26 March, 2025
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1 I poligoni
Il recente libro di Aide Esu (2024) conduce fin dentro certi spazi isolani ignoti e ignorati. Porta la nostra attenzione lontano dall’iconografia turistica: dalle affollate spiagge delle élite da rotocalchi e dai più remoti luoghi boschivi o incontaminati, fotografati spesso per nobilitarli propagandisticamente come “selvaggi”. Tali luoghi sono definiti trasferendo impropriamente la natura selvatica in un ambito umano, un ambito idealmente ancora non toccato dalla civiltà e fortemente inferiorizzato nei durevoli approcci evoluzionistici che alimentarono vari razzismi fin dalla seconda metà dell’Ottocento. Pubblicato nel 2024 dalla casa editrice Ombre Corte nella sezione culture è abbondantemente documentato e sobriamente scritto. È avvincente fin dalla copertina che espone a tutta pagina la foto della recinzione di un sito militare.
Prima di leggere il titolo del libro, si scorge un cartello giallo. Nella prima riga si legge zona militare e si offre a grandi caratteri una toponomastica qualificativa della militarizzazione: divieto di accesso. La seconda riga, esplicita una prescrizione interdittiva e una preclusione all’accesso. Sorveglianza armata, la scritta finale, annuncia infine controlli rischiosi a cui si espongono le persone inosservanti dei divieti. La rete che sostiene visivamente il cartello dice ancor meglio degli enunciati, infine, i poteri e le interdizioni in campo. Il titolo rende conto del contenuto del testo: Violare gli spazi. Militarizzazione in tempo di pace e resistenza locale.
Richiama il violare e le violenze in tempo di pace. Indica immediatamente il carattere violento del fenomeno e del processo di militarizzazione localizzato nell’Isola.
L’autrice è una sociologa di ampia formazione, aperta ai dialoghi interdisciplinari e transdisciplinari, come indicano anche i suoi temi e i suoi casi di studio. Offre nel suo resoconto di ricerca un quadro globale delle esperienze di militarizzazione portate avanti dalle geopolitiche occidentali. Con la sua sociologia particolarmente attenta ai dati qualitativi, “qualitativista”, e che si avvale per questa indagine di precise ricerche etnografiche sul campo durate otto anni, è assai vicina a certi orientamenti etno-antropologici non solo metodologicamente, come vedremo scorrendo il suo scritto. La studiosa sceglie di indagare la socialità non solo nei conflitti in sé, ma specialmente negli spazi conflittuali, come ha fatto e continua a fare per il conflitto israeliano-palestinese. In questa sua ricerca va a monte delle guerre, entrando in luoghi specifici, istituiti per apprendere a esercitare la forza nei conflitti armati. Con la scelta di indagare i modi di spazializzare le basi delle esercitazioni militari la studiosa muove un’espansione della sua iniziale postura teorica, primariamente orientata soprattutto verso i protagonisti dei conflitti. Il dar luogo alle guerre e alle distruzioni armate simulate nelle esercitazioni dà luogo in vari casi a distruttive esperienze umane, individuali e di gruppo. In generale, esercitarsi alla guerra creando luoghi specifici di addestramento bellico si situa realisticamente in un preciso paradigma di relazioni di forza armata, piuttosto che di pacifiche relazioni diplomatiche volte a risolvere controversie. In più, il tema delle violenze tematizza e problematizza il fenomeno della produzione dei luoghi che, espropriati alle attività produttive con dichiarate assicurazioni vitali, assumendo un’esclusiva dimensione transnazionale e innovativa delle tecniche di guerra diventati militari con dichiarati obiettivi di sicurezze vitali e mutati invece in luoghi di rischi mortiferi con false promesse securitarie.
Il libro ci parla di luoghi della Sardegna espropriati per fini militari da più di mezzo secolo, contrastati e rivendicati per essere rigenerati e trasformati in nuovi luoghi da riabitare, da far ri-vivere e da ri-vivere in modi gestiti e controllati pacificamente e democraticamente. Su tali luoghi Aide Esu indirizza uno sguardo misurato dalla consapevolezza, esplicitata nell’introdurre il proprio discorso, che si tratta di conciliare le esigenze di uno stato democratico di organizzare un suo apparato di difesa e il mancato riconoscimento dei diritti dei residenti sui cui gravano le pertinenze militari. Il suo sguardo misurato apre sobriamente la questione democratica del riconoscimento e del rispetto dovuto alle autorità pubbliche e, congiuntamente, al riconoscimento e al rispetto che le autorità devono ai cittadini. Il libro non offre risposte, ma solleva una questione di fondamentale rilevanza. L’ultima parte del testo dà voce a residenti che non hanno avuto interlocutori con cui dialogare.
Di questo scritto tenterò una non facile sinossi, mirando a privilegiare secondo i casi alcune questioni connesse a linee di riflessione socio-antropologica. L’incipit del testo scelto è assai originale.
Sembra il brano di un’intervista, una tranche de vie o un racconto di vita di certi antropologi, sociologi, storici, i quali con preciso orientamento scientifico utilizzarono racconti di particolari esperienze vissute o di intere storie di vita come fonti utili, al pari e insieme a quelle archivistiche, per delineare epocali forme di vita localizzate, sviluppando teorie e metodi analitici in un vivace trentennio di ricerche (J. Poirier et alii 1983, M. Halbawachs 1987, E. Tonkin 1992, M. Pistacchi curatore et alii 2010, P. Clemente 2013). In realtà, nel libro di cui parlo è riportata una parte della deposizione, resa il 26 luglio del 2017 da una donna di 72 anni, Eligia Agus, al processo contro gli otto comandanti al Poligono Interforze del Salto di Quirra (PISQ).
