22 December, 2024
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Mentre una start-up olandese, SpaceLife Origins, ipotizza di inviare in orbita terrestre, a 400 km dal nostro pianeta, una donna con gravidanza a termine, per testare la possibilità, per la nostra specie, di riprodursi al di fuori del pianeta, e proseguire anche quando, della Terra, non rimarrà più nulla di abitabile, è importante rimanere con i piedi per terra e cercare di capire perché le donne del Sulcis Iglesiente, per partorire, scelgono altre strutture sanitarie.
Le strutture pubbliche o private accreditate che nella Regione Sardegna effettuano parti sono 13. Il 23,1% rispetta il valore di riferimento fissato a 1.000 parti mentre il 38,5% non rispetta il valore minimo di 500 parti l’anno.
Le 5 strutture che in Sardegna effettuano un maggior numero di parti sono oggi:
1. Policlinico di Monserrato di Cagliari
2. Ospedale SS. Trinità di Cagliari
3. Stabilimento Cliniche di San Pietro – AOU di Sassari
4. Ospedale Giovanni Paolo II di Olbia (SS)
5. Ospedale San Francesco di Nuoro
ll regolamento del ministero della Salute sugli standard quantitativi e qualitativi dell’assistenza ospedaliera fissa i valori massimi relativi ai tagli cesarei primari al 25% (per gli ospedali che eseguono più di 1000 parti annui) e al 15% (per gli ospedali che effettuano meno di 1000 parti annui).
Prima di poter affermare, sic et simpliciter, che le donne del nostro territorio non scelgono la nostra struttura perché non si pratica la parto analgesia, sarebbe utile condurre almeno un’indagine qualitativa più approfondita con i soggetti interessati (le donne che devono partorire e/o le donne che hanno già partorito).
Le donne, in genere, hanno aspettative precise riguardo al momento della nascita del loro bambino: c’è chi ci tiene a partorire nel modo più naturale possibile, chi vuole assolutamente contenere il dolore, chi desidera il neonato con sé 24 ore su 24 e chi chiede di conservare il sangue del cordone ombelicale. Non si può prescindere, poi, dall’andamento della gravidanza: se insorgono patologie a carico della donna o del nascituro durante l’attesa bisogna necessariamente puntare su un centro hub di II livello che disponga di strumentazione adeguata e di una Terapia Intensiva Neonatale. Invece, se la gravidanza è fisiologica, la futura mamma può scegliere di farsi seguire presso i consultori e di partorire negli ospedali spoke di 1° livello – ben collegati ai centri hub di 2° – purché vantino adeguati volumi di attività.
È fondamentale, quindi, informarsi per tempo per capire se la struttura prescelta risponde alle proprie esigenze: se dispone cioè di un servizio di analgesia epidurale gratuita h24 7 giorni su 7, di una vasca per il parto in acqua e di un servizio di rooming-in 24 ore su 24. E ancora: se è un centro di raccolta del sangue del cordone ombelicale o se è presente una Terapia Intensiva Neonatale.
Tutte queste informazioni sono oggi disponibili su www.doveecomemicuro.it, portale che vanta un database di oltre 2.300 strutture: tra ospedali pubblici, strutture ospedaliere territoriali, case di cura accreditate, poliambulatori, centri diagnostici e centri specialistici.
Per confrontare le strutture è sufficiente inserire nel “cerca” la parola desiderata, ad esempio “parto” e selezionare la voce che interessa tra quelle suggerite. In cima alla pagina dei risultati compariranno i centri ordinati per volume di attività, per vicinanza o in base ad altri criteri selezionabili. Il semaforo verde indica il rispetto delle soglie ministeriali mentre la barra di scorrimento mostra il posizionamento delle singole strutture nel panorama nazionale.
La valutazione viene fatta considerando indicatori istituzionali di qualità come volumi di attività (dati validati e diffusi dal PNE – Programma Nazionale Esiti gestito dall’Agenas per conto del Ministero della Salute). È possibile inserire nel “cerca” anche un trattamento (analgesia epidurale gratuita h24 7 giorni su 7, parto in acqua, centro raccolta sangue del cordone ombelicale), o un’area specialistica (Terapia Intensiva Neonatale), quindi restringere il campo alla regione o alla città di appartenenza. Per filtrare ulteriormente i risultati, basta spuntare le caselle della colonnina a sinistra relative, ad esempio, ai Bollini Rosa, il premio assegnato agli ospedali attenti alle esigenze femminili.
Per evitare di farsi prendere dallo sconforto è necessario procedere con un approccio interpretativo del fenomeno, nel suo contesto naturale, con i significati assegnati dalla gente. Una ricerca qualitativa fenomenologica potrebbe consentirci di comprendere i fenomeni e chiarire le percezioni di differenti gruppi, atteggiamenti, preferenze, opinioni.
Uno strumento di facile applicazione è costituito dalla tecnica del focus group. Si tratta di una forma di ricerca qualitativa, in cui un piccolo gruppo, omogeneo e informale di individui si riunisce per discutere un tema specifico sotto la guida di un moderatore.
I partecipanti da reclutare per il focus possono essere diversi: donne che devono ancora partorire, donne che hanno già partorito, operatori sanitari dei consultori, operatori dell’UO di Ginecologia e Ostetricia, ai quali vengono sottoposte una serie di domande sulle motivazioni che influiscono nella scelta del punto nascita.
Attraverso questa tecnica basata sulla libertà di espressione dei membri del gruppo può accadere che emergano aspetti del tema dibattuto non ancora considerati.
L’analisi dei dati emersi potrà portare a possibili modifiche organizzative e/o strutturali, compresa l’eventuale ricollocazione dell’attuale struttura di Ginecologia e Ostetricia in altro Presidio.

Antonello Cuccuru

Nel leggere con piacere l’illuminante articolo “L’anatra zoppa” del Sulcis Iglesiente, di Mario Marroccu, che richiama al “buon senso e all’unità”, contro “le surreali vicendevoli accuse di campanilismo”, sono più che mai convinto che sia necessario sperimentare un nuovo approccio strategico integrato, finalizzato a condividere, organizzare, rendere accessibile, utilizzare e capitalizzare il vasto patrimonio di competenze presenti nella ASL Sulcis, attraverso la creazione di Comunità di Pratica (CdP).
Il termine comunità di pratica, o “Community of practice“, compare agli inizi degli anni ’90, a opera di Étienne Wenger, ma la sua origine è molto più lontana nel tempo, basti pensare alle botteghe artigiane. Il fine della comunità è il miglioramento collettivo. Chi aderisca a questo tipo di organizzazione, mira ad un modello di intelligenza condivisa, non esistono spazi privati o individuali, in quanto tutti condividono tutto.
Chi ha conoscenza e la tiene per sé è come se non l’avesse. Le Comunità di Pratica tendono all’eccellenza, a scambiarsi reciprocamente ciò che di meglio produce ognuno dei collaboratori. Questo metodo costruttivista punta a costruire una conoscenza collettiva condivisa, un modo di vivere, lavorare e studiare, una concezione che si differenzia notevolmente dalle società di tipo individualistico, dove prevale la competizione.
L’idea di CdC è veramente rivoluzionaria. Siamo in un momento storico e in un territorio, dove ci si unisce per togliere ad altri i diritti acquisiti. Ci si unisce in manifestazioni non per la conquista di un diritto, per il mantenimento di un servizio. No. Ci si unisce per andare contro altro ed altri. L’identità degli assistiti della ASL Sulcis non può essere ancora quella dell’appartenenza a questo o a quel Comune.
Le Comunità di Pratica non sono un fenomeno nuovo. Già dalla fine del secolo scorso possono rilevarsi esperienze intese a costituire Comunità di Pratica in ambito sanitario.
Le CdP costituiscano un valido strumento per fronteggiare efficacemente le sfide della sanità moderna, caratterizzata da complessità, specializzazione e personalizzazione delle cure. Nelle CdP l’apprendimento si realizza attraverso l’esperienza sul campo (apprendimento situato) consentendo ai suoi membri, grazie alle interazioni reciproche, di acquisire competenze che possono essere immediatamente verificate nella pratica.
L’apprendimento nella CdP è sia processo individuale e mentale del singolo, che fenomeno sociale e di gruppo dell’intera comunità. La comunità è necessaria ed indispensabile per la condivisione della conoscenza e fornisce un ambiente sicuro dove cimentarsi nell’apprendimento, attraverso l’osservazione e l’interazione con i colleghi più esperti.
L’informalità nelle interazioni è l’elemento che più assicura una buona riuscita della collaborazione ed un atteggiamento propositivo, incoraggiando il confronto, migliorando la pratica e contribuendo a sviluppare nuove soluzioni per affrontare i problemi.
Nello specifico le dinamiche di interazione delle CdC sono riassumibili in quattro fasi essenziali:
• La comunicazione – fase in cui ci si scambia domande e risposte supportandosi reciprocamente nel lavoro quotidiano, solitamente ci si trova nello stesso ambito professionale con una certa eterogeneità del livello di esperienza. In questa fase iniziale si sviluppa un senso di “aiuto reciproco” nel breve periodo.
• La condivisione – fase in cui si hanno interessi comuni (ad es: problema di salute specifico) per i quali si hanno risorse comuni alle quali far riferimento per risolvere ciascuno i propri problemi, interagendo con persone che provengono da ambiti disciplinari simili si migliora la formazione personale. In questa fase si sviluppa l’“apprendimento individuale” nel lungo periodo.

• La collaborazione – fase in cui si ha un problema comune da risolvere separatamente (ad esempio: creare un percorso diagnostico terapeutico assistenziale (PDTA), percorsi integrati, etc.), ma avvalendosi del supporto reciproco, solitamente si è tutti attori dello stesso processo e la finalità è quella di migliorare continuamente le prestazioni del processo. In questa fase si sviluppa il “supporto ai processi” aziendali nel breve periodo.
• La cooperazione – fase in cui si lavora per produrre un unico “prodotto” (che può identificarsi in un prodotto, un servizio, un progetto, ecc.) e il risultato dovrà essere il migliore da ogni punto di vista, scartando le proposte inadeguate, così facendo si sviluppano le capacità innovative dell’impresa. In questa fase si sviluppa l’”apprendimento organizzativo” nel lungo periodo.
Per fare un esempio, le insufficienze riportate nel PNE 2022 (dati 2021 sugli indicatori di Colecistectomia laparoscopica: ricoveri con degenza post operatoria < a 3 giorni, Colecistectomia laparoscopica: interventi in reparti con volume > 90 casi/anno o sulla Frattura del collo del femore: intervento chirurgico entro 48 ore), per essere modificate potrebbero essere analizzate in una CdP condividendo le diverse competenze possedute da ortopedici, anestesisti, chirurghi e direzione strategica, pena la possibile riduzione di Unità Operative.
Per quanto concerne il governo della sanità territoriale e della cronicità, oltre gli adempimenti normativi previsti dal DM 71, sarà necessario costruire CdP attraverso la partecipazione dei MMG, PLS, Medici Specialisti Ospedale/Territorio, Specialisti della fragilità (Fisiatri e Geriatri), ADI, UVMD ed équipe itineranti, comunità protette, i referenti dei servizi di dimissioni ospedaliere, Assistenti sociali e Psicologi della ASL e dei Distretti Sociali/Ambiti territoriali, rappresentanti delle Associazioni dei malati.
Il Ruolo del Management (Direttori dei Distretti Sanitari e del Presidio Ospedaliero, gli altri Dirigenti delle strutture aziendali, Formazione, Professioni sanitarie, Controllo di Gestione, Farmacisti, e servizi informatici, etc.), dovrà essere quello di incoraggiare, supportare, incentivare e indirizzare la Comunità di Pratica verso il raggiungimento degli obiettivi aziendali, stimolando la creazione di un senso di appartenenza, facilitando la comunicazione e la condivisione di informazioni e conoscenze, incoraggiando l’utilizzo della tecnologia a disposizione per la comunicazione e agendo in collaborazione con i servizi degli Enti locali per una piena integrazione multidisciplinare.

Antonello Cuccuru

 

Antonello Cuccuru, dirigente delle Professioni sanitarie infermieristiche, Tecniche, della Riabilitazione, della Prevenzione e della Professione di Ostetrica, dipendente della Asl 3 di Nuoro, torna a lavorare presso la Asl Sulcis. Lo ha disposto su richiesta dell’interessato, con apposita deliberazione n° 385 del 23 agosto 2022, il direttore generale della Asl di Nuoro, Paolo Cannas.

