21 November, 2024
HomePosts Tagged "Antonello Cuccuru"

Presto sarà attiva anche nella Asl Sulcis Iglesiente una struttura ambulatoriale dedicata ai pazienti tumorali e ai pazienti ricoverati, ponendo fine alle trasferte verso altri centri cagliaritani.
L’obiettivo principale dell’ambulatorio è quello di fornire ai pazienti un accesso venoso affidabile e duraturo attraverso l’inserimento di cateteri venosi centrali a lunga permanenza, noti come Picc (peripherally
inserted central catheter o anche catetere centrale a inserzione periferica).
L’istituzione di tale servizio, a gestione infermieristica, prevede un percorso formativo con uno specifico corso che consente di acquisire le skills necessarie, unite all’esperienza professionale di almeno 5 anni nel
profilo di infermiere.
Grazie alla determinazione del direttore della Struttura complessa dell’anestesia e rianimazione, dott. Aldo Clemenza e del direttore della Struttura complessa delle professioni sanitarie dott. Antonello Cuccuru, unitamente al dirigente delle professioni sanitarie dott. Giuseppe Lojacono, è stato portato a compimento il percorso formativo, fortemente voluto dalla Direzione Generale, che il 4 ottobre ha permesso alle due infermiere dell’Anestesia e Rianimazione, dott.ssa Claudia Puddu e dott.ssa Francesca Chessa, di conseguire il certificato di impiantatore di PICC, secondo le raccomandazioni della Consensus del G.I.P.E. (Gruppo Italiano PICC Expert) pubblicate nel 201 e alla Consensus evidence-based del WoCoVa (World Congress of Vascular Access) – pubblicata nel 2013 sul British Journal of Anaesthesya -, presso l’istituto di Medicina Didattica Srl (I.Me.D.) di Siracusa.
Il percorso professionalizzante intrapreso dalle due professioniste è iniziato il 22 gennaio 2024 con un corso di formazione presso l’istituto di Medicina didattica I.Me.D. di Siracusa, al quale è seguita la formazione sul campo, con invio in comando presso l’ambulatorio di accessi vascolari del presidio ospedaliero Marino della Asl di Cagliari, con il tutoring del dott. Paolo Congia, abilitato formatore GAVeCeLT (Gli Accessi Venosi Centrali a Lungo Termine), e delle dottoresse Cristina Mura e Carlotta Spettu. Una curva di apprendimento che si è conclusa ieri con l’audit finale presso il Centro di formazione didattico di Siracusa.
Sarà compito della direzione sanitaria attivare il team di gestione degli accessi vascolari di concerto con la Direzione di anestesia e rianimazione e quella delle professioni sanitarie.
«Un servizio importantedice il direttore sanitario della Asl Sulcis Iglesiente dott. Giuseppe Pirasper gli utenti che vengono sottoposti a chemioterapia non solo presso il presidio ospedaliero Sirai ma anche per i pazienti che effettuano chemioterapia in altre Asl ma che sono residenti sul territorio della Asl Sulcis Iglesiente, evitando così lunghi viaggi verso altri ospedali.»

 

Diversi anni fa, quando sono stato nominato direttore della Struttura complessa delle professioni sanitarie, ho ricevuto in regalo un libro – da alcuni colleghi dell’area dell’emergenza, da cui provenivov-: “Il nostro iceberg si sta sciogliendo” di John Kotter e Holger Rathgeber.
Un testo che mi è piaciuto subito e che nella vita ho usato diverse volte, soprattutto, negli incontri con il middle management (livello intermedio costituto dagli ex coordinatori assistenziali) o nelle lezioni ai corsi di laurea delle professioni sanitarie.
“Il nostro iceberg si sta sciogliendo”, è una favola che insegna ad affrontare in modo efficace la sfida del cambiamento. Questa favola, apparentemente semplice, racconta la storia di una colonia di pinguini che da sempre abitano su un iceberg in Antartide.
La storia ruota intorno a 6 personaggi principali, 6 caratteri e 6 modi di reagire all’inevitabile cambiamento che la colonia di pinguini dovrà affrontare: Fred, Alice, Louis, Buddy, il Professore e NoNo sono come le persone che ci circondano quotidianamente. La storia fa sorridere, perché ognuno di noi può ritrovarsi in uno di questi pinguini ed ognuno di noi può ritrovare un collega, un amico, un sindacalista o un manager.
I nostri amici pinguini sono convinti che quella che per generazioni è stata la loro casa (o il loro ospedale, nel nostro caso) lo sarà per sempre, ma un giorno Fred, curioso e osservatore, scopre che l’iceberg si sta sciogliendo e rischia di spaccarsi in mille pezzi mettendo a serio rischio la sopravvivenza di tutti.
Deve assolutamente fare qualcosa, ma lui è un pinguino qualunque e teme di non avere sufficiente autorevolezza per farsi ascoltare da tutta la comunità. Preoccupato per la gravità della sua scoperta, decide di farsi coraggio e di informare il Consiglio direttivo, detto anche il Gruppo dei Dieci, composto dai leader della colonia. Coinvolge Alice, una pinguina concreta e tenace, il membro del Consiglio che è disposta ad ascoltarlo ed a prenderlo seriamente in considerazione.
Insieme verificano l’effettiva gravità del pericolo che li minaccia e decidono di informare tutti i membri del Consiglio direttivo, compreso il Pinguino capo.
Si verifica ciò che molto spesso accade anche nella nostra realtà lavorativa: scetticismo, ostacoli, paura dell’ignoto, fermezza sulle proprie posizioni anche di fronte all’evidenza. Non sarà facile convincere i leader a comprendere che il loro mondo sta cambiando e che tutta la comunità dovrà adattarsi al cambiamento prendendo rapidamente delle decisioni importanti.
Non è facile accettare che tutto ciò che hai costruito negli anni, tutto ciò che sei abituato a vivere (il lavoro a due passi da casa), vedere e riconoscere come familiare, d’un tratto non sia più lì, non sia immutabile e invulnerabile.
Sempre con l’apparente semplicità di una favola, ma in realtà densa di concetti, la storia prosegue raccontando, con semplicità e chiarezza, come la colonia di pinguini riesce a comprendere il problema, a mettere in atto un’efficace comunicazione per informare tutta la comunità senza diffondere il panico, ad analizzare insieme la situazione individuando vantaggi e svantaggi delle scelte possibili, e ad impostare con impegno e passione un buon lavoro di squadra, per motivare tutti a trovare la soluzione migliore e metterla in pratica con successo.
Quella dei pinguini è una storia di resistenza al cambiamento, di un’eroica vittoria su ostacoli apparentemente insormontabili, di confusioni, di intuizioni, di problemi, di tattiche ingegnose per superarli. E’ la storia di un tempo in cui il cambiamento non può essere più evitato.

