratulazioni rivolte a Piga, non furono meri atti protocollari: testimoniano il rispetto umano tra uomini d’armi prima che la guerra moderna diventasse completamente disumanizzata.

Anche da parte italiana l’episodio ebbe risonanza. Il 20 luglio 1917, un aereo austro-ungarico sorvolò le linee italiane e lasciò cadere un plico contenente una lettera scritta da Piga e alcune fotografie dei funerali militari di Renato Semplicini. Un gesto che oggi stupisce, ma che allora confermava ancora l’esistenza di un codice d’onore fra aviatori, simile a quello dei cavalieri.

Con questo episodio nasce la leggenda militare di Vitale Piga: quella di un giovane ufficiale che aveva messo in gioco tutto per la missione affidatagli e che, anche nella prigionia, non aveva perso il proprio contegno e il senso del dovere. Era l’inizio di un percorso che lo avrebbe portato, quasi vent’anni dopo, a concepire per sé un’altra missione, ancora più estrema.

  1. Il kamikaze mancato del Duce

Per molti reduci, l’esperienza della guerra fu una frattura irreparabile, un trauma da rimuovere. Per altri, invece, rappresentò l’unico momento autentico della propria esistenza. Vitale Piga appartenne senza dubbio a questa seconda categoria: tornato dalla prigionia nel 1918, non si smarrì nella disillusione del dopoguerra, né cercò rifugio nell’oblio della vita civile. Al contrario, continuò a vivere nella dimensione bellica: idealizzata, trasfigurata, quasi sacralizzata. La guerra, per lui, non era solo un evento passato, ma una grammatica dell’onore, un’«etica dell’azione» che il tempo di pace non sembrava in grado di replicare.

Rientrato in Sardegna, aderì inizialmente al Partito Sardo d’Azione di Emilio Lussu, condividendone lo spirito combattentistico e il legame con le istanze autonomiste dell’isola. Tuttavia, già nel gennaio del 1923, abbandonò il partito per confluire, insieme a un nutrito gruppo di ex sardisti, nel Partito Nazionale Fascista, che considerava l’interprete più coerente e risoluto dei suoi ideali di ordine, sacrificio e grandezza nazionale. Da quel momento, la sua militanza politica si saldò indissolubilmente con la fedeltà al regime.

Entrò nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (M.V.S.N.) in qualità di centurione fuori quadro e vi restò fino a quando, per disposizione generale, ne fu escluso per non avere mai avuto un comando effettivo di reparto. Ottenne dal partito incarichi civili di rilievo. Fu nominato Podestà del Comune di Iglesias, carica che ricoprì dal 1927 al 1931, e in seguito divenne Segretario Provinciale della Confederazione dei Sindacati dell’Industria a Nuoro e poi a Cagliari. Il suo percorso mostra un uomo che, pur senza più combattere sul campo, continuava a concepire la propria esistenza come servizio permanente alla Patria e al Duce, in tempo di guerra come in tempo di pace.

La sua identità di combattente rimase inalterata. Quando, nell’estate del 1935, l’Italia fascista si preparava alla guerra d’Etiopia, Piga sentì riaccendersi dentro di sé la vocazione alla militanza, trasformata ormai in una fede politica totalizzante. Non era più soltanto un soldato, ma un uomo pronto a sacrificare la propria vita per la grandezza dell’Italia e per il Duce.

Fu in quell’estate che Piga scrisse due lettere al governo fascista, indirizzate al segretario personale di Mussolini, Osvaldo Sebastiani. La prima, datata 11 luglio 1935, conteneva un’offerta tanto estrema quanto rivelatrice: si offriva volontario per una missione suicida. La richiesta venne ignorata, ma Piga non desistette. Il 21 settembre dello stesso anno, reiterò la proposta in una seconda lettera, ancora più esplicita e appassionata, che rappresenta un documento straordinario della sua mentalità e del suo fanatismo politico:

Cagliari, 21 Settembre 1935/XIII

Ill.mo Dott. Sebastiani,
circa due mesi or sono le venne trasmessa dal Luogotenente Generale Comandante le Camicie Nere della Sardegna una mia domanda tendente ad informare S.E. il Capo del Governo che io e qualche altro eravamo disposti a guidare contro una nave od altro bersaglio, col sacrificio certo della vita, una torpedine aerea ad alto esplosivo.
Niente di originale nella proposta in quanto l’apparecchio è stato in parte già studiato dalla R. Aereonautica e perché questa immolazione è già stata ammessa nella Marina Giapponese con sommergibili minuscoli ed in quella tedesca con le torpediniere suicide.
Ella trasmise la domanda al Ministero dell’Aereonautica che non la capì.
Perciò insisto pregandola vivissimamente di riesaminare la proposta che non può, specie in un momento come questo, esser presa alla leggera.
In questa nostra Città che si appresta a mostrare i denti ed a non smentire la sua fama, a contatto col mare, io posso sentire più di ogni altro quanto possa essere utile il sacrificio alla mia Patria ed ai miei bambini.
Sono il Segretario dell’Unione Fascista dei Lavoratori dell’Industria di Cagliari e sono I° capitano pilota di aereoplano invalido di guerra.
La ringrazio sentitamente e La ossequio
Dev° Rag. Vitale Piga
[ACS, SPD, CO (1922-1943), serie numerica, b. 2059, fasc. 536125, Piga rag. cav. Vitale – Cagliari]

Il tono della lettera è solenne, quasi liturgico. Piga si presenta come un martire moderno, pronto a immolarsi in una missione che richiama modelli di sacrificio già adottati dalle marine giapponese e tedesca. La scelta delle parole – «sacrificio», «immolazione», «patria», «bambini» – rivela una visione del mondo assoluta, dominata da un’ideologia totalitaria che esalta la morte come supremo gesto di fedeltà.

La proposta di Vitale Piga, estrema e fuori da ogni protocollo, non fu accolta. Il Ministero dell’Aeronautica ignorò nuovamente la sua richiesta di compiere una missione suicida. E tuttavia, anche in questo rifiuto si riflette il segno più profondo della radicalità del suo fervore. Piga non era né un opportunista del regime né un nostalgico in cerca di riscatto personale. Era qualcosa di diverso e, forse, di più inquietante: un fanatico autentico, uno che viveva il fascismo come una religione civile, in cui ogni gesto, anche il più estremo, doveva essere testimonianza di fede, sacrificio e devozione assoluta al Duce.

Dopo il rifiuto ufficiale, Piga non rinunciò al proprio ruolo all’interno dell’apparato del regime. Continuò a servire fedelmente la causa fascista e, nel 1939, dopo la fondazione della città, fu nominato podestà di Carbonia. In questo nuovo incarico contribuì con zelo agli sforzi bellici del regime, organizzando e disciplinando le masse operaie impiegate nell’estrazione del carbone, una risorsa fondamentale per l’autarchia italiana e per le ambizioni militari dell’Italia fascista.

La vita di Vitale Piga si concluse molti anni dopo, lontano dai clamori della storia. Eppure, il contrasto tra le due grandi fasi della sua esistenza – quella del giovane eroe dei cieli nella Grande Guerra e quella del fervente funzionario e militante del fascismo – restituisce un ritratto complesso, quasi tragico. Piga fu, in modi differenti, un uomo profondamente legato al proprio tempo: dapprima testimone di una guerra ancora permeata da ideali cavallereschi, poi interprete di quella stessa guerra trasfigurata in ideologia, in culto della morte, in mistica totalitaria. Dalla nobiltà del sacrificio all’ossessione del martirio, il suo cammino racconta la parabola inquietante di un’intera generazione.

Alberto Vacca

L’eco dei marmi della Curia romana è attraversato da un interrogativo che ha implicazioni profonde: il cardinale Angelo Becciu parteciperà al prossimo conclave? La sua eventuale presenza sarà legittima o metterà a rischio l’elezione del papa?
La vicenda è al tempo stesso giuridica, ecclesiale e spirituale, e impone una riflessione seria sul rapporto tra diritto, prassi e autorità nella Chiesa di oggi.

  1. Il «caso Becciu»: tra esclusione informale e reintegrazione silenziosa

Il 24 settembre 2020, papa Francesco accettò le dimissioni del cardinale Becciu da Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, e lo invitò a rinunciare «ai diritti connessi al cardinalato»: un’espressione senza precedenti né fondamento canonico preciso.

Tuttavia, Becciu non è mai stato deposto, né ha rinunciato alla dignità cardinalizia.

Negli anni successivi ha continuato a indossare la porpora, partecipare a cerimonie vaticane, e perfino a concistori ufficiali su invito del papa.

L’ultimo segnale è il più forte: è stato convocato dal cardinale decano Giovanni Battista Re alla prima congregazione generale in preparazione del conclave.
Un segnale inequivocabile, che però non risolve l’ambiguità di fondo: Becciu potrà votare?