Aveva vissuto 42 anni a Quirra. Due suoi figli erano morti di tumore, un terzo era stato operato per un tumore e lei stessa era stata operata per un tumore alla tiroide. Fin dall’incipit il problema della biografia di sofferenza, anche nelle pieghe delle plurali dimensioni familiari e comunitarie, diventa subito centrale e dirompente nell’accompagnare il filo narrativo ufficiale delle militarizzazioni. La testimonianza pone per sé il problema di un doppio riconoscimento dovuto alla persona: non solo di quanto e quale è da malata, ma di quanto e quale aveva diritto di essere in salute, come in un doppio registro dell’essere, dell’ontologia.
Il discorso personale e sconosciuto di questa donna diventa pubblico e noto nel processo, prima che nel libro. Appare come discorso di un’esperienza dolorosa cumulata in una serie di molteplici eventi vissuti e patiti, anche luttuosi, che fanno parte di sé e delle attività militari in tempo di pace incorporate dannosamente. Palesa in un duplice registro la valenza di un personale modo di essere, proprio di una persona diventata mutilata anche negli affetti e mutata nel proprio corpo, fatto malsano. Svela anche un possibile modo di essere al mondo, individuale e potenzialmente collettivo, tragicamente spazializzato e temporalizzato: modo di «esserci» diventando prossimi e destinati alla morte nello spazio-tempo militarizzato di Quirra. Scopre un modo e un mondo, non detto fino ad allora pubblicamente, in cui per certe persone sembra dominare la spazialità dell’esserci quasi come essere lì a rischio di morte, confermando una loro negativa condizione di vita subita. Si tratta di una condizione mortale incombente che Martin Heidegger nel 1927 aveva filosoficamente teorizzato come specifica dimensione umana esistenziale, alla quale la militarizzata modernità rischiosa sembrava dare una propria effettività e consistenza, storicamente situata e determinante a Quirra e nei singoli contesti identificati. I luoghi malsani e mortiferi di Quirra erano identificati nella loro verità nascosta, nell’immediato della scena processuale, a partire dai corpi dei morti e dei malati nominati da questa donna, dalla sua presenza e dal suo discorso di verità.
L’esperienza del nocivo materialmente incorporato in questa donna, che aveva patito e pativa anche quella dei suoi familiari deceduti e sopravvissuti, diventava discorso pubblico. Era sostenuto da immateriali saperi e valori di vita che davano concretezza di nocività sia allo spazio da lei abitato nella convivenza con il poligono, sia al poligono stesso come matrice localizzante lo spazio nocivo, negato nei discorsi istituzionali.
La militarizzazione documentata e analizzata dall’autrice, come fin qui detto, affronta varie questioni lasciate ai margini di vari discorsi istituzionali e si cala nelle profonde reti di relazioni celate, congiungendo altri fondamentali piani d’indagine: per esempio, quelli dei modi di produzione dei rischi negli spazi militari, storicamente socializzati in modo ineguale e ineguagliante in tali esperienze. La postura democratica della studiosa risulta esplicita quando afferma che «non possiamo abdicare alla logica delle forze distruttive» incoraggiando a non lasciarsi chiudere in un contesto e a connettere i diritti alla giustizia, superandone le disgiunzioni.

I primi tre capitoli del libro offrono una lettura critica delle militarizzazioni in Sardegna, evidenziandone i profili politico-istituzionali, sociali e ambientali. Il quarto riguarda le azioni e le rivendicazioni sostenute dai movimenti di resistenza alle militarizzazioni realizzate.
Aide Esu affronta fin dall’inizio il problema della militarizzazione e della costruzione del consenso che gli impatti sociali e politici, vitali e ambientali, rifocalizzati dalle scienze sociali attraverso temi quali forme di dominio e limitazioni di sovranità, risultano accomunare varie esperienze nella estesa rete delle basi militari dislocate nei due emisferi, palesando una dimensione globale. Con riferimenti alla letteratura internazionale, sotto il profilo geopolitico sono sottolineate le importanti funzioni che le basi hanno svolto nel rafforzamento delle reti interstatali, nella creazione di una efficiente logistica globale, nel contrasto al terrorismo. Nel versante dei governi locali, dei cittadini e degli attivisti, le basi risultano generatrici di privazioni della sovranità territoriale, di inquinamenti, di rumori e molto altro.