La resistenza al cambiamento è l’ostacolo più grosso alla nostra sopravvivenza e, mi sia consentito, sia di quella professionale che di quella personale. Applicando la metafora alla nostra sanità locale, ci rendiamo conto che anche la sanità del Sulcis Iglesiente rischia di sciogliersi e di sbriciolarsi in tanti pezzi. In questo ultimo anno abbiamo temporaneamente sospeso (dire chiuso è pericoloso e rimanda a realtà di finitudine) le attività della Rianimazione di Iglesias, dell’Ortopedia e Traumatologia del Sirai e Cto, dell’Urologia e della Neurologia e, nei prossimi mesi, rischiamo di perdere altri pezzi per mancanza di specialisti. Tutto questo impone un cambiamento urgente della nostra organizzazione.
John Kotter e Holger Rathgeber  hanno usato la metafora della colonia di pinguini su un iceberg che si sta sciogliendo per identificare le tappe necessarie a un pinguino marginale alla colonia (Fred) per convincere gli altri ad avviare una strategia di cambiamento. A tal fine, Fred ha bisogno di creare un “senso di urgenza” rispetto alla necessità del cambiamento e all’importanza di agire tempestivamente, di costituire un gruppo coeso di promotori del cambiamento, di sviluppare una strategia di cambiamento efficace (nel caso, spostarsi su un altro iceberg), di adottare una strategia comunicativa capace di rimuovere le resistenze e di motivare i membri alla partecipazione attiva. Fred e i suoi compagni, infine, si trovano nella necessità di istituzionalizzare una cultura del cambiamento, in modo da rendere l’organizzazione capace di adattamenti continui.
Il cambiamento non è, dunque, frutto di strategie pertinenti, quanto di un’azione organizzata rivolta al superamento delle resistenze al cambiamento stesso, ovvero dei tentativi di rimandare, rallentare o impedire l’adozione di innovazioni organizzative (Ansoff, McDonnell, 1990). Nell’attuale spaccato di sgretolamento della sanità del Sulcis iglesiente, ma consentitemi di dire dell’intera Regione Sardegna, sarebbe facile scegliere di chiedere di più, invocare maggiori risorse. Ma sappiamo che le nostre richieste sarebbero destinate a non sortire gli effetti sperati.
In un contesto caratterizzato da un dibattito pubblico che raramente fa i conti con numeri ed evidenze, sono convinto che il management della sanità dovrebbe assumersi le responsabilità di un esercizio di realismo.
Quando diciamo che bisogna cambiare rotta per il futuro della sanità pubblica, pensiamo in primo luogo alla necessità di dire la verità, per riuscire a ragionare pragmaticamente su cosa fare per continuare a garantire la sostenibilità del SSN nel quadro di compatibilità dato. Questa operazione verità è necessaria e indispensabile per ricreare intorno al servizio sanitario pubblico quella cornice di condivisione collettiva di motivazioni e obiettivi comuni che è stata alla base dell’introduzione, nel 1978, della copertura universalistica della salute dei cittadini e, da ultimo nel 2020, della tensione positiva che ha permesso di superare, tutti insieme, una emergenza sanitaria violenta e inaspettata come quella da SARS-CoV2. Non possiamo continuare a organizzare i nostri servizi come se l’unica garanzia possibile dei LEA fosse affidata all’offerta di prestazioni. È necessario cambiare iceberg, abbandonare la logica della rincorsa alle prestazioni e puntare su un governo deciso della domanda. È questa, probabilmente, la strada obbligata per continuare ad assicurare l’universalismo del SSN, garantendo a ciascuno ciò di cui ha effettivamente bisogno nel momento in cui ne ha necessità, e coniugando appropriatezza e sostenibilità con produzione di valore per il singolo cittadino e la collettività.
Le strutture territoriali previste dal PNRR, Case e Ospedali di comunità e Centrali operative territoriali, così come la digitalizzazione, sono una straordinaria opportunità per trasformare i servizi che offriamo ai cittadini, mettere in discussione una volta per tutte le logiche prestazionali, ripensare i modelli di presa in cura e puntare con decisione sulla medicina di iniziativa, sull’integrazione dei percorsi e sull’appropriatezza.
Non possiamo accontentarci di aggiungere queste nuove strutture territoriali al nostro sistema di offerta dei 3 Distretti socio sanitari, dobbiamo cogliere questa occasione per ripensare modalità e obiettivi della presa in cura, soprattutto delle cronicità e delle fragilità, anche valorizzando i preesistenti servizi sul territorio. La vera posta in gioco dell’attuazione di quanto previsto da PNRR e DM77, al di là della dimensione strettamente strutturale, risiede nella nostra capacità di ripensare e riprogettare i servizi sanitari e i loro modelli organizzativi e di fruizione da parte dei pazienti.
Case e Ospedali di comunità, Cot, investimenti in assistenza domiciliare per concorrere al mantenimento dell’autosufficienza, scelta del domicilio del paziente come setting privilegiato per l’assistenza territoriale, realizzazione di strutture intermedie, rafforzamento della medicina generale e delle cure primarie, nuovo modello di organizzazione del territorio in relazione ed integrazione con le strutture ospedaliere. Dobbiamo guardare a tutti questi elementi come a un’opportunità per ripensare il modello di presa in cura. Sono tutti punti di una agenda obbligata per affrontare con successo la stagione attuale, con un occhio al quadro epidemiologico presente e futuro e al peso crescente di cronicità e comorbidità, e un altro alla tenuta e allo sviluppo del Sistema sanitario regionale.
Dobbiamo concentrare la nostra attenzione sulla mission effettiva del Ssn, che è produrre salute, non prestazioni, e garantirne la sostenibilità nella accezione più completa della parola, tenendo conto dei bisogni di salute, della nostra capacità di produzione, della esigenza di utilizzo appropriato ed equo delle risorse. Le transizioni demografica ed epidemiologica richiedono nuove politiche, a partire da investimenti organizzativi che abbiano il coraggio di innovare e riformare le vecchie modalità di erogazione dei servizi, lasciandosi definitivamente alle spalle le logiche prestazionali e puntando sulla appropriatezza allocativa in relazione alla tipologia di bisogni via via emersi e consolidati.
L’invecchiamento della popolazione, le cronicità, i nuovi bisogni di cura ed assistenza, la pressione dell’innovazione tecnologica e le ricadute di tutto ciò, richiedono un definitivo cambio di paradigma e di prospettiva. Non possiamo garantire efficacemente la tutela della salute continuando a privilegiare l’erogazione di singole prestazioni. La partita vera si gioca sull’intero percorso di presa in cura, soprattutto, per le cronicità, e sui suoi esiti in termini di salute e di qualità della vita.
Un approccio di questo genere favorirebbe una riorganizzazione dei servizi sanitari basati sulla centralità della costruzione dei percorsi integrati di presa in cura intorno ai pazienti con la loro patologia, condizione, i loro bisogni, in maniera da massimizzarne il valore per fasce o gruppi di popolazione portatori di quegli specifici bisogni e non guardando prioritariamente alle prestazioni e ai servizi erogati.
Tutte queste riflessioni rischiano, tuttavia, di lasciare il tempo che trovano se non facciamo i conti con le questioni che riguardano le risorse umane, tra le più complesse da affrontare e da risolvere.
Pesano certamente alcuni fattori esterni al settore, altri decisamente più specifici, come i livelli retributivi inadeguati o le condizioni di lavoro. Alle carenze di medici, soprattutto, per alcune aree specialistiche, si aggiunge il dato sull’età media. Nel 2020 il 56% del personale medico italiano aveva più di 55 anni di età, il valore più alto tra tutti i paesi dell’Unione europea. Oggi, inoltre, rischiamo di assistere impotenti alla fuga dei nostri operatori sanitari. Solo nel 2021 hanno lasciato il Ssn in 5mila. Nella nostra Asl si sono licenziati cardiologi, ortopedici e neurologi per andare a lavorare altrove, perché non siamo riusciti a motivarli. Non possiamo permettercelo, e non dobbiamo permetterlo. A tutto questo, si deve aggiungere che il rapporto tra il numero di medici e infermieri in servizio, il cosiddetto skill mix, non è cambiato nel tempo. Le crescenti difficoltà di reclutamento riguardano anche il personale delle professioni sanitarie e, in prospettiva, in misura più rilevante rispetto alla componente medica, con un preoccupante calo del numero di iscritti ai corsi di laurea.
Alle criticità del reclutamento, si aggiunge la difficoltà di non poter contare sulla piena disponibilità delle risorse in organico, a causa delle assenze e delle limitazioni per inidoneità. Una survey condotta dalla Federazione italiana delle aziende sanitarie e ospedaliere (Fiaso) su tutto il territorio nazionale per gli anni dal 2019 al 2022 documenta assenze dal lavoro per aspettative, permessi, legge 104, malattia, in crescita del 21,4% e un valore complessivo, nel 2022, del 18% di dipendenti assenti dal lavoro.
Altro fenomeno rilevante riguarda le limitazioni (alla movimentazione di pazienti o carichi, ai turni notturni o alla reperibilità, psichiatriche, psicosociali, da stress), che interessa il 12% degli operatori sanitari. Limitazioni, anch’esse, in crescita nello stesso periodo (+48%),e concentrate per il 65% nella fascia di età al di sopra dei 51 anni.
Nella Asl del Sulcis Iglesiente, dei 681 dipendenti afferenti alle professioni sanitarie, che prestano servizio nei 3 presidi ospedalieri, il 37% ha un giudizio di idoneità alla mansione specifica con limitazioni/prescrizioni e il 34% usufruisce dei permessi di cui alla L. 104/92.
A determinare la situazione attuale, ha concorso una pluralità di elementi. Sicuramente una programmazione inadeguata, in particolare degli accessi alle specialità, incrementati solo di recente, prevedendo anche la possibilità per i medici in formazione, di partecipare ai concorsi già dal secondo anno di specializzazione. Le norme per il reclutamento del personale sono vetuste, appesantite da numerosi adempimenti formali. La loro semplificazione, salvaguardando l’accertamento dei requisiti complessivi di accesso al Ssn, appare ormai improcrastinabile.
I sistemi di valutazione sono inadeguati, poco utili nelle forme attuali per la valorizzazione delle competenze, la premialità appiattita a vantaggio di riconoscimenti economici diffusi. Un quadro che, nell’insieme, lascia poco spazio a percorsi di carriera e sistemi di incentivazione interessanti per le nuove leve che decidono di venire a lavorare nella nostra Asl.
Sarebbe opportuno restituire alle aziende la capacità di scegliere come impiegare le risorse. Le risorse umane, così come i farmaci, sono un fattore produttivo indispensabile. E se provassimo a cambiare rotta e invece di stabilire quanto ogni azienda può investire in capitale umano in termini di tetto di spesa, utilizzassimo un valore legato alla produzione?
Ma dobbiamo anche essere in grado di guardare ai nostri operatori riconoscendone il ruolo di professionisti e valorizzandolo in pieno, lasciando a ciascuno la possibilità di investire sulla propria professione. Tutti, dagli infermieri al management strategico, devono poter guadagnare di più se producono risultati.
In questo scenario, le future proposte di policy è bene che tengano in debita considerazione consistenza numerica, profilo organizzativo ed erogativo dei nostri ospedali e le opportunità per un loro potenziale riorientamento produttivo. Non si tratta soltanto di rifocalizzare i nostri stabilimenti, ma, soprattutto, di programmare interventi infrastrutturali sistemici finalizzati alla realizzazione di un ospedale di dimensioni medio-grandi, in grado di esprimere una capacità di offerta all’avanguardia in termini di funzionalità sul piano logistico, impiantistico, organizzativo e tecnologico. In altri termini, non si tratta di tagliare posti letto per acuti, ma, al contrario, l’obiettivo deve essere quello di accorpare quelli che ci sono per raggiungere maggiore massa critica e conseguente “competence” clinica.
L’accorpamento dei posti letto esistenti al Sirai e al Cto in un presidio più grande consentirebbe due altri grandi vantaggi strutturali:
– la possibilità di concentrare anche le tecnologie e le grandi attrezzature, potendone quindi disporre di un numero inferiore, ma più moderne, quindi clinicamente più efficaci e più produttive, da usare con un tasso di saturazione della capacità produttiva più alto;
– una sicura riduzione dei costi di gestione, sia per l’effetto economia di scala, sia per l’effetto garantito dal rinnovo infrastrutturale.
L’errore da non compiere, che purtroppo si registra frequentemente nel Ssn, è mantenere l’utilizzo delle preesistenti facility, non avendo il coraggio attuativo – dei pinguini – di saltare su un altro iceberg e di concentrare tutte le attività in un nuovo ospedale, come inizialmente progettato.

Continuare a puntare su due presidi ospedalieri anche se con diversa vocazione (elezione Cto e urgenza emergenza Sirai), presenta diversi svantaggi:
a) si impedisce la compiuta concentrazione delle attività, l’unificazione dei percorsi di fruizione in un unico luogo, l’aumento potenziale del lavoro multi-professionale;
b) crescono esponenzialmente i costi di gestione dispersi su più strutture;
c) si perde l’effetto comunicativo agli occhi dei cittadini e degli utenti, rinunciando all’occasione di offrire un unico luogo simbolico di fruizione, moderno e funzionale, dove trovare il portafoglio completo dei servizi. L’alto indebitamento del paese, infatti, impone di focalizzarsi su impieghi in conto capitale, capaci, nel medio periodo, di razionalizzare la spesa corrente, non essendo immaginabile che nel lungo periodo essa possa crescere costantemente.
Non dobbiamo dimenticare infine, che il DM 70 esprime un marcato indirizzo verso il riorientamento delle risorse e, considerando l’evoluzione dei modelli assistenziali negli ultimi anni, appare inevitabile l’attivazione di una riflessione profonda verso alcuni punti rispetto al quale risulta parziale nel proprio sviluppo: sul fronte ospedaliero, intensità di cura e reti cliniche che vadano anche oltre quelle tempo-dipendenti; guardando oltre il setting ospedaliero, una maggiore spinta all’integrazione funzionale con setting di cura a minore intensità assistenziale e con il territorio.
La nostra sanità si sta sciogliendo, ma dobbiamo saper cogliere le altre opportunità per vincere la sfida. Ma per fare questo è necessario che il top management aziendale punti sul cambiamento ipotizzato dal prof. John Kotter.
Il professore di leadership alla Harvard Business School, nel 1996 definisce il suo modello di cambiamento in otto passi compresi nelle tre fasi di preparazione, sviluppo e coltivazione o consolidamento.
PREPARAZIONE
1. Creare la necessità.
Evidenzia ai decisori le minacce del non cambiamento e il bisogno di cambiare al più presto. Descrivi loro gli scenari e le forze che mutano le condizioni, e ciò che fanno i concorrenti o i migliori.
2. Formare il team.
Costituisci la squadra che dovrà realizzare il cambiamento, individuando le persone più entusiaste e facendone gli “evangelisti” del cambiamento.
3. Creare la visione.
Fai vedere agli altri come sarà la situazione a cambiamento avvenuto, dove si vuole arrivare, quali saranno i vantaggi.
SVILUPPO
4. Comunicare la visione.
Condividi la nuova visione con tutti i soggetti effettivamente o potenzialmente interessati al cambiamento. Insisti per rinforzare la comunicazione già fatta.
5. Rimuovere gli ostacoli.
Agevola gli agenti di cambiamento e ascolta i contrari per capire le loro ragioni e orientarle verso il cambiamento. Rimuovi gli ostacoli tecnologici, organizzativi e burocratici.
6. Fissare obiettivi a breve.
Spingi gli agenti di cambiamento a realizzare obiettivi limitati e provvisori, che però diano la sensazione di successo e possano così rinforzare la motivazione dei protagonisti. Questi obiettivi permettono anche di aggiustare il tiro nel caso che i risultati non siano del tutto soddisfacenti.
CONSOLIDAMENTO
7. Consolidare i successi.
Sostieni e conferma i miglioramenti raggiunti, rinforzandone gli effetti; tieni presente che il sistema tende a tornare com’era prima.
8. Incorporare i cambiamenti.

Metti a sistema i cambiamenti raggiunti e consolidati, facendoli diventare la regola della nuova organizzazione. In molti casi operazioni di successo, non confermate nel tempo, hanno finito con l’esaurirsi lasciando frustrati quelli che ne erano stati gli artefici. Quest’ultima fase è simile a quella di chi coltiva le piante per tutto l’anno per ottenere un buon raccolto.

Antonello Cuccuru

E’ operativo un nuovo ambulatorio infermieristico per la cura e la riabilitazione delle persone con stomia e gestione delle incontinenze con percorso di continuità assistenziale ospedale-territorio, a disposizione dei cittadini del Sulcis Iglesiente: si tratta di un servizio all’interno della Struttura Complessa di Chirurgia generale e Week Surgery del Presidio ospedaliero CTO di Iglesias, diretta dal dott. Francesco Autuori, gestito con la Struttura delle Professioni Sanitarie diretta dal Dott. Antonello Cuccuru.
Si inserisce nella rete degli ambulatori di stomaterapia della Regione Sardegna, eroga consulenze ai pazienti ricoverati presso il Presidio e agli esterni, che possono accedere con prescrizione del medico di medicina generale.
Il paziente viene preso in carico da personale infermieristico specializzato, con competenze avanzate in stomaterapia, che fornirà un’assistenza personalizzata durante tutto il percorso terapeutico riabilitativo, dal  periodo pre-operatorio, fino al momento del ricovero ospedaliero e, infine, durante il follow-up.
L’ambulatorio di stomaterapia vuole assicurare un servizio in sinergia tra ospedale, territorio e domicilio del paziente, attuando un percorso integrato di cura che garantisca l’omogeneità della risposta assistenziale in tutto il territorio regionale.
L’attività e le prestazioni erogate permetteranno al paziente l’assunzione di un coping adeguato, che gli consentirà di sviluppare le capacità di resilienza necessarie per la nuova condizione di vita. E’ essenziale, infatti, che la persona e/o il caregiver acquisiscano conoscenze e competenze specifiche per la cura della stomia affinché il paziente sia autonomo nella ripresa delle attività quotidiane, lavorative e sociali.
L’ambulatorio è operativo presso la UOC Chirurgia generale e Week Surgery del PO CTO di Iglesias dal lunedì al venerdì dalle 8.00 alle 14.00. Si accede previo appuntamento telefonico al numero 0781 3922680 o mediante invio mail all’indirizzo ambulatorio.stomaterapia@aslsulcis.it.
Si sta predisponendo l’attivazione del medesimo servizio presso la Casa della Salute di Sant’Antioco, per il quale verranno fornite ulteriori tempestive comunicazioni.