  1. Diritto o dovere? Quando «spetta» significa «obbliga»

Nel diritto canonico, la partecipazione al conclave non è facoltativa, ma obbligatoria: è un diritto-dovere dei cardinali sotto gli 80 anni. Lo dice la Universi Dominici Gregis, all’art. 33: «Il diritto di eleggere il Romano Pontefice spetta unicamente ai Cardinali di Santa Romana Chiesa […]».

Il verbo «spetta» non è scelto a caso. In ambito giuridico canonico (e non solo), «spettare» indica un diritto che è proprio, esclusivo, e non rinunciabile senza giusta causa. Ma in ambito ecclesiale, ciò che «spetta» non è solo una facoltà da esercitare a piacimento: è anche un dovere verso la Chiesa, un obbligo, perché collegato direttamente al bene supremo della comunità ecclesiale, cioè l’elezione del nuovo pontefice.

In questo senso, partecipare al conclave non è semplicemente un diritto personale del cardinale, ma un atto dovuto in quanto membro del Collegio cardinalizio, e parte integrante della funzione ecclesiale affidatagli dal papa al momento della sua creazione cardinalizia.

A rafforzare questa interpretazione interviene l’art. 35 della stessa costituzione: «Nessun Cardinale elettore potrà essere escluso dall’elezione sia attiva che passiva per nessun motivo o pretesto […]».

  1. Il diritto canonico: Becciu è ancora cardinale a tutti gli effetti

Il Codice di diritto canonico (can. 349-359) e l’art. 40 della Universi Dominici Gregis affermano che un cardinale conserva i suoi diritti salvo impedimenti formali e documentati.

E anche la condanna in primo grado non influisce sul diritto di voto in virtù del principio della presunzione di innocenza, sancito dall’ordinamento canonico e vaticano:

Can. 1321 §1: «Chiunque è ritenuto innocente finché non sia provato il contrario»;
Codice di procedura penale vaticano, art. 350 bis, co. 2: «Ogni imputato è presunto innocente sino a quando la sua colpevolezza non sia legalmente accertata».

Insomma, nessuna norma canonica o vaticana impedisce a Becciu di entrare in conclave. E ogni dubbio rischia di far esplodere una crisi di legittimità.

  1. Rischio conclave nullo? Il peso dell’art. 76

La Universi Dominici Gregis è chiara anche sulle conseguenze: l’art. 76: «Se l’elezione fosse avvenuta altrimenti da come è prescritto nella presente Costituzione […], è nulla e invalida senza che intervenga alcuna dichiarazione».

In parole semplici: se Becciu venisse escluso ingiustamente, e in seguito assolto, l’intero conclave potrebbe essere nullo.
Uno scenario che, sebbene remoto, non è impossibile, e che renderebbe l’elezione del nuovo papa giuridicamente contestabile.

  1. Diritto, misericordia e ambiguità: una crisi delle forme

Il caso Becciu evidenzia una frattura tra gesti pastorali e procedure formali.
La Chiesa è spirituale, sì, ma è anche istituzione visibile e giuridica, e ha bisogno di atti chiari, scritti, coerenti.

La rinuncia ai diritti? Mai formalizzata.
La reintegrazione? Solo di fatto.
Il rischio? Un «limbo» canonico che mina l’unità ecclesiale e la fiducia dei fedeli.

  1. Il precedente Morone: quando la collegialità scioglie i nodi

Nel 1559, il cardinale Giovanni Morone – accusato di eresia e incarcerato – fu liberato e ammesso al conclave con il voto favorevole dei cardinali. Quel conclave elesse papa Pio IV.

Un precedente storico che mostra come la collegialità può risolvere conflitti senza ledere la comunione.

Oggi, come allora, la decisione spetta al Collegio dei cardinali, riunito in Congregazione. Saranno loro a decidere se Becciu entrerà nella Cappella Sistina.

Alberto Vacca

È recentemente uscito in libreria «Fascismo in famiglia», il nuovo e coraggioso libro di Barbara Serra, nota giornalista italo-britannica con una lunga carriera nel giornalismo internazionale, tra BBC, CNN, Al Jazeera e Sky News. In questo intenso lavoro, Serra affronta una delle domande più spinose e irrisolte della storia italiana: abbiamo davvero fatto i conti col nostro passato fascista?

Per rispondere, Serra parte da sé, dalla propria storia, scavando nella biografia di famiglia e, più precisamente, nella figura di suo nonno, Vitale Piga, che fu podestà di Carbonia durante il Ventennio. L’indagine è al tempo stesso personale e storica, affettiva e politica, e si trasforma pagina dopo pagina in un viaggio dentro le zone grigie della memoria collettiva e individuale.

Il libro ha il tono di un’inchiesta condotta con rigore giornalistico e partecipazione emotiva. Serra non si accontenta di ricordi familiari vaghi o versioni addolcite della realtà: consulta archivi pubblici e privati, esamina documenti ufficiali, atti amministrativi, lettere, testimonianze. Ne emerge un quadro composito e complesso, dove il ritratto del nonno si arricchisce di sfumature, ma non elude il giudizio morale.

La domanda che aleggia sin dalle prime pagine è tanto semplice quanto destabilizzante: «Mio nonno era un fascista buono?». La risposta, che arriva gradualmente ma con crescente chiarezza, è negativa. Nonostante non emergano episodi di violenza diretta o crudeltà, Vitale Piga non si distaccò mai dalla politica del regime. Anzi, ne fu parte attiva, amministrando la città di Carbonia secondo i principi e i codici del fascismo, senza mai prenderne le distanze, né allora né dopo.

Vitale Piga, infatti, non fu un «fascista buono», ma piuttosto un «buon fascista», nel senso più pieno del termine. Aveva assimilato e praticato fino in fondo i tre precetti fondamentali della retorica fascista: «Credere, obbedire, combattere». Dei tre, quello che più sembrava appartenergli per indole e vissuto era «combattere»: Piga era stato un eroe della prima guerra mondiale, un tenente pilota dell’aeronautica militare. Il 13 luglio 1917, l’aereo su cui volava insieme all’osservatore tenente Renato Semplicini fu abbattuto dall’asso ungherese Josef Kiss. Nell’impatto Semplicini perse la vita, mentre Piga fu catturato e fatto prigioniero.

Nell’estate del 1935, mentre l’Italia si prepara alla guerra d’Etiopia, scrive due lettere al Duce per offrirsi volontario in una missione suicida, in nome della Patria e dei suoi due figli. Una proposta tanto estrema quanto emblematica, che non verrà accolta dal Ministero dell’Aeronautica, lasciando Piga a una vita ancora lunga, che si concluderà per cause naturali molti anni dopo. Ma quell’episodio basta a chiarire il tipo di adesione che animava la sua militanza: non tiepida, non opportunistica, ma convinta, orgogliosa, profondamente ideologica.

Il merito principale del libro è quello di trasformare una vicenda familiare in uno specchio dell’Italia intera. Serra non cerca assoluzioni, non indora la pillola, ma si mette a nudo in prima persona, mostrando quanto sia difficile – e necessario – fare i conti con ciò che si è ereditato, anche quando quella eredità è scomoda, dolorosa, in conflitto con i propri valori.

L’indagine su Vitale Piga diventa così l’occasione per interrogare una nazione che ha spesso preferito rimuovere, dimenticare, archiviare il proprio passato sotto etichette comode come «brava gente» o «fascismo all’italiana». Il libro ci mette di fronte alla realtà che, in molti casi, il fascismo non è stato solo una parentesi imposta dall’alto, ma un sistema condiviso e amministrato anche da persone comuni, padri, zii, nonni – appunto – che hanno collaborato con il regime senza mai pentirsene.

«Fascismo in famiglia» è un libro che scava, interroga e disturba. Non semplifica, non assolve, ma mette in moto una riflessione profonda su ciò che siamo stati e su ciò che ancora ci portiamo dentro. Con una scrittura sobria e coinvolgente, Barbara Serra riesce a intrecciare il dato storico con la memoria personale, il racconto intimo con l’analisi politica.

È un’opera che andrebbe letta nelle scuole, discussa nei talk show, usata come chiave per rileggere quel periodo storico non come un monolite ideologico, ma come una rete diffusa di scelte individuali che ancora oggi ci interrogano.

In tempi in cui il discorso pubblico sembra indulgere sempre più spesso a forme di revisionismo storico, con dichiarazioni che minimizzano la gravità del fascismo e ne esaltano i presunti meriti, il libro di Barbara Serra suona come un richiamo alla responsabilità. Quella di conoscere, di ricordare, ma anche di riconoscere – nei gesti, nei silenzi, nelle omissioni – le responsabilità di un passato che è tutt’altro che sepolto.

«Fascismo in famiglia» non è solo un’indagine su un nonno, ma un’operazione di verità su una memoria nazionale ancora fragile. È un atto di coraggio e di amore per la storia, anche quando fa male. Serra ci mostra che la memoria non può essere selettiva e che il vero antifascismo, oggi, passa anche attraverso la capacità di guardare in faccia i propri fantasmi, anche quelli che hanno il nostro stesso cognome.

