24 November, 2024
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Sentir parlare di bullismo ha sempre il potere di scatenare dentro di noi una vera e propria tempesta… emozioni forti e contrastanti si impossessano della ragione e lasciano poco spazio alla serenità… alla voglia di capire… di comprendersi e di raccontarsi.

A questo però ci ha pensato, e lasciatemelo dire, ci è anche riuscito, il regista Cristian Castangia, che ha disegnato una storia, una delle tante che danza indisturbata tra le vite dei giovani, spesso baluardi vulnerabili di situazioni destabilizzanti.

Il video “Io bullo”, porta delle immagini molto forti, apre delle pagine ancora da scrivere ed invita alla riflessione. La sua visione non passa certo indifferente, così come non sono rimasti indifferenti le persone che in qualche modo si sono ritrovate spettatori durante le riprese.

Cristian racconta l’esperienza della visione del video e conseguente conferenza, intitolata “Anime ferite e parole non dette. Confrontarsi dentro e fuori della scuola“, presso la sala Alcoa di Portoscuso, sabato 12 marzo, davanti ad un pubblico attento, numeroso proprio a testimonianza dell’importanza del problema del bullismo.

Due situazioni verificatesi lo hanno colpito: l’intervento da parte dei passanti in difesa di un ragazzo preso di mira con atti di bullismo e l’incitamento delle famiglie residenti nei palazzoni dove è stata girata la scena dello stupro… “Solleva la gonna! Fai vedere di più!”

Parole forti che riecheggiano nell’immaginario di chi non ha vissuto, ma facilmente può comprendere i traumi che una vittima di bullismo porterà sempre con sé!

La dottoressa Marta Cappai, psicologa e psicoterapeuta, prende la parola e dal suo intervento colgo una frase «Se una palla è scivolata in un buio passaggio, un bambino può essere spaventato nell’andare a recuperarla, ma se io dico – Guarda, sto venendo con te! – Egli sarà più sicuro!»

A questo punto prende la parola la professoressa Valentina Zini per raccontare quanto sia difficile per i genitori del bullo, trovare il modo giusto per intervenire. Spesso il bullo viene allontanato da scuola per qualche giorno, ma farlo non rappresenta una soluzione, infatti al suo rientro farà peggio di prima, perché è più arrabbiato di prima.

Tra l’altro spesso il contesto da cui viene il bullo non è disagiato, ma magari solo saturo di una situazione familiare pesante.

Certo noi docenti possiamo “lavorarci”, continua la docente, magari riducendo la distanza fra noi e gli alunni, dovremmo essere autorevoli, lasciandoli liberi di esprimersi nella loro individualità, promuovendo magari qualche ora in più per loro, anche a discapito di una lezione di storia.

E dopo la professoressa Zini è la volta della “docente-attrice” Enrica Ena che non ha certo bisogno di presentazioni… un’insegnante camaleontica, dalle mille sfaccettature e dalle riflessioni sorprendenti.

«Il volto della scuola deve essere in posizione di ascolto, nel corto c’è molta scuola». Ci siamo interrogati, abbiamo riflettuto, mi piace l’insegnante che si chiede cosa può fare… Le storie differenti sono tante, occorre dare delle priorità, un docente non può pensare solo al programma, deve anche vedere chi ha di fronte. Dentro ogni ragazzo c’è un terremoto… pensiamo all’adolescente che spesso viene calpestato, le scadenze del programma impongono un ritmo, ma i ragazzi spesso necessitano di tempi più lenti. La scuola è l’unico luogo che li trova insieme in presenza e per questo deve essere capace di creare collaborazione e cooperazione. La scuola è “l’altro posto” dove il ragazzo può trovare un adulto di riferimento. Ma il problema si presenta, oltre che a scuola, anche nelle associazioni sportive e culturali, negli oratori ed in tutti quegli altri luoghi dove si possono creare situazioni di conflitto.

Ad una domanda del pubblico interviene Cristian per rispondere che il bullismo non è solo maschile, ma al contrario è portato avanti da molte ragazzine che non si pongono il minimo problema a “calcare la mano”.

Enrica riprende la parola con un frase che solo a sentirla «la dice tutta!» E prosegue… «A scuola come dappertutto serve tempo, siamo sempre sui social, non ci ascoltiamo più, è necessario rallentare per cercare e trovare nuove forme di comunicazione da accompagnare ad altre. Recuperiamo la voglia di stare insieme».

Alla domanda provocatoria della docente relatrice Orietta Mura ” Ma come si combatte il bullismo?” risponde il dottor Alessio Santus… A scuola il bullo deve sedersi al primo banco, magari un attimino lontano dal suo gregario. Il bullismo va bloccato sul nascere perchè più si diventa grandi, più il bullo è aggressivo.