Sabato 16 marzo si è tenuto all’Hotel Regina Margherita il Convegno “Heart Cagliari 2024 – Conversazioni e riflessioni attorno al cuore” (sessione infermieristica) che ha visto la partecipazione di infermieri delle cardiologie e cardiochirurgie di tutta la Sardegna.
Il Convegno Cardionursing 2024 nasce dall’esigenza di fornire un approfondimento e confronto tra le competenze specifiche e le competenze tecnologiche in ambito cardiologico e cardiochirurgico.
La giornata, suddivisa in tre sessioni, ha affrontato tematiche di presa in carico del paziente con scompenso cardiaco, lo sviluppo delle nuove tecnologie e della telemedicina, che rappresentano un vero e proprio cambiamento di paradigma nella professione infermieristica. È stata inoltre dedicata, in sessione plenaria, uno spazio alla condivisione delle linee di ricerca infermieristica ambito cardiologico, come punto fondamentale di riflessione, condivisione e crescita professionale.
L’obiettivo del convegno è stato quello di fornire un aggiornamento di elevata qualità scientifica, finalizzato al miglioramento della pratica clinica con un’attenzione particolare per l’appropriatezza e la costo/efficacia degli interventi, denso di messaggi da applicare nella quotidianità per rendere più agevole e sicura la pratica professionale.
Alla prima sessione, dedicata alla “Governance dello scompenso cardiaco” e moderata da Barbara Collu (Oristano) e Antonello Cuccuru (Carbonia), hanno partecipato due coordinatrici infermieristiche della ASL Sulcis Iglesiente: Brunella Porcu, incaricata di funzioni organizzative della Struttura complessa di Cardiologia e UTIC del Presidio ospedaliero Sirai, e Mirka Tola, incaricata di funzioni organizzative del Poliambulatorio del Distretto socio sanitario di Iglesias.
Lo Scompenso cardiaco (Sc) cronico rappresenta una delle principali cause di mortalità, morbilità ed assorbimento di risorse nei paesi occidentali. La prevalenza, pari circa al 2% della popolazione, cresce in maniera esponenziale con l’età ed è in continuo aumento per l’invecchiamento generale.
Il DRG 127 “insufficienza cardiaca e shock” è numericamente al secondo posto dopo il parto non complicato e rappresenta la prima causa di ricovero negli over 65 anni.
I pazienti con scompenso cardiaco hanno in genere più condizioni morbose, vanno incontro ad esacerbazioni imprevedibili, sintomi invalidanti, stato funzionale limitato e una scarsa qualità della vita. Il fenomeno che gli anglosassoni chiamano “revolving door syndrome”, ovvero “sindrome della porta girevole”, cioè il continuo passaggio tra ospedale e domicilio, caratterizza fortemente questa patologia.
Diventa pertanto fondamentale, a fronte della dimensione del fenomeno e del peso economico generato dallo Scompenso cardiaco, garantire percorsi diagnostici terapeutici assistenziali (PDTA) inclusivi di efficaci interventi di “case management” infermieristico.
In tale prospettiva, l’intervento di Mirka Tola, ha illustrato l’esperienza dell’Ambulatorio dello scompenso cardiaco del distretto di Iglesias nella prevenzione della ri-ospedalizzazione, a 9 anni dalla sua attivazione. L’attività condotta in questi anni ha consentito di diminuire sensibilmente il ricorso ai nuovi ricoveri attraverso l’implementazione di un PDTA aziendale caratterizzato da interventi di presa in carico infermieristica precoce e follow-up strutturati al fine di ridurre i tassi di riammissione e migliorare gli outcomes.
Il follow-up telefonico viene condotto seguendo una check list che include diversi items: condizioni del paziente, necessità di chiarimenti specifici, aderenza alla terapia farmacologica, monitoraggio dei parametri (pressione arteriosa, diuresi, peso). A supporto degli interventi di educazione terapeutica individuali si sono prodotti materiali informativi/educativi (cartacei) con strategie “health literacy” al fine di potenziare l’empowerment del paziente e del caregiver (qualsiasi persona esterna o interna alla famiglia che si prende maggiormente cura della persona malata in modo informale).
L’ambulatorio per lo Scompenso cardiaco è gestito direttamente da un gruppo dedicato costituito da un cardiologo e da infermieri altamente specializzati, che lavorano in stretta collaborazione tra loro.
Il secondo intervento, presentato dalla coordinatrice della Cardiologia, Brunella Porcu, ha illustrato il lavoro svolto dalla Struttura complessa di Cardiologia del Presidio ospedaliero Sirai nell’adozione del processo di self care.
Il self-care è un “processo decisionale messo in atto dal paziente per preservare la salute e gestire la malattia cronica” (Riegel et al., 2018).
Il self-care è anche un fenomeno di interesse infermieristico perché include comportamenti di vita quotidiana modificabili su cui l’infermiere può agire durante l’intero processo assistenziale.
Si compone di tre dimensioni:
– self-care maintenance: comportamenti volti a migliorare il benessere e mantenere la salute (es. praticare attività fisica, aderenza alla terapia);
– self-care monitoring: comportamenti di sorveglianza di segni e sintomi della malattia (es. monitoraggio della pressione arteriosa, della glicemia);
– self-care management: comportamenti di gestione di segni e sintomi della malattia (es. modificare l’attività fisica o la dieta).
Diversi studi internazionali hanno dimostrato che se i pazienti con Scompenso cardiaco effettuano un efficace self-care, si riducono i loro accessi in pronto soccorso come pure il numero di ricoveri impropri.
L’esperienza condotta nella Cardiologia del Presidio ospedaliero Sirai ha permesso inoltre di sviluppare e validare strumenti specifici di misura per identificare i pazienti con deficit di self-care e concentrare gli interventi educativi sui pazienti a rischio, con il coinvolgimento del caregiver prima della dimissione.

Sollecitato dalla recente pubblicazione del sapiente Mario Marroccu, past Direttore della Struttura Complessa di Urologia del Presidio ospedaliero Sirai, dal titolo: “in sanità siamo tutti colpevoli”, volevo contribuire alla discussione sui diversi attori che governano la sanità con un’ulteriore riflessione sul ruolo del manager in sanità, con o senza precedente esperienza clinica. Illuminato.
Senza voler delimitare gli ambiti delle mie responsabilità (ed eventuali colpe) di dirigente sanitario (con provenienza da una professione tecnico specialistica di infermiere), riprendendo alcune illuminanti considerazioni tratte dal libro di Annalisa Pennini, “10 brevi lezioni per manager in sanità”, provo a sollecitare alcune riflessioni.
Manager in sanità si diventa partendo spesso da una professione clinica e iniziando a svolgere una funzione manageriale come coordinatore, dirigente, responsabile o direttore.
Il passato come clinico è sicuramente una grande ricchezza ma, affinché non diventi un ostacolo alla nuova prospettiva, deve essere considerato un aspetto da gestire: lo scenario è cambiato e ci si trova a svolgere un lavoro totalmente diverso da prima, si tratta del passaggio dal lavoro in “prima linea” al lavoro “dietro le quinte”.
Il manager in sanità è quasi sempre un ex clinico. Anche nella nostra ASL (ex USL, ASSL), a parte alcuni ex Direttori Generali (il compianto Giuseppe Ricciarelli, Emilio Simeone, Maurizio Calamida, Maddalena Giua, per citarne alcuni) che non possedevano una formazione di tipo sanitario e quindi non provenivano dall’attività clinica, i restanti avevano tutti un passato di pregresse esperienze in ambito clinico e questo ne ha influenzato l’identità e le modalità di interazione con l’organizzazione.
Parlare di chi oggi ricopre funzioni di dirigenza e si è trovato in passato a svolgere attività clinica e a vivere il passaggio fra essere un clinico e gestire i clinici, richiede alcune precisazioni preliminari.
Quando si utilizza il termine clinico, si intende qualsiasi ambito dell’attività sanitaria, dove il professionista svolge una funzione operativa a contatto con le persone assistite o con processi di lavoro in prossimità di esse. Parlando di clinici, non si fa distinzione di professione e si vogliono includere tutte le comunità professionali che operano in sanità. I termini non vengono utilizzati come sinonimi di medico o medici, ma come suggerito dall’etimologia della parola, che spiega che il termine clinico deriva dalla parola “letto” (Kline in greco) o che si fa presso il letto (klinikòs). Nella presente riflessione si farà quindi riferimento estensivo e inclusivo di ogni attività o funzione di “prima linea” o strettamente collegata con essa, come ad esempio le attività diagnostiche di laboratorio o di radiologia.
La seconda precisazione riguarda l’utilizzo del termine manager che, in questa valutazione, viene riferito a chiunque all’interno dell’organizzazione conduca qualcosa o qualcuno. Anche in questo caso, l’etimologia della parola sostiene questa scelta. Infatti, dal latino “manu agere” deriva l’attuale “condurre con la mano”. Dal successivo passaggio attraverso la lingua francese si trova la vicinanza con “maneggio” o “maneggiare”. Pertanto, il riferimento può essere allargato a tutti coloro che, a vario titolo, contratto, investitura formale o meno, svolgono funzioni di “conduzione” e non di “prima linea”. Un tempo in sanità c’erano i coordinatori e i dirigenti ( o meglio i caposala e i primari), ora ci sono i manager di vario livello ed estrazione professionale (in diverse ASL, ex infermieri ricoprono oggi il ruolo di Direttore Generale o Direttore di Distretto), intrecciati in matrici gerarchico funzionali diversamente rappresentate nelle organizzazioni.
L’ultima precisazione interessa il management, che deve essere ricondotto e contestualizzato alla tipologia di organizzazione che lo ospita. Queste organizzazioni, sono oggi aziende, e come tali necessitano di management e di manager. Ma cosa rende diverso il management delle aziende sanitarie rispetto a quelle che posizionano i loro prodotti e servizi sul libero mercato? Sicuramente non la catena di creazione del valore, che le accomuna, in considerazione del fatto che tutte utilizzano risorse (input), per lavorarle (processi), al fine di produrre risultati, come i prodotti o i servizi (output), indirizzati alla soddisfazione dei bisogni (outcome). Alcune differenze sono:
– tipologia di funzioni svolte: le aziende sanitarie si occupano di attività di interesse collettivo (tutela della salute), nomate e protette da leggi dello stato e ciò le rende più distanti dalle regole del mercato puro.

– configurazione organizzativa: le aziende sanitarie sono configurabili come burocratiche professionali, che mettono al centro il potere della competenza e l’autorità di tipo professionale, in quanto si fondano, per funzionare, sulle competenze dei professionisti in prima linea, cioè i clinici. Il meccanismo di coordinamento prevalente di questa tipologia di organizzazione è standardizzazione degli input, cioè standard che vengono definiti all’esterno dell’organizzazione stessa, nelle strutture formative e associative ai quali i professionisti appartengono ancora prima di inserirsi nell’organizzazione sanitaria. Sono organizzazioni perlopiù conservatrici, stabili e al tempo stesso complesse, poco propense all’innovazione e all’integrazione fra gruppi professionali.