Alberto Vacca

 

La storia della Chiesa è segnata da vicende che spesso hanno intrecciato il sacro col profano, la politica con la teologia, la verità con la menzogna. Tra queste spiccano due casi emblematici, separati da oltre quattro secoli ma accomunati dalla dinamica di accuse sospette, mirate a ostacolare potenziali candidati al soglio pontificio: il cardinale Giovanni Gerolamo Morone nel XVI secolo e il cardinale Giovanni Angelo Becciu ai giorni nostri. Entrambi i prelati si sono trovati al centro di processi controversi che sollevano interrogativi sul potere, la trasparenza e la giustizia all’interno della Chiesa.
Il caso Morone: l’eresia come arma politica al tempo dell’Inquisizione
Il cardinale Giovanni Morone (1509-1580) fu un diplomatico di spicco e un protagonista del difficile dialogo con i protestanti durante la Riforma. Servì diversi papi, svolgendo un ruolo importante nel Concilio di Trento; la sua carriera però fu bruscamente interrotta dall’elezione del papa Paolo IV (Pietro Carafa), figura intransigente e ostile alle aperture di Morone.
Già prima di salire al soglio pontificio, quando era capo dell’Inquisizione romana, Paolo IV aveva avviato indagini contro Morone, ufficialmente per sospetti di eresia, ma in realtà per neutralizzare un rivale nella corsa al papato, a cui aspirava. Una volta eletto, Paolo IV lo accusò formalmente di aderire alla dottrina luterana della «salvezza per fede», condannata dal Concilio di Trento nel 1547, e dette l’ordine al cardinale «nepote» Carlo Carafa di farlo arrestare e imprigionare a Castel Sant’Angelo. L’ordine fu eseguito il 31 maggio 1557.
Dopo l’arresto del Morone, Paolo IV affidò la conduzione del processo contro di lui a una commissione di cardinali presieduta dal nuovo capo dell’Inquisizione romana, Antonio Ghislieri, la quale ne dichiarò però l’ortodossia. Ciononostante, Paolo IV continuò a considerarlo sospetto, offrendogli una grazia che egli rifiutò, preferendo difendersi con una dettagliata memoria in cui confutava tutte le accuse rivoltegli e dichiarava la propria innocenza. Restò perciò prigioniero a Castel Sant’Angelo fino alla morte del pontefice, avvenuta il 18 agosto 1559.
Per scongiurare un’eventuale futura elezione a papa del Morone, Paolo IV, prima della sua morte, emanò la bolla «Cum ex apostolatus officio» del 15 febbraio 1559, che sanciva l’ineleggibilità al soglio pontificio di chiunque fosse stato sospettato di eresia.
Dopo la morte di Paolo IV, i cardinali presenti a Roma decisero, con la maggioranza di 13 voti su 25, di liberare il Morone e di ammetterlo al conclave, che si tenne dal 5 settembre al 25 dicembre 1559, nel quale risultò eletto il cardinale Giovanni Angelo Medici, che prese il nome di Pio IV. Il nuovo pontefice impresse una brusca svolta alla politica del suo predecessore, facendo arrestare e processare il cardinale Carlo Carafa, che fu condannato a morte per omicidi, malversazioni e abusi vari nonché per eresia con sentenza del 4 marzo 1560, eseguita il giorno successivo tramite strangolamento. Contemporaneamente Pio IV impose una rapida conclusione del processo contro il Morone, che fu assolto da ogni imputazione, con sentenza del 6 marzo 1560, sottoscritta personalmente dal cardinale Ghislieri per volontà del papa, affinché questi restasse vincolato alla stessa anche in futuro.
Nonostante la riabilitazione, le ombre del passato preclusero però al Morone la possibilità di diventare papa. Nel conclave tenuto dopo la morte di Pio IV per l’elezione del nuovo pontefice, uno dei maggiori favoriti risultò, a un certo punto, il cardinale Morone che stava per essere eletto per acclamazione. Alla sua elezione, però, si oppose il cardinale Ghislieri che lo aveva fatto incarcerare e lo aveva inquisito per eresia ai tempi del pontificato di Paolo IV. Ghislieri fece presente che non era opportuno elevare al soglio pontificio un cardinale che era stato sospettato di eresia e la cui innocenza, sebbene fosse stato assolto, non era stata del tutto provata, come risultava dagli atti del processo ancora in suo possesso. Con questa manovra riuscì a sventare l’elezione del cardinale Morone, che considerava suo avversario, e a favorire quella propria, che avvenne il 17 gennaio 1556, consentendogli di ascendere al soglio pontificio col nome di Pio V. Ancora una volta, un’accusa senza fondamento solido si rivelava un’arma per sventare l’ascesa di un avversario.