Le relazioni di potere interstatali non erano paritarie. I dispositivi negoziali di subordinazione erano lungamente secretati, come l’accordo italo-americano che risale a un’intensa attività diplomatica bilaterale degli anni 1949-1954. La segretezza di questo negoziato, ancora oggi vincolato, non contemplava l’approvazione parlamentare. Emerge un paradosso tutto italiano. A differenza di altri Paesi dell’area mediterranea, l’Italia non ha mai rinegoziato gli accordi siglati durante la Guerra Fredda o ridotto il numero delle truppe presenti. Anzi, queste sono raddoppiate in cinquant’anni. Inoltre, nonostante l’Italia rinunci alla produzione nucleare, vengono stoccati armamenti nucleari in territori italiani. Di qui il dispiegamento dei missili Pershing cruise negli anni Ottanta e degli F-16 alla fine degli anni Novanta. Le attività militari sono al centro dell’attenzione mediatica per altri aspetti che, per esempio a Perdasdefogu, assumono la connotazione antropologica di cambiamenti di forma di vita o di stili di vita. I militari creano un teatro e un cinema, incentivano le attività sportive, creano iniziative ludico-culturali per le feste, incoraggiano la costruzione di un istituto tecnico. Forniscono anche nuovi servizi alla comunità come l’assistenza medica d’urgenza, e sostengono il servizio antincendio per la prevenzione estiva. Tali narrazioni costituiscono il filo giustificazionista della presenza militare a Perdasdefogu dove si realizza il modello del consensus building affidato a specifici servizi, chiamati Combined Information services (CIS).
Il demanio e le servitù militari occupano lo spazio che va da nord a sud, da est a ovest della Sardegna con poligoni militari, basi aeree, base appoggio per sommergibili nucleari. I gravami delle servitù militari nel territorio nazionale incidono percentualmente lo 0,36 in Friuli e lo 0,56 in Sardegna, scelta come territorio elettivo per gli addestramenti, per le sperimentazioni dei sistemi d’arma e per la ricerca aerospaziale. Le superfici occupate con finalità militari sono catalogate in tre tipologie: spazio occupato permanentemente ed esclusivamente dai militari per usi specifici; aree in prossimità delle basi o dei poligoni non occupate permanentemente ma interdette ai civili per ragioni di sicurezza; aree non permanentemente occupate dai militari e interdette in ragione delle esercitazioni stagionali. Il concetto di servitù militare, introdotto in epoca napoleonica, è stato normato dallo statuto albertino e in seguito modificato. La servitù militare è l’insieme delle limitazioni e dei divieti imposti tanto sui beni privati quanto sui beni pubblici, situati in vicinanza delle installazioni militari e delle opere a queste equiparate. Tali limitazioni possono dar luogo a forme disciplinate e parziali di co-uso. Il consenso viene alimentato intrecciando il filo della modernizzazione che sostituisce l’arretratezza, quello dell’orgoglio per il nuovo peso che la Sardegna assume nel Mediterraneo e nello scacchiere militare internazionale, potendo acquisire un futuro di conquiste spaziali.
Andiamo ora nei siti, caso per caso. La base di La Maddalena si discosta parzialmente dagli altri casi per la mancata resistenza alla Base Usa, probabilmente per una storica apertura culturale alla marineria.
L’accordo del 1972 dettaglia la tipologia d’uso dell’isola di Santo Stefano, convertito da deposito di carburanti a punto di approdo di nave appoggio per sommergibili di attacco della U.S. Navy. Le pratiche degli accordi-quadro, in un sistematico rinvio a scatole contenitive di ulteriori accordi, consentono modifiche degli accordi senza regolazione in materia nucleare mentre, come dice un attivista maddalenino: «rende difficile orientarsi e più forte il segreto, la riservatezza, la indefinitezza delle cose». La giustificazione del ruolo antisovietico di questa base regge fino alla caduta dell’Urss nel 1990-91. La unilateralità delle decisioni su questa esperienza riapre la questione sui limiti della sovranità nazionale e sulla segretezza delle decisioni e delle loro applicazioni. L’opposizione della Regione Sardegna fu respinta dal Vice Commodoro Usa perché la Regione fu considerata autorità non competente e la base venne usata nel corso della guerra in Iraq, violando le decisioni del Parlamento italiano e del Consiglio Superiore della Difesa. Nel 2004 il governatore della Regione Sardegna, Renato Soru, aprì un contenzioso con il governo italiano per chiedere la riduzione delle servitù militari e la chiusura della base di La Maddalena. Nel 2008 gli americani lasciarono questa base.
Alcune oscurità e certi rischi democratici connessi alle militarizzazioni si trovano in indagini laterali, com’è accaduto in occasione della testimonianza di Giulio Andreotti alla commissione parlamentare sulle stragi a proposito della segreta organizzazione armata di Gladio, con 622 appartenenti rilevati ma stimati almeno il doppio. Gladio fu elaborata e armata dalla Cia nel 1956 con il nome Stay Behind, con zona addestrativa ricadente fra Poglina e capo Marraggiu. È ora noto che contava su quaranta nuclei operativi: 6 informativi, 6 di propaganda, 6 di evasione fuga, 10 di sabotaggio, 12 di guerriglia. Al contrario di altri paesi con l’eccezione della Turchia, in Italia questa organizzazione segreta si mantenne anche dopo la caduta della “cortina di ferro” per contrastare le forze politiche di sinistra. Inoltre l’indagine del giudice Casson, riaprendo nel 1980 il caso della dimenticata strage di Peteano, avvenuta nel 1972 con tre carabinieri morti e un reo confesso della destra eversiva, confermò l’attività della Gladio come struttura clandestina. Mostrò, inoltre, che il plastico usato per l’attentato era in uso alle forze Nato. L’evidenza del contributo della Nato nello stragismo nero di quegli anni aprì uno squarcio investigativo sulle pratiche stragiste, generalmente attribuite alla sinistra. Nel buio di quei fatti e di quegli anni prevalevano i segreti e le secretazioni, insieme alle produzioni discorsive volte a incrementare i consensi sulle militarizzazioni.