La docente Enrica Ena ribatte dicendo che «organizzare lo spazio in quel modo mortifica l’autonomia, occorre invece dare spazio alle emozioni,  capire le priorità delle cose e gestire meglio il tempo. Occorre fare un lavoro di prevenzione».

L’assistente sociale Lucia Sireus fa un breve intervento e con rammarico dichiara che il ruolo dei servizi sociali non esiste e prende vita solo nel momento in cui il reato è già stato commesso. A volte nelle scuole esiste uno sportello d’ascolto per prevenire il problema bullismo, occorrerebbe monitorare determinate situazioni.

Sono intervenute anche due operatrici sociali del comune di Portoscuso, Alessandra Masala e Maria Cristina Pisu.

Il giornalista editore Giampaolo Cirronis, prende la parola dietro invito della relatrice che gli domanda come si pone l’informazione nei confronti di questo fenomeno…

«Ciò che ci deve far preoccupare è quello che si tiene nascosto, l’isolamento dei ragazzi più timidi, purtroppo la famiglia è sempre più in crisi ed erroneamente pensa di poter delegare i docenti di prerogative che non dovrebbero essere scaricate, ma più intelligentemente seguite. C’è chi non viene coinvolto, chi non viene considerato sino ad avvertirlo come un peso tale da arrivare ad incancrenire la situazione. Se un ragazzo non riesce a trovare il proprio equilibrio a casa o a scuola, forse potrebbe trovarlo nello sport. Questa sera sono state sviscerate le problematiche del fenomeno sempre più crescente del bullismo, ma di certo le soluzioni non sono facili da trovare.»

Dichiararle e non sottovalutarle è già un passo avanti e la conferenza-convegno di questa sera aveva proprio il compito, l’obiettivo di invitare alla riflessione e a questo proposito mi sento di abbinare a questo articolo un pezzo di storia pubblicata sul sito www.laprovinciadelsulcisiglesiente.com e sul numero 291 del giornale cartaceo “La Provincia del Sulcis Iglesiente” del 15 marzo 2016 e, in ultima analisi, anche una lettera aperta di un giovane di Carbonia che, dopo aver letto il mio articolo, ha voluto dare la sua testimonianza.

Il coraggio di raccontare, di far sapere, di condividere, di incontrarsi per parlare di persona può aiutare a superare un trauma, in vista di un equilibrio della persona più sereno e più armonico.

Nadia Pische

nadiapische@tiscali.it

Come tutte le sere, anche oggi dopo cena, ho aperto la mia casella e mail e scorrendo la posta ho deciso di aprirne qualcuna… una in particolare mi ha provocato un tuffo al cuore…

Cara Nadia… e la leggo tutta d’un fiato… è Roberto che mi scrive… ha letto il mio articolo sull’ultimo numero de “La Provincia del Sulcis Iglesiente”… lì parlo di bullismo… lo stesso argomento di cui narra lui…

Mi racconta la sua esperienza e mi autorizza a pubblicare…

Non aggiungo altro se non un grande grazie a Roberto per avermi scelto come amica a cui raccontare la sua triste esperienza.