– sistema di finanziamento e di gestione economica: il modo in cui le aziende sanitarie si finanziano prevede che vi sia un contatto indiretto fra i clienti e l’azienda, dal punto di vista del pagamento del servizio. Fatte salve le prestazioni pagate direttamente dalle persone assistite, il sistema sanitario si basa ancora, in larga misura, su finanziamenti che non vengono erogati direttamente dalle persone che usufruiscono del servizio. Le differenze descritte sottolineano alcune delle caratteristiche delle organizzazioni sanitarie che ne condizionano il modo in cui il management viene interpretato e i manager svolgono le loro funzioni. Le specificità sopraindicate rischiano di essere dei fattori predittivi di scarsa efficienza ed efficacia, di cui il management deve tener conto e deve far fronte.
Salvatore Nieddu, professore a contratto di Organizzazione Aziendale presso la Facoltà di Economia dell’Università di Torino e Responsabile della Struttura Controllo di gestione dell’ASL 4 di Torino, nell’interessante e piacevole libro intitolato: «Un week end con… il management sanitario», Centro Scientifico Editore di Torino, ricorda che il management è la cura prescritta per le patologie chiamate inefficienza e inefficacia, ma che l’esito di tale terapia non è certo, perché si tratta di un trapianto che potrebbe avere un rischio di rigetto, in ragione degli aspetti storici, culturali e organizzativi del contesto in cui si opera.
Per rispondere alla domanda iniziale, è importante chiederci se il passato clinico rappresenta davvero una ricchezza o piuttosto un limite.
Rispetto al passato da clinico, alcuni autori hanno evidenziato come il beckground di riferimento rappresenti una solida base per leggere la realtà e agire in essa in modo competente ed efficace. Uno dei più illustri studiosi di management al mondo, il famoso economista canadese Henry Mintzberg, studioso di scienze gestionali, ricerca operativa, organizzazione aziendale, ha affermato che “ i manager devono sapere molte cose, soprattutto sul contesto specifico in cui operano, e devono prendere decisioni sulla base di queste conoscenze” (Henry Mintzberg, Il lavoro manageriale, Franco Angeli, 2010).
Per poter affermare che il passato da clinico rappresenta una ricchezza e non un limite, è opportuno sottolineare che affinché sia un vero vantaggio è necessario spostare la posizione e la motivazione con cui lo si utilizza. In altri termini, l’obiettivo del lavoro in sanità è di proprietà sia del clinico che del manager, quello che cambia è la prospettiva con cui vengono usate le conoscenze e le competenze. Il clinico lo utilizza per risolvere i problemi di salute delle persone, il manager per risolvere o migliorare i problemi organizzativi dei clinici.
Le conoscenze cliniche del manager sono un livello soglia in grado di fare la differenze per la comprensione del contesto, per entrare nei problemi sollevati dai clinici, per orientare una unità operativa e un team verso outcome (risultati) significativi per le persone assistite.
Ciò che viene a cambiare, tra la linea clinica e quella manageriale è la profondità della conoscenza e la profondità di utilizzo. Più profonda e orientata al singolo problema per il clinico, più trasversale e orientata all’insieme per il manager, come se si immaginasse una visione verticale e orizzontale delle cose.
Il clinico usa la conoscenza clinica in modo diretto e come strumento basilare per la sua attività che è la clinica. Il manager usa la conoscenza clinica in modo indiretto e come strumento importante per la sua attività che è la gestione.
Non è lo strumento in sé che cambia, è l’uso che se ne fa. Quindi è l’attività che cambia, non lo strumento. Se non viene interiorizzato questo passaggio concettuale e pratico fra attività e strumenti, il background clinico rischia di costituire un impedimento allo sviluppo di una identità manageriale, in quanto si confonde la funzione con lo strumento.
Il background clinico rappresenta una barriera quando la visione da clinico limita lo sguardo e non consente il passaggio verso livelli più ampi.
Partendo da alcuni riferimenti storici, oltre che culturali e paradigmatici, Pennini descrive tre modelli di manager (utilizzando le diciture 1.0 – 2.0 – 3.0 diventate di uso comune per indicare programmi, app e chat di ultima generazione, ma che si utilizza anche quando si vuole dire che qualcuno o qualcosa è “un passo avanti”) che hanno in comune caratteristiche e tratti essenziali e che si sono succeduti nei diversi anni.
La versione 1.0. del manager in sanità è riconducibile a un’organizzazione burocratica e gerarchica, dove il rispetto delle regole assume un posto di rilevo. Verosimilmente collocabile in modo prevalente fra gli anni 70 e 80 del secolo scorso, ha trovato fortuna nella figura del primario e del caposala che ricoprivano ruoli in organizzazioni verticali e conservatrici.
La realtà ospedaliera suddivisa in specialità, fungeva da volano a questo tipo di manager che pur con le dovute differenze in base alle professioni e posizioni, fondava la sua identità perlopiù sull’autorità. La normativa professionale del tempo, con la suddivisione in professioni sanitarie principali e ausiliarie, forniva una ulteriore base per mantenere relazioni gerarchiche e stratificate che necessitavano di ordine e ordini che dovevano essere eseguiti.
Per alcune professioni esistevano programmi formativi formali di tipo manageriali (Abilitazione a Funzioni Direttive -AFD- per la formazione dell’infermiere coordinatore), mentre per altre il passaggio da clinico a manager era sostenuto dall’elevato livello di competenze cliniche, tanto da collocarlo come un “primo fra pari” (primus inter pares) per altre professioni ancora, il passaggio al ruolo di manager avveniva per anzianità di servizio, affidabilità, capacità tecniche, buon senso applicato.

Pertanto, in molti casi l’identità manageriale poggiava su un primo tipo di competenze (cliniche) che non sulle seconde (manageriali). Infine, i modelli organizzativi delle organizzazioni sanitarie erano di tipo funzionale, con riferimento a compiti e giri che sostenevano ulteriormente la necessità e la possibilità di controllo e di comando. Erano modelli basati su una importante, a volte eccessiva, standardizzazione delle attività, che frenava l’assunzione di responsabilità professionali e l’orientamento al risultato delle cure.
La versione 2.0. in ambito sanitario è collocabile, invece, all’interno della spinta aziendalistica degli anni ’90 del secolo scorso. La normativa del periodo (D.Lgs 502/92 e seguenti) ha trasformato il sistema sanitario e le organizzazioni sanitarie (territoriali e ospedaliere) sono diventate aziende. A capo di queste non vi era più un Comitato di Gestione ma un Direttore Generale con potere di gestione e rappresentanza, Si sono create delle realtà che, pur mantenendo una connotazione pubblica, hanno sperimentato logiche gestionali nuove per il settore, Di conseguenza anche il management si è ridisegnato sulle caratteristiche di questi diversi contesti. Le iniziative formative degli anni ’90 e 2000, hanno sostenuto l’idea di un manager che per svolgere correttamente le funzione doveva in qualche modo allontanarsi dai contesti clinici, per gestire risorse. Si introducono termini, concetti e strumenti provenienti da altri ambiti, come la gestione del budget, i sistemi di qualità, il benchmarking, gli indicatori, gli standard e altri ancora. Le parole chiave sono dell’efficienza nella gestione delle risorse umane, materiali, tecnologiche ed economiche. Anche in sanità si era palesato il modello di manager per far fronte alle inefficienza (Gary Hamel, il futuro del management 2008): “in quanto manager, siamo schiavi di un paradigma che antepone il perseguimento dell’efficienza a tutti gli altri obiettivi. “Il futuro del
management” è un’analisi lucida dell’attuale mondo manageriale, ma senza piglio distruttivo, nonostante non faccia sconti; individua bene i problemi che hanno messo in crisi le aziende, troppo occupate a guardare i bilanci senza preoccuparsi del valore che avevano già in casa e che avrebbe consentito loro innovazioni a costo zero; propone soluzioni in modo realistico che partono da quello che l’impresa è ora, dalle persone che ha, dalle risorse su cui può fare affidamento. Hamel vede nel coinvolgimento delle persone la chiave per lo sviluppo, l’innovazione, la crescita e per una vita migliore sul luogo di lavoro.
La versione 3.0. del manager in sanità è infine, quella che si vuole collocare nel presente e nel futuro delle organizzazioni sanitarie. È l’idea di un manager contemporaneo, che persegue principalmente due orientamenti: all’autcome del servizio e alla gestione di un team di professionisti autonomi o potenzialmente autonomi. Rispetto al primo orientamento (all’autcome del servizio ) si pone come un garante della qualità del servizio che la sua unità organizzativa è in grado di assicurare alla persona assistita. Questo concetto di qualità è composto da altri termini
chiave: efficacia, appropriatezza, sicurezza, equità, eticità sostenibilità e non solo efficienza.
Il secondo orientamento (gestione del team) vede il manager come un leader e un coach impegnato nella costruzione e mantenimento di un team di lavoro, che ha attenzione sia ai compiti da svolgere che alle relazioni, il team è composto da professionisti autonomi o potenzialmente autonomi che necessitano di un leader che possa interloquire con loro in modo qualificato, I l manager come coach è sempre più una necessità delle attuali organizzazioni, in riferimento al crescente aumento di complessità organizzativa e della necessità di apprendimento continuo.
Più volte è stato affermato che il manager che proviene dalla clinica deve passare attraverso un cambio di prospettiva. Si tratta di una trasformazione necessaria per ricoprire un nuovo ruolo e funzionale per agire in esso. Questo cambio deve concretizzarsi su due principali livelli:

– diverso utilizzo delle conoscenze e competenze cliniche

– differente ampiezza e direzione della prospettiva.