Procedendo nei luoghi militarizzati, sulle prime essi appaiono dispersi. In realtà, non mancano interessanti connessioni funzionali fra loro.

Il Poligono Interforze del Salto di Quirra (PISQ) di Perdasdefogu è una struttura permanente che occupa una superficie di circa 120 kmq, a cui si aggiungono quasi 10.000 miglia a mare. Convertito in Ente interforze nel 1959, è la più grande base militare italiana e uno dei più importanti poligoni sperimentali per esercitazioni e addestramento d’Europa. Ricade per la maggior parte nel comune di Perdasdefogu e per un’altra nel comune di Villaputzu. La base opera in modalità integrata con l’attività aeronautica di Decimomannu, il poligono di capo Frasca e il distaccamento aereo di Cagliari-Elmas. Nel poligono si svolgono attività addestrative nazionali ed estere in bianco e a fuoco, comprendenti unità missilistiche e di artiglieria, utilizzo di laser e di altri sistemi tecnologici, esercitazioni a fuoco sia a terra che a mare, esercitazioni aeree e navali  anche a fuoco. Durante le esercitazioni della Nato si aggiungono esercitazioni anfibie, navali e aeree, in coordinamento con le basi di Decimomannu, di Capo Frasca e di Capo Teulada. Attualmente si svolgono collaudi di prototipi di missili e di bersagli, prove di qualità in collaborazione con industrie ed enti nel settore dell’elettronica aerospaziale, attività legate alla ricerca scientifica del Distretto aerospaziale della Regione Sardegna, ricerca e sperimentazione in cyber-defence, cyber-security e modelling&simulation.
Il poligono di Capo Teulada, nel sud-ovest dell’Isola, si estende per quasi 7500 ettari nel territorio del comune di Teulada e solo in minima parte, circa 25 ettari, in quello di Sant’Anna Arresi. Ai 72 kmq di area permanente si aggiungono 748 kmq di zona marina e di aree interdette alla navigazione nei periodi di esercitazioni. Secondo la Marina Militare il poligono non ha alternative comparabili in tutto lo spazio europeo ed è il solo poligono che consente addestramenti interforze e combinati con altri paesi alleati. Si svolgono attività di sganci reali di munizionamento inerte, lancio di missili inerti da aeromobili, sbarchi anfibi, aviolanci, aviosbarchi ed elisbarchi. Le interdizioni permanenti coprono un territorio di oltre 32 kmq, mentre l’area marina interdetta può giungere fino a 1.300 kmq. Vi si svolgono esercitazioni di forze Nato con l’installazione di strutture mobili nei periodi di addestramento.
L’aeroporto militare di Decimomannu, operativo dal 1940, dista 20 km da Cagliari. Dal 1991 al 2016 è passato alla gestione Italia-Germania. Oggi è un reparto sperimentale per la standardizzazione di tiro aereo.
Il poligono di Capo Frasca, in prossimità di Oristano, è un’installazione di tipo permanente. Occupa un’area di circa 14 kmq in cui si praticano tiri con munizionamento inerte. L’operatività è integrata con addestramenti Nato e nazionali dell’aeroporto di Decimomannu. La base Air Force di Monte Limbara, nel comune di Tempio Pausania, è stata abbandonata nel 1993.
Esigenze della Difesa e delle comunità locali pongono problemi non solo di ordine istituzionale, ma anche di ordine economico e di ordine ambientale. La costituzione di comitati paritetici regionali non riesce a risolvere il problema delle compensazioni, della complessità delle loro procedure e delle loro erogazioni irregolari. Decenni di addestramenti e di sperimentazioni hanno compromesso lo stato ambientale delle aree dei poligoni. La condizione ambientale del poligono di Teulada è fortemente compromessa e procedono le azioni legali per devastazione ambientale. Avanzano, inoltre, denunce dei familiari di deceduti per tumori del sangue. Appare una maggiore lentezza negli accertamenti delle responsabilità sanitarie a Teulada mentre il caso di Quirra, con il lavoro della commissione parlamentare sull’uranio impoverito, al di là degli aspetti infruttuosi, apre una breccia nel silenzio istituzionale sui costi ambientali e specialmente sugli impatti delle militarizzazioni nel versante della salute pubblica. Pare poco, ma è già tanto importante.
I casi di La Maddalena e di Quirra fanno emergere, nel secondo capitolo, le relazioni interstatali dominanti alle quali corrispondono le debolezze istituzionali dello Stato italiano e delle sue articolazioni che determinano le sottrazioni di territori abitati e lavorati, limitandoli ad esclusive attività militari. A La Maddalena sembrano prevalere varie incertezze che, di fatto, delegittimano le rilevazioni del rischio . Nel poligono del Salto di Quirra l’incuria, la minimizzazione e il diniego del rischio deresponsabilizzano i vertici militari per gli impatti ambientali. Le isole in una prospettiva mondiale sono accomunate, nel terzo capitolo, da un generale processo globale di militarizzazione, da pratiche coloniali insediative, finalizzate a situare le attività militare in spazi resi invisibili e a propagandare un ambientalismo di facciata (greenwashing).