Di seguito il mio articolo e subito dopo la sua lettera…

A voi vittime di bullismo e/o mobbing, leggete e fate tesoro del mio racconto…

Certo che la vita è strana… e a volte quando meno te l’aspetti ti ritrovi ad aver una voglia improvvisa di scrivere per raccontare qualcosa che in passato ti ha fatto tanto male e che forse oggi può aiutare qualche ragazza a stare un pochino meglio… Stamane, all’alba, mentre chattavo di bullismo con una cara amica, perché una tosse tremenda non mi faceva dormire, mi sono improvvisamente resa conto che dovevo dar voce alle mie sofferenze… Mi rivolgo a tutte le persone che, in qualche modo, vengono vessate, umiliate, prese in giro per un qualcosa e, anziché riuscire a reagire, magari dando poca importanza alla cosa, subiscono e soccombono sotto angherie che le segneranno per sempre nell’intimo e che mai dimenticheranno… Ero bambina, avevo solo sette anni, e a quel periodo risale il mio primo ricordo di violenza psicologica. Papà lavorava come operaio, mamma faceva la casalinga ed io avevo un tenero e fantastico fratellino. Purtroppo, per continui problemi di salute dei miei genitori, parte dello stipendio se ne andava via… Mamma, abile sarta, confezionava gli abiti su misura apposta per me ma, purtroppo, non era una firma famosa e mi vestiva da bambina, con tanto di gonna lunga sino al ginocchio, calzettoni o pantaloni larghi… di contro le mie compagnette indossavano minigonne, calze velate e pantaloni stretti. Vittima di risatine e di indici puntati contro, ho cercato di andare avanti e sono arrivata alla prima media… Le mie compagne tutte truccate, fighette nella loro minigonna o nel vestitino firmato e io con abiti cuciti da mamma… A sedici anni due amiche gemelle fecero una festa e mi dissero, ridacchiando, che non potevano invitarmi perché per andare avrei dovuto indossare jeans Fiorucci, scarpe da tennis Superga in tela bianca e maglietta bianca Fruit of the loom… che io ovviamente non avevo… Quanto piansi, ragazze, non ne avete un’idea… Sono passati più di trent’anni, ma ricordo ancora quanto mi bruciavano gli occhi colpa delle lacrime… Volevo fare la maestra e mi iscrissi alle Magistrali… mamma continuava a cucire i miei vestiti con una perfezione disarmante, a volte indossavo anche abiti cuciti da una sua amica sarta… purtroppo però la linea non aveva niente a che fare con la moda del momento… ed io continuavo a ritagliare le foto per evitare che si vedessero i vestiti che indossavo… Ancora oggi le guardo e potrei descrivere gli abiti che indossavo, nonostante il pezzettino della foto manchi ormai da anni… In terza magistrale, poi, raggiunsi forse il massimo della disperazione, tanto da pregare mio padre di ritirarmi da scuola… una mia compagna di classe in particolare mi prendeva in giro quotidianamente chiedendomi perché mi vestissi così male… io non sapevo che dire e al rientro a casa piangevo, piangevo e mi disperavo, non avevo voglia di studiare, mangiavo poco ed ero magrissima… questo faceva di me una vittima di scherno ancora più appettibile… perché sei così magra? Perché non hai la brioss del Mulino Bianco? Come mai non ti compri il panino da Ardau? E giù a ridere… io stavo zitta e poi a casa piangevo… Un giorno mamma, per “farmi stare meglio”, mi comprò un paio di tronchetti da Tronci calzature… io, al colmo della felicità, le indossai per andare a scuola ignara di quel che da lì a poco mi sarebbe successo… non feci in tempo a salire sul pullman che mi avrebbe portato a scuola che fui aggredita dalla famosa compagna di classe… vi starete chiedendo… come mai? Semplice… mamma mi aveva comprato, senza saperlo, le scarpe uguali alle sue… persino dello stesso colore: rosa antico con la pelliccetta che fuoriusciva color beige… Apriti cielo! Tra le tante cose che mi gridò ricordo ancora una frase in particolare… Come ti sei permessa? Al rientro a casa ero disperata e non volevo più andare a scuola… Mio padre e mia madre, genitori con la g maiuscola… provarono a farmi ragionare ma… io persi l’anno… ebbene sì, mi bocciarono… non avevo voglia di studiare… Di questi esempi ve ne potrei fare tantissimi ma voglio farli facendo un salto nel tempo. Tra una lacrima e l’altra, mi sono poi diplomata e sono diventata un’insegnante soddisfatta, appagata, svolgo dal 1991 un mestiere che amo, adoro i miei bambini a cui dico sempre che sono brutti, monelli, ma anche bravi e belli… chiedo ai miei alunni che indossino sempre il grembiule e vigilo anche in ricreazione che nessuno prenda in giro un compagnetto o una compagnetta… Appena passata in ruolo, ebbi la sfortuna di dover usufruire della legge 104 per mio figlio e, da vittima di bullismo, diventai vittima di mobbing… Un dirigente arrivò a dirmi che non potevo chiedergli niente, visto che mio figlio era iscritto alla scuola materna in un istituto diverso da quello dove insegnavo, poco accorto a ricordarsi che lo dovetti iscrivere in un’altra scuola perché loro non facevano l’accoglienza ed io dovevo essere puntuale a scuola! Una responsabile di plesso mi chiamava tutti i giorni mentre mio figlio era ricoverato in ospedale ad un passo dalla rianimazione per ricordarmi che i miei problemi creavano problemi alla scuola… Una dirigente qualche anno più tardi non nominava, preciso che parlo di anni in cui poteva farlo, non come oggi, e quando io mi assentavo in 104 si portava parte dei bambini in ufficio e divideva gli altri… L’elenco sarebbe lungo… credo basti così… per far riflettere chi si riconosce nelle persone nominate… ma, soprattutto, per aiutare tante vittime come me ad essere forti e a non subire le angherie in silenzio, a non lasciare che diventino traumi, a reagire difendendosi, a superare le paure, le paure di parlare, di raccontare, di confidarsi con qualcuno… Voglio lasciarvi con un’ultima piccola riflessione che vi sarà utile per guardarvi intorno e tirar le somme… Mamma e papà non mi hanno fatto mai mancare nulla… non mangiavo le brioss del Mulino Bianco ma la ciambella di mamma, il paninetto me lo preparava lei, non avevo abiti firmati ma andavo sempre al mare o in campagna, avevo cose diverse da quelle che avevano loro… avevo le cose migliori, le più belle… ma non lo sapevo… Ora sono grande… sono diventata una donna forte che difende i deboli dai soprusi… un’insegnante attenta ed una giornalista che crede fermamente nella potenza dei mass media quale veicolo portante di informazioni e formazioni utili e necessarie a vivere meglio. Mio papà da cinque anni non c’è più, leggere questa lettera forse gli avrebbe fatto male, mamma non so se la leggerà, nel caso, forse, «la farà stare un pochino male», ma io oggi ho sentito l’esigenza di scriverla nella speranza che possa aiutare qualche adolescente in difficoltà. La vita è un dono prezioso… pertanto è un nostro dovere viverla appieno come preferiamo, senza indici puntati contro, non abbiate timore… Buon tutto a tutti, cari lettori! Ops scusate… Vi starete chiedendo che fine abbia fatto quell’adorabile compagna… la vedo spesso e mi saluta guardandomi con fare sprezzante… sarà perché non vesto ancora griffato? Ah, ah, ah…