Riguardo l’utilizzo delle conoscenze e competenze cliniche, è stato evidenziato come possano essere delle risorse per il manager. Esse divengono uno strumento di lavoro che può concretamente fare la differenza fra un manager autorevole ed efficace e chi non lo è. Questo diverso utilizzo delle conoscenze e competenze cliniche è un’evoluzione che il manager deve comprendere e gestire. Deve “elaborare il lutto” della perdita della profondità con cui possedeva e usava queste conoscenze e competenze e canalizzare su altri fronti la “nostalgia” della maggiore distanza dalle persone assistite e dai processi clinici.
Il secondo aspetto riguarda la differente ampiezza e direzione della prospettiva, che precedentemente è stata anche denominata: verticale e orizzontale. È verticale, cioè di profondità per il clinico; è orizzontale, cioè di superficie per il manager. Non vi è un meglio e un peggio, come non vi è un tutto-o-niente, in queste due direzioni. Per il manager non è funzionale andare cosi “a fondo” come è richiesto al clinico, perderebbe in ampiezza che è un elemento fondamentale per avere “la visione d’insieme”. Questa prospettiva deve essere temporaneamente significativa, cioè in grado di coniugare una concretezza del qui e ora, per avere il controllo del lavoro quotidiano, con una visione del futuro che conduca l’organizzazione verso nuove mete.
Per comprendere il processo di cambiamento fra il ruolo del clinico e quello manageriale, è importante riflettere su alcuni punti, con l’aiuto di Antonello Goi (Laurea in Filosofia, con un’esperienza trentennale nell’ambito Risorse Umane in una grande azienda leader nel settore delle telecomunicazioni) e del suo libro: “Professione manager Teoria e pratica della gestione strategica delle risorse umane”, Ed. Franco Angeli.
1. Il manager diviene un componente della linea intermedia o della direzione, provenendo da nucleo di base. Egli fa comunque parte dell’organizzazione ma si trova in posizione diversa. Antonello Goi afferma: «Chi manovra le leve del management è, infatti, un uomo che appartiene anch’esso all’organizzazione, si nutre al suo interno della stessa strategia e ne è il principale interprete e diffusore». Questo percorso lo pone in una zona di maggiore visibilità e al tempo stesso di invisibilità. Con questa affermazione si evidenzia che spostandosi, esso diventa sicuramente più esposto e visibile, ma che al tempo stesso, ciò che fa diviene agli occhi dei colleghi clinici, meno comprensibile a causa della sua lontananza dalla clinica e dell’intangibilità intrinseca del lavoro manageriale. D’altronde, questa incomprensibilità del ruolo, da parte del clinico che non ha mai fatto il manager, è una situazione che non lascia molte alternative in termini di soluzioni efficaci per la gestione: affidare il management a un esterno alla comunità professionale che non possiede un background clinico o “tollerare” la lontananza dai processi del manager- ex clinico che pur sempre possiede e mantiene un livello sufficiente di conoscenze per leggere i contesti.
2. Il manager diviene un rappresentante del lavoro liquido. Zygmunt Bauman, è stato uno dei più noti e influenti intellettuali del secondo Novecento, maestro di pensiero riconosciuto in tutto il mondo. A lui si deve la folgorante definizione della «modernità liquida». Secondo Zygmunt Bauman «la società liquido moderna nella quale viviamo, è caratterizzata da situazioni in cui gli uomini agiscono e che si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure”. È una realtà che crea: esperienze e “relazioni sociali segnate da caratteristiche e strutture segnate che si vanno decomponendo e ricomponendo rapidamente, in modo vacillante incerto, fluido e volatile» (https://www.treccani.it/vocabolario/societa-liquida_res-c0525b22-89ec ). Per Henry Mintzberg, il lavoro manageriale è affetto dalla “sindrome di superficialità”. Il termine superficiale non deve essere inteso con un’accezione negativa di approssimazione o inconsistenza, ma come uno stare su tante cose, passare da un momento all’altro con velocità ma al tempo stesso la necessaria seppur fugace attenzione.
Il manager è attratto dall’andare in profondità, come era abituato a fare nel lavoro di clinico, ma si trova a rispondere alla domanda: “come si può fare un’analisi approfondita, quando si è sempre sotto pressione?”
(Henry Mintzberg, Il lavoro manageriale in pratica, Franco Angeli, 2014).
3. Il manager diviene un professionista nuovo con una diversa identità. Se l’identità del clinico è un’identità basata sul sapere scientifico e sul “fare” come applicazione di questo sapere, quella del manager dovrà essere basata ancora sul sapere scientifico (gli argomenti del clinico) e sul “far fare” o “all’aiutare a fare” (Ugo Morelli, Maria Gabriella De Togni, coordinatori infermieristici. Competenze e qualità nelle relazioni di cura, 2010).
L’assunzione della nuova identità è come un cambio di pelle, è come la trasformazione crisalide-farfalla. È quindi u’identità che deve basarsi su nuove pratiche professionali e sull’asimmetria della relazione con le persone che si dirigono. Da clinici si operava in un gruppo di pari (i colleghi), da manager si è il leader di un gruppo di professionisti.
Dopo aver esplorato un possibile percorso della nuova identità del manager ex clinico, due battute volevo dedicarle a quelle che Pennini definisce le “possibili tentazioni” che il manager ex clinico incontra nel quotidiano.
Si tratta di “tentazioni” perche, in qualche modo, collegate al suo paradigma operativo e dalle quali può essere attratto in quanto rappresentano schemi conosciuti e nei quali “rifugiarsi” quando le cose non vanno come si vorrebbe o quando vi sono sfide e situazioni inconsuete da affrontare.
Secondo Marco Rotella, coach, counselor, mental trainer ed esperto di processi formativi, molti manager vivono oggi, pur avendo difficoltà a confessarlo, una vera e propria “sindrome da schiacciamento” (niente a che vedere con la rabdomiolisi post-traumatica o sindrome di Bywaters): si sentono affannati, impotenti, assolutamente non in grado di fronteggiare nel migliore dei modi tutto questo. Vivono momenti di ansia, a volte di vera e propria angoscia, l’irritabilità aumenta, le relazioni, professionali e soprattutto familiari, ne risentono in modo decisivo. In altre parole, si crea una situazione di stress permanente.
Questo scenario ha spinto Marco Rotella a scrivere il libro: “Manuale di sopravvivenza manageriale. Breve guida per manager, imprenditori, professionisti intrappolati”, Di Marsico libri, Bari. Un testo veramente pratico, semplice, leggibile, che potrebbe essere usato come “kit di sopravvivenza”.
Operare in contesti complessi e mutevoli, per Marco Rotella, implica imparare ad essere continuativamente attenti ai segnali che pervengono dall’esterno. Per poter gestire questi sistemi è necessario comprenderli e governarli. La tentazione in questo caso, è quella di trattare il sistema come se fosse semplice, reclamando risposte certe e percorsi lineari.
Il concetto di complessità viene declinato in diversi settori secondo forme e modalità conoscitive proprie. […] Esso assume un preciso significato a seconda dei numerosi campi scientifici in cui si applica (Gualandi R, Tartaglini D., Le organizzazioni sanitarie come sistemi complessi, in A. Pennini Modelli organizzativi in ambito ospedaliero McGraw-Hill 2015).
L’etimologia della parola complesso, fa riferimento a cum plexus, cioè con nodo o intreccio. Quest’ultimo non si può facilmente “sbrogliare “senza perderne la sua natura intrinseca, la sua interezza. Infatti: a differenza di un meccanismo, che seppur complicato […] può essere smontato nelle sue parti per poter agire su di esse e poi successivamente ricomposto, nel fenomeno complesso ci si deve concentrare sull’intero sistema, considerato nel suo insieme come qualcosa di indivisibile (Gualandi R., Tartaglini D. 2015).
Sempre secondo i due autori, gli elementi che contribuiscono a rendere complessi i sistemi sono (Gualandi R., Tartaglini D. 2015):

– la struttura del sistema: può essere composta da diverse parti, numerose e variabili, che si mettono in relazione tra loro in modo non lineare;
– il comportamento del sistema: può cambiare nel tempo e rispetto all’ambiente di riferimento;
– le proprietà emergenti del sistema: cioè comportamenti che si presentano a un certo livello di complessità, che non erano presenti agli stadi precedenti e che fanno in modo che il sistema non torni più allo stato originario.
Un testo che non dovrebbe mancare nella biblioteca di un manager e che consentire una più facile diagnosi della complessità, è sicuramente quello di Roberto Vaccani, docente senior di comportamento organizzativo della SDA Bocconi: “Riprogettare la sanità. Modelli di analisi e sviluppo”. Carocci Faber 2012.
A tale proposito, Vaccani identifica i seguenti criteri diagnostici enunciandoli come livelli:
– livello di incertezza/imprevedibilità che il sistema deve amministrare,
– livello di pluralità e diversificazione dei beni/servizi prodotti;
– livello di discrezionalità decisoria decentrata indotto dai beni/servizi prodotti; dimensione organizzativa.
Per Edoardo Manzoni, Direttore Generale Istituto Palazzolo (Bergamo) e autore del libro “l’identità delle professioni sanitarie per far fronte alla complessità, 2015″, che ho avuto la fortuna di conoscere nel 2014, in una tavola rotonda organizzata dall’OPI di Carbonia Iglesias, «non possiamo contrapporci alla complessità ma la dobbiamo accettare coniugando tre parole chiave: accogliere, vivere e integrare».
Accogliere, così da: «Rendere intero e ottenere un risultato che è maggiore e diverso dalla somma dei risultati dei singoli elementi che compongo l’intero medesimo» (Edoardo Manzoni 2015). Convivere con la complessità significa fare lo sforzo di “non ridurre i fenomeni, di non scomporli necessariamente verso un impoverimento interpretativo” (Edoardo Manzoni 2015). Integrare, come accezione allarga, che va al di là della sola costruzione di relazioni e alleanze, ma deve intendersi come accoglienza di punti di vista, conoscenze, domande. Nel mondo sanitario, integrare e accogliere, sono un’importante sfida per tutti i professionisti, ma soprattutto per chi è chiamato a gestire l’organizzazione. Oggi la sfida della complessità comprende la necessità di integrare i saperi , superando la disintegrazione, pur riconoscendo il valore della specializzazione.
Oltre tali aspetti concettuali legati alla complessità, in generale e in particolare in sanità, sempre secondo A. Pennini, diventa importante indirizzare l’atteggiamento del manager verso alcuni percorsi che consentano di governare nella complessità e che per semplicità vengono riportati nel seguente elenco.
1. Ampliare la visuale all’interno del sistema.
2. Avere e sviluppare una visione.
3. Programmare in progress.
4. Stabilire poche e semplici regole.
5. Dare spazio e al significato espresso da chi fa le cose.
6. Adottare stili di conduzione negoziali e autorevoli.
7. Concentrarsi sugli obiettivi.
8. Creare piani e programmi che anticipino i fenomeni.
9. Consentire (la reale) partecipazione.
10. Far convivere sistemi formali e informali.
11. Sviluppare la creatività.
12. Creare e sostenere reti di relazioni.
13. Imparare ad imparare.
Queste semplici indicazioni (che necessitano di essere sviluppate), sulla modalità di gestire le organizzazioni complesse,
sicuramente non esauriscono tutte le possibili strategie, ma costituiscono un punto di partenza per il manager che si
trova, soprattutto all’inizio del suo incarico, a vivere dentro la complessità in sanità.
Carissimo Mario, nei miei 39 anni di servizio, 23 dei quali passati da professional clinico e 16 da dirigente/direttore delle professioni sanitarie, ho conosciuto numerosi manager – ex clinici che vantavano una notevole casistica di attività sanitaria ma che, una volta promossi manager, non sono stati in grado di costruire e guidare un team di professionisti con i quali condividere obiettivi e strategie di sviluppo, perché prigionieri di schemi mentali rigidi e convinti di poter replicare l’esperienza di direzione della ex unità operativa nella gestione di un’azienda.
Concordo con te sul fatto che questa sanità vada rivista e che nessuno di noi è immune da colpe o responsabilità, ma ho ritenuto opportuno delineare il cambio di prospettiva, illustrato in modo eccellente da Annalisa Pennini, necessario per tutti i clinici (me compreso) che vogliono diventare manager.
I manager della sanità si trovano oggi in una posizione scomoda: devono affrontare il dilemma di coniugare il bisogno di salute con la sostenibilità economica e la restrizione di risorse. Devono inoltre, fare i conti con la gestione della rete dei portatori di interesse (sindaci, sindacati, professionisti, etc.), sia interni che esterni. Gran parte del loro tempo è dedicato a gestire incontri con interlocutori istituzionali e non, dentro e fuori le mura dell’azienda. Proprio per questo, l’attuale manager deve essere in grado di coniugare la capacità di esprimere una visione e di condividerla con i suoi interlocutori.
Deve tradurre poi la visione in orientamento strategico, sapendo tenere il focus su obiettivi, aspettative e risultati.
Un ruolo che ha necessità di essere supportato da percorsi di formazione e di sviluppo professionale allineati alle aspettative del nuovo ruolo, che non può limitarsi alla frequenza di un corso regionale di qualche weekend al mese, pur tenuto da autorevoli docenti. Il percorso dovrebbe combinare la formazione tradizionale con il confronto tra pari e la condivisione delle esperienze e delle buone pratiche, contemperando attività di lavoro, apprendimento sul campo e opportunità di networking e ampliamento dei propri orizzonti, come sta facendo da qualche anno, la ASL di Nuoro.

Antonello Cuccuru

Bibliografia
A. Goi, Professione manager Teoria e pratica della gestione strategica delle risorse umane, Franco Angeli 2004
A. Pennini, Dieci brevi lezioni per manager in Sanità, Franco Angeli 2020
E. Manzoni, l’identità delle professioni sanitarie per far fronte alla complessità, Casa Editrice Ambrosiana 2015
H. Mintzberg, Il lavoro manageriale in pratica, Franco Angeli, 2014
M. Rotella, Manuale di sopravvivenza manageriale. Breve guida per manager, imprenditori, professionisti intrappolati, Di Marsico libri, Bari 2016
R. Vaccani Riprogettare la sanità. Modelli di analisi e sviluppo, Carocci Faber 2012.
S. Nieddu, Un week end con… il management sanitario”, Centro scientifico editore di Torino 2005
R. Gualandi, D. Tartaglini, Le organizzazioni sanitarie come sistemi complessi, in A. Pennini Modelli organizzativi in ambito ospedaliero, McGraw-Hill 2015
U. Morelli, M G.De Togni, Coordinatori infermieristici. Competenze e qualità nelle relazioni di cura, Guerini, Milano 2010
G. Hamel, Il futuro del management ETAS, Milano 2008
Z. Bauman, Vita liquida, Laterza Bari 2005

Una giornata di studio sulle responsabilità professionali nella gestione della cartella clinica, organizzata dalla Direzione medica dei Presidi Ospedalieri, si è svolta a Carbonia negli spazi della Grande Miniera di Serbariu, Sala conferenze Sotacarbo, il 30 ottobre 2023.

Alla giornata di studio, moderata dal dirigente medico legale e risk manager Andrea Della Salda, sono intervenuti il dirigente medico della Direzione del Presidio Sirai Cristiana Cardia, il professore ordinario Francesco De Stefano, medico legale dell’Università degli Studi di Genova, il dirigente delle professioni sanitarie Antonello Cuccuru, il dirigente medico legale Maria Maddalena Mele, il Tecnico di Radiologia Medica e Specialista in DIS/MIS-PACS Management, Tecnologie in Diagnostica per Immagini e Telemedicina Alessio Urgenti e la Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza Paola Massidda.

Il tema, di stretta attualità e di largo interesse in una sanità sempre più multimediale, ha coinvolto oltre 100  professionisti, tra dirigenti medici, infermieri, ostetriche e fisioterapisti.