Il quadro complessivo apparve alquanto unitario delle singole situazioni quando, nella relazione finale della commissione parlamentare sull’uranio impoverito, si manifestò la necessità di pianificare una riduzione degli insediamenti militari entro tre mesi dall’approvazione della relazione. Il contenimento avrebbe dovuto realizzarsi su molteplici piani: la progressiva riduzione delle aree soggette a servitù militari, la dismissione dei poligoni di Capo Teulada e di Capo Frasca, la riqualificazione del Poligono Interforze del Salto di Quirra, la stipula di un’intesa con la Regione Sardegna, la bonifica e la contestuale riqualificazione delle aree liberate dai vincoli, il finanziamento, la progettazione l’insediamento di attività alternative, idonee ad assicurare e a incrementare i livelli occupativi. Il documento raccoglieva le richieste degli amministratori locali per limitare la finestra esercitativa nel periodo estivo al fine di non danneggiare le attività turistiche. In applicazione della normativa europea sull’ambiente, si affermava la non derogabilità ai limiti di concentrazione dei valori di soglia per specifiche sostanze, data l’incidenza di malformazioni o di patologie, soprattutto nelle aree caratterizzate dalla presenza pluridecennale di poligoni. Infine, si sosteneva la tutela di lavoratori, militari e civili, che operavano nelle aree soggette alle servitù militari. Tali impegni si rivelano pure enunciazioni di principi. In pratica, venivano successivamente azzerati gli esiti delle commissioni investigative ed esautorate le istituzioni parlamentari. L’insieme degli addestramenti nella primavera del 2023 ha coinvolto gli spazi militari di tutta l’isola.

Il percorso delle esperienze di protesta e di resistenza, dirette contro le occupazioni militari, spingono a tentare di cogliere le aspirazioni che nutrono la democrazia e producono futuri come fatti culturali, per dirla con l’antropologo Arjun Appadurai (2013). L’ampia letteratura richiamata da Aide Esu per individuare i caratteri magmatici e intersezionali, che situano tali esperienze in un contesto globale, è di indubbio valore euristico. Altrettanto utile è la sua storicizzazione delle azioni di protesta secondo scansioni di periodi-chiave. Il primo periodo (1956-1968) coincide con le installazioni militari propagandate come progetto di modernizzazione. Nella seconda fase (1981-2000) la critica alla militarizzazione e il suo rifiuto cominciano ad avanzare. Nel terzo tempo (2001-2013) iniziano ad affacciarsi timori associati al rischio.
Nell’ultimo periodo le comunicazioni si concentrano particolarmente sui rischi ambientali e sulle conseguenze per la salute umana. Andiamo dove è iniziata la protesta.

2 Orgosolo
Vediamo più da vicino il percorso della resistenza alle occupazioni militari partendo dalla Barbagia, cuore della Sardegna, e da Orgosolo. All’epoca della rivolta contro l’installazione permanente del poligono di tiro nel villaggio abbandonato di Pratobello, la Barbagia e in particolare Orgosolo erano al centro dell’attenzione per i sequestri di persona, che raggiunsero l’apice nel 1967 con 26 persone rapite. La Barbagia, classificata come zona delinquente nelle relazioni parlamentari fin dai tempi dell’Unità d’Italia, sottoposta a misure speciali di sicurezza, ha realizzato una storica relazione conflittuale con lo Stato in cui la polizia appariva come guardia armata del privilegio. Sicurezza inferiorizzante imposta con violenza, di contro al giusto rispetto per le autonomie delle persone, con i luoghi ad esse accomunati, appaiono come codici culturali in contrasto, come esperienze storiche locali mal congiunte in ambito nazionale. Studiate antropologicamente da Franco Cagnetta e poi filmate con importanti riconoscimenti da Vittorio De Seta, tali esperienze rimasero orientate da una semantica razzializzante per una lettura neocoloniale a sostegno di misure militari speciali, specialmente nel corso delle ripetute evasioni e catture del bandito Graziano Mesina. Nel 1966, l’invio di migliaia di Baschi Blu per la repressione del banditismo con capillari pattugliamenti alimentò diffuse insofferenze, non solo nel territorio barbaricino.
La protesta di Pratobello fu preceduta da un esteso attivismo politico che assunse la forma di circoli culturali giovanili, dando luogo a fermenti democratici maturati specialmente nelle università. La precedente ribellione contro l’istituendo Parco del Gennargentu sboccò nell’occupazione dell’edificio comunale, ribattezzato Casa del Popolo. Oltre la protesta, si rivendicava la partecipazione democratica alle decisioni e alle scelte. Inoltre, si rifondava e si rinominava il municipio, ribattezzandolo esplicitamente come luogo di tutta la popolazione. Principi di democrazia dal basso sostennero quattro giorni di occupazione del comune con assemblee per favorire la partecipazione popolare. Dichiarata decaduta la giunta in carica per la mancata consultazione popolare in merito all’istituzione del Parco, criticata la mancata trasparenza sulle decisioni in campo riguardanti le attività agro-pastorali, si affermava e si praticava un “giusto” diritto di scelta e di decisione, percepito come legittimo sulle questioni vitali per la comunità locale. Nei quattro giorni di assemblee e manifestazioni furono numerosi i temi affrontati, in particolare quello degli investimenti infrastrutturali e dell’istruzione. In questo animato clima politico cominciarono a diffondersi le notizie sulla istituzione di un poligono di tiro nel territorio di Pratobello. Comparvero avvisi della prefettura, affissi sui muri del paese, nei quali si invitavano i pastori a trasferire temporaneamente il loro bestiame per consentire l’addestramento dell’esercito.