Nel 1998 l’Organizzazione Mondiale della Sanità, riprendendo quando sviluppato da Nutbeam, nel Glossario di promozione della salute definisce l’health literacy come l’insieme delle capacità cognitive e sociali che determinano la motivazione e l’abilità degli individui per accedere, comprendere e utilizzare le informazioni, sì da promuovere e mantenere un buon livello di salute (World Health Organization. Health Promotion Glossary. WHO, Geneva, 1998).
La health literacy è legata al saper leggere e scrivere e riguarda le conoscenze, le motivazioni e le competenze delle persone ad accedere, comprendere, valutare e mettere in pratica le informazioni per esprimere giudizi e prendere delle decisioni nella vita di tutti i giorni, riguardanti l’assistenza sanitaria, la prevenzione e la promozione della salute per mantenere e migliorare la qualità della vita per tutto il corso della vita.
L’OMS inquadra, di fatto, il concetto nella dimensione delle life skills (Il termine di Life Skills viene generalmente riferito ad una gamma di abilità cognitive, emotive e relazionali di base, che consentono alle persone di operare con competenza sia sul piano individuale che su quello sociale. In altre parole, sono abilità e capacità che ci permettono di acquisire un comportamento versatile e positivo, grazie al quale possiamo affrontare efficacemente le richieste e le sfide della vita quotidiana), affermando che la health literacy implica il raggiungimento di un livello di conoscenza, abilità e consapevolezza utili a intraprendere azioni per migliorare la salute individuale e della comunità, promuovendo il cambiamento degli stili e delle condizioni di vita.
Il riferimento alla “salute della comunità” e alle “condizioni di vita” sottolinea quanto la health literacy sia rilevante non soltanto per la salute individuale, ma quanto eserciti un peso per la partecipazione della comunità a decisioni che hanno un impatto sulla salute della popolazione (la cosiddetta critical health literacy), aprendo definitivamente la strada allo sconfinamento di tale disciplina in ambito di prevenzione collettiva di promozione della salute (public health literacy).
Il primo articolo in cui si fa riferimento esplicito al concetto di public health literacy risale presumibilmente al 2005. In questo articolo Gazmarian e collaboratori si interrogano se sia etico che professionisti della salute forniscano informazioni troppo difficili o poco accessibili ai cittadini/clienti/pazienti, spesso incentrate sugli aspetti scientifici, comprensibili solo dagli esperti del settore (Gazmararian JA, Curran JW, Parker RM, Bernhardt JM, DeBuono BA. Public health literacy in America: an ethical imperative. Am J Prev Med 2005; 28 (3): 317-322)
Tale criticità, ripresa ed affrontata da numerosi altri autori, verrà descritta da Rowlands e Nutbeam come “the inverse information law” ossia come “la legge dell’informazione inversa” in base alla quale “quelli che hanno i più bassi livelli di health literacy hanno anche i più bassi livelli di informazione sanitaria” (Rowlands G., Nutbeam D. Health literacy and the “inverse information law”. Br J Gen Pract 2013; 63 (608): 120-121)
L’articolo di Gazmarian e dei suoi collaboratori prosegue affermando che, fino ad allora, l’attenzione alla health literacy era stata prevalentemente limitata all’ambito sanitario in senso stretto e, nello specifico, alla comunicazione tra i servizi sanitari e i pazienti, e proseguono lanciando una nuova sfida, quella della public health literacy, vista come un livello più elevato di alfabetizzazione sanitaria, nel quale gli individui siano in grado di comprendere non solo le informazioni sulla salute che li riguardano da vicino, ma anche quelle che interessano l’intera comunità.

In questo senso, le abilità di public health literacy sono essenziali e “spendibili” per comprendere, ad esempio, il ruolo di un fattore di rischio ambientale e per riconoscere le eventuali distorsioni nelle informazioni riportate dai media.
Affermando che «la qualità dell’informazione sanitaria che gli americani ricevono, la capacità di capire e usare quella informazione è la chiave per costruire un’America più sana e che colmare il gap in health literacy è una questione di etica e di equità, essenziale per ridurre le diseguaglianze nella salute», gli autori elencano sei passaggi per raggiungere l’obiettivo primario di una società maggiormente health literate:
– definire le caratteristiche di una popolazione health literate;
– sviluppare strumenti e indagini per misurare il livello di health literacy di una popolazione;
– valutare in modo critico gli sforzi comunicativi del personale sanitario;
– potenziare le capacità comunicative e di ascolto del personale sanitario;
– riconoscere che, a differenza della health literacy, possedere conoscenze teoriche su determinati argomenti di salute è condizione necessaria ma non sufficiente per impegnarsi a mantenere e promuovere comportamenti salutari;
– sviluppare collaborazioni estese tra sanità pubblica e altri professionisti per raggiungere l’obiettivo di mantenere e promuovere comportamenti.
Conoscenze, competenze e motivazioni costituiscono il cuore della definizione della health literacy, contraddistinguendola dalla singola acquisizione di conoscenze (aspetto meramente nozionistico) o di competenze (abilità raggiunte con l’addestramento), e sono finalizzate all’accesso, alla comprensione, alla valutazione e alla messa in pratica delle informazioni sulla salute durante tutto il corso della vita.
La health literacy influenza i comportamenti e l’uso dei servizi sanitari, con conseguenze in termini di outcome di salute e di costi per l’individuo e la collettività. Una bassa health literacy risulta associata a errori, esposizione a fattori di rischio, problemi di sicurezza del paziente, uso improprio dei servizi sanitari, mancata adesione a campagne di screening di popolazione, con conseguente peggioramento dello stato di salute, anche in termini di salute percepita.
In attesa di chiarire meglio i contenuti della riforma sanitaria e le funzioni di ARES e delle AASSLL, è bene ricordare a tutti gli operatori sanitari che è indispensabile garantire un aumento del livello di health literacy dei cittadini e della popolazione del Sulcis Iglesiente al fine di determinare un progressivo incremento dei livelli di autonomia e un empowerment maturo, fondato sulla conoscenza diretta dei fenomeni per realizzare l’autogestione della propria salute e la partecipazione attiva ai percorsi di cura.
A livello di ASL, le diverse strategie di coinvolgimento dei pazienti e di offerta di prestazioni e servizi devono essere appropriate in funzione del livello di alfabetizzazione sanitaria degli utenti. Affinché tale assunto si realizzi, è necessario che la direzione strategica includa la health literacy nelle politiche aziendali e che il personale sanitario sia formato sul ruolo della stessa come determinante di salute.
Nello specifico, soprattutto qualora non sia noto il livello di health literacy dei pazienti o della popolazione assistita, risulta indispensabile adottare alcune precauzioni universali (Agency for Healthcare Research and Quality, U.S. Department of Health and Human Services. Health Literacy Universal Precautions Toolkit. http://nchealthliteracy.org/toolkit/toolkit_w_appendix.pdf) per garantire che tutti i soggetti siano in grado di comprendere il messaggio di salute e di orientarsi all’interno del servizio sanitario.
Tra le precauzioni universali sono compresi gli interventi per migliorare la comunicazione orale o scritta, come la tecniche teach-back o brown bag medication review (Questo metodo consiste nel far ripetere al paziente, con parole proprie, quanto appena spiegato per testarne l’apprendimento, verificare l’efficacia della comunicazione e apportare le eventuali correzioni alle informazioni risultate inaccurate. La comprensione del paziente è confermata quando è in grado di ripetere correttamente quanto appena detto dal professionista), l’uso di materiale scritto semplice, con poche scritte e molte immagini, e incoraggiare i pazienti a fare domande.
Inoltre, considerando una prospettiva più ampia del sistema-salute, gli operatori sanitari devono tenere in considerazione il fatto che anche i caregivers dei pazienti, siano essi informali (familiari, amici) o formali (gli assistenti alla persona, ovvero i cosiddetti “badanti”), potrebbero presentare bassi livelli di health literacy.
L’alfabetizzazione sanitaria ci tocca tutti da vicino in maniera molto più concreta di quanto si possa pensare.
Ha a che fare con la nostra salute e con l’equità di accesso alle risorse, quindi con il perpetuarsi o l’aggravarsi delle disuguaglianze. Impatta non solo sulle possibilità di beneficiare pienamente delle risorse offerte dai diversi sistemi sanitari e dalla società in cui viviamo, ma compromette la capacità di reagire nelle situazioni di bisogno o di emergenza, coinvolgendo non solo i singoli interessati, ma le loro famiglie e le intere comunità.
Quest’ultimo aspetto risulta di particolare rilevanza alla luce dei cambiamenti dell’assetto del sistema sanitario regionale, che vede una sempre maggiore complessità e lontananza geografica di alcuni servizi e strutture di riferimento cagliaritane.

Bibliografia

Agency for Healthcare Research and Quality, U.S. Department of Health and Human Services. Health Literacy Universal Precautions Toolkit. http://nchealthliteracy.org/toolkit/toolkit_w_appendix.pdf

Health literacy e sanità pubblica https://www.saluteinternazionale.info/2018/02/health-literacy-e-sanita-pubblica

Freedman DA, Bess KD, Tucker HA, Boyd DL, Tuchman AM, Wallston KA. Public health literacy defined. Am J Prev Med 2009;36: 446-51.

Godlee F. Evidence based medicine: flawed system but still the best we’ve got. BMJ 2014;348:g440.

Hersh L, Salzman B, Snyderman D. Health Literacy in Primary Care Practice. American Family Physician 2015; 92(2): 118-24.

Ha Dinh TT, Bonner A, Clark R, Ramsbotham J, Hines S. The effectiveness of the teach-back method on adherence and self-management in health education for people with chronic disease: a systematic review. JBI Database System Reviews and Implementation Reports 2016; 14(1): 210-47.

3. Miller TA. Health literacy and adherence to medical treatment in chronic and acute illness: A meta- analysis. Patient Education and Counseling 2016; 99(7): 1079-1086.

Antonello Cuccuru

Il 18 dicembre 2001, alle 10.00, l’Aula consiliare del comune di Villamassargia ospiterà una conferenza di confronto, sui contenuti della bozza del Piano Regionale Servizi Sanitari presentata alle parti sociali e alle istituzioni, promossa dall’Ordine Professioni infermieristiche di Carbonia Iglesias (OPI).

La comunità del Sulcis Iglesiente deve essere grata al presidente dell’OPI, Graziano Lebiu, per l’attenzione riservata a questo territorio in questi ultimi anni, dove si è assunto spesso responsabilità attribuibili ad altri soggetti, mettendoci sempre la faccia.

Ciò premesso, oltre legittime rivendicazioni e senza entrare nel merito della ripartizione e collocazione delle strutture di assistenza appartenenti alla rete territoriale, in riferimento alla previsione di nuove Case della Salute e di Ospedali di Comunità, ritengo utile proporre alcune riflessioni.

Nel dicembre del 2020, il Dipartimento Affari Sociali del Servizio Studi della Camera dei Deputati ha inviato alla Conferenza delle Regioni una richiesta di informazioni relativa ai presidi delle cure intermedie (Case della Salute/Casa di comunità e Ospedale di comunità – OdC) attivi nei diversi sistemi sanitari regionali Tali strutture, infatti, hanno un ruolo centrale nella Missione Salute (n. 6) del PNRR.

Successivamente, sulla base della documentazione pervenuta, la Segreteria tecnica Area “Assistenza territoriale” ha elaborato la “Relazione sullo sviluppo delle Case della Salute e degli Ospedali di Comunità nelle regioni italiane (anno 2020)”, inviata nel febbraio 2021.

Nella relazione si chiarisce che, mentre la declinazione operativa degli Ospedali di Comunità si basa sui contenuti dell’Intesa Stato-Regioni n. 17 del 20 febbraio 2020, la declinazione operativa di Casa della Salute, in assenza di una impostazione condivisa a livello nazionale, è stata intesa come una struttura sanitaria territoriale in cui è prevista l’integrazione tra medici di medicina generale/pediatri di libera scelta ed i servizi sanitari delle Aziende Unità Sanitarie Locali [es. Case della Salute, Unità complesse di cure primarie (UCCP), Presidi territoriali di assistenza (PTA)].

Secondo la documentazione pervenuta alla Segreteria tecnica Area “Assistenza territoriale” e ai contenuti della Bozza del Piano Regionale Servizi Sanitari, nella Regione Sardegna risultano attive 14 Case di Comunità già finanziate con fondi europei, nazionali o regionali, mentre le altre 12 sono attualmente in fase di attivazione, per un totale di 26 strutture dislocate sul territorio regionale.

Nel territorio del Sulcis Iglesiente risultano attive (?) 4 Case di Comunità (Giba, Sant’Antioco, Carloforte e Fluminimaggiore) e nessun Ospedale di Comunità (anche se 1 era stato ipotizzato nella Rete Ospedaliera ad Iglesias nel PO Santa Barbara). Il documento della Regione Sardegna prevede per ogni distretto di circa 100.000 abitanti una Casa di Comunità hub e almeno 3 Case della comunità spoke, per favorire la capillarità dei servizi sul territorio ed un equo accesso alle cure. La tipologia delle CdC attribuite alla ASSL di Carbonia prevede una Casa hub a (Sant’Antioco) e 3 CdC Spoke (Giba, Sant’Antioco, Carloforte).

È importante ricordare che, dopo la diffusione delle cifre del riparto dei fondi tra le regioni per le Case della Comunità o CdC e gli Ospedali di Comunità (OdC), sono stati infatti rivisti anche gli standard per le nuove strutture, che modificano significativamente il documento AGENAS di luglio 2021 su “Modelli e standard per lo sviluppo dell’Assistenza Territoriale nel Sistema Sanitario Nazionale”.

Secondo il succitato documento Agenas, la Casa della Comunità è il luogo fisico di prossimità e di facile individuazione dove la comunità può accedere per poter entrare in contatto con il sistema di assistenza sanitaria e sociosanitaria. La CdC promuove un modello organizzativo di approccio integrato e multidisciplinare attraverso équipe territoriali. Costituisce la sede privilegiata per la progettazione e l’erogazione di interventi sanitari e di integrazione sociale.