I lavori della I sessione sono stati introdotti dalla Direttrice sanitaria degli Ospedali di Carbonia e Iglesias Giovanna Gregu, che ha evidenziato come la cartella clinica, oltre ad una indubbia valenza medico-nosologica ed epidemiologica, ha poi anche un importante rilievo giuridico, sotto vari profili e non ultimo, negli ultimi anni, ha assunto grande valore amministrativo. La direttrice ha messo in risalto che, per migliorare la disponibilità di informazioni, snellire il lavoro dei sanitari e favorirne i processi decisionali, occorre una riconsiderazione estesa e approfondita dell’intera cartella clinica: lavoro impegnativo che può sortire positivi risultati solo a condizione che vi sia una convinta partecipazione delle molteplici professionalità interessate

Nel primo intervento, il dirigente medico Cristiana Cardia, ripercorrendo un singolare excursus storico della nascita della cartella clinica, ha spiegato che non esiste una normativa unitaria che disciplini i contenuti e chiarisca la modalità di compilazione della cartella clinica: esistono diverse indicazioni in differenti documenti quali DPR, DM, Circolari ministeriali , DPCM, inoltre i Codici deontologici di medici e infermieri sono intervenuti nel disciplinare la questione e anche la Corte di Cassazione si è pronunciata in materia, per definire quale deve essere il contenuto della cartella clinica e quali sono i requisiti di validità e le responsabilità ad essa connesse. Il Ministero della Sanità nel 1992, ha definito  la cartella clinica come uno ”Strumento informativo individuale finalizzato a rilevare tutte le informazioni anagrafiche e cliniche significative relative ad un paziente  e ad un singolo episodio di ricovero”.

Fatta salva questa definizione, la dirigente ha precisato che la cartella clinica è un insieme di documenti in cui è registrato da medici e infermieri un complesso eterogeneo di informazioni sanitarie, anagrafiche, sociali, ambientali, giuridiche  aventi lo scopo di rilevare il percorso diagnostico terapeutico di un paziente al fine di predisporre gli opportuni interventi sanitari e di poter effettuare indagini scientifiche, statistiche, medico legali.

Nell’ambito delle attività della Direzione medica dei due nosocomi del Sirai e CTO, il controllo delle cartelle ha evidenziato diverse criticità: per tale motivo si sta costruendo una scheda di verifica della compilazione della cartella clinica e un manuale operativo che potrà fungere da supporto per migliorare la qualità del documento.

Infatti, la legge 133/2008 capo IV art 79 prevede che: «Al fine di realizzare gli obiettivi di economicità nell’utilizzazione delle risorse e di verifica della qualità dell’assistenza erogata, secondo criteri di appropriatezza, le regioni assicurano, per ciascun soggetto erogatore, un controllo analitico annuo di almeno il 10 per cento delle cartelle cliniche».

I prossimi mesi vedranno la Direzione degli Ospedali di Carbonia e Iglesias impegnata in attività di controlli sanitari per verificare l’utilizzo corretto e migliore delle risorse del SSN al fine di ottenere i risultati migliori in termini di sicurezza, efficacia ai costi più bassi possibili.

I lavori sono proseguiti con l’intervento del dirigente delle professioni sanitarie della ASL Sulcis Iglesiente, Antonello Cuccuru,  che ha presentato un’analisi retrospettiva delle cartelle infermieristiche non compilate adottate dalle 15 UU.OO. Nel lavoro, sono state sottoposte a valutazione 15 cartelle infermieristiche non compilate, raccolte dall’Ufficio di Staff delle Professioni Sanitarie,  relative alle Unità Operative dei 2 Ospedali della ASL Sulcis Iglesiente.

L’audit retrospettivo sulla qualità delle cartelle adottate ha messo in evidenza diverse criticità. In particolare, è stato sottolineato che spesso non si raccolgono dati essenziali, che quelli che si raccolgono non vengono sempre utilizzati e che le informazioni importanti, quelle vere che servono per programmare l’assistenza e conoscere il paziente, continuano ad essere trasmesse a voce e far parte di quella memoria labile e soggettiva, che si esaurisce nello spazio di un turno.

Il dirigente infermieristico, ha quindi specificato che, se la cartella deve diventare uno strumento di documentazione che dimostra anche ciò che è stato fatto, non solo a fini amministrativi ma per aumentare la conoscenza sul paziente, va tenuto presente che spesso le informazioni importanti non si ricavano dalla somma degli interventi o dagli esami eseguiti, ma soprattutto dalle parole del paziente, dalle intuizioni, dalle reazioni, dalle impressioni espresse dagli infermieri e dai medici.

Per il dirigente infermieristico, uno di problemi principali dell’infermieristica è sicuramente la mancanza di un modello teorico di riferimento universale. Malgrado questo però, esistono delle informazioni che devono essere raccolte al fine di poter rilevare i bisogni assistenziali della persona. La diversità nei modelli infermieristici non impedisce la standardizzazione di un unico modello per l’accertamento infermieristico.

Alla luce di tale analisi, è stato proposto un nuovo modello di cartella infermieristica basato sul modello concettuale della teorica del nursing Marjory Gordon e l’adozione di una tassonomia condivisa di diagnosi infermieristiche.

Nel terzo intervento, il tecnico di radiologia Alessio Urgenti ha presentato uno possibile spaccato dove l’innovazione tecnologica che ha interessato la società moderna, negli ultimi vent’anni, ha apportato un enorme modificazione degli stili di vita, del modo di comunicare, del modo di studiare e recepire ma anche, soprattutto, nel modo di curarsi. In sanità, infatti, il passaggio dall’analogico al digitale ha messo stabilmente in moto il legame sinergico fra tecnologie e sistemi organizzativi, caratterizzati da un imprescindibile legame di interdipendenza funzionale nei processi di cura.

Secondo l’esperto di tecnologia sanitaria, la macchina della digitalizzazione all’interno della sanità ha prodotto finora risultati davvero ragguardevoli ma, data la natura della sfida, la strada è ancora molto lunga e presenta ancora, da certi punti di vista, diversi aspetti deficitari.

Nell’introdurre la cartella clinica elettronica (CCE), il tecnico ha precisato che se fino a qualche anno fa, la CCE sembrava partire solo ed esclusivamente dalle strutture ospedaliere e ai reparti, oggi si sta arrivando ad nuovo modo di integrare tutti dati di un processo di cura che riguarda i pazienti.

I vantaggi della CCE sono oramai noti, tuttavia, permangono molti freni alla sua adozione standardizzata e alcune funzionalità faticano a diffondersi. Se da una parte diagnostica per immagini e vari dati del paziente relativi a ricoveri e consulenze sono oramai la regola, dall’altra gli aspetti più legati alla dematerializzazione, si pongono come freno alla propulsione di questo prezioso strumento. Gli investimenti tecnologici, sempre in aumento, devono fare i conti, infatti, con l’immensa quantità di cartaceo presente che rappresenta ancora oggi il vincolo normativo maggiore che si contrappone al decollo della CCE.

Un ulteriore aspetto di notevole importanza, in evidenza come anti-propulsore del progetto CCE, è la resistenza dell’ “utente”. Il personale, infatti, abituato a gestire la cartella clinica tradizionale, lontano da concetti di paperless, è ancora molto restio all’uso del software. La resistenza al cambiamento, dunque, può tradursi in ostacolo e rappresentare un problema e un limite organizzativo soprattutto quando l’uso della CCE viene considerato come attività secondaria all’assistenza del paziente. La strada da percorrere è quella di un progetto di CCE bottom up che deve necessariamente contare su un gruppo multidisciplinare, coinvolto in tavoli di lavoro progettuali, lontano da dinamiche impositive e fondato su di un più largo principio di collaborazione in favore di progettualità condivise trasversalmente

La prima sessione si è conclusa con l’appassionato intervento del professor Francesco De Stefano, che ha polarizzato l’attenzione sulla cartella clinica come  “Atto pubblico di fede privilegiata”. (Art. 2699 e seg. c.c.), ricordando ai presenti che quanto riportato in essa fa fede fino a querela di falso. Per questa ragione, ha aggiunto il docente universitario, i fatti devono esservi annotati contestualmente al loro verificarsi. Ne deriva che tutte le modifiche, le aggiunte, le alterazioni e le cancellazioni integrano falsità in atto pubblico punibili in quanto tali né rileva l’intento che muove l’agente atteso che le fattispecie delineate in materia dal vigente codice sono connotate dal dolo generico e non specifico.

La seconda parte della relazione è stato dedicata alla conservazione della cartella riprendendo i contenuti della Circolare Ministeriale n. 61 del 19/12/1986, che asserisce:

“Le cartelle cliniche, unitamente ai referti vanno conservate illimitatamente poiché rappresentano un atto ufficiale indispensabile a garantire certezza del diritto, oltre a costituire preziosa fonte documentale per le ricerche di carattere storico sanitario”. Le radiografie e altra documentazione diagnostica vanno conservate per 20 anni. La cartella clinica ed i documenti ad essa connessi ed annessi può essere conservata su supporto informatico secondo quanto prescritto nel D Lgs 82/05, con le modalità ivi indicate.

Per quanto concerne i reati connessi alla compilazione della cartella, il docente universitario ha ricordato l’art Art. 476 c.p. – Falsità materiale commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici: Il reato si realizza quando il compilatore è persona diversa da quella a cui competeva (cartella contraffatta) o quando contiene modifiche successive alla sua stesura definitiva (cartella alterata) e l’art. 374 bis – False dichiarazioni o attestazioni in atti destinati all’autorità giudiziaria.

In questo caso, si applica la pena della reclusione da due a sei anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale, da un incaricato di pubblico servizio o da un esercente la professione sanitaria.

La sessione pomeridiana, moderata dal medico legale Maria Maddalena Mele, è stata aperta con l’intervento della Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza (RPCT) Paola Massidda.

Nel suo intervento, la Responsabile  PCT ha voluto mettere in risalto l’importanza e la necessità di una corretta compilazione della Cartella Clinica, che rileva non solo come strumento fondamentale di lavoro per gli operatori sanitari ma come un fondamentale strumento di tutela. Proseguendo nella relazione, ha ricordato l’importanza di  una cartella clinica correttamente compilata come migliore difesa, in caso di contenzioso, contro la  persistente tendenza a ricorrere alla omissione “difensiva” di tutto ciò che può far emergere a posteriori una prassi tecnicamente censurabile.

Con l’analisi delle fattispecie di reati di falso in atto pubblico, dell’inversione dell’onere della prova a svantaggio del medico in caso di cartella clinica lacunosa, si è cercato di dimostrare come la correttezza, completezza e chiarezza nella compilazione della cartella clinica riveste grande importanza e diviene di conseguenza il perno su cui ruotano la formulazione e il giudizio di responsabilità medica.

In merito alla completezza della cartella clinica è stato sottolineato come la procedura sanitaria senza il consenso del paziente è in sé illecita e quindi produttiva di un’autonoma voce di danno non patrimoniale, che prescinde dall’accertamento delle modalità di esecuzione, dalla necessità clinica dell’esecuzione dell’esame e dal nesso di causalità fra lo stesso e il danno alla salute.

Infine, è stato evidenziato come la custodia e l’archiviazione della cartella clinica rappresentino momenti fondamentali per  una corretta gestione della stessa, stante la stretta implicazione che queste fasi presentano con la tutela dei dati sensibili.

L’ultimo intervento, non certo per importanza, è stato quello del dirigente medico legale Maria Maddalena Mele con un’interessante relazione su alcuni casi clinici e i contenuti lacunosi delle cartelle che hanno stimolato l’intervento in platea di diversi dirigenti medici e professionisti sanitari.