Seguendo le orme di Paolo IV, Pio V condusse una lotta senza quartiere contro quella che definiva la «peste dell’eresia», ritenendo che essa avesse contaminato persino i vertici della Chiesa, come dimostrava, a suo dire, il caso del cardinale Morone. Sebbene l’ortodossia di Morone fosse già stata accertata, Pio V riaprì le indagini contro di lui, intenzionato a farne un esempio per dissuadere ogni possibile deviazione dottrinale tra i massimi esponenti ecclesiastici.
Un episodio cruciale della lotta antiereticale di Pio V fu il processo contro Pietro Carnesecchi – ex segretario di Clemente VII e amico del Morone – che venne condannato a morte per eresia.
Durante gli interrogatori, Pio V offrì a Carnesecchi la possibilità di avere salva la vita, a patto che fornisse prove incriminanti contro Morone. Carnesecchi, tuttavia, scelse la via del martirio, dichiarando fino alla fine della sua vita l’ortodossia del cardinale. Il 1° ottobre 1567, egli fu giustiziato in modo brutale a Castel Sant’Angelo: non essendosi staccata la testa dal collo al colpo della mannaia, il boia dovette completare la decapitazione con una spada, e il corpo venne poi bruciato lentamente su un rogo ostacolato dalla pioggia. Le sue ceneri furono probabilmente gettate nel Tevere. Lo stesso giorno, Pio V convocò i cardinali in Vaticano – che poteva essere raggiunto solo passando per Castel Sant’Angelo – obbligandoli a contemplare il macabro spettacolo del corpo carbonizzato di Carnesecchi, un monito severo contro l’eresia. Il cardinale Morone, però, evitò di presenziare al concistoro, scegliendo di rimanere fuori Roma per non assistere alla tragica fine del suo amico.
Solo con la morte di Pio V e l’elezione di Gregorio XIII nel 1572, il cardinale Morone vide riconosciuta pienamente la sua innocenza. Riabilitato, tornò a ricoprire un ruolo di rilievo nella diplomazia della Santa Sede, confermando la sua fedeltà alla Chiesa nonostante le dure prove subite.
Il caso Becciu: la corruzione come arma politica contemporanea
Il cardinale Angelo Becciu, nato nel 1948, ha ricoperto ruoli di primo piano nella Curia romana, incluso quello di Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Tuttavia nel 2020 è stato accusato di peculato e truffa aggravata. A differenza del cardinale Morone, Becciu non è stato incarcerato, ma è stato destituito dai diritti connessi al cardinalato con un provvedimento controverso che ha suscitato clamore e sconcerto. La destituzione di Becciu, presentata come «rinuncia», è avvenuta con modalità che richiamano più il potere assoluto di un monarca medievale che le garanzie di un sistema giuridico moderno.
Le accuse contro Becciu riguardano presunti favori economici concessi ai propri familiari e irregolarità nella gestione dei fondi vaticani. Il processo che lo coinvolge è stato segnato da un’opacità che ha alimentato dubbi sulla trasparenza della giustizia vaticana. Anche in questo caso, il contesto suggerisce che le accuse siano strumentali a dinamiche di potere interne alla Curia. Il Vaticano, infatti, oggi come ieri, è teatro di lotte intestine tra fazioni opposte, e il caso Becciu è un esempio di giustizia piegata a fini politici.
Secondo la sentenza del tribunale vaticano, emessa il 16 dicembre 2023, il cardinale Becciu avrebbe commesso due peculati e una truffa aggravata. Il primo peculato sarebbe consistito nella sottrazione alla Santa Sede della somma di 200.500.000 dollari USA a favore del finanziere Raffaele Mincione ed altri, con la motivazione dell’acquisto di un palazzo sito in Londra, 60 Sloane Avenue, che sarebbe risultato vantaggioso per le finanze vaticane. Il secondo peculato si sarebbe concretizzato con l’appropriazione della somma di 125.000 euro per trasferirla al fratello Antonino, con l’intermediazione della Caritas della diocesi di Ozieri. La truffa aggravata sarebbe consistita nell’erogazione della somma di oltre 570.000 euro, sottratta alle casse della Segreteria di Stato, alla signora Cecilia Marogna con la motivazione che fosse destinata alla liberazione di una suora sequestrata in Mali, mentre in realtà serviva per le spese personali della stessa. Becciu è stato condannato perciò a cinque anni e sei mesi di reclusione, a una multa di 8.000 euro e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Dagli atti del processo però emerge un paradosso perché risulta che non ha trattenuto per sé neppure un euro. Come hanno dimostrato i suoi difensori nel corso del processo, Becciu non ha commesso alcun peculato né alcuna truffa, perché nel caso specifico mancano sia l’elemento oggettivo che soggettivo dei reati. Il peculato consiste nell’appropriarsi a proprio vantaggio o di altri di una somma di denaro o di altro bene della pubblica amministrazione in modo doloso, cioè con la consapevolezza e l’intento di arrecare ad essa un danno per trarne un profitto illecito per sé o per altri. Ebbene, dal processo non è emersa alcuna prova che Becciu abbia agito per procurare a sé, a Mincione e al proprio fratello un profitto illecito a danno della Santa Sede. In relazione al reato di truffa, va osservato che, se esso fosse stato commesso, Becciu avrebbe assunto il ruolo del truffato e non del truffatore. Le somme versate alla signora Marogna erano infatti destinate alla liberazione di una suora sequestrata. Eventuali utilizzi impropri di tali fondi per scopi personali, avvenuti all’insaputa di Becciu, non possono in alcun modo essere a lui imputati. Dal processo è emerso che le azioni di Becciu non erano finalizzate al perseguimento di interessi personali o privati, ma solo ed esclusivamente alla realizzazione degli obiettivi istituzionali della Santa Sede: nel primo caso, un investimento; nel secondo, un’iniziativa caritativa.
La sentenza che ha condannato Becciu solleva seri dubbi sulla correttezza del processo e sulla imparzialità del sistema giudiziario vaticano, dal punto di vista sia procedurale che sostanziale, perché le regole sono state cambiate in senso sfavorevole all’imputato mentre il processo era in corso e la condanna è stata basata sull’interpretazione arbitraria ed estensiva dell’articolo 1284 del Codice di Diritto Canonico che non configura un reato penale, ma ha una valenza solo civile.
Questa decisione risuona come un duro colpo per l’immagine del cardinale e del Vaticano.
Ciò che desta particolare stupore, in questa vicenda, è il silenzio mantenuto da papa Francesco. La domanda che sorge spontanea è se il Pontefice desideri che il cardinale Becciu sia assolto o condannato. In qualità di diretto superiore del cardinale e garante ultimo delle decisioni amministrative e operative compiute sotto il suo pontificato, papa Francesco è probabilmente l’unico in grado di conoscere a fondo l’operato di Becciu. Non si può escludere che sia stato proprio l’aver eseguito fedelmente i suoi ordini a renderlo oggetto di ostilità e trame interne al Vaticano. La questione solleva interrogativi sulla possibilità che il papa intervenga per correggere un evidente errore giudiziario. Papa Francesco troverà il coraggio di ristabilire la giustizia o il cardinale Becciu dovrà attendere la sua morte per vedere riconosciuta la propria innocenza, come avvenne per il cardinale Morone, che fu riconosciuto innocente solo dopo la morte di Paolo IV?
Parallelismo tra due vicende: l’abuso di potere nella Chiesa
L’analisi comparativa del caso Morone e del caso Becciu rivela un inquietante denominatore comune: l’utilizzo strumentale della giustizia come arma politica all’interno della Chiesa cattolica.
Mentre il caso Morone si inscrive nel contesto storico dell’Inquisizione, caratterizzato da una forte centralizzazione del potere e da un’applicazione rigida dell’ortodossia, il caso Becciu si inserisce in un’epoca caratterizzata da una maggiore consapevolezza dei diritti umani e dei principi di legalità.
Tuttavia, le modalità con cui è stato gestito il processo a carico di Becciu evidenziano come le dinamiche di potere all’interno della Chiesa siano rimaste sostanzialmente inalterate. Nel caso di Morone, l’accusa di eresia servì a Paolo IV per eliminare un rivale potenziale. Nel caso di Becciu, l’accusa di corruzione si intreccia con le lotte di potere interne alla Curia, dove le fazioni utilizzano strumenti mediatici e giudiziari per consolidare il proprio dominio. Morone e Becciu restano due vittime illustri, accomunate dall’essere state travolte da una  macchina del potere che, in nome della salvaguardia dell’ordine interno, non ha esitato a sacrificare l’individuo per ragioni che appaiono lontane non solo dai principi di giustizia ma anche dal Vangelo. Questi due casi evidenziano un problema più profondo: la necessità di maggiore trasparenza e giustizia all’interno della Chiesa.
L’opacità con cui vengono gestite queste vicende non solo danneggia le persone coinvolte, ma mina anche la credibilità dell’istituzione ecclesiastica agli occhi dei fedeli e del mondo. È urgente pertanto avviare una profonda riforma delle istituzioni ecclesiastiche. Un’istituzione che dice di fondarsi su principi universali come la giustizia e la verità non può tollerare che il potere venga utilizzato per manipolare i processi e perseguitare i propri avversari. La credibilità della Chiesa, già messa a dura prova, dipende dalla sua capacità di garantire trasparenza, equità e un sistema giudiziario realmente indipendente.

Alberto Vacca

Il contesto storico e politico
L’Italia del 1922 era un paese segnato da profonde tensioni sociali e politiche. La prima guerra mondiale aveva lasciato il suo segno, con una crisi economica e sociale che alimentava il malcontento delle classi lavoratrici. In questo clima di fermento, si innestò l’ascesa del fascismo, che si impose con una violenza brutale, schiacciando ogni forma di dissenso e distruggendo le basi democratiche costruite nei decenni precedenti. In questo contesto si inserisce l’episodio tragico dell’eccidio dei fratelli Fois, avvenuto a Portoscuso il 29 dicembre 1922.
Nel 1922 il fascismo, guidato da Benito Mussolini, aveva ormai consolidato il proprio potere attraverso la violenza delle squadre d’azione. La marcia su Roma del 28 ottobre di quell’anno aveva sancito la fine dello Stato liberale e l’inizio del regime fascista. Portoscuso, un piccolo centro del bacino minerario del Sulcis, non era immune dalle tensioni che scuotevano il Paese. La cittadina era caratterizzata da una forte presenza operaia, con una tradizione di lotte sindacali e socialiste che la rendevano un obiettivo delle squadracce fasciste.
I fratelli Luigi e Salvatore Fois, nati in una famiglia di estrazione modesta, rappresentavano perfettamente lo spirito di resistenza di molti lavoratori sardi. Impegnati attivamente nelle organizzazioni socialiste, i due fratelli erano figure di riferimento per la comunità locale, simboli di coraggio e determinazione contro l’arroganza del regime nascente. La loro opposizione al fascismo li rese un bersaglio privilegiato delle violenze fasciste.
I fatti del 29 dicembre 1922
La tragica giornata del 29 dicembre 1922 iniziò con un’incursione di una squadra fascista a Portoscuso. Capeggiata da Dante Sagheddu, segretario del fascio di Iglesias, essa giunse armata nel piccolo borgo per colpire chiunque rappresentasse una minaccia al dominio fascista nella zona del bacino minerario. Luigi Fois – capo della Federazione socialista dei battellieri addetti al trasporto del minerale dalle miniere dell’Iglesiente al porto di imbarco di Carloforte – venne individuato come il principale obiettivo.
La mattina di quel giorno, un gruppo di fascisti, tra cui De Filippi, Scameroni e Zuddas, si recò da Portoscuso a Portovesme con l’intento di persuadere Luigi Fois a seguirli fino a Portoscuso per un incontro con il leader locale, Dante Sagheddu. Giunti sul posto, i fascisti si avvicinarono al piroscafo dove sapevano si trovasse Luigi Fois e chiesero di lui ai battellieri ivi presenti. Venne a loro comunicato che Luigi era appena tornato indietro. Così, i fascisti si spostarono verso la banchina, dove trovarono il Fois, ignaro di quanto stava per accadere. La situazione, che sembrava
potesse condurre a una semplice conversazione, si trasformò in un conflitto esplosivo. I testimoni presenti sul posto riferirono che, non appena Scameroni invitò Luigi a recarsi con loro, quest’ultimo rifiutò l’invito. Al che Scameroni e i suoi compagni tentarono di trascinarlo via con la forza. In un gesto impulsivo, Salvatore Fois, vedendo il fratello maltrattato, intervenne e colpì Scameroni con una roncola. L’atto di difesa, carico di emotività, accese il caos: De Filippi, Zuddas e Scameroni risposero aprendo il fuoco e sparando alcuni colpi di pistola contro i due fratelli, che caddero a terra, privi di vita, in un batter d’occhio.
La notizia dell’eccidio si diffuse rapidamente, suscitando indignazione e dolore non solo a Portoscuso, ma anche nelle comunità circostanti. Tuttavia, in un’Italia ormai soggiogata dalla dittatura fascista, non ci fu giustizia per i fratelli Fois. I responsabili della loro morte – De Filippi, Scameroni e Zuddas – furono processati e condannati dalla magistratura, presso la Corte d’assise di Cagliari nell’agosto 1924, ma non scontarono le pene loro inflitte perché furono graziati e rimessi in libertà dal regime fascista, dopo avere scontato solo tre anni e dieci mesi di carcere.
Il significato della loro morte
La tragica fine di Luigi e Salvatore Fois però non fu vana. I due fratelli morirono per difendere i valori fondamentali di libertà, giustizia e democrazia, rifiutando di piegarsi a un regime che cercava di annientare ogni forma di opposizione. La loro storia è un monito per le generazioni future, un ricordo di quanto sia importante difendere i diritti e le libertà fondamentali, anche a costo della propria vita.
Oggi, a distanza di oltre un secolo, l’eccidio dei fratelli Fois continua a rappresentare una pagina dolorosa ma significativa della storia italiana. Ricordare il loro sacrificio significa rendere omaggio a tutti coloro che, come loro, hanno lottato per un’Italia libera e democratica. La memoria di Luigi e Salvatore Fois deve restare viva, affinché il loro esempio possa guidare le future generazioni nella difesa dei valori che essi hanno rappresentato.
In un’epoca in cui le minacce alla democrazia e alle libertà emergono sotto nuove forme, la storia dei fratelli Fois è un richiamo potente a non abbassare mai la guardia, a combattere per ciò che è giusto.
Alberto Vacca