Standard:

– almeno 1 Casa della Comunità hub ogni 40.000-50.000 abitanti;

– Case della Comunità spoke e ambulatori di Medici di Medicina Generale e Pediatri di Libera Scelta tenendo conto delle caratteristiche orografiche e demografiche del territorio al fine di favorire la capillarità dei servizi e maggiore equità di accesso, in particolare nelle aree interne e rurali. Tutte le aggregazioni dei MMG e PLS (AFT e UCCP) sono ricomprese nelle Case della Comunità avendone in esse la sede fisica oppure a queste collegate funzionalmente;

– almeno 1 Infermiere di Famiglia e Comunità ogni 2.000 – 3.000 abitanti.

Per rispondere alle differenti esigenze territoriali, garantire equità di accesso, capillarità e prossimità del servizio, si prevede la costituzione di una rete di assistenza territoriale formata secondo il modello hub e spoke.

Sia nell’accezione hub sia in quella spoke, la CdC costituisce l’accesso unitario fisico per la comunità di riferimento ai servizi di assistenza primaria e di integrazione sociosanitaria. Entrambe, quindi, propongono un’offerta di servizi costituita da medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, specialisti ambulatoriali interni, infermieri di famiglia e comunità, presenza di tecnologie diagnostiche di base.

La CdC hub garantisce l’erogazione dei seguenti servizi, anche mediante modalità di telemedicina:

– Équipe multiprofessionali (MMG, PLS, Continuità Assistenziale, Specialisti Ambulatoriali Interni (SAI) e dipendenti, Infermieri e altre figure sanitarie e sociosanitarie);

– Presenza medica h24 – 7 giorni su 7 anche attraverso l’integrazione della Continuità Assistenziale (ex Guardia medica);

– Presenza infermieristica h12 – 7 giorni su 7;

– Punto Unico di Accesso (PUA) sanitario e sociale;

– Punto prelievi;

– Programmi di screening;

– Servizi diagnostici finalizzati al monitoraggio della cronicità (ecografo, elettrocardiografo, retinografo, oct, spirometro, ecc.) anche attraverso strumenti di telemedicina (es. telerefertazione);

– Servizi ambulatoriali specialistici per le patologie ad elevata prevalenza (cardiologo, pneumologo, diabetologo, ecc.);

– Servizi infermieristici, sia in termini di prevenzione collettiva e promozione della salute pubblica, inclusa l’attività dell’Infermiere di Famiglia e Comunità (IFeC), sia di continuità di assistenza sanitaria, per la gestione integrata delle patologie croniche;

– Sistema integrato di prenotazione collegato al CUP aziendale;

– Servizio di assistenza domiciliare di base;

– Partecipazione della Comunità e valorizzazione della co-produzione, attraverso le associazioni di cittadini e volontariato.

– Relazione tra la CdC hub con il funzionamento delle strutture per le cure intermedie (es. assistenza medica nelle strutture residenziali territoriali come l’ospedale di comunità).

La CdC spoke garantisce l’erogazione dei seguenti servizi, anche mediante modalità di telemedicina:

– Équipe multiprofessionali (MMG, PLS, Specialisti Ambulatoriali Interni (SAI) e dipendenti, Infermieri e altre figure sanitarie e sociosanitarie);

– Presenza medica e infermieristica almeno h12 – 6 giorni su 7 (lunedì-sabato);

– Punto Unico di Accesso (PUA) sanitario e sociale;

– Alcuni servizi ambulatoriali per patologie ad elevata prevalenza (cardiologo, pneumologo, diabetologo, ecc.);

– Servizi infermieristici, sia in termini di prevenzione collettiva e promozione della salute pubblica, inclusa l’attività dell’Infermiere di Famiglia e Comunità (IFeC), sia di continuità di assistenza sanitaria, per la gestione integrata delle patologie croniche;

– Programmi di screening;

– Collegamento con la Casa della Comunità hub di riferimento;

– Sistema integrato di prenotazione collegato al CUP aziendale;

– Partecipazione della Comunità e valorizzazione co-produzione, attraverso le associazioni di cittadini, volontariato.

All’interno delle CdC possono essere ricompresi posti letto di cure intermedie (Ospedali di Comunità e post-acuti) e/o posti letto di hospice e/o servizi di riabilitazione e mantenimento funzionale.

In attesa della predisposizione e approvazione di “Linee guida regionali sulle Case della comunità” (si spera in ottemperanza a quanto stabilito da Agenas) con il dettaglio dei requisiti organizzativi, funzionali e strutturali, nonché i criteri di eleggibilità dei pazienti e le modalità di presa in carico, proviamo a capire meglio cosa sono le CdC e perché ancora oggi presentano diverse criticità nel nostro territorio.

Case della salute/Comunità (CdC)

Nel nostro SSN la crescita di attenzione alle forme di erogazione «fuori dall’ospedale» ha portato a un rinnovato interesse verso il modello della Casa della Salute dopo anni (quasi 15) di sviluppo variegato e disomogeneo nei vari contesti regionali.  Le Case della Salute/Case di Comunità, insieme ad altre tipologie di presidi territoriali, sono state infatti individuate dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) come luoghi cardine della Missione Salute (la numero 6) da consolidare e sui quali investire ulteriormente per potenziare l’assistenza socio-sanitaria a livello territoriale.

La stessa definizione e il significato di CdC sono cambiati nel tempo e continuano a evolvere. Se nelle fasi iniziali di introduzione delle nuove strutture ha concorso ampiamente la necessità di trovare una soluzione ai problemi posti dalla riconversione dei piccoli ospedali, negli anni più recenti l’evoluzione delle nuove configurazioni è sempre più accompagnata da altre spinte e motivazioni: esigenze politiche di rinsaldare i legami con la comunità, tensioni ideali ancorate all’affermazione di nuovi modelli di cura e anche tendenze di carattere più  manageriale focalizzate alla semplificazione dell’accesso e al miglioramento  dell’esperienza di consumo. Nei sistemi regionali dove il modello è maggiormente diffuso e consolidato (Emilia-Romagna e Toscana) le nuove linee guida segnano il passaggio da una fase che entrambi i disegni regionali definiscono «strutturalista» a una di maggior attenzione ai processi di integrazione nella rete di offerta (Per la regione Emilia Romagna si tratta della D.G.R. n. 2128 del 5 dicembre 2016 «Case della Salute: Indicazioni regionali per il coordinamento e lo sviluppo delle comunità di professionisti e della medicina d’iniziativa»; per la regione Toscana è la Delibera n. 770 del 22 giugno 2020 «Atto di indirizzo sulle Case della Salute»).

L’auspicata presenza di elementi di innovazione nelle soluzioni è comunque ancora frenata da vincoli e paradigmi che vengono dal passato, e non solo nel nostro territorio. La fisicità è la dimensione fondamentale rispetto alla quale si articolano le principali scelte progettuali (di localizzazione di funzioni, servizi e persone) e continua a rappresentare l’elemento fondante e caratterizzante delle nuove (o rinnovate) strutture territoriali e del ruolo che esse possono assolvere, come è accaduto per le strutture spoke di Giba e Fluminimaggiore, dove ci siamo limitati a fare un ampliamento strutturale delle sedi dei due Poliambulatori.

In prospettiva, tuttavia, come per molti ambiti della vita quotidiana, anche per i servizi ordinariamente erogati nelle strutture territoriali l’intervento di COVID-19 ha reso più evidente l’importanza della trasformazione digitale e delle nuove forme di erogazione dei servizi «a distanza» (per portare l’assistenza direttamente a casa delle persone, garantire continuità delle cure e ridurre al minimo gli spostamenti degli utenti e dei professionisti).

Prima di rivendicare l’attribuzione di una o più CdC per il nostro territorio, è importante approfondire quelle che sono le principali sfide e potenziali traiettorie di sviluppo che sottendono al modello della CDS oggi e per i prossimi anni, auspicabilmente a emergenza Covid-19 superata. Appare opportuno ricostruire il punto di partenza, e cioè l’attuale stato delle conoscenze sulle esperienze fin qui maturate nelle nostre 4 CdC.

Le nostre CdC sono state finora concepite e realizzate come contenitori fisici e luoghi di erogazione «isolati» rispetto ai sistemi di offerta delle aziende. Le opportunità offerte dalle tecnologie e le sfide poste da contesti di riferimento sempre più differenziati e interconnessi nella risposta agli utenti e comunità servite (soprattutto in aree urbane e a più alta densità d’offerta) portano a considerare profili evolutivi diversi per il modello atteso di CdC, non solo incentrati sulla dimensione fisica, collegati in rete e maggiormente ispirati a logiche e modelli propri del retail. Il dibattito sulle possibili evoluzioni (non solo fisiche) del modello è comunque appena iniziato e spero trovi spazio nella conferenza di sabato 18 dicembre a Villamassargia. I quadri normativi e concettuali sono ancora fortemente legati alle formulazioni delle origini e la concentrazione fisica continua a rappresentare l’elemento fondante e prevalente nei disegni delle regioni e condiziona ancora le realizzazioni. Non mancano tuttavia esperienze (e anche modelli e approcci che stanno affermandosi nel nostro come in altri sistemi sanitari) che potrebbero rappresentare un utile riferimento per far progredire le attuali e future progettualità delle Aziende.

Le analisi e considerazioni sviluppate da altre regioni evidenziano, in particolare, la necessità di guardare alle CdC (e al loro progetto di sviluppo):

-ponendo particolare attenzione alla esigenza di definire (e anche mantenere) un disegno unitario per le strutture e i modelli di servizio che compongono nel loro insieme l’offerta territoriale;

-superando la concezione di CdC come mero contenitore fisico nel quale le attività si svolgono e che spesso sono identificate con una funzione. La CdC è da intendersi piuttosto come l’integrazione di una specifica configurazione fisica e di un insieme di servizi che, da una parte, rende possibile l’erogazione delle attività direttamente collegate al soddisfacimento dei bisogni e, dall’altra, le qualifica e le connota, soprattutto nella dimensione della esperienza percepita dai destinatari;

-adattando (anche dinamicamente) il disegno delle reti, delle strutture e dei modelli di servizio incorporando l’innovazione ed eventuali cambi di scenario.

Nella definizione ri-definizione delle CdC da attribuire al nostro territorio e alla Regione Sardegna diventa imprescindibile l’esigenza di costruire una rete, come insieme unitario e riconoscibile, di strutture per i sistemi sanitari (siano essi di livello aziendale, o regionale) e non la messa disposizione di una semplice sommatoria di strutture e servizi di carattere locale. Indipendentemente dalla segmentazione, geografica o di altro tipo, che può essere posta alla base degli assetti istituzionali e organizzativi delle aziende e di quella operativa delle singole strutture, il cittadino dovrà avere la possibilità di ritrovarsi in ogni singolo punto e riconoscere la presenza di un sistema unitario

Il secondo e più complesso elemento da considerare, già tracciato da Agenas nel documento “Modelli e standard per lo sviluppo dell’Assistenza Territoriale nel Sistema Sanitario Nazionale”, attiene a quelle che potrebbero essere definite come le componenti di base del modello di servizio e che assumono rilievo ai fini della progettazione: (a) le funzioni, (b) i servizi/prestazioni e le attività e (c) le piattaforme operative.

Ospedali di Comunità (OdC)

Il contesto “as is” dei nostri Odc è desolante: non esiste un solo Odc attivato in tutta la Regione Sardegna. Guardando alla letteratura internazionale di riferimento, sono molteplici le definizioni elaborate per descrivere l’OdC: si tratta infatti di una struttura assistenziale che può assumere configurazioni (in termini di modello organizzativo, grado di integrazione nella filiera dei servizi, tipologie di prestazioni erogate, etc.) anche molto differenti a seconda del contesto di riferimento. In termini generali, l’OdC può essere definito come una struttura sanitaria:

a. che si connota per un legame diretto con il territorio di riferimento, da cui intercetta i bisogni dell’utenza: «community hospitals are local hospitals, units or centres whose role is to provide accessible health and associated services to meet the needs of a clinically defined and local population» (McCormack, 1983);

b. in cui la responsabilità clinica è generalmente affidata a medici di medicina generale supportati da un’equipe infermieristica, spesso anche multiprofessionale (data la presenza di operatori sociosanitari – OSS, fisioterapisti e altri professionisti sanitari) (Ritchie et al., 1998; Winpenny et al., 2016);

c. dotata di posti letto, in una misura limitata e comunque inferiore ai presidi che erogano assistenza ospedaliera;

d. che eroga, a seconda dei contesti e del processo evolutivo che ne ha caratterizzato la nascita e lo sviluppo, un insieme più o meno articolato di prestazioni sanitarie, riconducibili, in genere, all’ambito delle cure intermedie (Ashworth et al., 1996; CHA, 2008; Pitchford et al., 2017.

Benché non esista un limite stabilito a livello internazionale sul numero massimo di posti letto che è possibile prevedere in un ospedale di comunità, Davidson et al. (2019), sulla base di una review sistematica della letteratura internazionale di riferimento, indicano 100 posti letto per una popolazione di (massimo) 100.000 abitanti.