La “rana” di Noam Chomshy non può salvarsi. Se volessimo salvarla bisognerebbe fermare la mano del “cuoco”. Chi volesse salvare gli Ospedali di Carbonia e Iglesias potrebbe farlo leggendo l’articolo di Antonello Cuccuru nella versione online de “la Provincia del Sulcis Iglesiente” e il documento del “Movimento Sanità nel Sulcis” di Tore Arca che analizzano i fatti e propongono percorsi di recupero.
La metafora della rana che viene cotta lentamente affinché non scappi, è nota a tutti, tranne che alle rane. Per un semplice motivo: perché le rane messe in pentola dal cuoco muoiono tutte e nessuna sopravvive per svelare alle altre rane quanto sia subdolo l’inganno dell’acqua che viene scaldata lentamente. Il cuoco fa credere, a te rana, di volerti immergere a sguazzare in un laghetto tiepido, invece ti mette nell’acqua di una pentola e fa salire lentamente la fiamma fino a cucinarti per bene. Siamo tutti rane, bravi a cantare, ma non a reagire. Il cuoco si trova nell’apparato di potere centralizzato della Regione. Noi siamo le vittime, ma anche i colpevoli, perché abbiamo accettato distrattamente di tornare ad una cultura di sudditanza che ingannò i popoli fino al 1789. Fino ad allora ci avevano fatto credere che i re avessero il potere sovrano per incarico divino, e che quel potere non fosse criticabile. I francesi, accortisi dell’inganno, fecero la Rivoluzione, e da allora sono ancora a Place de la Concorde a ribellarsi. Il primo atto della presa di coscienza popolare fu la promulgazione della “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 26 agosto 1789″. Allo articolo 16 di quel documento che svegliò il mondo venne espresso un concetto illuminante: «Ogni società in cui la garanzia dei Diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una Costituzione». Abbiamo sì il testo scritto della Costituzione Italiana del 1° gennaio 1948, ma il suo articolo 32 che dichiara che la Salute è un diritto del Cittadino e interesse della Nazione, pare sia solo formale. Così pure l’articolo 3 sull’uguaglianza fra i cittadini. Per la verità un tentativo eccellente di applicarlo venne fatto nel 1978 con la legge 833 proposta dalla Commissione presieduta da Tina Anselmi. Con quella legge venne garantito un uguale diritto alla Salute a tutti i cittadini indistintamente attraverso l’istituzione del Fondo Sanitario Nazionale e la redazione del primo Piano Sanitario Nazionale. Inoltre, secondo il principio giuridico fondamentale della separazione dei poteri nello Stato di diritto di una democrazia liberale, si stabilì che, riservato il potere legislativo allo Stato, si attribuiva il potere amministrativo esecutivo alle Aziende sanitarie locali (Asl) in qualità di “articolazioni dei Comuni”. Allora la Sanità nazionale fu concepita come una “federazione” di ASL controllate dai Comuni. Gli Italiani erano riusciti ad applicare alla Sanità pubblica lo spirito dell’articolo 16 della “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino” con la separazione dei poteri sul governo della Salute; il metodo fu: Decentralizzazione dei poteri dello Stato e Federazione delle ASL. In quegli anni tutti gli Ospedali delle ASL sarde brillarono per efficienza. Non si era visto mai in tutta la Storia un miglioramento della qualità delle cure al ritmo di allora. Poi noi rane siamo stati messi in pentola dalle leggi di marcia indietro che riformarono la Legge 833 e, infine, i cuochi della politica regionale, dal 2001, sollevarono lentamente la potenza della fiamma finché oggi, dopo 22 anni, siamo all’ebollizione, e le rane sono tutte lesse.
Seguendo l’evoluzione sembrerebbe che gli atti più gravi che hanno portato alla condizione attuale siano stati la legge 229/1999, che trasformava le ASL da articolazioni dei Comuni in articolazioni delle Regioni, e la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 che, messi insieme, ebbero l’effetto di accentrare nelle Regioni tutti i poteri, legislativo, amministrativo ed esecutivo. Venne fatto l’esatto contrario di quel principio della separazione dei poteri proclamato dalla Dichiarazione dei Diritti del Cittadino e poi accettato dalle Costituzioni di tutti gli Stati democratici e liberali. Il potere legislativo ed esecutivo furono assommati, in un unico Ente, la Regione, esattamente come li assommava in sé il re di Francia prima che nel 1789 il popolo glielo contestasse.
Per smontare la centralizzazione monarchica i francesi si rivolsero ad un medico geniale, il dottor Joseph Ignace Guillotin, che inventò uno strumento chirurgico per risanare i mali generati da quel conflitto di interessi legalizzato.
I documenti di Antonello Cuccuru e di Tore Arca vanno letti. Il primo analizza lo stato di grave disagio popolare in sanità riportato da articoli autorevoli. Il secondo, utilizzando le leggi regionali pubblicate dal BURAS, avanza proposte logiche sui provvedimenti riparatori da adottarsi nell’immediato, non cadendo nelle illusioni prospettate da piani sanitari regionali belli ma fantasiosi.
La fotografia dello stato sanitario pubblico che ne risulta è questa: annullamento quasi completo degli splendidi ospedali iglesienti di 20 anni fa; degrado fino all’impotenza funzionale dell’apparato ospedaliero di Carbonia; mancanza di un efficiente sistema sanitario pubblico nel territorio; impossibilità a realizzare il sogno della medicina di prossimità con case della salute e ospedali di comunità per la mancanza del personale che dovrebbe operarvi.
Chi pratica la professione sanitaria sa che, sia durante l’epidemia Covid che oggi, le uniche strutture ospedaliere che sono in grado di prendere in cura in tempi ragionevoli i malati sono le case di cura convenzionate. Per capire questo fenomeno esiste un motivo ben preciso: le case di cura non sono soggette al dovere di ricevere malati in stato di urgenza ed emergenza. L’urgenza assorbe totalmente le energie dell’ospedale pubblico e gli impone un impegno ad altissima intensità. E’ un impegno faticosissimo, fortemente coinvolgente sul lato emotivo e medico-legale, inoltre non è remunerativo. Le case di cura private invece hanno il vantaggio di potersi dedicare esclusivamente alle malattie d’elezione. Ciò consente una facile programmazione del lavoro con turni di piena attività nelle ore del mattino, mentre la sera, la notte e nei giorni prefestivi e festivi il lavoro si riduce alle guardie interne e al controllo. Per tale differenza di impegno del personale, ne consegue l’esistenza di organici più ridotti nelle case di cura. Inoltre i turni di lavoro così agevolati attirano i medici specialisti esperti, messi in quiescenza dagli ospedali pubblici, facendo loro guadagnare senza sforzo un capitale culturale e di esperienza impareggiabile. Detto questo si capisce il motivo per cui le case di cura private sono state una manna per la Sanità durante il Covid, quando gli ospedali pubblici erano in profonda crisi. Precisato l’aspetto positivo esiste tuttavia un altro aspetto che riguarda la Medicina in generale: il pericolo che si passi dalla attuale assistenza sanitaria pubblica ad una forma di Sanità del tutto privatizzata, all’americana, in cui, al posto dello Stato, si finisca nel dover acquistare a caro prezzo la salute dalle assicurazioni private. Questa sarebbe una svolta preoccupante.
Da queste osservazioni ne discende l’urgenza di risolvere il problema del cuoco instancabile che continua a immergere le rane in pentola. Il cuoco è l’apparato regionale che ha concepito un sistema sanitario duro da digerire in un regime democratico: il sistema di conduzione della sanità pubblica “centralizzato”, senza contrappesi politici a rappresentare gli interessi del territorio. La “centralizzazione”, per definizione, è quel fenomeno politico basato sull’accentramento dei poteri in un unico gruppo di entità governative e amministrative connesse fra di loro nel capoluogo, e ne esclude la provincia. La conseguenza della mancata separazione tra potere legislativo e amministrativo in Sanità si è tradotto in un comportamento da conflitto di interessi, che porta a vantaggi per abuso di potere, per cui assistiamo ad una vera e propria “obesità” sanitaria del capoluogo che è avvenuta per prosciugamento di risorse dal territorio provinciale. All’eccesso di posti letto, di ospedali, di medici e infermieri nel centro regionale, corrisponde un vistoso stato miserevole delle deperite strutture sanitarie della periferia. E’ stata un’operazione lenta durata vent’anni e le popolazioni si sono adattate al peggio non accorgendosi che, intanto, venivano svuotate del diritto d’accesso alla Sanità, alla Giustizia, e anche all’Istruzione, nelle città provinciali. Lo sbilanciamento è estremo.
E’ un fatto gravissimo ed è ancora più grave che i politici regionali siano ciechi davanti al fatto che l’accentramento dei poteri e dei servizi è la causa dello spopolamento del Sulcis Iglesiente, ed è gravissimo che nessuno dei governanti abbia prestato attenzione al fatto che nel nostro territorio stia avvenendo un crollo demografico per cui oggi, abbiamo un indice di invecchiamento del 293%, e mentre in Francia nascono 12 bambini ogni 1.000 abitanti, e in Nord Africa una media di 40 bambini ogni 1.000 abitanti, nel Sulcis Iglesiente sta avvenendo esattamente il contrario. Questo fatto gravissimo sta avvenendo a noi, e solo a noi, in tutta la Sardegna. Nessuno si assume la responsabilità della fuga delle giovani coppie in età fertile dal Sulcis Iglesiente, avvenuta per mancanza di servizi e prospettive per i figli, per cui nel 2021 abbiamo avuto 5,2 nati ogni 1.000 abitanti: la più bassa natalità del mondo. E’ talmente grave che il patron di Tesla e Twitter, il magnate Elon Musk, ha voluto rilasciare su tale anomalia una dichiarazione ai giornali sostenendo che di questo passo in pochi decenni scompariremo. Ci ha ridotto in questo stato demografico un tipo di cattiva politica molto simile a quella che venne applicata nella “fattoria degli animali” di George Orwell. Ricordiamoci a chi finì il potere.
Bellissimo il documento di Tore Arca che fa alcune considerazioni e perviene a conclusioni concrete. Le sue considerazioni mettono in dubbio le promesse di costruzione di un “ospedale unico” e il funzionamento di quelle strutture territoriali di medicina di prossimità proposte nel PNRR, nel piano ospedaliero regionale e nelle bozze rese pubbliche di atto aziendale della ASL 7. Molto concretamente, glissando le illusioni, egli propone:
– che si proceda alla definizione, con delibera, del numero esatto degli organici di medici e infermieri che servono per far funzionare davvero gli ospedali e le strutture distrettuali;
– che la nostra ASL sia libera di assumere senza interferenze regionali;

– che si deliberi l’entità della somma destinata ai lavori di adeguamento dell’ospedale Santa Barbara per tutti i servizi promessi;
– che si proceda ad istituire una scuola provinciale di formazione per infermieri professionali;
– che si metta a punto il piano operativo per la realizzazione delle strutture distrettuali descritte nel PNRR specificando l’entità dei finanziamenti realmente stanziati per le strutture, gli strumenti e il personale da assumere a tempo indeterminato;
– che il personale certamente destinato al Sulcis Iglesiente, non ci venga più sottratto a beneficio del capoluogo regionale già abbondantemente dotato;
– che si chieda l’immediata attivazione della Commissione provinciale sanitaria dei 23 sindaci per rapportare il nostro territorio direttamente con il centro di potere regionale.

L’esame sulla gravità in cui versa Il Sistema Sanitario dei tre distretti del Sulcis Iglesiente e le semplici ma efficaci proposte avanzate necessitano di un grande sostegno politico. Finora nessun politico del posto, delegato dai cittadini alla Regione, è riuscito a fermare il crollo degli ospedali delle due città.
Per le prossime elezioni regionali dovremmo contrattare bene il nostro voto con i candidati che verranno a chiedercelo. Non importa di quale parte politica saranno o quale sarà la città del Sulcis Iglesiente da cui proverranno. Ci servono tutti, Ci interessa che siano consapevoli della colpa che abbiamo tutti insieme indistintamente per non aver fermato la predazione attuata sui nostri reparti ospedalieri e sugli altri servizi pubblici essenziali. Il successo non è assicurato ma, se non ci riusciranno, il Sulcis Iglesiente si svuoterà, non per infertilità, ma per una penuria di sicurezza sanitaria, sistematicamente indotta dal centro che ci governa, che non vuole fermarsi.

Sabato 25 marzo si sono svolte presso la sede dell’Ordine Professionali delle professioni infermieristiche (OPI) Carbonia-Iglesias le elezioni del rinnovo del Coordinamento Regionale della Società Italiana per la Direzione e il Management delle Professioni Infermieristiche (SIDMI)
Dopo la relazione del presidente SIDMI, dott. Bruno Cavaliere, sull’importanza di gestire il cambiamento la leadership e la cultura infermieristica, sono state presentate alcune interessanti esperienze della ASL Gallura, Università degli Studi di Studi di Cagliari e ASL Sulcis.
Ai lavori erano presenti la presidente regionale del Coordinamento Caposala della Regione Sardegna, dott.sa Stefania Solinas, e diversi dirigenti delle professioni sanitarie della ASL Gallura, ASL Sassari, ASL medio Campidano, ARNAS Brotzu, ASL Sulcis e Azienda Ospedaliera Universitaria di Cagliari.
La giornata si è conclusa col rinnovo delle cariche di SIDMI Sardegna. È stato eletto coordinatore SIDMI Regione Sardegna Antonello Cuccuru della ASL Sulcis, che sarà coadiuvato dai due vice coordinatori dott.sa Ilenia Servetti della ASL di Cagliari e dott. PhD Aviles Gonzales Cesar Ivan dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Cagliari.