Mentre si materializzava la visione e la forma dell’ingiustizia imposta perentoriamente e violentemente con la sottrazione di un terreno di uso civico, quindi di un bene comune fonte di riequilibrio economico, montava l’indignazione per questo oltraggio. La configurazione della risposta fu quella della nonviolenza, assai innovativa in un contesto culturale in cui era considerato necessario rispondere alla violenza con altrettanta violenza, per contrastarla o mitigarla efficacemente e per farsi valere. Dar luogo e forme a una resistenza oppositiva alla militarizzazione e, congiuntamente, mutare in sé i comportamenti automatici che derivavano da una tradizione consolidata e incorporata che faceva fronte alla violenza con corrispettiva violenza, fu un cimento culturale straordinario e di esito incerto per ogni persona e per la comunità locale. La dimensione del contrasto alla giustizia e il carattere non violento di questo contrasto è ben chiaro all’autrice. Tuttavia, mi preme sottolineare, a proposito di questa esperienza, le pieghe del creativo ricreare luoghi con il concomitante creativo ricreare sé stessi: come una poetica spaziale e un’autopoiesi congiunta. Come una nuova e duplice produzione culturale di un far luogo e dar luogo a ciò che è giusto, sia nello spazio esterno e sia nel proprio sé intimo, da parte dei protagonisti che producendo luoghi del giusto si producevano come persone giuste.
Siamo di fronte a un’agency duale, proiettivamente ed estensivamente duale: agire dando luogo a ciò che è giusto e nel contempo diventare persone giuste. Tale cambiamento del far luogo al divenire del giusto in modi giusti e con valenza duale, spaziale e propriamente intima, si realizzò in primo luogo nel municipio e sul municipio di Orgosolo con i suoi protagonisti, e poi a Pratobello. Per queste ragioni Orgosolo, con le sue esperienze di partecipazione democratica, si presenta ancor oggi come una matrice culturale di soggettivazioni democratiche e autonomistiche, in un periodo di crisi dell’autonomismo, non solo istituzionale. Guardando propriamente verso i luoghi, i manifestanti andarono ben oltre l’ingiusta espropriazione del bene comune. Infatti, manifestarono intendimenti di uso propriamente rigenerativo del territorio quando criticarono l’invio di carri armati, cannoni e truppe, anziché trattori per arare, palesando aspirazioni e intendimenti propri per riabitare e riabilitare il territorio di Pratobello.
Emergeva un tipo di dualità nei modi e nei contenuti delle pratiche: pratiche contro e pratiche per, semplificando al massimo. In realtà, bisognerebbe individuare nelle azioni negative anche i possibili contenuti affermativi e viceversa. Inoltre, mantenendo un’attenzione analitica in mobilità durante processi in corso, pare necessario accompagnarne analiticamente il divenire ancora incompiuto e fluido, informe e instabile, differenziandolo da una identificazione statica o compiuta nelle indagini sul campo. Accade infatti che vari approcci funzionalistici, i quali ben visualizzano certe realizzazioni di processi compiuti, risultino ciechi di fronte a configurazioni transitorie, emergenti in particolari processi in corso, destinate o meno a esiti stabili. A Pratobello si faceva spazio a dinamiche incerte e a pratiche multiple: multiple per estensione spaziale e temporale, sociale e istituzionale.
Emerge l’esigenza di render conto dell’incerto nel divenire delle cose e dei luoghi, delle persone e delle loro relazioni compreso il sé, che si fa altrimenti nel corso di certe esperienze a misura dei cambiamenti. Fra non pochi filosofi, chi ha meglio studiato certi modi di divenire differentemente, svelandoli nella loro transitoria incompiutezza, è forse il filosofo Jacques Derrida (1993, 2008). Mi limito, in questo caso, ad indicare l’importanza della sua prospettiva per gli approcci sui processi in corso e sul divenire altrimenti che riguardano persone e cose, luoghi e territori.

Torniamo agli eventi della resistenza orgolese. L’occupazione fu preceduta da infruttuosi tentativi di mediazione da parte del commissario prefettizio di Nuoro, dalla Questura di Nuoro e dalle organizzazioni sindacali agricole. Il 18 giugno a mezzanotte trapelò la notizia dell’arrivo dei militari della Brigata Sassari per iniziare le esercitazioni. Tramite il segnale convenuto di una musica tradizionale, diffusa da un altoparlante usato per i bandi pubblici, si convocò l’assemblea del paese. Si decisero le iniziative per il giorno successivo.
Il 19 giugno gli abitanti percorsero insieme a piedi, in auto o sui camion, 11 km di salite che conducevano all’altipiano di Pratobello. I pastori avevano dormito in campagna ed erano pronti per occupare il terreno contestato. Le donne bloccarono le strade per impedire il passaggio dei militari. Respinte e trattenute, si difesero e si sparpagliarono. La partecipazione delle donne conferì alla iniziativa locale un carattere popolare unitario, intersezionale fra generi, oltre che fra generazioni. La stampa locale, intanto, attribuiva agli estremisti la guida della protesta. Il quarto giorno, il 23 giugno venne costituita una delegazione per negoziare con il ministro della Difesa. Il 25 giugno si raggiunse l’accordo. Il poligono non doveva essere permanente e ogni decisione doveva essere presa previa consultazione delle autorità locali. La protesta fu sospesa il 25 giugno. L’accordo, letto in assemblea, ebbe solo una decina di astenuti che miravano ad estendere la lotta antimilitarista. Alle denunce si rispose con migliaia di autodenunce.