Ciò che maggiormente caratterizza le esperienze degli OdC, oltre alla forte connessione con il territorio, sono le professionalità presenti al loro interno: i medici di medicina generale sono spesso individuati come i responsabili clinici delle strutture, supportati da un’equipe infermieristica e da altri professionisti sanitari (fisioterapisti, terapisti occupazionali, OSS, dietologi, tecnici di riabilitazione). Il personale dell’OdC viene normalmente affiancato da specialisti che si recano in struttura per visite ad hoc con frequenza più o meno regolare (uno studio effettuato in Nuova Zelanda riporta ad esempio che un’equipe chirurgica visita gli OdC due volte alla settimana o che offrono consulenza e assistenza anche “a distanza” tramite strumenti di digital health, telemedicina e telemonitoraggio (un esempio è il servizio di teleoftalmologia previsto in alcuni OdC in Australia). Il limitato e/o remoto coinvolgimento di medici specialisti comporta la necessità che MMG e infermieri sviluppino in modo consolidato una serie di competenze non solo in campo strettamente clinico, ma anche manageriale e gestionale, di leadership, di comunicazione, di stakeholder management. In questo senso, l’OdC rappresenta un setting peculiare in cui il ruolo e le funzioni dell’equipe infermieristica vengono particolarmente enfatizzate: in alcuni casi, sono gli infermieri direttamente responsabili di alcune unità organizzative all’interno dell’OdC (O’Hanlon et al., 2010), in altri sono loro a seguire il patient flow nel suo complesso, dall’accesso alla dimissione, senza il diretto coinvolgimento di medici (Chen et al., 2010). Uno scenario, quest’ultimo, che difficilmente potrà essere sperimentato nella nostra Regione.

La storia degli OdC in Italia è invece recente. In data 20 febbraio 2020, la Conferenza Permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano, sancisce l’intesa sui requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi minimi dell’OdC, in adempimento a quanto previsto in una precedente intesa stipulata nella stessa Conferenza il 10 luglio 2014 (art. 5, comma 17) concernente il nuovo “Patto per la salute per gli anni 2014-2016”.

La nuova intesa stabilisce le caratteristiche generali e i requisiti minimi generali, strutturali e tecnologici specifici, organizzativi e gli standard minimi clinico-assistenziali degli OdC, sulla base delle indicazioni già contenute nel Decreto del Ministero della Salute del 2 aprile 2015, n. 70, art 10.1. L’OdC rappresenta una struttura intermedia tra le cure domiciliari e l’assistenza ospedaliera con funzioni diverse da quelle delle strutture residenziali extra-ospedaliere per malati cronici non autosufficienti, per disabili e per malati terminali, definite dal DPCM del 12 gennaio 2017 (artt. 29-35). L’OdC, infatti, è un presidio sanitario di assistenza primaria a degenza breve destinato ai pazienti che necessitano di interventi sanitari a bassa intensità clinica e di sorveglianza infermieristica continuativa. Nello specifico, si tratta di pazienti che, a seguito di un episodio di acuzie minore o per la riacutizzazione di patologie croniche necessitano di interventi potenzialmente erogabili a domicilio ma che vengono ricoverati nell’OdC in mancanza di idoneità strutturale e/o familiare del domicilio stesso.

Per quanto riguarda la gestione delle attività, essa è in capo all’organizzazione distrettuale e/o territoriale delle aziende sanitarie.

Logisticamente, l’OdC può avere una sede propria, oppure essere ubicato all’interno di presidi sanitari polifunzionali, strutture residenziali o ospedali per acuti, pur rimanendo riconducibile all’assistenza territoriale. Il numero di posti letto è di norma compreso tra 15 e 20, con possibilità di estensione fino a due moduli, con 15-20 posti ciascuno. I pazienti provengono dal domicilio, da altre strutture residenziali (es. Residenze Sanitarie Assistenziali, RSA), dai presidi ospedalieri per acuti o dal pronto soccorso, generalmente a seguito di una valutazione multidimensionale eseguita in fase di accesso. La responsabilità clinica dei pazienti è attribuita a un medico di medicina generale (MMG), un medico dipendente del SSN o un medico incaricato dalla struttura (per gli OdC privati). La responsabilità assistenziale è in capo ad un infermiere e l’assistenza infermieristica è garantita nelle 24 ore.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), approvato dal Governo lo scorso aprile 2021 per il conseguimento delle risorse messe a disposizione dall’Europa nell’ambito del Next Generation EU, dedica al rafforzamento del servizio sanitario la Missione 6. Due sono i pilastri di innovazione e sviluppo: il potenziamento dell’assistenza territoriale e lo sviluppo del digitale legato al settore sanitario. In relazione al primo macro-obiettivo, ampio spazio viene dedicato all’OdC come struttura perno della rete complessiva: viene stanziato un finanziamento di 1 miliardo di euro per l’attivazione di circa 380 OdC in tutto il territorio nazionale.

A questo obiettivo si aggiunge una previsione ancora più ambiziosa contenuta nel documento di Agenas “Modelli e standard per lo sviluppo dei Servizi Territoriali nel Sistema Sanitario Nazionale”. A regime, l’Italia dovrebbe avere una dotazione di un OdC con 20 posti letto ogni 50.000 abitanti, pari a 0,4 posti letto ogni 1000 abitanti. Il documento fornisce anche alcune indicazioni specifiche sugli standard di personale e di attrezzature. Per un modulo di 20 posti letto ogni OdC dovrebbe avere una dotazione di 9 infermieri, 6 OSS e 4 ore giornaliere di un medico. L’OdC dovrebbe avere disponibili almeno le seguenti dotazioni tecnologiche: defibrillatore, elettrocardiografo portatile/telemedicina, saturimetro, spirometro, emogasanalizzatore, apparecchio per esami POC, ecografo; altre tecnologie da rendere disponibili potrebbero essere definite più avanti.

Complessivamente si tratta di una dotazione minima che appare coerente con la finalità dell’OdC di fornire assistenza di basso-medio livello. Viene inoltre specificato che i pazienti eleggibili devono necessitare di assistenza infermieristica e di assistenza medica programmabile o su specifica necessità. È prevista la possibilità che gli OdC abbiamo moduli protetti per pazienti con demenza o disturbi comportamentali come è anche prevista l’attivazione di posti letto pediatrici.

Sotto il profilo delle responsabilità, il documento di Agenas conferma i contenuti di precedenti disposizioni. L’OdC è a gestione multidisciplinare, multiprofessionale e interdisciplinare con responsabilità igienico-sanitaria in capo ad un medico, responsabilità clinica sui singoli pazienti in capo a medici dipendenti o convenzionati con il SSN e responsabilità organizzativo-assistenziale in capo ad un infermiere secondo le proprie competenze.

Tutti gli attori del sistema devono essere consapevoli che il PNRR e soprattutto il documento di Agenas propongono una straordinaria innovazione. Essi prefigurano che il servizio sanitario offra letti di medio-bassa assistenza a gestione infermieristica e sotto il controllo dell’assistenza distrettuale (e non dell’assistenza ospedaliera). Il piano è coraggioso perché le conoscenze sugli effettivi spazi di azione degli OdC sono molto limitate. Le esperienze italiane sono relativamente poche e non sono state studiate in modo sistematico. Anche la letteratura internazionale è abbastanza limitata e spesso non utile perché in diversi contesti l’OdC (o rural hospital o cottage hospital) risponde prioritariamente ad esigenze di presidio di contesti isolati in grandi paesi come il Canada o l’Australia o comunque a bassa intensità abitativa come la Finlandia o la Norvegia.

Il nostro Servizio Sanitario Regionale sta facendo una vera scommessa con gli OdC. L’auspicio è che questa scommessa, in sinergia con quella delle CdC, possa essere il volano per una profonda trasformazione del sistema sanitario verso un modello nettamente più centrato sulla comunità, la prossimità e la presa in carico olistica della persona. Si tratta di un’occasione unica che difficilmente si potrà ripetere in futuro vista l’eccezionalità delle misure introdotte, anche da un punto di vista economico. Per questo motivo è fondamentale che tutti i processi che verranno messi in essere nei prossimi mesi, dall’individuazione dei luoghi dove collocare gli OdC fino ai sistemi di finanziamento, vengano portati avanti con determinazione ma senza dogmatismi e/o provincialismi, nello spirito di una grande sperimentazione che potrebbe ridisegnare il nostro sistema sanitario regionale.

L’infermiere di famiglia e di Comunità (IFeC)

Se il documento Agenas dedica un intero paragrafo all’Infermiere di Famiglia e di Comunità, la bozza regionale del Piano Regionale Servizi Sanitari presentata alle parti sociali e alle istituzioni – che dovrebbe obbligatoriamente rifarsi al documento Agenas “Modelli e standard per lo sviluppo dell’Assistenza Territoriale nel Sistema Sanitario Nazionale”- non lo contempla nemmeno nelle CdC, nonostante una proposta di legge per l’istituzione e inserimento della figura dell’infermiere di famiglia nel servizio depositata dai consiglieri regionali della lega Mele, Piras, Giagoni, Saiu, Ennas , Manca, Canu.

L’introduzione dell’Infermiere di Comunità (IFeC) (DL n. 34/2020, art. 1 c. 5, convertito in L. 17 luglio 2020, n. 77, e le “Linee di Indirizzo Infermiere di Famiglia/Comunità” della Conferenza delle Regioni e delle Provincie Autonome) ha l’obiettivo di rafforzare il sistema assistenziale sul territorio, finalizzato a promuovere una maggiore omogeneità ed accessibilità dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria, favorendo l’integrazione delle diverse figure professionali, compresa l’assistenza infermieristica di comunità. L’IFeC è un professionista che garantendo una presenza continuativa e proattiva nell’area/ambito o comunità di riferimento, assicura l’assistenza infermieristica ai diversi livelli di complessità in collaborazione con tutti i professionisti presenti nella comunità (MMG/PLS, assistente sociale, fisioterapisti, assistenti domiciliari ecc.) perseguendo l’integrazione interdisciplinare, sanitaria e sociale dei servizi e dei professionisti e ponendo al centro la persona.

L’Infermiere di Famiglia e Comunità è il professionista che mantiene il contatto con l’assistito della propria comunità in cui opera e rappresenta la figura professionale di riferimento che assicura l’assistenza infermieristica ai diversi livelli di complessità in collaborazione con tutti i professionisti presenti nella comunità, perseguendo l’integrazione interdisciplinare, sanitaria e sociale dei servizi e dei professionisti e ponendo al centro la persona. L’infermiere di comunità interagisce con tutte le risorse presenti nella comunità formali e informali. L’infermiere di comunità non è solo l’erogatore di cure assistenziali, ma diventa la figura che garantisce la riposta assistenziale all’insorgenza di nuovi bisogni sanitari e sociosanitari espressi e potenziali che insistono in modo latente nella comunità. È un professionista con un forte orientamento alla gestione proattiva della salute. È coinvolto in attività di promozione, prevenzione e gestione partecipativa dei processi di salute individuali, familiari e di comunità all’interno del sistema dell’assistenza sanitaria territoriale.

Standard:

– almeno 1 Infermiere di Famiglia e Comunità ogni 2.000 – 3.000 abitanti.

Ci auguriamo che la “scotomizzazione” iniziale venga rivista con l’inserimento nelle “Linee guida regionali sulle Case della comunità” di prossima emanazione.

Spero di aver fornito ulteriori spunti al dibattito del 18 dicembre sul piano dei servizi territoriali.

Antonello Cuccuru

Il 10 ottobre 2021, è iniziata la consultazione elettorale per il rinnovo dei Consigli comunali di Carbonia, San Giovanni Suergiu, Masainas, Domusnovas, Buggerru, Gonnesa, Narcao, Perdaxius e Villaperuccio.
Si tratta di un fenomeno sociale estremamente complesso, dove entrano in gioco molti elementi, come: le strade, l’illuminazione, il commercio, i parcheggi, la rete idrica e fognaria, lo sport, la Sanità territoriale, le circoscrizioni, etc… Questi sono argomenti semplici che, però, diventano argomenti difficilissimi se cimentati in un sistema complicato e se li associamo alle aspettative della gente, alle speranze, al lavoro, al tempo che passa, al clima, alla pandemia, alla salute in generale, alla riduzione dei servizi locali come la Giustizia, la Scuola, gli Ospedali, per chi crede, all’assistenza religiosa, ai tossicodipendenti, alla distanza dei servizi della città capoluogo di Cagliari, alla lontananza percepita delle istituzioni, allo stato di periferia in Europa, al mare senza governo per la mancanza dell’Area Marina Protetta e al depauperamento della pesca, alla perdita della cultura mineraria, di quella industriale, di quella artigiana, di quella agricola, dell’allevamento, della cultura ospedaliera, dei trasporti su strada ferrata e su nave, alla crisi energetica incombente, all’alto numero di pensionati, alla prevalenza demografica di vecchi sui giovani, al problema dell’influenza del continente africano sulle nostre coste, alla sensazione di instabilità politica nel Mediterraneo e nel quadro internazionale.
Questo è solo l’inizio di una lunga serie di fattori che interferiscono fra di loro, si sommano, si escludono, confliggono, crescono o si annullano, complicando le cose.
Questa elencazione è utile per dare basi alla tesi, scientificamente accertata, che il Sistema del nostro territorio non è semplice, ma estremamente complesso. Per capirlo è necessario l’intervento di altri apporti intellettuali.