Mentre una start-up olandese, SpaceLife Origins, ipotizza di inviare in orbita terrestre, a 400 km dal nostro pianeta, una donna con gravidanza a termine, per testare la possibilità, per la nostra specie, di riprodursi al di fuori del pianeta, e proseguire anche quando, della Terra, non rimarrà più nulla di abitabile, è importante rimanere con i piedi per terra e cercare di capire perché le donne del Sulcis Iglesiente, per partorire, scelgono altre strutture sanitarie.
Le strutture pubbliche o private accreditate che nella Regione Sardegna effettuano parti sono 13. Il 23,1% rispetta il valore di riferimento fissato a 1.000 parti mentre il 38,5% non rispetta il valore minimo di 500 parti l’anno.
Le 5 strutture che in Sardegna effettuano un maggior numero di parti sono oggi:
1. Policlinico di Monserrato di Cagliari
2. Ospedale SS. Trinità di Cagliari
3. Stabilimento Cliniche di San Pietro – AOU di Sassari
4. Ospedale Giovanni Paolo II di Olbia (SS)
5. Ospedale San Francesco di Nuoro
ll regolamento del ministero della Salute sugli standard quantitativi e qualitativi dell’assistenza ospedaliera fissa i valori massimi relativi ai tagli cesarei primari al 25% (per gli ospedali che eseguono più di 1000 parti annui) e al 15% (per gli ospedali che effettuano meno di 1000 parti annui).
Prima di poter affermare, sic et simpliciter, che le donne del nostro territorio non scelgono la nostra struttura perché non si pratica la parto analgesia, sarebbe utile condurre almeno un’indagine qualitativa più approfondita con i soggetti interessati (le donne che devono partorire e/o le donne che hanno già partorito).
Le donne, in genere, hanno aspettative precise riguardo al momento della nascita del loro bambino: c’è chi ci tiene a partorire nel modo più naturale possibile, chi vuole assolutamente contenere il dolore, chi desidera il neonato con sé 24 ore su 24 e chi chiede di conservare il sangue del cordone ombelicale. Non si può prescindere, poi, dall’andamento della gravidanza: se insorgono patologie a carico della donna o del nascituro durante l’attesa bisogna necessariamente puntare su un centro hub di II livello che disponga di strumentazione adeguata e di una Terapia Intensiva Neonatale. Invece, se la gravidanza è fisiologica, la futura mamma può scegliere di farsi seguire presso i consultori e di partorire negli ospedali spoke di 1° livello – ben collegati ai centri hub di 2° – purché vantino adeguati volumi di attività.
È fondamentale, quindi, informarsi per tempo per capire se la struttura prescelta risponde alle proprie esigenze: se dispone cioè di un servizio di analgesia epidurale gratuita h24 7 giorni su 7, di una vasca per il parto in acqua e di un servizio di rooming-in 24 ore su 24. E ancora: se è un centro di raccolta del sangue del cordone ombelicale o se è presente una Terapia Intensiva Neonatale.
Tutte queste informazioni sono oggi disponibili su www.doveecomemicuro.it, portale che vanta un database di oltre 2.300 strutture: tra ospedali pubblici, strutture ospedaliere territoriali, case di cura accreditate, poliambulatori, centri diagnostici e centri specialistici.
Per confrontare le strutture è sufficiente inserire nel “cerca” la parola desiderata, ad esempio “parto” e selezionare la voce che interessa tra quelle suggerite. In cima alla pagina dei risultati compariranno i centri ordinati per volume di attività, per vicinanza o in base ad altri criteri selezionabili. Il semaforo verde indica il rispetto delle soglie ministeriali mentre la barra di scorrimento mostra il posizionamento delle singole strutture nel panorama nazionale.
La valutazione viene fatta considerando indicatori istituzionali di qualità come volumi di attività (dati validati e diffusi dal PNE – Programma Nazionale Esiti gestito dall’Agenas per conto del Ministero della Salute). È possibile inserire nel “cerca” anche un trattamento (analgesia epidurale gratuita h24 7 giorni su 7, parto in acqua, centro raccolta sangue del cordone ombelicale), o un’area specialistica (Terapia Intensiva Neonatale), quindi restringere il campo alla regione o alla città di appartenenza. Per filtrare ulteriormente i risultati, basta spuntare le caselle della colonnina a sinistra relative, ad esempio, ai Bollini Rosa, il premio assegnato agli ospedali attenti alle esigenze femminili.
Per evitare di farsi prendere dallo sconforto è necessario procedere con un approccio interpretativo del fenomeno, nel suo contesto naturale, con i significati assegnati dalla gente. Una ricerca qualitativa fenomenologica potrebbe consentirci di comprendere i fenomeni e chiarire le percezioni di differenti gruppi, atteggiamenti, preferenze, opinioni.
Uno strumento di facile applicazione è costituito dalla tecnica del focus group. Si tratta di una forma di ricerca qualitativa, in cui un piccolo gruppo, omogeneo e informale di individui si riunisce per discutere un tema specifico sotto la guida di un moderatore.
I partecipanti da reclutare per il focus possono essere diversi: donne che devono ancora partorire, donne che hanno già partorito, operatori sanitari dei consultori, operatori dell’UO di Ginecologia e Ostetricia, ai quali vengono sottoposte una serie di domande sulle motivazioni che influiscono nella scelta del punto nascita.
Attraverso questa tecnica basata sulla libertà di espressione dei membri del gruppo può accadere che emergano aspetti del tema dibattuto non ancora considerati.
L’analisi dei dati emersi potrà portare a possibili modifiche organizzative e/o strutturali, compresa l’eventuale ricollocazione dell’attuale struttura di Ginecologia e Ostetricia in altro Presidio.

Antonello Cuccuru

Nel leggere con piacere l’illuminante articolo “L’anatra zoppa” del Sulcis Iglesiente, di Mario Marroccu, che richiama al “buon senso e all’unità”, contro “le surreali vicendevoli accuse di campanilismo”, sono più che mai convinto che sia necessario sperimentare un nuovo approccio strategico integrato, finalizzato a condividere, organizzare, rendere accessibile, utilizzare e capitalizzare il vasto patrimonio di competenze presenti nella ASL Sulcis, attraverso la creazione di Comunità di Pratica (CdP).
Il termine comunità di pratica, o “Community of practice“, compare agli inizi degli anni ’90, a opera di Étienne Wenger, ma la sua origine è molto più lontana nel tempo, basti pensare alle botteghe artigiane. Il fine della comunità è il miglioramento collettivo. Chi aderisca a questo tipo di organizzazione, mira ad un modello di intelligenza condivisa, non esistono spazi privati o individuali, in quanto tutti condividono tutto.
Chi ha conoscenza e la tiene per sé è come se non l’avesse. Le Comunità di Pratica tendono all’eccellenza, a scambiarsi reciprocamente ciò che di meglio produce ognuno dei collaboratori. Questo metodo costruttivista punta a costruire una conoscenza collettiva condivisa, un modo di vivere, lavorare e studiare, una concezione che si differenzia notevolmente dalle società di tipo individualistico, dove prevale la competizione.
L’idea di CdC è veramente rivoluzionaria. Siamo in un momento storico e in un territorio, dove ci si unisce per togliere ad altri i diritti acquisiti. Ci si unisce in manifestazioni non per la conquista di un diritto, per il mantenimento di un servizio. No. Ci si unisce per andare contro altro ed altri. L’identità degli assistiti della ASL Sulcis non può essere ancora quella dell’appartenenza a questo o a quel Comune.
Le Comunità di Pratica non sono un fenomeno nuovo. Già dalla fine del secolo scorso possono rilevarsi esperienze intese a costituire Comunità di Pratica in ambito sanitario.
Le CdP costituiscano un valido strumento per fronteggiare efficacemente le sfide della sanità moderna, caratterizzata da complessità, specializzazione e personalizzazione delle cure. Nelle CdP l’apprendimento si realizza attraverso l’esperienza sul campo (apprendimento situato) consentendo ai suoi membri, grazie alle interazioni reciproche, di acquisire competenze che possono essere immediatamente verificate nella pratica.
L’apprendimento nella CdP è sia processo individuale e mentale del singolo, che fenomeno sociale e di gruppo dell’intera comunità. La comunità è necessaria ed indispensabile per la condivisione della conoscenza e fornisce un ambiente sicuro dove cimentarsi nell’apprendimento, attraverso l’osservazione e l’interazione con i colleghi più esperti.
L’informalità nelle interazioni è l’elemento che più assicura una buona riuscita della collaborazione ed un atteggiamento propositivo, incoraggiando il confronto, migliorando la pratica e contribuendo a sviluppare nuove soluzioni per affrontare i problemi.
Nello specifico le dinamiche di interazione delle CdC sono riassumibili in quattro fasi essenziali:
• La comunicazione – fase in cui ci si scambia domande e risposte supportandosi reciprocamente nel lavoro quotidiano, solitamente ci si trova nello stesso ambito professionale con una certa eterogeneità del livello di esperienza. In questa fase iniziale si sviluppa un senso di “aiuto reciproco” nel breve periodo.
• La condivisione – fase in cui si hanno interessi comuni (ad es: problema di salute specifico) per i quali si hanno risorse comuni alle quali far riferimento per risolvere ciascuno i propri problemi, interagendo con persone che provengono da ambiti disciplinari simili si migliora la formazione personale. In questa fase si sviluppa l’“apprendimento individuale” nel lungo periodo.

• La collaborazione – fase in cui si ha un problema comune da risolvere separatamente (ad esempio: creare un percorso diagnostico terapeutico assistenziale (PDTA), percorsi integrati, etc.), ma avvalendosi del supporto reciproco, solitamente si è tutti attori dello stesso processo e la finalità è quella di migliorare continuamente le prestazioni del processo. In questa fase si sviluppa il “supporto ai processi” aziendali nel breve periodo.
• La cooperazione – fase in cui si lavora per produrre un unico “prodotto” (che può identificarsi in un prodotto, un servizio, un progetto, ecc.) e il risultato dovrà essere il migliore da ogni punto di vista, scartando le proposte inadeguate, così facendo si sviluppano le capacità innovative dell’impresa. In questa fase si sviluppa l’”apprendimento organizzativo” nel lungo periodo.
Per fare un esempio, le insufficienze riportate nel PNE 2022 (dati 2021 sugli indicatori di Colecistectomia laparoscopica: ricoveri con degenza post operatoria < a 3 giorni, Colecistectomia laparoscopica: interventi in reparti con volume > 90 casi/anno o sulla Frattura del collo del femore: intervento chirurgico entro 48 ore), per essere modificate potrebbero essere analizzate in una CdP condividendo le diverse competenze possedute da ortopedici, anestesisti, chirurghi e direzione strategica, pena la possibile riduzione di Unità Operative.
Per quanto concerne il governo della sanità territoriale e della cronicità, oltre gli adempimenti normativi previsti dal DM 71, sarà necessario costruire CdP attraverso la partecipazione dei MMG, PLS, Medici Specialisti Ospedale/Territorio, Specialisti della fragilità (Fisiatri e Geriatri), ADI, UVMD ed équipe itineranti, comunità protette, i referenti dei servizi di dimissioni ospedaliere, Assistenti sociali e Psicologi della ASL e dei Distretti Sociali/Ambiti territoriali, rappresentanti delle Associazioni dei malati.
Il Ruolo del Management (Direttori dei Distretti Sanitari e del Presidio Ospedaliero, gli altri Dirigenti delle strutture aziendali, Formazione, Professioni sanitarie, Controllo di Gestione, Farmacisti, e servizi informatici, etc.), dovrà essere quello di incoraggiare, supportare, incentivare e indirizzare la Comunità di Pratica verso il raggiungimento degli obiettivi aziendali, stimolando la creazione di un senso di appartenenza, facilitando la comunicazione e la condivisione di informazioni e conoscenze, incoraggiando l’utilizzo della tecnologia a disposizione per la comunicazione e agendo in collaborazione con i servizi degli Enti locali per una piena integrazione multidisciplinare.

Antonello Cuccuru