Molti anni dopo, nel 2009, Beniamino Moro fece intendere i limiti politici della sinistra, specialmente del PCI di fronte a quel movimento, raccontando come fu estromesso dal partito, insieme ad altri suoi compagni, per non aver seguito la linea centralmente stabilita. La crisi dell’autonomismo istituzionale era profonda. Ne aveva vigorosamente parlato, un anno prima degli eventi di Pratobello, Armando Congiu in un articolo apparso su Rinascita sarda nella prima metà di giugno del 1968 con il titolo perentorio: L’autonomia da rifare. Tuttavia, il rapporto fra il partito verticistico e l’autonomia dei movimenti restò a lungo problematico e irrisolto nel P.C.I., costituendo un elemento di non facile convivenza nella sua vita politica interna. Pertanto, pare utile continuare ad osservare le molteplici esperienze di autonomismi locali e la loro difficile relazione con i vari livelli di centralismi standardizzanti e assoggettanti.
La restituzione all’autorità locale del territorio e la sua riabilitazione agli usi produttivi fu un successo di una certa lotta antimilitarista che si svolse in un contenuto ambito di relazioni istituzionali fra Regione Sardegna e Stato. Avvenne prima che avesse inizio un materiale insediamento militare permanente con specifiche relazioni spaziali e temporali. Nelle sottomissioni incombenti, si agì affermando il giusto rispetto dovuto sia all’autorità locale e sia al diritto di scelta degli abitanti per le comuni risorse vitali. Si produssero nuove soggettivazioni di persone e gruppi che realizzavano nuove padronanze di sé e dei luoghi e della stessa configurazione del paese. I murales realizzati e promossi da Francesco del Casino dicono di una lunga creatività democratica partecipata. La poetica di Peppino Marotto è diventato canto di un territorio ideale, spaziato da persone capaci di diventare autonome in condizioni di sottomissione. Il canto continua, nonostante l’uccisione di questo poeta sindacalista. Dice anche le profondità di fratture culturali a prima vista invisibili che riguardano la fragilità valoriale del giusto, sebbene ben misurato sulla condivisione egualitaria, per far fronte a prepotenti interessi, intolleranti di limiti e di controlli. Pratobello, pur considerando certi confini di quell’esperienza, parla al presente vivente e non solo all’antimilitarismo.
La riflessione sull’esperienza partecipativa di Pratobello consente di assumere l’insieme delle sue vicende come polo comparativo delle esperienze antimilitariste realizzate in vari poligoni, come Perdasdefogu, La Maddalena e Teulada nei tempi più recenti. In tali nuovi fenomeni diffusi di antimilitarismo si nota, a prima vista, una differente e ben più debole mobilitazione, nonostante l’attuale inquinamento nucleare e i relativi rischi per la salute incombenti sulle popolazioni locali. In questi casi è assai vistoso il paradosso nei rapporti fra cittadini e Stato il quale, per non far morire i propri cittadini in tempi di guerre, ne compromette la salute e perfino li fa morire in tempi di pace con la pretesa ragione di tutelarli.
Nella costellazione dei movimenti antimilitaristi il gruppo di A Foras (Fuori) promuove iniziative assembleari, insieme a pratiche di ricerca-azione e altri metodi innovativi che hanno permesso la costituzione di una rete capillare assai attiva. Rimane aperto il problema del rapporto fra i movimenti antimilitaristi e i partiti che hanno tenuta dischiusa, per certi aspetti meritoriamente, una prospettiva di pace. Un rinnovato rapporto fra movimenti antimilitaristi e partiti è ancor più necessario nella contemporaneità, considerato che le istituzioni attualmente impegnate nel rilancio delle militarizzazioni sono interstatali ed esigono specialmente un ruolo forte della debole Europa. Le responsabilità per giuste e durevoli relazioni generatrici di pace richiedono nuovi cimenti e nuovi impegni culturali nella globalizzazione dei rischi di cui le guerre e gli armamenti sono l’apice. Pratobello fa emergere, fin dalle origini delle esperienze di antimilitarismo in Sardegna, il problema sia del rapporto fra movimenti e partiti, sia di una democrazia dal basso o partecipata.

3 Territorialismo ed ecoterritorialismo all’opera
Pare necessario acquisire una rinnovata e adeguata consapevolezza del duplice affermarsi nella globalizzazione sia dei rischi vitali e sia dei biopoteri incontrollati. Eliminare i rischi vitali e instaurare inedite sicurezze salutari, bonificando innovativamente i territori, sono le due linee culturali che s’intrecciano preliminarmente nella trama, globale e locale, della società dei rischi su cui richiamò l’attenzione il sociologo Ulrich Beck. Egli, evidenziando la dimensione antropologica che riguardava la vita e la morte della stessa civiltà umana nella seconda modernità (1986, trad. it. 2001: 95), individuò la metamorfosi del mondo che accompagnava i numerosi fallimenti di varie azioni istituzionali (2002, 2004, 2007, 2016). In questo quadro socio-antropologico, che non ignora l’antropologia del rischio di Mary Douglas (1985),

Emerge con maggior vigore la visibilità dei rischi e la loro modernità. La moderna temporalità dei rischi vitali, pertanto, pone il riabitare in uno stato che richiede, nei territori militarizzati isolani inquinati, la preliminare esigenza democratica del riabilitare all’abitare e al vivere.