Vorrei richiamare l’attenzione sul fatto che questo giornale, fin dal 30 gennaio 2020, quando Vuhan annunciò al mondo l’inizio della pandemia, ebbe una particolare predilezione per i pareri dei Fisici-matematici su quelli dei Virologi. Il perché deriva dalla stessa motivazione che ha indotto la Commissione di Stoccolma ad assegnare il premio Nobel per la Fisica all’italiano Giorgio Parisi. Il professor Parisi ha un merito straordinario: ha dimostrato che è possibile esprimere con una formula i rapporti matematici che regolano i “Sistemi Complessi”. Giorgio Parisi stesso, per spiegare meglio che differenza ci sia far un “sistema semplice” e un “sistema complesso”, ha proposto questo esempio: “Un bicchiere d’acqua è un sistema semplice; esso è formato da un bicchiere di vetro, sempre simile a se stesso, e da acqua; cioè da molecole di H2O tutte uguali fra di loro e immutabili”. Quindi si tratta di una cosa semplice, stabilmente uguale a se stessa. Invece, diventa tutto più complesso se l’acqua è quella che riempie il bacino di uno stagno e si visi lancia una pietra per provocarvi delle onde. Le onde che si espandono circolarmente sono onde di energia che modificano il corpo liquido del laghetto, sia modificando la forma e la posizione del surnatante, sia del corpo acquoso sottostante la superficie, sia modificando il profilo della spiaggia sul litorale con l’arrivo dell’onda e della risacca, sia interferendo sulle correnti del plancton e le rotte dei pesci che se ne nutrono. E questo è solo l’inizio di una serie di cambiamenti per cui il sistema “laghetto” diventa un fenomeno matematicamente instabile con le sue variazioni di forme e di energie distribuite. Si tratta di un cambiamento apparentemente caotico, ma in realtà si tratta di fenomeni rispondenti a formule fisicomatematiche comprensibili e condivisibili. La formula della diffusione del moto ondoso è stata applicata dai Fisici per capire la “Primavera Araba” del 2010-2011. L’espressione venne usata per la prima volta dal giornalista-politologo americano Marc Lynch. La Primavera Araba fu una rivoluzione popolare provocata dalla povertà diffusa, dalla mancanza delle libertà individuali, dalla corruzione, dalla violazione dei diritti umani, etc., e si manifestò con sommosse, marce e cortei in cui avvennero fatti di autolesionismo e immolazione pubblica. Le sommosse iniziarono in Egitto, poi si diffusero in Siria, in Libia, in Tunisia, in Yemen, in Algeria, etc..
La diffusione della rivolta popolare avvenne, se riportata in un grafico, nello stesso modo in cui avviene la diffusione a cerchi concentrici delle onde provocate da un sasso lanciato nello stagno. I Fisici tradussero la diffusione dell’idea rivoluzionaria in un grafico fisico-statistico-matematico, basandosi sulle tracce lasciate nei social Facebook e Twitter. Si vide che i messaggi si diffondevano da uno smartphone all’altro dei rivoluzionari esattamente con gli stessi rapporti matematici trovati nella diffusione concentrica delle onde di un laghetto.
Si può capire l’importanza di questo dato. Infatti, messo nelle mani delle multinazionali che si interessano di pubblicità commerciale sono diventati uno strumento utilissimo per parametrare la diffusione dei messaggi pubblicitari efficace nell’indurre il desiderio all’acquisto e l’incremento delle vendite.
Con la Fisica statistica viene studiata la dinamica della diffusione delle emozioni popolari e di conseguenza il modo di provocarle e governarle. Le ultime elezioni americane, sfociate in una ondata incontenibile di aggressività, culminata nella presa paramilitare di Capitol Hill, sede del Congresso degli Stati Uniti a Washington , è stata una dimostrazione sul campo di come si possa indirizzare il sentimento popolare.
Utilizzando le stesse formule matematiche i Fisici si sono dedicati a tre studi.
1 – la previsione delle pandemie future originabili in ogni angolo del mondo,
2 – La previsione delle Pandemia “X” (quella incontrollabile che distruggerà l’Umanità).
3 – L’evoluzione e mutazioni delle varianti nel corso dell’attuale pandemia.
Che differenza c’è tra i Virologi e i Fisici-Statistici?
– I Virologi, tutto sommato, studiano un sistema abbastanza semplice: il virus, il contagio, le cure.
– I Fisici-statistici studiano l’evoluzione della pandemia e fanno proiezioni sul futuro. Il loro studio è molto più complicato perché si addentra nell’esame di un “Sistema Complesso” multifattoriale (il virus, le comunicazioni, le emozioni, la politica, i trasporti, l’economia. etc).
Fu sulla base di queste motivazioni che questo giornale si dedicò, fin dal 30 gennaio 2020, a riferire i dati provenienti dagli studi dei Fisici-Statistici. Ricordiamo il Fisico anglo-italiano prof Nicola Perra ed il Fisico Anglo-americano professor Alessandro Vespignani, e altri dell’Università di Torino e Zurigo.
I problemi di accettazione delle notizie da parte del pubblico (come si è visto dai movimenti popolari di protesta in questi giorni a Roma e Milano) emergono quando si cerca di descrivere un “Sistema Complesso” come se fosse un “Sistema Semplice”. Questo tentativo riduttivo, non è veritiero, ed offre il fianco alla contestazione. Ci ha dato una grande lezione sul tema dei sistemi complessi e i sistemi semplici è stato il professor Giorgio Parisi, che ha conquistato il Premio Nobel per la Fisica, per aver individuato il metodo di analisi matematica per l’interpretazione dei “Sistemi Complessi” in natura.
Naturalmente, egli ha fatto cose più difficili studiando i sistemi complessi del moto degli atomi e delle Galassie nell’Universo. Iniziò i suoi studi per elaborare i rapporti matematici che regolano gli effetti della collisione fra protoni, neutroni e altre particelle subatomiche quando, scontrandosi ad altissima velocità, per aver cambiato traiettoria, generano alte energie e si frammentano in particelle ancora più piccole. Si era accorto che il volo degli stormi di storni sul cielo di Roma, che si preparano alla migrazione in Africa, assume quegli aspetti sinuosi e rapidamente mutevoli, con spostamenti rapidi, e sincroni che, registrati e misurati, corrispondono a rapporti matematici simili a quelli che governano lo spostamento degli elettroni intorno al nucleo e la deriva delle galassie dal centro dell’Universo.
I “Sistemi Complessi” sono la nuova terra di conquista della Scienza. A questo punto, è chiaro che i “Sistemi Complessi” sono intorno a noi, che noi vi siamo immersi e che la “semplificazione” porta al fallimento della comprensione di tutti i fenomeni in generale.
Semplificare un “Sistema Complesso” è stato l’errore che ha portato alla distruzione della nostra Sanità.
Vi fu una legge formidabile, la 833 del 1978, che si proponeva di realizzare l’utopia di dare assistenza sanitaria a tutti “dalla culla alla tomba”. Come tutti i “sistemi complessi” appariva, a certi economisti del tempo, come una “utopia irrealizzabile” perché i contorni del progetto non erano ben definiti. In realtà il “Sistema Complesso” è un “divenire” di qualcosa che muta continuamente in funzione del tempo , dei cambiamenti sociali, delle variazioni dell’economia e della politica, pertanto, è fortemente instabile. La sua instabilità contrasta con la semplificazione di un contesto costretto a restare uguale a se stesso per sempre.
Chi non capì quale fosse l’essenza della instabilità evolutiva del “Sistema Complesso della Sanità”, la sottopose ad una procedura di semplificazione fino a distruggerla. Credeva che accentrando la Sanità nelle città capoluogo e chiudendo reparti ospedalieri qua e là nel territorio, avrebbe risolto il problema di bilancio e mantenuto le cose come prima. In realtà, togliendo una carta dal “castello di carte” tutto il castello è caduto. Togliendo dai territori di provincia sia la Giustizia che la Sanità, è mancato l’ossigeno proprio a quelle popolazioni che alimentano la ricchezza delle città. Il malcontento dei giovani si è trasformato in bassa natalità e emigrazione, mentre è cresciuto un grosso gap demografico con eccesso di anziani non produttivi. Adesso lo spopolamento e la bassa produttività sono assicurati.
Questo fenomeno politico-economico-sociale è stato descritto pochi giorni fa in un articolo a firma Antonello Cuccuru. All’inizio della sua esposizione egli ha citato una metafora che merita d’essere ripetuta: «I Direttori generali di un’Azienda sanitaria ricevette un invito per un grande Concerto; era in programma l’esecuzione dell’”Incompiuta di Schubert”. Il Direttore generale non poté accettare però, essendo amante della musica classica, regalò l’invito al suo direttore delle “Risorse Umane”, che accettò e vi andò. Il giorno dopo il Direttore Generale chiese al direttore delle risorse umane come fosse andata. Grande fu la sorpresa nel sentire la freddezza da parte del collaboratore che rispose:

Primo: – per un tempo troppo lungo gli oboe non fanno nulla, quindi potrebbero essere eliminati e distribuito il
loro lavoro al resto dell’orchestra -.

 – Secondo: – i dodici violini suonano le medesime note, quindi
l’organico dei violini potrebbe essere ridotto a uno -.

Terzo: – Non serve a nulla che gli ottoni ripetano i
suoni già eseguiti dagli altri -.

E concluse: Se tali passaggi ridondanti fossero eliminati, il concerto potrebbe essere ridotto di un quarto con evidente risparmio di spese e risorse. Se Schubert avesse tenuto conto di tali indicazioni avrebbe terminato la sinfonia prima di morire».

Ecco, la Sanità ad un certo punto è finita nelle mani di “pensatori” che hanno ragionato come il soggetto della metafora, ed è stata distrutta come sarebbe stata distrutta l’orchestra e rovinata la sinfonia di Schubert. Questa metafora si attaglia bene alla Sanità territoriale e ospedaliera di Carbonia e Iglesias.
Si sta ora delineando il parallelismo tra i “Sistemi Complessi”, la Sanità decaduta e le elezioni Comunali di questi giorni. Con la consultazione elettorale si stanno gettando le basi di un “sistema complesso” terribilmente complesso, in cui agiranno fattori, personaggi, popolazioni, sogni, necessità, problematiche dei territori intensamente interagenti fra di loro fino a generare altri sistemi complessi oggi difficilmente prevedibili, instabili e mutevoli. Per capirli sarà necessario seguire il filo d’Arianna dei valori civili e della creatività geniale, e non credere che basti asfaltare le strade o illuminare le città semplificando le esigenze del presente e del futuro.

Il direttore generale di un’azienda riceve un invito per un grande concerto, dove sarà eseguita l’Incompiuta di Schubert. Purtroppo, per un precedente impegno, gli sarà impossibile accettare l’invito. Essendo però un amante della musica classica, non vuole che l’invito vada perduto. Così lo regala al suo direttore dell’organizzazione e delle risorse umane, il quale accetta con entusiasmo, pur essendo poco abituato a quel genere di musica. Il giorno dopo al direttore generale viene spontaneo chiedere come fosse andato il concerto. Grande la sorpresa nel sentire freddezza da parte del collaboratore: «Le invierò una mia relazione appena possibile». Questa, puntuale, arriva il giorno dopo. Il contenuto è, più o meno, questo. «Primo: durante considerevoli periodi di tempo i quattro oboe non fanno nulla, quindi si potrebbe ridurne il numero e distribuire il lavoro sul resto dell’orchestra. Secondo: i dodici violini suonano le medesime note, quindi l’organico dei violinisti dovrebbe essere drasticamente ridotto. Terzo: non serve a nulla che gli ottoni ripetano i suoni che sono già stati eseguiti dagli altri.» E conclude: «Se tali passaggi, ridondanti, fossero eliminati, il concerto potrebbe essere ridotto di un quarto, con evidente risparmio di tempo e risorse. Se Schubert avesse potuto tener conto di tali indicazioni avrebbe terminato la sinfonia prima di morire».

Questa è una delle ventuno storie raccolte e commentate nel volume “Breviario semiserio per manager pensanti”.

Molte volte, anche sul lavoro, o lo stupore ti conduce alla bellezza, o l’analisi te ne allontana. Ogni giorno siamo immersi nella quotidianità del nostro lavoro. Mediamente tutti lavoriamo molto, ma è sempre più raro trovare qualcuno che parla con soddisfazione del suo lavoro o dell’organizzazione in cui lavora. Ognuno di noi si sente un po’ in terra straniera, come il nostro direttore al concerto. E allora leggiamo la realtà che ci circonda con occhiali distorti.

È quanto accaduto alle direzioni delle professioni sanitarie delle 8 Aree Socio Sanitarie Locali della Regione Sardegna, a seguito dell’applicazione dell’Atto Aziendale ATS, che con l’art. 41 istituì il (mai attivato/attribuito) Dipartimento delle professioni sanitarie, articolato nel Servizio delle professioni infermieristiche e ostetriche (n. 3 Strutture Complesse – SC, una per zona: nord, centro, sud) e nel Servizio delle professioni tecnico sanitarie (n. 1 Struttura Complessa – SC, aziendale). Vennero così soppresse 5 Strutture Complesse delle professioni sanitarie e istituite 4 nuove SC, una delle quali mai attribuita.