1 Silenzi

Desidero fare una premessa. Quando Velio Spano morì, nel 1964, io lo sostituii nel Consiglio Comunale di Carbonia. Ero la prima dei non eletti, indipendente nella lista del P.C.I. Velio Spano era stato un protagonista di grande rilevanza nella politica internazionale. Aveva avuto un’esperienza politica tunisina e mediterranea, come fuoriuscito nel fascismo. Nel postfascismo di Carbonia aveva diretto positivamente un lungo e difficile conflitto politico e sindacale. Nel 1956 e durante il risveglio dei movimenti di liberazione anticoloniale, era stato responsabile della sezione esteri del P.C.I. Nel 1958 era diventato segretario del movimento italiano e membro della presidenza dell’organizzazione mondiale per la pace. Accadde anche che fosse sostituito nel Consiglio Comunale di Carbonia da una sbiadita e inesperta ragazzina di 24 anni.
Nel 1964 ero una piccolissima briciola politica che si imbatteva nei cascami del fascismo residuale, che in certi ambiti di Carbonia perdurava. Mi pagavo gli studi universitari con supplenze precarie, a nomina dei presidi. In una scuola media, con un preside che si diceva liberale, ero sempre prima in graduatoria, ma non venivo mai chiamata per supplenze, date le mie posizioni di sinistra. Residui di autoritarismo fascista erano ben presenti a Carbonia quando Velio ne scriveva e durarono anche dopo la sua morte.
Era di plateale evidenza la mia inesperienza. Tacqui al momento in cui lo sostituii, per evitare ogni inutile retorica. Nadia lo ha avvicinato a me, offrendomi certe sue dimensioni di vita personale e familiare, e facendomelo sentire vicino e amico. Oggi voglio personalmente onorare Velio Spano dicendo quanto egli ha contribuito a farmi diventare una orgogliosa e ostinata comunista italiana, ancora impegnata per realizzare compiutamente la nostra costituzione, egualitaria e pertanto antifascista.
A Carbonia non eravamo tutti comunisti. Neppure nel 1948, anno di grandi conflitti. Nanni Balestrini, invece, nel 1971 scrisse di Carbonia. Narrò la storia di un minatore da lui intervistato e usò un titolo totalizzante: Carbonia. Eravamo tutti comunisti. Questo testo fu presentato con una versione in inglese nel 2012 all’interno di Documenta, una rassegna artistica internazionale, a cadenza quinquennale, che si tiene a Kassel. Il protagonista fu partigiano, prigioniero dei tedeschi e poi nei lager. A Carbonia lavorò in miniera e del lavoro dice: quello del minatore è un lavoro duro dove la persona s’imbestialisce (p. 36).
L’imbestialirsi appare un esito lavorativo obbligato e al lavoratore assoggettato rimane la violenza.
In breve, il protagonista appare estraneo alla dimensione democratica e profondamente autonomistica suscitata da Velio Spano nelle lotte operaie del bacino carbonifero. Sono celati differenti esperienze dei minatori i quali, proprio nel vivo di quelle lotte autonomistiche si fecero soggetti autonomi rifiutando gli esodi con super-liquidazione, che il suo protagonista invece accettò. In breve, l’autore e l’opera non hanno dato a Carbonia né verità né lustro, in tale prestigiosa occasione.
Vorrei partire da una personalissima dimensione di Velio nei giorni finali della “non collaborazione” dei 72 giorni che durò dal 7 ottobre al 17 dicembre 194: quella dei suoi silenzi.
Nella sua autobiografia pubblicata nel 2005, Mabrùk. Ricordi di una inguaribile ottimista (che può essere tradotto benedetto o benedetta secondo il termine di indirizzo, oppure congratulazioni secondo il contesto o l’occasione), a pagina 323 Nadia parla del «preoccupato silenzio» quando Velio e Pietro Cocco stavano insieme mentre la vertenza non si chiudeva. Nadia me li ha raccontati come “terribili silenzi”. Nel dialogo spontaneo diceva qualcosa di assai più toccante.
I “terribili silenzi di Velio”, dopo la sconfitta delle sinistre del 18 aprile e l’attentato a Togliatti del 14 luglio di quel 1948 con le sue rischiose conseguenze, probabilmente dicevano di rischi politici che erano anche rischi vitali per il futuro di migliaia di persone, rischi che si addensavano oscurando infine quella lunga e drammatica vertenza che riguardava particolari rischi patiti. Vi invito a riflettere con me sul ruolo di Velio e di Nadia sia sul patire comune e sia sulle strategie di solidarietà democratica realizzate nei conflitti sociali e politici presenti a Carbonia localmente, ma di scala assai più ampia.

2 Oltre i silenzi. Nei discorsi “carboniesi” di Velio la cruciale matrice gramsciana

Possiamo trarre certi elementi che nutrivano quei silenzi, in una certa misura, specialmente dai “discorsi carboniesi” di Velio, in cui appare evidente una matrice gramsciana. Un esempio si trova nel libro edito da Antonello Mattone nel 1978, con titolo assai eloquente Per l’unità del Popola sardo, quando Velio afferma:
La parola centrale dell’azione di Gramsci diventa la parola UNITA’…(egli) costruiva per l’avvenire…Egli proiettava la sua opera al di là della morte. Possiamo pertanto, a mio avviso, accostare Spano a Gramsci precisamente su due versanti messi in opera da entrambi: il primo versante riguarda l’obiettivo di perseguire l’unità popolare, il secondo l’orizzonte dell’operare per l’avvenire.
Propongo questo accostamento di fondo, come un modo utile per portare con noi sia Antonio Gramsci e sia Velio Spano oltre la memoria, proiettandoli insieme nel presente della nostra contemporaneità.

