Una rielaborazione del costume tradizionale di Sant’Antioco per rileggere, in chiave contemporanea, la figura delle giudicesse e del ruolo della donna in Sardegna. È l’obiettivo del Collettivo EFFE, che per due settimane – a partire da ieri – incontra donne e ragazze della cittadina sulcitana per lavorare alla nuova edizione di Giudicesse, il progetto di residenza artistica promosso dal Csc Carbonia della Società Umanitaria, curato da U-BOOT Lab e realizzato in collaborazione con Ottovolante Sulcis.
«Vogliamo costruire il costume con elementi vivi – spiega il Collettivo – naturali, deteriorabili, soggetti a una degradazione per fare sì che la nostra proposta di costume sardo femminile sia provvisoria e non contribuisca a cristallizzare ruoli, ma solo a provocare collaborazioni e alleanze».
Il Collettivo EFFE è composto da Giulia Odetto, regista e curatrice; Antonio Careddu, drammaturgo; Camilla Soave, performer e video-artista; e Ines Panizzi, artista visiva. Un gruppo di lavoro che nasce nel 2018 con l’intento di approfondire l’uso di applicazioni tecnologiche in ambito performativo e installativo, al fine di esplorare la percezione del pubblico e sviluppare progetti comunitari. La ricerca del collettivo studia metodi di inclusione dei diversi linguaggi performativi con i nuovi media, per aprire alternative in cui la tecnica sia naturale estensione del corpo umano.
L’obiettivo della residenza è duplice: da un lato – ispirandosi alla figura della donna in Sardegna al periodo delle “regine giudicali”, riflettere sulle disequità di genere e sull’autodeterminazione di donne e ragazze; dall’altro esplorare nuovi approcci per la scoperta del territorio, attraverso il coinvolgimento attivo delle comunità che lo abitano, per creare un’opera artistica esito di un processo di ricerca-azione attiva sul territorio.
Spiega ancora il collettivo: «Uniremo la nostra esperienza nel lavoro con le comunità al nostro interesse per il video e la ricerca che da anni conduciamo sul corpo, sulla sua forza performativa, sulla sua capacità di rappresentazione. Coinvolgeremo i gruppi folk del paese e tenteremo di entrare in contatto con donne e ragazze che ancora indossano il costume per comprendere il significato che ha per loro, perché continuano a indossarlo, che valore riveste nella loro vita la tradizione e come contribuisce alla trasmissione di un senso di appartenenza e di collettività».
La residenza si svolge al Museo Diffuso Exe di Sant’Antioco sino al 26 ottobre 2024, quando l’opera realizzata sarà presentata alla comunità durante un evento pubblico.
Il contributo di Andrea Contu e Raffaela Giulia Saba, operatori culturali del Csc Carbonia della Società Umanitaria e referenti del progetto: «L’edizione 2024 della residenza focalizza l’attenzione sull’Obiettivo 5 dell’Agenda 2030 dedicato a donne e ragazze, per contribuire al raggiungimento dell’equità. Abbiamo deciso di declinare questo obiettivo scegliendo come tema quello del costume tradizionale femminile, inteso come elemento espressivo di valori collettivi e rappresentazioni soggettive. L’idea è sviluppare una riflessione sul ruolo culturale che può avere oggi il costume tradizionale in Sardegna, e sul modo in cui la sua interpretazione attraverso l’arte audiovisuale può contribuire al raggiungimento dell’autodeterminazione di genere all’interno della società contemporanea».
La riflessione di Maria Pina Usai, curatrice del progetto per U-BOOT Lab: «Nel progetto la declinazione del termine costume ha due valenze, strettamente legate alla figura delle Giudicesse. La prima parte dal loro ruolo di governatrici donne, ed è quella del costume come possibile elemento di auto-rappresentazione del sé verso l’esterno: uno strumento di affermazione personale attraverso un modo di vestire, un mezzo di espressione del modo in cui si desidera essere viste e riconosciute dalla società, che possa aderire alla propria identità piuttosto che a un’identità imposta, e non necessariamente costretta in una categoria binaria. La seconda è legata al concetto di comunità e convivenza degli individuiche si ritrova nelle politiche giudicali sarde, e rispetto al quale il costume può essere letto nella sua valenza sociale, come patrimonio culturale in cui una comunità può riconoscersi, attraverso quel legame di cura definito nella tradizione da cui partire oggi per una risignificazione del rapporto con il territorio».
L’intervento di Marina Fanari, responsabile accessibilità e inclusione per U-BOOT Lab: «La creazione di un senso di comunità condiviso, che accolga tutte le unicità, si fonda principalmente sull’esercizio dell’immedesimazione. In questo contesto, la cultura e l’arte svolgono un ruolo cruciale, contribuendo a immaginare scenari futuri più equi e inclusivi. Al fine di promuovere la giustizia sociale e porre l’attenzione sul diritto alla partecipazione il collettivo è stato invitato a pensare l’opera come un’esperienza per tutti e per ognuno nella propria individualità, per immaginare come l’arte possa essere l’ambito in cui sperimentare soluzioni e visioni che esplorino al contempo l’unicità e la molteplicità della società».