L’adozione del successivo Regolamento sul Conferimento, la revoca e la graduazione degli incarichi dirigenziali, all’art 4 comma punto 6, precisava che: «In via transitoria e limitatamente in prima applicazione del presente regolamento, al fine di dare piena attuazione al nuovo Atto Aziendale, tenuto conto della profonda variazione che ha subito l’assetto organizzativo ed in base ai principi impartiti dai vigenti contratti di lavoro, L’Azienda, doveva provvedere ad effettuare una apposita selezione interna tra i dirigenti già titolari di struttura complessa al fine di collocarli nella struttura più attinente alle capacità proprie di ciascuno di essi, in base ai principi impartiti dall’art. 31 CCNL 05/12/1996 come integrato dall’art. 17 CCNL 10/04/2004, nel pieno rispetto dei principi di economicità ed efficienza dell’azione amministrativa».

L’ultimo regalo, considerato l’avvicinarsi delle festività natalizie, fu lo straordinario funzionigramma delle tre Strutture Complesse, partorito con la DG n 238 del 12.2.2018 e “cucito addosso” alle professioni sanitarie, senza nessuna precedente interlocuzione con i professionisti del settore e senza nessun riscontro alla proposta di modifica.

Un funzionigramma che prevede, ancora oggi, funzioni di collaborazione con la Direzione del Dipartimento (mai attribuito), la SC Programmazione Sanitaria e Strategica, e le altre Strutture coinvolte, per la definizione della programmazione sanitaria e socio-sanitaria aziendale, in particolare in relazione all’area delle professioni infermieristiche ed ostetriche…omissis.. ma che, al suo interno, non contiene le funzioni del Dipartimento delle professioni sanitarie, al quale le tre Strutture avrebbero dovuto interfacciarsi.

Un funzionigramma indeterminato che ha creato non pochi conflitti con alcuni Commissari di ASSL che rivendicavano la permanenza a tempo pieno del Direttore della SC delle professioni infermieristiche e dell’ostetrica  delle diverse zone (Nord, Centro e Sud) nella propria ASSL e/o richiedevano funzioni di gestione di tutti i 22 profili, non previste però nel funzionigramma.

Per dare compimento a quanto previsto nel Regolamento sul conferimento, la revoca e la graduazione degli incarichi dirigenziali, con Deliberazione n. 183 del 01/03/2019, fu successivamente indetta la Selezione Interna per il conferimento di n. 3 incarichi di Direzione di Struttura Complessa Servizio delle Professioni Infermieristiche e ostetriche – Zona Nord, Centro e Sud.

Solo con successiva Deliberazione n.451 del 16/07/2020, da parte della gestione commissariale ATS, si è proseguito nel cammino di riduzione delle 8 Strutture iniziato da Fulvio Moirano, con l’attivazione di n° 3 Strutture Complesse “Servizio delle Professioni Infermieristiche ed Ostetriche” della Zona Nord, Zona Centro e Zona Sud, afferenti al Dipartimento delle Professioni Sanitarie (a tutt’oggi sempre inesistente).

Tale Delibera nella parte del dispositivo evidenzia che «a decorrere dall’attivazione delle nuove strutture complesse ATS in questione, verranno meno le Strutture Complesse alle quali afferivano in precedenza, presso ciascuna ASSL, le medesime funzioni, ora ricondotte alle nuove»; e…omissis… che, contestualmente al venir meno delle Strutture Complesse sopra indicate verranno meno anche le Strutture Semplici in esse ricomprese, le Strutture Semplici Dipartimentali nonché i Dipartimenti (o incarichi agli stessi assimilati) che ne costituiscono l’aggregazione; – che il venir meno delle Strutture Complesse, delle Strutture Semplici e Semplici Dipartimentali nonché dei Dipartimenti (o incarichi agli stessi assimilati) comporterà, automaticamente e contestualmente, la decadenza dei relativi incarichi di direzione (rimane la parte economica fino alla scadenza del contratto).

Il fallimento gestionale di queste 3 Strutture dovuto all’assenza di un Dipartimento e alla difficoltà/impossibilità di interagire con più direzioni di ASSL in assenza di Staff ben definiti (gli incarichi funzionali sono stati banditi due volte, ma mai espletati), è sotto gli occhi di tutti.

L’organizzazione e gestione delle articolazioni delle 3 Strutture, presso le 8 ASSL e/o le macrostrutture aziendali, per la gestione operativa delle proprie competenze che necessitavano di presidi periferici (eventuali dirigenti / posizioni organizzative / nuclei di unità di personale dedicate, strutture semplici) non è mai stata oggetto di attenzione.

Lo scenario realizzato è quello in cui è incorso il nostro direttore HR davanti all’Incompiuta di Schubert. Al contrario, nelle nostre aziende sanitarie c’è bisogno, soprattutto, di una svolta culturale, che sappia valorizzare il grande capitale “personale” e “sociale”, oltre che economico, che si esprime nel lavoro assistenziale. Competenza, inventiva, senso del proprio dovere, capacità comunicative, organizzative e relazionali sono soltanto alcune espressioni di questo capitale, attraverso le quali conferire nuovamente il giusto valore al lavoro.

Proporre un modello organizzativo basato solo sul versante dei costi porta inevitabilmente al comportamento del direttore del personale della storiella iniziale. Ma davvero, vogliamo far fare questa fine alle professioni sanitarie della Regione Autonoma della Sardegna?

In attesa dell’emanazione delle indicazioni sulla redazione degli atti aziendali da parte dell’Assessorato (che spero coinvolga anche le direzioni delle professioni sanitarie), la governance delle professioni sanitarie deve trovare una pratica applicazione ad ogni livello dell’articolazione organizzativa della filiera professionale, certamente nella massima integrazione con le articolazioni organizzative di altre famiglie professionali, anche attraverso precisi indirizzi governativi alle regioni e alle aziende:

  • a livello della “linea di produzione” – attraverso la rigorosa applicazione delle normative vigenti (in particolare il DM 739/94 e la l.251/2000 (art. 1), per la valorizzazione dell’infermieristica (Disciplina)  e della professione, con un esercizio professionale in linea con i dettati normativi e con le conoscenze e le competenze acquisite nel percorso formativo (CL I liv.);
  • a livello della “linea specialistica” – attraverso lo sviluppo dei Master specialistici (nel rispetto delle normative vigenti, dell’accordo interministeriale MUR/Salute e del vigente CCNL dell’Area del Comparto), per garantire conoscenze e competenze avanzate, per una migliore risposta ai bisogni degli utenti, tenuto conto delle evoluzioni scientifiche, metodologiche e tecnologiche che hanno interessato l’intero sistema sanitario;
  • a livello della “linea di Coordinamento” – attraverso il pieno riconoscimento di una funzione “antica”, nel rispetto dei contenuti della l. 43/2006 e dei contenuti del vigente CCNL, per la garanzia delle funzioni programmatorie, organizzative, direzionali e gestionali delle attività e delle risorse assegnate;
  • a livello della Dirigenza – nel rispetto dei contenuti delle normative vigenti (es. l. 43/2006) e del vigente CCNL dell’Area della Dirigenza Sanitaria.

Le direzioni delle professioni sanitarie non possono ancora far paura ad altre professioni e devono trovare spazio nelle future ASL/AOU, nel rispetto della normativa vigente.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza rilancia una lunga serie di progetti finalizzati alla costruzione di  nuovi modelli organizzativi e di nuovi processi assistenziali ognuno dei quali “reclama” un nuovo ruolo per le professioni sanitarie. Solo per fare qualche esempio:

– la infermieristica di famiglia e di comunità, che modifica i rapporti con la medicina di famiglia e di comunità;

– gli ospedali di comunità con “reparti” a prevalente gestione infermieristica;

– gli ambulatori per la malattie croniche a gestione infermieristica;

– l’introduzione del  case management nella gestione della cronicità che riguarda non solo gli infermieri, ma anche altri professionisti sanitari come i fisioterapisti;

– la Case della Comunità con equipe multidisciplinari;

– la telemedicina con tutte le sue ricadute, a solo titolo di esempio, nell’area della diagnostica per immagini.

Ma anche le linee di tendenza relative alla assistenza ospedaliera che il PNRR non tocca pure prevedono nuovi modelli organizzativi e nuovi ruoli professionali

In un contesto come questo, la presenza di una Direzione delle professioni sanitarie (e non solo delle professioni infermieristiche e della professione dell’ostetrica), con conseguenti Strutture Semplici ospedaliere e territoriali, che si faccia specificamente carico dei cambiamenti culturali ed organizzativi che riguardano la grande maggioranza dei professionisti che operano nel sistema sanitario appare una grande opportunità.

Antonello Cuccuru

Le riflessioni dell’amico Mario Marroccu, sul PNRR e sul ruolo e competenze che gli infermieri dovranno possedere, mi hanno sollecitato questo contributo, che riprende un interessante lavoro pubblicato dalla Redazione della prestigiosa Rivista del pensiero Scientifico “Assistenza Infermieristica e Ricerca”.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) rappresenta un’opportunità imperdibile di investimenti, sviluppo e riforme per affrontare le sfide dei prossimi anni, con pacchetti di misure e interventi complementari tra di loro. Il PNRR è articolato in 16 componenti, raggruppate in 6 missioni:

Missione 1. digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura;

Missione 2. Rivoluzione verde e transizione ecologica;

Missione 3. Infrastrutture per una mobilità sostenibile;

Missione 4. Istruzione e ricerca;

Missione 5. Coesione e inclusione;

Missione 6. Salute.

Le misure previste sono in linea e rafforzano quanto previsto dalla Missione 5: Inclusione e coesione (Componente 2: Infrastrutture sociali, famiglie, comunità e terzo settore). Infatti – come dichiarato nel PNRR – solo attraverso l’integrazione dell’assistenza sanitaria domiciliare con interventi di tipo sociale si potrà realmente raggiungere la piena autonomia e indipendenza della persona anziana/disabile presso la propria abitazione,  riducendo il rischio di ricoveri inappropriati, anche grazie all’introduzione di strumenti di domotica, telemedicina e telemonitoraggio.
Nel testo della Missione 6 si riconoscono le disparità territoriali nell’erogazione dei servizi, in particolare di prevenzione e assistenza sul territorio; la mancata integrazione tra servizi ospedalieri, territoriali e sociali; i tempi di attesa elevati per alcune prestazioni; una scarsa sinergia nella risposta ai rischi ambientali, climatici e sanitari; l’importanza delle competenze digitali, professionali e manageriali e di un maggiore uso dei dati disponibili per poter migliorare la pianificazione sanitaria.
Il piano è indubbiamente un documento di grande respiro: la presenza degli infermieri è tangibile e nodale, soprattutto, nelle parti del Piano che orientano il futuro SSN verso la prossimità e la domiciliarità, aspetti che dovranno obbligatoriamente  prevedere una presa in carico della persona assistita, della famiglia, del reticolo sociale di sostegno e della comunità di riferimento, contestualizzata e personalizzata. Ruolo e spazi saranno figli delle competenze.
Nella Componente 1 della missione 6 (Salute) del PNRR è evidente il ruolo numericamente e qualitativamente significativo assegnato agli infermieri e gli investimenti, anche di notevole entità sulla professione infermieristica facendo riferimento ai progetti relativamente alle case di comunità 2 miliardi, al potenziamento dell’assistenza domiciliare 2.7 miliardi, istituzione di centrali operative territoriali (C.O.T.) finanziate con 280 milioni, 381 ospedali di comunità con un miliardo.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che arriva dopo una serie di decreti nazionali e regionali atti a potenziare l’assistenza sul territorio (Decreto Rilancio del 19 maggio 2020; Piano pandemico influenzale 2021-23 per citarne solo due), rappresenta sicuramente un’opportunità per la professione infermieristica. Infatti, mai si erano visto esplicitare in una norma fabbisogni e relativi finanziamenti per portare, nelle case e sul territorio, professionisti, assistenza di base e specialistica, tecnologia e supporti informatici.
Nello specifico la Missione 6 del PNRR “Realizzare una nuova salute territoriale” si propone di:

– dare risposte integrate socio sanitarie a una domanda di salute costituita da bisogni complessi;
– potenziare l’assistenza domiciliare Integrata (ADI);
– garantire omogeneità di risposte tra regioni;
– potenziare infrastrutture tecnologiche e digitali;
– implementare competenze professionali, sia avanzate che specialistiche, di diversi professionisti sanitari: medici, con particolare riguardo alle cure primarie ma anche infermieri, fisioterapisti, assistenti sanitari e sociali;
– incrementare in termini assoluti il numero di infermieri, passando dall’attuale rapporto di 5,8 infermieri ogni 1.000 abitanti a 8,8 dello standard dell’Unione Europea.
Realizzare quanto previsto nel PNRR si scontra però con alcuni problemi che vanno affrontati nell’immediato: la carenza di infermieri, le competenze da garantire e l’organizzazione dei servizi.
I decreti legislativi che daranno applicazione alla riforma sicuramente daranno alcune risposte: è bene però sin da ora sollevare alcuni problemi e domande per tenere alta l’attenzione su aspetti che dovranno necessariamente trovare una riposta in modo tale che il PNRR diventi effettivamente operativo e non una dichiarazione di principi e una destinazione di fondi a strutture che non saranno poi in grado di operare.
Dove si reperiranno gli infermieri?
Il PNRR disegna un modello che dovrebbe portare a un riequilibrio dei luoghi di cura e dei modi di presa in carico dei bisogni dei cittadini, spostando l’asse degli interventi dall’ospedale al territorio. Per raggiungere questo obiettivo si punta a rafforzare l’assistenza domiciliare (con la presa in carico di almeno il 10% della popolazione ultrasessantacinquenne con problemi di cronicità o dipendenza), l’istituzione di 602 Centrali Operative Territoriali (COT) per il raccordo tra i diversi servizi sanitari e sociali, l’istituzione di 1.288 Case di comunità e 381 Ospedali di comunità. In ciascuno di questi contesti sarà presente la figura dell’infermiere: con competenze cliniche avanzate nell’assistenza domiciliare, con competenze di presa in carico dei problemi della famiglia e della comunità per l’infermiere di famiglia, con competenze cliniche e manageriali per gli infermieri degli ospedali di comunità, che saranno a gestione prevalentemente infermieristica.
È un piano che prevede un notevole incremento numerico che dovrà essere quantificato a breve termine.
Ci sono, però, diversi aspetti problematici, omessi o lasciati sottintesi, da affrontare e risolvere con urgenza.
Per illustrare meglio questi aspetti, ritengo opportuno far riferimento ad alcune considerazioni inviatemi dal Segretario Nazionale dell’Associazione Nazionale Dirigenti Professioni Sanitarie – affiliata COSMED, di cui faccio parte.
“Le Case di Comunità” – (ma non avevamo già le “case della salute”?) – assolutamente condivisibile il principio enunciato “dove il cittadino può trovare una risposta adeguata alle diverse esigenze sanitarie o socio-sanitarie, con la presenza di MMG/PLS/Infermieri … omissis…Ne vengono previste 1.288 (1/50.000 abitanti)!