3 Con Velio per lavoro e vita e per vita e lavoro. Solidarietà umana e politica nella “non collaborazione”

Carbonia e il bacino carbonifero ebbero un ruolo assai rilevante nelle vicende del secondo dopoguerra e nel corso dei processi di concentrazione monopolistica e finanziaria delle imprese. Tali processi erano ben noti a Velio che mostra di conoscere, per esempio, il lavoro di Pietro Grifone, edito nel 1945 con il titolo Il capitale finanziario in Italia. Tuttavia, nei suoi discorsi egli metteva particolarmente in luce non solo il versante dei processi di concentrazione capitalistica, ma specialmente il versante degli effetti di tali politiche monopolistiche sulla vita quotidiana della popolazione. Inoltre, egli poneva in evidenza la prosecuzione della corruzione e della repressione, imperanti come forme continuative del fascismo. Infine, portava in vista la continuità storica della miseria e della fame che continuava a colpire persone e popolazioni locali nell’Isola. Egli affermava in modo assai radicale, come appare a pagina 60 nel testo di riferimento:
Si tratta, per la Sardegna, di una questione di vita o di morte.
A pagina 71 dello stesso libro si leggono frasi che purtroppo evocano una certa attualità sarda e nazionale, sui salari insufficienti per vivere: I sardi lavorano. Ma i sardi hanno fame.
Nell’Isola, durante il dopoguerra di fame e la politica repressiva del governo Scelba, le potenziali ricchezze del carbone sulcitano, che era servito «in vista della guerra e poi per la guerra», offrivano nuove opportunità per assumere caratteristiche inedite e valide in tempo di pace. Il carbone sulcitano, infatti, poteva valere in modo storicamente innovativo diventando materiale per nuovi usi chimici, rispetto ai suoi storici usi combustibili: poteva essere valorizzata proprio la presenza di azoto, penalizzante invece nella combustione.
Gli aspetti tecnici ed economici erano stati ben studiati e avevano ottimamente preso corpo soprattutto nel secondo Progetto Levi, incentrato sull’uso chimico-industriale del carbone e volto a superare il disordine aziendale imperante. Spano ne riferì assai puntualmente nella rivista «Rinascita», pubblicata nel dicembre del 1948. Il piano dell’ingegner Levi, presidente dell’Azienda Carbonifera, era avversato dal monopolio chimico della Montecatini che aveva vari alleati fra i dirigenti delle miniere carbonifere sarde, come il fedelissimo direttore generale della stessa Azienda Carbonifera, l’ingegner Spinoglio, che preferiva assecondare «l’imbelle politica» dei finanziamenti a fondo perduto, a scapito dei progetti di rilancio produttivo.
Richiamo fatti ben noti, per sottolineare che Spano, nelle vicende della “non collaborazione” dei minatori, metteva in luce certe connessioni fra vari aspetti convergenti nella crisi produttiva aperta.
In prima istanza egli faceva emergere l’intrigo del monopolio chimico, che incombeva sul bacino carbonifero, agevolato da certi vertici della stessa Azienda Carboni Italiani. Inoltre, mostrava come la direzione aziendale non collaborava con i lavoratori per lo sviluppo industriale carbonifero e contribuiva invece ad affossare le prospettive positive. Il primo indirizzo critico riguardava le complessive inadeguatezze e debolezze, fino ai reali sabotaggi, di certi dirigenti aziendali. Dall’altro lato Velio rimarcava le scelte antisociali che l’azienda preferiva per realizzare economie, adottando misure che incidevano sui livelli di vita delle persone che vi lavoravano e delle loro famiglie.
Presentando dettagliatamente i conti della spesa, Velio provava che i provvedimenti aziendali rendevano precarie le condizioni di vita per quanti non accettavano le super-liquidazioni e le smobilitazioni con un premio di 30.000 lire.
Consideriamo con Velio, e anche un po’ con la pertinente antropologia dei poteri del filosofo Michel Foucault, i salari di quel tempo in rapporto agli aumenti del costo della vita imposti dall’Azienda come insufficienti per vivere. Un alloggetto che era costato 63 lire al mese costava poco più del doppio, 132 lire. Un posto-letto per scapolo costava ogni giorno quel che prima costava ogni mese. I sei quintali di carbone concessi erano stati ridotti a quattro. Il prezzo del carbone era stato aumentato da 12 a 300 lire, quello della corrente elettrica da una lira e mezzo a dodici lire. Tali aumenti costituivano una brusca e forte riduzione del salario per una media di 1500-2000 lire mensili, con vari rischi di sopravvivenza a seconda del numero e dei bisogni dei familiari. Si era nel campo dei poteri di vita, drasticamente ridotti ai lavoratori e alle loro famiglie.
Per chi restava al lavoro le misure imposte dall’Azienda riguardavano in particolare nuovi criteri di applicazione dei cottimi. Inasprire i cottimi significava accelerare il lavoro a scapito dei tempi da dedicare all’attenzione lavorativa e pertanto alla prevenzione dei rischi vitali. Per quanto riguarda i cottimi, la direzione aziendale che era riuscita a modificarne l’applicazione a proprio vantaggio con vari colpi di mano: sia eludendo la vigilanza delle Commissioni interne e sia con la complicità di un Comitato di Gestione addomesticato con la corruzione di qualcuno e con l’ingenuità di qualche altro, oppure evitando di convocare i membri effettivi e facendo invece partecipare i supplenti più docili. Niente era stato fatto, invece, per migliorare le condizioni di lavoro, per rinnovare le attrezzature, per eliminare gli sprechi, per eliminare il disordine amministrativo, per ovviare agli errori tecnici, per utilizzare i residui sterili.
Queste erano le informazioni che Velio Spano diffondeva sulle difficoltà di poter vivere e del poter lavorare in sicurezza nell’Azienda. I poteri di vita dei minatori erano limitati per un verso con l’aumento dei costi di beni primari per vivere (affitti, luce, riscaldamento) per l’altro verso con i cottimi che, accelerando il lavoro, indebolivano l’attenzione verso i rischi lavorativi.
I vari cottimi minerari, denominati o meno Bedaux, avevano un’ascendenza mondiale che faceva capo alla cosiddetta Organizzazione Scientifica del Lavoro, al Taylorismo e al fordismo americano. Richiamo solo le note di Gramsci su Americanismo e fordismo. I principi di accelerazione del lavoro con un modello unico imposto di lavoro accelerato, riguardavano un cambiamento epocale mondiale. In miniera, a giudizio dei minatori carboniferi più accorti, significava instaurare pratiche da “bestia lavorante” che non pensava autonomamente al valore della vita condivisa.
I migliori minatori, i “maestri” nelle miniere carbonifere avevano invece creato pratiche autonome di attenzione ai rischi, sempre più condivise e validate. Le pratiche diffuse da tali minatori erano alternative rispetto ai bestiali e rischiosi cottimi accelerati e costituivano un alternativo modello culturale di lavoro ragionato, produttivo di spazio e di tempo vitali, insieme al minerale. L’impegno di Velio contro i cottimi stabiliva una particolare solidarietà culturale e politica con le pratiche e i modelli lavorativi vitali che si diffondevano fra i lavoratori di miniera.
La “non collaborazione” dei minatori affrontava anche il nodo dei poteri di vita nella parte che contrastava i rischiosi cottimi. Nel 1948 erano morti in miniera 9 operai. L’ultimo perì durante la vertenza, il 5 ottobre. I funerali dei morti in miniera esprimevano e costituivano una solidale comunità di dolore condiviso. Erano performativi. Producevano speciali solidarietà.
La vertenza in atto riguardava complessivamente i biopoteri alimentari e lavorativi. Nel verbale di accordo che concludeva la lunga vertenza, il punto 5 riguardava interventi negli spacci aziendali con funzioni calmieratrici per l’acquisto di generi alimentari, il punto 6 stabiliva la revisione concordata dei cottimi.


Sia sul versante dei costi per i beni primari di vita e sia per i cottimi, si giunse per certi versi con Velio Spano in un campo, assai avanzato, di lotta per i diritti umani alla vita la cui Dichiarazione avvenne il 10 dicembre del 1948, mentre la lunga agitazione pareva estendere fino a lì la portata del proprio campo conflittuale. D’altra parte, quando l’azienda licenziava, restare senza lavoro costituiva un differente rischio di salute e di vita limitata in altri modi.

4 Fra i silenzi di Velio e i discorsi di Nadia: solidarietà di genere e solidarietà fra i generi

Nei licenziamenti erano comprese le donne, come Spano denunciava e come compare a pagina 103 del prezioso libro di Mattone: Hanno continuato operando licenziamenti a danno, non degli elementi superflui, ma degli elementi e delle categorie più deboli, p. es. le donne.
Le donne sono a questo punto nominate per la prima volta e appaiono in questi scritti quasi come un non detto. Possiamo vedere tali silenzi negli scritti di Velio, storicizzandoli adeguatamente come limiti politici. Possiamo considerarli per certi versi come complementari al sorgere di autonomi movimenti progressisti di donne, come per esempio l’Unione Donne Italiane, a cui non era estranea Nadia Gallico Spano, compagna e moglie di Velio. Tuttavia, la stessa Nadia ci aiuta forse a capire meglio tali questioni quando, scrivendo Mabrùk, a pagina 310 afferma:
Per noi, donne comuniste, l’attività quotidiana era estremamente difficile anche perché, come ho già detto, nel Partito molti attribuivano al voto delle donne la grave sconfitta elettorale dell’aprile 1948. Per anni ci siamo sentite accusare di aver favorito la vittoria della Democrazia cristiana. A parole i compagni riconoscevano l’importanza di un’azione tra le donne, ma questa veniva affidata esclusivamente a noi; se i risultati non erano evidenti e ottenuti in tempi brevi, venivamo tacciate d’incapacità.
Vorrei condividere un breve colloquio, donatomi da Nadia il 30 giugno del 1972, in cui risalta l’impegno democratico delle donne di Carbonia contro la fame e contro la grave povertà infantile: problema non estraneo alla nostra contemporaneità
Mi ricordo dei bambini. Dunque dovettero essere trasferiti in continente nel gennaio del Cinquanta. Mi pare, dopo lo sciopero dei 72 giorni. Fu frutto, naturalmente dell’organizzazione. Il trasferimento avveniva tramite l’UDI (Unione Donne Italiane), il sindacato e il partito locale, ma anche dei paesi ospitanti….
Quando c’erano lotte, sul piano sindacale di particolare importanza, allora risorgeva l’iniziativa. Ora se vogliamo è specifico di Carbonia e nello stesso tempo non lo è. Faccio un esempio: quando le donne di Carbonia si ponevano tra i minatori e la polizia non è che lo facessero perché in Emilia si è fatto così, ogni volta si ricrea la tradizione e si rinnova in forme specifiche. Comunque, dobbiamo dire che la polizia non le risparmiava, perché la polizia in quel periodo si scagliava indistintamente su donne, bambini, senza risparmiare nessuno
Nell’ordine del suo discorso, Nadia sembrava accostare o intrecciare due ordini di rischi: sia i rischi della fragilità dell’infanzia povera per la crisi alimentare, nella drammatica condizione delle famiglie operaie durante la cruciale vertenza con l’Azienda, e sia i rischi della repressione poliziesca durante le manifestazioni democratiche. Su entrambi i rischi affrontati delle donne carboniesi vorrei richiamare una particolare attenzione.
Le esperienze di ospitalità dei bambini carboniesi “in continente”, in realtà, erano un’espansione di precedenti e più limitate esperienze locali, come appare dallo spoglio del quotidiano comunista. Il 10 settembre 70 bambini erano partiti da Carbonia, ospitati da famiglie contadine per la “vendemmia della solidarietà” dedicata ai bambini vittime della politica scelbiana. Il 14 settembre erano diventati 85. L’Unità del 18 settembre denunciava che con 20.600 lire di salario non era possibile andare avanti. Il 23 di quel mese i bambini di Carbonia, ospitati dalle famiglie contadine della provincia, attraverso il quotidiano comunista, mandavano saluti ai parenti lontani con una foto.