Nadia Pische

nadiapische@tiscali.it

 

Carissima Nadia, il mio nome è Roberto, ho 23 anni e abito a Carbonia. Vorrei farti i complimenti per l’articolo che ho letto su “La Provincia” devo dirti che non è facile che qualcuno possa comprendere e capire cosa si prova in quelle tristi occasioni ma, credo che, solo chi ha vissuto giorno per giorno quei momenti, potrà dire o dare una parola di conforto e di aiuto a chi si trova oggi in quelle circostanze.

Avrei tanto da dirti ma vorrei soffermarmi su momenti poco piacevoli che possono essermi capitati durante questi anni di studio. Ho frequentato le scuole medie in privato, una scuola dove i poveri non possono andare o meglio dove i poveri per dare qualcosa in più si privano del pane, perché i propri figli possano vivere in un ambiente che credono sano. Nella mia scuola a soli 12 anni qualche bambina veniva con le calze a rete e scarpe all’ultimo grido senza parlare dei telefonini e orecchini d’oro più grandi delle orecchie. Io andavo con un cappottino stretto con la pellicceria sul collo anni ’60 (ti parlo del 2003) con scarpette da tennis e jeans sempre rattoppati sulle ginocchia. Tutti cara Nadia, avevano uno o più computer a casa mentre io e mio fratello una vecchia macchina da scrivere. Non ti nascondo che ci lamentavamo con il mio povero babbo che guadagnava 1.100.000 lire al mese e Lui ci rispondeva che tutte quelle cose erano superflue e senza nessun senso, che potevamo vederle, toccarle, ma che per ciò che serviva per il nostro futuro non servivano.

Posso essere sincero con Te cara Nadia, oggi capisco che mio padre aveva ragione, a soli quindici anni con la vecchia macchina da scrivere scrissi assieme a mio fratellino il mio primo libro e lo dedicai a il mio Grande BABBO, ne pubblicai 5.000 copie, e a soli sedici anni andavo a parlare nei carceri minorili con i ragazzi meno fortunati, a 17 anni ero in grado di aiutare e rendere felici dei ragazzi disabili regalando loro attrezzature sportive senza le quali non avrebbero mai potuto montare su un cavallo. A un’età in cui potevo avere io bisogno di quei soldi che ricavavo dalla vendita di quei libri, avevo scoperto che dare era mille volte più gratificante che ricevere, il privarsi per dare a chi ha veramente bisogno è una sensazione d’amore che ti gratifica e ti insegna a capire ciò che nessuna scuola e nessuna ricchezza potrà mai farti felice.

Oggi sono laureato al secondo anno della specialistica, ringrazierò sempre mio padre per ciò che mi ha potuto dare ma, ricorderò sempre lo sguardo indifferente nei nostri confronti, di quei compagni che in quel tempo avevano tanto e, a distanza di pochi anni, oggi non hanno più nulla.

Con Osservanza, e un caloroso abbraccio per chi la pensa come Te.

Roberto D.

Se Vuoi posso anche darti il consenso di pubblicarla, ciao.

Carbonia, lì 16.03,2016

 

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