Da capire:
a. i criteri distributivi, tenuto conto delle variabili “di contesto”, riportate nella tabella seguente ed i possibili accordi inter comunali;

b. i modelli organizzativi ed i sistemi di cura ed assistenza (non è “un’attività in tandem” come sostenuto da alcuni, ma una integrazione inter-professionale, con un impianto organizzativo interamente da ri-costruire, insieme al sistema delle cure primarie). Il fine è quello di implementare le attività di assistenza domiciliare (rif. DL 34/2020) e a favorire la presa in carico sia delle persone a rischio fragilità / disabilità / cronicità (il 3,7% delle persone da 65 a 74 aa e il 7% della popolazione con età > 75 aa – rif. Scaccabarozzi) per un totale  di 745.889 persone su 13.859.090), sia i circa 14 mln di persone, al momento in salute, ricomprese nella fascia di età > 65 aa, per le attività di promozione ed educazione alla salute e agli stili di vita sani, nell’ambito di progetti, percorsi e processi, definiti e condivisi con i MMG/PLS). Sta qui la differenza tra “prendersi cura” e “prendersi in carico”;
c. le necessità di risorse assistenziali (9.600 infermieri di comunità e famiglia, che vanno ad aggiungersi ai 10.500 infermieri necessari per l’implementazione dei pl di TI ed ai circa 3.100 infermieri necessari per la riqualificazione dei pl di SI, per un totale di oltre 23.000 infermieri – rif. DL 34/2020);
d. l’ipotesi di 96.088 infermieri disponibili dal 2027 rimane solo una ipotesi (il dato non è corretto in quanto il totale dei laureati non può scaturire dalla sommatoria dei posti messi a bando fino all’abilitazione del 2027, in quanto ci sono gli abbandoni, i fuori corso, etc.);
e. la stima di 26.018 infermieri pensionandi nel periodo 2020/2026 – I valori stimati presumibilmente sono in difetto, tenuto conto anche del fatto che il pensionamento non avviene all’età di 67 anni, come riportato, bensì ad una età più bassa di circa 4 anni; inoltre al 1 gennaio 2018 risultano n. 18.617 infermieri ricompresi nella fascia di servizio da 35 a 40 anni (i 2/3 – circa 13.000 già in quiescenza) e 65.000 ricompresi nella fascia di servizio da 26 a 35 anni (per una stima di circa 35.000 infermieri in quiescenza nel periodo 2020/2026 – fonte: min Salute);
f. a titolo conoscitivo (e per le necessarie comparazioni) nel periodo 2014-2018 sono usciti per pensionamento (SSN) 37.744 infermieri e ne sono stati assunti 37.731 (fonte MEF);
g. i neo-laureati (circa 50.000 nel periodo 2014-2018) hanno garantito il turnover e la copertura dei posti nelle strutture private (ospedaliere e residenziali);
h. potrebbe risultare utile conoscere i dati precisi relativamente alle assunzioni collegate al DL 34/2020 (TI/SI/Infermiere di comunità) e alle relative destinazioni, con la forte possibilità di riscontrare un utilizzo privilegiato per parziali compensazioni delle carenze di organici accumulate negli anni;
i. prima ancora è necessario definire le reali necessità criteri e standard per la determinazione delle dotazioni organiche (ospedali / territorio / residenzialità) e per la strutturazione degli staffing assistenziali, tenuto conto dei nuovi bisogni della popolazione e delle nuove esigenze di funzionamento delle strutture;
j. servono dati certi e non “ipotesi” ed è necessario affrontare la questione in maniera completa, evitando gli errori del passato (mettere “toppe” non serve a nulla … e spesso è maggiormente oneroso!), tenendo ben presente che ad un sistema assistenziale carente corrisponde sempre un grosso rischio per i pazienti.
Bozzi M. Il Pnrr va sostenuto, ma servono dati certi e rigore metodologico. Quotidiano Sanità 13 giugno 2021http://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=95678
Oltre tali considerazioni, bisognerà, ulteriormente, chiarire se l’importante incremento numerico di infermieri sarà “sottratto” alla compensazione del turn over del personale ospedaliero che andrà in pensione. Difficile pensare che al momento questa sia una decisione realistica, perché gli ospedali sono già in sofferenza di personale. Bisognerebbe, perciò, riprogrammare l’offerta formativa dei prossimi anni, tenendo ben presente che l’eventuale sforzo per l’aumento di questi numeri richiede congrui investimenti economici per aumentare le risorse umane (docenti, tutor, ecc.) e strutturali anche nelle sedi formative
universitarie e delle Aziende sedi di corso.
Sul versante delle risorse non vengono formulati parametri di riferimento. Non ci sono numeri ma un generico impegno “è stato previsto un incremento strutturale delle dotazioni di personale”. Un già sentito che non rinforza quanto al contrario è descritto in altre parti della Missione 6.

Continuare a proporre uno sviluppo formativo, tra l’altro necessario e condivisibile, senza però essere recepito dal mondo del lavoro attraverso un adeguato sviluppo di carriera e una remunerazione più consona causerebbe una ulteriore frattura all’interno della professione. Nei progetti che dovrebbero riorganizzare il nostro SSN non vi è traccia di tutto ciò.
L’analisi e le proposte inerenti la gestione della attuale scarsità di infermieri presenti sul mercato sono carenti nel PNRR: senza infermieri diventa impossibile non solo mantenere lo status quo ma anche avviare eventuali progetti innovativi. L’attuale carenza di infermieri resterà cronica se non si consentirà:
– un superamento del vincolo di esclusività dei dipendenti pubblici, resi finalmente liberi di portare la propria esperienza e competenza in quei settori dell’assistenza (domiciliare e residenziale) che maggiormente ne beneficerebbero. Si possono valutare possibili proposte quali collaborazioni con infermieri Libero Professionisti (esempio: infermieri di famiglia comunità contrattualizzati al pari dei MMG/PDLS e altri rapporti di lavoro in consulenza).
– un incremento delle retribuzioni, sia in termini assoluti che per il riconoscimento di responsabilità e competenze messe in campo. Oggi esistono sperequazioni che non valorizzano professionalità e retribuzioni.
Lo sblocco delle assunzioni nella pubblica amministrazione, per esempio, ha comportato una grave “emorragia” di infermieri che si sono dirottati verso Ospedali pubblici, sguarnendo le RSA e il territorio, laddove gestito tramite Cooperative. Le RSA sono in grave sofferenza per la carenza di infermieri e di conseguenza, gli standard assistenziali rischiano di non essere garantiti.
Gli investimenti proposti nel PNRR permettono alla stampa di titolare che verranno fatti maggiori investimenti sugli infermieri, dimenticando che tali provvedimenti sono necessari per la maggioranza dei casi per la carenza attuale e non tanto per un miglioramento qualitativo dei processi di cura.
Quale formazione e per quale infermiere
Leggendo orizzontalmente le Azioni 4, 5 e 6 si delinea uno scenario affascinante ma nel contempo altrettanto ricco di insidie. Quando nell’Azione 4 si parla di “ecosistemi dell’Innovazione (…) luoghi di contaminazione e collaborazione tra università, centri di ricerca, società e istituzioni local” e nell’Azione 5 si declina la Coesione e l’Inclusione affrontando “la qualità dell’abitare”, “la prevenzione dell’istituzionalizzazione degli anziano  autosufficienti”, “strategie per le aree interne” e i “servizi sanitari di prossimità”;, si viene a creare un processo che sfocia fisiologicamente nelle articolazioni dell’Azione 6 quali “casa come primo luogo di cura, assistenza domiciliare e telemedicina” e ancora nello “sviluppo delle cure intermedie”.
Per dare gambe alla professione perché sappia garantire un supporto consapevole e competente a quanto previsto dal PNRR si dovranno, sin da ora, rivedere i piani di studio, a partire dalla laurea triennale.
Colpisce in maniera preoccupante che non siano richiesti obbligatoriamente per i ruoli previsti requisiti di competenze specifiche avanzate e non siano previsti investimenti di formazione per gli infermieri domiciliari, di famiglia e di comunità e degli ospedali di comunità. Ancora più evidente risulta questa lacuna leggendo che, nella componente 2 della Missione Salute, è invece previsto (giustamente) il potenziamento delle borse di studio in medicina generale ma non avviene altrettanto per altri professionisti, limitando l’impegno alla realizzazione di percorsi di formazione su specifiche tematiche: un programma di corsi di formazione sulle infezioni ospedaliere (è ormai tanto tempo che il nome è stato modificato in Infezioni Correlate all’Assistenza (ICA), una formazione per figure manageriali per lo sviluppo della digitalizzazione del servizio sanitario.

Sembra trasparire la convinzione che un infermiere, con la sola formazione triennale, possa andare a ricoprire sul territorio ruoli di responsabilità clinica, assistenziale e manageriale, sia nell’assistenza diretta, sia nella prevenzione delle malattie, sia nella promozione della salute. L’Osservatorio nazionale delle professioni sanitarie istituito presso il Ministero dell’Università ha già dato indicazioni sulla necessità di formazione di competenze avanzate con master specialistici anche nelle realtà territoriali, come, peraltro, era già previsto dal profilo professionale del 1994.
È necessario modificare un approccio che rispecchia una cultura organizzativa risalente agli anni Settanta del Novecento, quello di un infermiere polivalente “adatto” (nel senso di adattabile) a qualunque contesto clinico assistenziale con la sola formazione di base. Approccio che poteva andare bene in un contesto di “responsabilità limitata” in quanto professionista sanitario ausiliario che doveva applicare correttamente in maniera intelligente le prescrizioni di altri professionisti. Oggi non solo è cambiata la normativa che assegna all’infermiere (e altri professionisti) una completa responsabilità nel proprio campo di azione professionale, ma sono cambiate soprattutto la natura e la complessità dei problemi e dei bisogni dei cittadini che rendono necessaria una formazione avanzata che renda possibile un’assunzione di responsabilità decisionale.
Naturalmente questo è un problema che riguarda tutti gli ambiti in cui l’infermiere svolge la propria professione, ma la riorganizzazione della sanità in senso territoriale pensata in generale nel PNRR può essere l’occasione per iniziare questa trasformazione. Senza la quale il raggiungimento degli obiettivi della prima parte della Missione 6 è destinato a fallire.
Il ruolo della tecnologia
Gli investimenti sono per lo più assegnati a riorganizzazioni che affidano alla tecnologia il governo dell’assistenza. Se da una parte la digitalizzazione e la teleassistenza sono elementi fondamentali, la reale presa in carico sembra sfumata in elementi tecnico-gestionali e non di centralità dei bisogni delle persone.
Anche se, chiaramente, è il bisogno di salute che anima l’erogazione dei servizi. Una fetta degli investimenti veramente importante è dedicata alle tecnologie e alla informatizzazione: sarebbe stato auspicabile investire su di essi ma a fattori inversi. Il fattore professionale legato alle competenze alle abilità e alle capacità relazionali rappresenta il motore trainante di tutto il processo di cura. Da sempre è noto che non sono le strutture né tantomeno le tecnologie e fare la differenza ma piuttosto i professionisti e le loro abilità professionali e la capacità di leadership dei team hanno sempre consentito all’organizzazione  di essere resilienti ed efficaci. Evidentemente le numerose prove offerte dai nostri professionisti durante questa pandemia non sono state sufficienti per convincere ad investire su queste dimensioni in modo più rilevante. È più semplice investire sulle tecnologie ma esse sono solo un mezzo non di certo un fine capace di garantire cure efficaci alla nostra comunità.
Pur consapevoli che l’alleanza con la telemedicina sia irrinunciabile, per evitare il venirsi a creare di nuove marginalità, in questo caso digitali, oltre alla ineludibile implementazione strutturale della connettività, servirà un intervento di affiancamento e di sostegno capace di evitare la spersonalizzazione della presa in carico.
Organizzazione dei servizi
Un altro degli aspetti da esplicitare è legato al tipo di organizzazione ed ai rapporti tra i servizi. Mancano il modello organizzativo e la governance dei processi. I progetti sembrano più una necessità formale da diffondere su tutto il territorio nazionale come strutture di frontiera, come prova della loro esistenza e non tanto della loro efficacia. L’analisi quantitativa del numero di infermieri da assegnare sembrerebbe far intendere questo e non altro. Dovrebbe esserci una maggiore consapevolezza dell’esiguità dell’incremento del numero x rispetto all’effettiva necessità ed ai criteri di dimensionamento degli operatori e alla necessità di pianificare i servizi in base agli esiti da raggiungere e non per prestazioni. Nei progetti di assistenza domiciliare si possono leggere indicatori di questo tipo: almeno una visita al mese fino ad un massimo di 15 giorni al mese nel caso di cure palliative. Non si trovano indicazioni di presa in carico e personalizzazione delle cure in base alla complessità assistenziale al nucleo familiare. Ancora, gli ospedali di comunità sono proposti con dotazione di organici infermieristici verosimilmente con rapporti pazienti/infermieri che al massimo potranno soddisfare il 10/1, in assenza di una riflessione sui modelli organizzativi, sulle competenze degli OSS (Operatori Socio Sanitari).
In un percorso di cambiamento, è fondamentale un ruolo forte di coordinamento centrale, per evitare la frammentazione dei servizi socio sanitari alla persona sul territorio: va strutturata una chiara cabina di regia che riconosca ruoli e processi che la garantiranno, altrimenti il grosso timore è che l’attuale strategia di progetto lasci autonomie operative regionali che se non ben governate porteranno ad ampliare ulteriormente la frammentazione dei servizi perdendo l’occasione, con le cure infermieristiche, di identificare questo ruolo come collettore dei bisogni di salute del singolo e della comunità. Nelle Regioni esiste troppa difformità in proposito e questo rappresenta un rischio anche per la gestione dei finanziamenti da destinare all’implementazione dei nuovi servizi.
Nei progetti si fa cenno a ruoli di coordinamento non ben definiti, mai a quelli di direzione in un contesto, quale quello sanitario, dove negli ultimi anni l’azione del management è stata indicata come indispensabile e strategica, vero e proprio volano di armonizzazione dei processi di cura che deve essere resa sempre più indipendente dalla politica. In questo ambito non una riga che indichi coinvolgimento progettuale, strategico e gestionale.
Sono poco chiari i rapporti con le ASL/ATS e con i distretti, che vengono nominati solo come sede di attuazione per 602 COT, strutture peraltro già presenti sotto altro nome, e affidate di fatto agli infermieri.