Poco più di due mesi dopo, 19 novembre, mentre si dispiegava l’offensiva aziendale con il dimezzamento delle paghe, 105 bambini di Carbonia erano scelti per essere ospitati “in continente”. La decisione fu presa nel Convegno nazionale dell’UDI, svoltosi a Firenze. Nadia Spano aveva sollecitato nuove solidarietà per le lotte di Carbonia.

Ospitalità e aiuti economici furono decisi allora, insieme a beni alimentari e igienico-alimentari.

Solidarietà democratiche inizialmente a scala regionale si estesero, per opera delle donne, a livello nazionale con i bimbi di Carbonia. Quasi una settimana prima, il 13 novembre, uno sciopero di 24 ore era stato realizzato in tutte le miniere d’Italia in solidarietà con i lavoratori e la popolazione di Carbonia.
La solidarietà di donne a Carbonia e verso Carbonia risultò forte ed estesa, ma non fu l’unica dimensione dei loro modi d’agire democratici. L’agire solidaristico delle donne non deve occultarne l’intersezione con i comportamenti di fronteggiamento, di contrasto, di opposizione realizzati in proprio e per sé dalle donne stesse contro la repressione poliziesca messa in campo dal Commissario di P.S., ex repubblichino Antonio Pirrone, giunto in città il 19 giugno 1948 che non risparmiava donne e bambini.
Per spiegarmi sulla portata degli scontri delle donne con le forze dell’ordine, anticipo un fine antropologo inglese ancora vivente, Tim Ingold. Egli ci aiuta a vedere che tali donne, mentre operavano nella sottomissione difendendosene in prima persona, agivano attivamente anche su altri piani: sia sulla sottomissione stessa per indebolirla e sia su di sé per affermarsi come soggetti di autonomia e di libertà.
Egli giunge ad affermare acutamente che «il fare nel subire è opposto al subire nel fare». L’attiva padronanza su di sé nelle e contro sottomissioni sprigiona, secondo Ingold, certe capacità di autogenerarsi come persone libere. Il fare per trasformare le sottomissioni è perfino particolare cura di sé, secondo questo antropologo: crea infatti autonomamente un proprio sé di valore, valorizzato nel proprio agire.

Quando Nadia afferma che le donne avevano affinato le proprie capacità democratiche nel concreto agire solidale che non si limitava alla denuncia della fame, possiamo trovarvi il senso delle analisi fatte da Foucault sugli affrontamenti anti-autoritari che realizzano l’emergere di soggettivazioni autonome.
Possiamo rilevarvi anche certe prossimità con le analisi di Ingold che analizza l’agire contrastivo nelle e sulle sottomissioni: un agire specifico che produce d’umanità e che fa umanità contenendo le oppressioni e gli oppressori violenti.
Le donne di Carbonia realizzavano non solo solidarietà democratiche con i lavoratori in lotta, ma anche autonome strategie, in un processo autonomo di sviluppo democratico personale e collettivo. A partire da certe reazioni spontanee dopo l’attentato a Togliatti del 14 luglio nel 1948, esse erano diventate protagoniste non solo nelle dimostrazioni di piazza e nei cortei con repressioni violente, ma anche imputate nei tribunali, recluse nelle carceri, elette nelle istituzioni locali come rappresentanti del popolo. In gran parte ciò era avvenuto attraverso le loro esperienze in contrasto con Pirrone.
Ai fatti di Carbonia del 22 luglio che seguirono l’attentato parteciparono due donne, con l’assalto ai magazzini di Multineddu: Scanu Giulia e Masala Lucia. Non fu un atto di semplice vandalismo. Sarebbe riduttivo. Possiamo anche intravvedervi una logica di proprio contrasto rabbioso contro la stessa Azienda Carbonifera. Egli, infatti, vendeva a prezzi non concorrenziali e maggiorati avvalendosi dei cosiddetti boni fidus, moneta cartacea privilegiata e garantita dall’Azienda che aveva come antecedenti i noti ghignoni diffusi nelle zone minerarie inglesi e usati agli inizi del secolo a Bacu Abis, come ho ricordato lì. Alla rabbiosa devastazione delle Acli, vista come organizzazione fiancheggiatrice della politica aziendale, parteciparono sei donne. Con la sentenza del 24 dicembre del 1949, dopo quasi un anno e mezzo di carcere, due furono assolte: Farris Antonietta e Osanna Genoveffa. Quattro furono invece condannate a 2 anni e 6 mesi di reclusione: Caddeo Eleonora, Pazzaglia Teresa, Pusceddu Cicita, Ledda Luciana. Quest’ultima aveva partorito in carcere.
Per i fatti di Bacu Abis dello stesso luglio dall’Arma dei Carabinieri furono denunciate 8 donne. Furono in seguito rinviate a giudizio 11 donne e furono condannate in 13, sia pure con pene lievi, per aver invaso la sede del partito sardista con violenze e minacce: Aracri Rosa, Bonavento Vitalia, Cadeddu Assunta, Dessì Rosa, Diana Angela, Farris Carmela, Locci Angela, Pinna Francesca, Putzu Barbara, Putzu Petronilla, Sanna Beatrice, Scanu Maria Rosa, Valdés Gisella. Fu una prima fase di spontaneismo, come in altre parti d’Italia.
Nadia parlava esplicitamente di lotte delle donne di Carbonia per il lavoro e per la vita nel libro collettaneo Cari bambini vi aspettiamo con gioia nelle pagine 126-129. Nel suo libro autobiografico, a pagina 325, Nadia Gallico Spano diceva ancora di quelle lotte cittadine definendole per il diritto alla vita e al lavoro. Il diritto alla vita risultava allora in primo piano. pagina 310, Nadia ricordava con orgoglio la combattività delle donne di Carbonia, meglio organizzata sul piano democratico. In particolare, nominava Graziella Marongiu, che divenne moglie di Licio Atzeni poi segretario della Federazione del Sulcis. Ricordava anche Peppina Salaris che divenne consigliera comunale e molti di noi chiamavano Peppina Nieddu.
In quelle popolari lotte cittadine le donne facevano la loro parte importante contro i poteri che limitavano o mettevano a rischio la vita delle persone, affrontando con inedito coraggio le violenze poliziesche quando partecipavano alle manifestazioni per diritti umani vitali. Velio lo sapeva bene.
Le donne di Carbonia in quegli anni seppero andare in prima fila nei cortei fronteggiando le cariche delle forze dell’ordine, ma impararono anche a nascondersi nei cespugli, quando era possibile, per sottrarsi alle violenze delle cariche poliziesche ordinate per sciogliere i comizi dal commissario di P.S. Antonio Pirrone, ex repubblichino, condannato e riabilitato in un clima fin troppo indulgente del post fascismo. Su di lui a Carbonia ho appreso informazioni importanti dal prezioso testo inedito di Alberto Vacca, La repressione del commissario Pirrone contro i comunisti nella città di Carbonia (1948-1949). Egli sciolse così il comizio di Velio il primo settembre del 1948, quello di Nadia il 28 agosto del 1949, quello di Dessanay il 16 ottobre dello stesso anno provocando proteste parlamentari a livello nazionale e regionale. Giunto a Carbonia il 19 luglio del 1948, fu trasferito dalla città il 31 agosto 1949. Fu un tempo assai breve ma, nel ricordo delle molte persone con cui ho parlato, quel tempo era straordinariamente lungo per le violente limitazioni alla libertà subite. Nadia parla delle manganellate da lui ordinate senza risparmiare donne e bambini nella sua autobiografia, a pagina 322. Velio lo sapeva bene.


Dei racconti avuti in città sulla fame rischiosa patita e sulla solidarietà politica incentrata su Velio posso offrire ora solo pochissimi frammenti: mia madre era sempre malata, a capogiro, e il medico diceva sempre che era denutrizione. Erano anni di fame e malattie. in via M ci sono tante famiglie; ci conosciamo dalla A alla Z: una vita uguale alla nostra…La miseria dava una coscienza… Una volta mia zia mi ha portato a uno sciopero, a Bacu Abis… era un corteo soprattutto di donne…Nei periodi di fame non si trovavano neppure erbe selvatiche, era tutto cercato… Eravamo in questo i più attivi della strada, specialmente mia sorella
la figura di Velio Spano come dirigente era popolare perché si spingeva nella lotta ed era sempre fra gli operai… Qui non c’è l’affetto come in paese, ma c’è l’unità politica… L’arresto mio, per esempio, comportava anche il licenziamento. Ma molti, come per i 72 giorni, sono riusciti a ottenere che fossero riassunti. E questa fu una vittoria. Non si sarebbe potuto fare, se gli operai non fossero stati convinti di avere ottenuto un successo.
Le donne democratiche di Carbonia andavano avanti con Velio e con Nadia Spano realizzando un’autonomia che partiva da sé stesse e incrociava gli operai nelle intersezioni delle esperienze subite. Si agiva insieme per indebolire chi limitava o negava sia una vita sicura e sia le libere manifestazioni di dissenso al malgoverno aziendale con proposte alternative. Tali donne creavano nuove solidarietà di genere e nuove solidarietà fra i generi per il proprio avvenire e per quello della città, del territorio locale e regionale e anche oltre, con l’obiettivo di creare una sicurezza vitale che toccava la pace diffusa.
L’asse politico generativo della solidarietà fra i generi riguardava gli innovativi usi pacifici del carbone, allora chimici, incentrati nel Progetto Levi. Gi usi innovativi del carbone come materiale non combustibile e delle stesse miniere è un tema assai attuale e ha nuove declinazioni: dal progetto Aria a una serie di nuovi progetti che vengono elaborati, per esempio, a Nuraxi Figus. Tali progetti non risultano al centro di un dibattito pubblico ampio e diffuso per scelte popolarmente condivise. Non appaiono come punti forti di orientamenti istituzionali per il futuro del territorio carboniese, sulcitano e regionale. Manca la riconoscibile visibilità dei partiti della sinistra, impegnati per innovare il piano produttivo, il piano istituzionale, il piano della rappresentanza degli interessi popolari, che risultano lasciati alla deriva populista. Vari sindaci appaiono soli e costretti a microfisiche mediazioni politiche, in assenza dei partiti. C’è molto da fare dopo le macerie delle rottamazioni e nell’avanzare delle tracotanze autoritarie.
Velio e Nadia sono qui con noi ora. E saranno entrambi presenti, ne sono profondamente convinta, in tutti i nostri impegni di pace con una nuova unità democratica per un futuro vitale condiviso: impegni in cui sappiamo trarre forza e orgoglio dalle storiche esperienze fatte con entrambi, per rigenerare e irrobustire noi stessi e le sinistre, insieme alla città e al territorio, portando a pieno compimento la Costituzione Italiana.

Paola Atzeni

E’ stato presentato lunedì 16 settembre, nella sede del Circolo Euralcoop, in piazza Matteotti, a Carbonia, il libro “L’occhio del Duce in casa Matteotti – La spia dell’Ovra Domenico De Ritis”, di Alberto Vacca, prefazione di Giorgio Benvenuto. La presentazione, in una sala piena, presenti Alberto Vacca e Giorgio Benvenuto, è stata moderata da Pierino Agus, presidente dell’associazione “Amici della miniera”.

L’autore del libro, Alberto Vacca, è laureato in Filosofia e Giurisprudenza. Ha insegnato storia nei licei italiani e in un liceo internazionale di Parigi e ha pubblicato vari libri. Vive a Roma.

L’autore della prefazione, Giorgio Benvenuto, è stato segretario del PSI e della UIL, senatore e deputato, presidente della commissione Finanze sia al Senato sia alla Camera.

Chi era Domenico De Ritis? Un grande simulatore e dissimulatore che, nella sua qualità di spia dell’Ovra, rese un grande servizio a Benito Mussolini, neutralizzando l’azione politica della vedova di Giacomo Matteotti, Velia Titta, durante gli anni del regime, e quella di Bruno Buozzi nel periodo della repubblica di Salò. Vissuto sempre nell’ombra, tessendo subdole trame nei confronti delle vittime da lui spiate, uscì indenne dal processo penale e da due procedimenti amministrativi che furono promossi contro di lui nell’immediato secondo dopoguerra. Fu senza dubbio la spia più geniale del regime fascista che, dopo avere svolto attività spionistica per quattordici anni, riuscì persino a farsi cancellare dall’elenco delle spie dell’Ovra pubblicato nel 1946, in cui era compreso il suo nome, e a farsi passare come benefattore della famiglia Matteotti e di quella di Bruno Buozzi.

Prima dell’inizio della presentazione del libro, abbiamo intervistato Giorgio Benvenuto.

 

L’Associazione Amici della Miniera di Carbonia, in concorso organizzativo con il circolo soci Euralcoop, il CSC Umanitaria Fabbrica del Cinema,  l’Associazione Storia e Radici della Città di Carbonia, Il Circolo ANPI di Carbonia, lo SBIS, e con il patrocinio del comune di Carbonia, ha programmato per il giorno lunedì 16 settembre, alle ore 17.00, nella Sala Assemblee del Circolo Soci Euralcoop, nell’ambito delle manifestazioni per il centenario dell’assassinio di Giacomo Matteotti, organizzato ed eseguito dallo squadrismo fascista, la presentazione del libro del prof. Alberto Vacca, “L’occhio del Duce in casa Matteotti”.

Chi era Domenico De Ritis? Un grande simulatore e dissimulatore che, nella sua qualità di spia dell’Ovra, rese un grande servizio a Mussolini, neutralizzando l’azione politica della vedova di Giacomo Matteotti, Velia Titta, durante gli anni del regime, e quella di Bruno Buozzi nel periodo della repubblica di Salò. Vissuto sempre nell’ombra, tessendo subdole trame nei confronti delle vittime da lui spiate, uscì indenne dal processo penale e da due procedimenti amministrativi che furono promossi contro di lui nell’immediato secondo dopoguerra. Fu senza dubbio la spia più geniale del regime fascista che, dopo avere svolto attività spionistica per quattordici anni, riuscì persino a farsi cancellare dall’elenco delle spie dell’Ovra pubblicato nel 1946, in cui era compreso il suo nome, e a farsi passare come benefattore della famiglia Matteotti e di quella di Bruno Buozzi. Prefazione Giorgio Benvenuto.

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La legge 81/2017 sarà al centro del convegno “Jobs Act del lavoro autonomo”, in programma venerdì 26 gennaio, dalle 9.30, al T-Hotel di Cagliari, organizzato da Confprofessioni Sardegna, la rappresentanza sindacale di categoria che tutela nell’isola gli interessi dei liberi professionisti, e che intende offrire in questo modo un momento di informazione e di confronto sulle opportunità garantite dalla nuova normativa riguardanti, ad esempio, il welfare, la formazione, l’accesso ai fondi europei e quello al credito, il sostegno al reddito e nuovi ambiti di business. 

Al convegno (che sarà aperto dai saluti degli assessori regionali al Lavoro Virginia Mura, all’Industria Maria Grazia Piras, agli Affari Generali Filippo Spanu, e da quello del presidente nazionale di Confprofessioni Gaetano Stella) parteciperanno numerosi esperti tra cui il presidente dell’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro Maurizio Del Conte, il presidente di Confprofessioni Lazio Andrea Dili, la deputata Chiara Giribaudo e l’europarlamentare Salvatore Cicu.

La prima tavola rotonda si terrà nel corso della mattinata e avrà come tema “Lo Statuto del lavoro autonomo e il professionista 4.0”. Interverranno  Maurizio Del Conte, Luca Galassi, Andrea Dili, Massimo Temussi, Chiara Giribaudo e Salvatore Cicu.

La seconda, a partire dalle 14.45, verterà invece su “Lo studio professionale tra vecchie e nuove forme di lavoro, formazione permanente e welfare inclusivo” e vedrà gli interventi di Caterina Cabiddu, Paola Cogotti, Alberto Vacca, Luca De Gregorio e Francesco Monticelli.

A fare sintesi dell’intera giornata sarà, nell’intervento conclusivo, la presidente di Confprofessioni Sardegna Susanna Pisano.