Poco chiaro anche il rapporto delle Case della Comunità con gli infermieri delle cure domiciliari dei distretti. Non si nomina il ruolo specialistico degli infermieri di famiglia e di comunità (infermieri di comunità nel Piano), che non possono essere assimilati agli infermieri con formazione di base attivi attualmente sul territorio. Gli studi  elaborati dall’OCSE e dall’OMS si basano sui Nurse Practitioner (NP), equivalente di una laurea magistrale clinica da noi non ancora presente. I NP hanno competenze e stipendi molto superiori rispetto agli infermieri con formazione di base.
Il PNRR assimila le due figure utilizzando il lavoro di divulgazione del ruolo portato avanti negli ultimi dieci anni dalla Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche (FNOPI) e dall’Associazione Infermieri di Famiglia e di Comunità (AIFeC), senza riconoscere la funzione specialistica. In Italia inoltre, il riconoscimento delle specializzazioni si è interrotto nel 2008, ostaggio di rivendicazioni e posizioni regionali che giocano al ribasso sul ruolo infermieristico.
La collaborazione e il coordinamento tra gli infermieri di famiglia e di comunità previsti nelle case di comunità e gli infermieri delle cure domiciliari è un aspetto fondamentale per dare vita alle parole del PNRR e del Piano Nazionale di Prevenzione 2020-25.
Orientamento verso il pubblico o il privato
Un’ultima (non perché sia meno importante, anzi) nota di preoccupazione è la mancata chiarezza sul contesto nel quale si collocano gli investimenti delle strutture di prossimità sul territorio: se in una cornice pubblica o privata. Il PNRR non fa una scelta esplicita (il DM che definisce l’orientamento dovrebbe essere approvato entro il 31 ottobre 2021). I possibili scenari sono 2:
a. Mettere al centro il distretto, che governa sia le strutture ed i professionisti sanitari (magari anche i medici di medicina generale?) e sociali. Un governo pubblico, con personale dipendente, consente stabilità delle equipe, uniformità di contratti, investimenti sulla formazione, l’integrazione tra le diverse professioni e figure ed una regia dei servizi basata su una programmazione locale a partire dai dati che saranno resi disponibili dagli investimenti nelle strutture informatiche e nelle banche dati.
b. Continuare a lavorare con una logica prestazionale, che ha caratterizzato sino ad ora i nostri servizi territoriali, con scarso controllo del pubblico (basti pensare a quanto accaduto nelle RSA durante la pandemia). Quanto dichiarato nel PNRR non fa ben sperare “l’investimento mira ad aumentare il volume delle prestazioni rese in assistenza domiciliare” e non è chiaro il ruolo delle “602 Centrali Operative Territoriali (COT), una in ogni distretto, con la funzione di coordinare i servizi domiciliari con gli altri servizi sanitari”, che si sovrappongono ad una funzione che dovrebbe svolgere un distretto con ruolo centrale sul governo dei servizi.
Il PNRR è un documento tecnico di programmazione di ripartizione di fondi presi in prestito dalle generazioni future. I meccanismi di valutazione che propone non considerano il miglioramento della qualità di vita delle persone. ma mettono in campo gli strumenti affinché questo avvenga.
Si ribadisce la necessità che gli infermieri (al pari delle altre professioni, ma tenendo soprattutto conto del ruolo fondamentale che ricoprono per garantire continuità delle cure e presa in carico delle popolazioni) siedano ai tavoli Regionali dove vengono prese le decisioni, per portare l’esperienza concreta, i possibili problemi, le proposte.

Bibliografia
1. Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). https://www.governo.it/sites/governo.it/files/PNRR_0.pdf
2. FNOPI. Gli infermieri promuovono il Recovery Plan: protagonisti del cambiamento e dei nuovi modelli, 5 maggio 2021. https://www.fnopi.it/2021/05/05/fnopi-recovery-promosso/
3. Anessi Pessina E, Cicchetti A, Spadonaro F, Polistena B, D.Angela P, Masella C, et al. Proposte per l’attuazione del PNRR in sanità: governance, riparto, fattori abilitanti e linee realizzative delle missioni. https://www.panoramasanita.it/wp-content/ uploads/2021/05/Proposte-attuazione-PNRR.pdf
4. Bozzi M. Il Pnrr va sostenuto, ma servono dati certi e rigore metodologico. Quotidiano Sanità 13 giugno 2021http://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=95678
5. A cura della Redazione. Assist. Inf. Ric. 2021; 40 92-100

Antonello Cuccuru

All’età di 59 anni, dopo una lunga malattia ci ha lasciato Carlo Aste, infermiere coordinatore abilitato a funzioni direttive del PO CTO di Iglesias.
Il carico di dolente nostalgia che ogni addio porta con sé, può suscitare in noi lo sconforto per la mancanza della presenza fisica di una persona che si può superare alzando gli occhi al cielo e ringraziando il Signore per averlo conosciuto, certi che continuerà ad abitare con noi nei frammenti dei tanti ricordi che affiorano alla mente, difficili da catalogare.
Ho condiviso con Carlo esperienze significative, ai tempi dell’Agenzia Infermieristica, quando nel 1997 si mise in gioco nella sperimentazione della teoria del self care – autocura – dell’infermiera statunitense Dorothea Orem nell’Assistenza infermieristica domiciliare nel Distretto di Carbonia. Un modello rivoluzionario per quegli anni, che vedeva l’infermiere promuovere il cambiamento e agire nel momento in cui l’assistito non era in grado di gestirsi.
Con Carlo, inoltre, abbiamo collaborato nella gestione e direzione delle prime corse regionali di operatori socio sanitari della ex ASL 7 e delle Agenzie formative accreditate.
Ma l’esperienza più significativa è stata la sperimentazione dell’ambulatorio di Pronto soccorso dei codici minori al CTO con adozione del percorso veloce Fast track. Un modello di risposta assistenziale alle urgenze minori che si presentavano in pronto soccorso e che si applicava a quei pazienti che presentavano segni/sintomi/dati anamnestici con chiara pertinenza mono-specialistica allo scopo di: – Permettere al pronto soccorso del PO Santa Barbara di svolgere l’attività propria, occupandosi dei pazienti con patologie maggiori; – Snellire l’attività di pronto soccorso; – Diminuire le attese per questi pazienti; – Diminuire il conflitto tra paziente e infermiere di triage determinato dall’attesa; – Aumentare le competenze infermieristiche favorendo l’autonomia professionale. Un percorso condiviso con l’Oculistica e l’ORL.
Figlio di infermiere, Carlo è stato consigliere IPASVI della provincia di Cagliari e ha coordinato Il Pronto soccorso del PO Santa Barbara, del CTO e ultimamente l’UO di Oculistica sempre del CTO.
In definitiva, mi sento di ricordare Carlo come un “compagno di strada” che è riuscito a condividere importanti momenti di sviluppo professionale.
Antonello Cuccuru

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Con l’approvazione definitiva della Riforma sanitaria, il territorio e i cittadini del Sulcis Iglesiente riconquistano la ASL autonoma e cessano di essere segmento marginale in ATS.

La riforma arriva però a compimento con un ruolino di marcia a rilento rispetto ai tempi previsti, pur condizionati dalla fase pandemica.

Nel frattempo, e avendo comunque tutti contezza dell’innovativo assetto politico, gestionale e organizzativo in divenire nella sanità regionale, abbiamo assistito a determine aziendali ATS legittime ma non di meno inopportune, e che stanno replicando ricadute importanti anche in ASSL Carbonia.

Dal 16 di luglio us e dopo una dozzina di anni vincitore di concorso, ha infatti cessato di essere Direttore dell’SPS ATS/ASSL Carbonia il dirigente dr. Antonello Cuccuru, assegnato dal 1 di settembre alla ATS/ASSL di Nuoro.

Esattamente lo stesso 1 settembre, ATS/ASSL Nuoro e ATS/ASSL Carbonia hanno cessato la loro ragione giuridica e diventano ASL Nuoro 3 e ASL Sulcis 7, con tutto ciò che ne consegue e che se ne può intuire.

Riferito alla tempistica e non alla sostanza e alla forma, non possiamo non domandarci a che pro una delibera aziendale ad un passo dall’ufficiale Riforma sanitaria 2020, che stravolge assetti gestionali e di responsabilità apicale che non avranno senso di esistere.

Per anticipare possibili deduzioni strumentali, la questione alla sua attenzione non verte intorno alla doglianza per il Direttore assegnato ad altra sede, ma per essere venute meno tutta una serie di considerazioni gestionali che con l’approvazione della reintroduzione delle otto ASL non si potevano non compiere.

E’ svilita la considerazione della centralità del Servizio Professioni Sanitarie in ASSL Carbonia, e con essa l’ago della bilancia organizzativa e assistenziale rappresentata da coordinatori, infermieri, infermiere pediatriche, che dal 16 luglio us sono privi di punti di riferimento effettivi e non virtuali, ostaggio del rimbalzo e degli esiti delle responsabilità e delle annose e persistenti criticità del sistema salute ad iniziare dalla carenza delle dotazioni organiche per arrivare alle qualità delle prestazioni attese rispetto a quelle rese, senza disconoscere l’enorme questione aperta in ordine al volume e alla tipologia delle “competenze” pretese e alla correlazione di un esercizio professionale border line quando la pianificazione di “che servizio garantire all’utenza dove e con quali professionisti sanitari”, latita perché il cerino acceso è sempre nelle mani del prossimo.

Un vulnus che ultime determine in ATS Sardegna non contribuiranno certo a risolvere e che per certi versi è perfino ipotizzabile che possa elevarsi.

Rendere di fatto assorbita una Direzione SPS nell’area metropolitana cagliaritana è in controtendenza rispetto alla legge di Riforma sanitaria appena approvata, ma questa era e/o doveva essere notorio.

Nei pochissimi giorni tra il momento del passaggio di un sistema sanitario ad un altro, come si sarebbe potuto realizzare il forte legame con i professionisti sanitari infermieri, con il territorio, nei servizi e nelle unità operative, nei tre Presidi Ospedalieri e nei Distretti e come poter contribuire al miglioramento delle dotazioni organiche e alla garanzia di risposte dirigenziali importanti e adeguate, probabilmente resterà un quesito senza risposta.

Attendere da parte di ATS Sardegna le scelte del decisore politico di cui al 1 settembre 2020, sarebbe stata un’assunzione di responsabilità commisurata al contesto e apprezzata.

Si è scelto legittimamente di avviare un effetto domino che, superate le ultimissime schermaglie, era prevedibile venisse interrotto alla prima votazione utile in aula consiliare regionale sarda.

Graziano Lebiu

Presidente OPI Carbonia Iglesias