Il testo di Aide Esu è assai stimolante non solo nell’ambito dell’antropologia dei rischi, ma anche in quello dell’antropologia dello spazio. Offre elementi per una visione non contemplativa ma attiva, in cui si dispiega la sua postura democratica nella decostruzione dei poteri, anche di comunicazione in-formativa o dis-informativa. Nella costellazione delle associazioni antimilitariste appaiono esperienze non solo contrastive ma anche acquisitive e richiedenti compensativi risarcimenti. Si parla di esperienze le quali sono proprie di certe azioni che, diventando eventi generativi di possibili mutamenti, possono dar inizio e inaugurare modi d’agire che fanno apparire e avvenire l’altro, o dell’altro, o l’altro dell’altro, o tutt’altro. Ma precisamente come? E precisamente dove?
Questo studio apre e lascia aperto il problema generale del degrado ambientale e territoriale delle militarizzazioni inquinanti, di come recuperare gli spazi nocivi per portarli, come mondi ri-diventati vitali, in nuovi mondi di vita in avvento e in avvenire. Emergono, a lettura ultimata, oltre i numerosi e positivi aspetti di condivise pratiche democratiche, anche i limiti delle mobilitazioni, locali e globali, nel poter produrre immediate forme stabili di democratico radicamento locale e territori sperimentali della conversione ecologica non settoriale e co-evolutiva. Si sente la mancanza di un esplicitato e particolareggiato rapporto, durevole e pacificato, fra insediamenti umani e natura nei comuni gravati dalle servitù militari. Rimane non detto come poter credibilmente unire le future creatività ecologiche negli spazi militarizzati da acquisire alle immediate esperienze di conversioni ecologiche, praticate o possibili nel territorio comunale che contiene i poligoni.
L’esigenza di pensare a forme stabili di impegno localizzate, a partire dai comuni in cui sono presenti i poligoni, induce a esplorare altre elaborazioni riguardanti le storiche violenze esercitate sulla natura e le pacificazioni di tali violenze attraverso rifondazioni territoriali d’impegno non saltuario e occasionale, ma permanente e quotidiano in prima istanza nelle comunità locali militarizzate.
Gli spazi militarmente inquinati spingono la riflessione sulla necessità di articolare gli obiettivi del riabitare. Esplicitano la primaria istanza del riabilitare i luoghi malsani bonificandoli per poterli riabitare e, una volta sanati, riabitarli per poterli ulteriormente riabilitare e securizzare culturalmente. Per quanto l’assunto del primario riabilitare possa apparire a prima vista ovvio, a ben vedere richiede una serie di integrazioni e di aggiustamenti anche teorici. Per esempio, toglie esclusiva centralità alla fondazione storica di un contesto per attribuirla o ri-attribuirla alla sua ri-generazione ecologica. Inoltre, inserisce nella nozione di patrimonio anche lasciti culturali non pregiati come quelli tossici, onerosi e irrecusabili. Si tratta pertanto di questioni di indubbia rilevanza.
Pare utile avanzare l’ipotesi, oltre la sua formulazione pragmatica, di assumere un orientamento teorico connesso a specifiche elaborazioni di antropologia dello spazio, di ascendenza francese per le fondazioni e i modi dell’abitare (M. Augé 2006, F. Choay 2006, T. Paquot et alii 2007, M. Segaut 2007).
Rispetto alle generali esperienze rifondative e trasformative dei luoghi inquinati, mi pare tuttavia necessario un ulteriore passo avanti, individuando specifici elementi di crisi vitale vissuti dagli abitanti, secondo i luoghi. Penso a particolari emarginazioni di luoghi spaziali e sociali, generazionali e di genere, che costituiscono caratteristiche fragilità di salute e di vita congiuntamente umana e naturale. Spesso appaiono sconnesse, mentre necessitano di essere comprese secondo caratteristiche intersezionalità che marcano unitariamente, oltreché persone e gruppi, anche luoghi e territori. Nei casi del riabitare nei luoghi inquinati è necessario acquisire lo spazio di una globalizzata modernità liquida e sfuggente, che si scioglie disperdendosi nel corso di vite individuali con crisi o aspetti critici variamente incorporati (Z. Bauman 1989, 1998, 1999, 2000, 2001 a e b, 2008, 2018). Occorre scoprire nelle vite umane l’incorporata oscurità del malsano localizzato e diffusivo, per estenderne la conoscenza degli elementi critici, accomunanti i vari rischi vitali, patiti insieme da persone e da territori viventi. Siffatta connessione di patimenti accomunanti persone e luoghi è necessaria per ricostruire dal basso innovativi ambienti di vita, da parte di comunità territoriali infracomunali e municipali, connettendo corpi di luoghi e luoghi di corpi in un unitario intervento trasformativo.
La questione riguarda, congiuntamente, capacità teoriche e pratiche di agglutinare e condensare i punti di certe crisi di vita visibili e invisibili per affermare localmente, di fronte alle autorità istituzionali, giusti diritti al rispetto umano, umiliati nella cultura del nuovo capitalismo (R. Sennet 1980, 2003, 2006). In pratica, per governare democraticamente i luoghi inquinati non si tratta di sostenere il riabitare immediato, entrando con passo leggero in certe “belle contrade” tristemente spopolate per ripopolarle. Occorre riuscire, con azioni tenaci e pugnaci, a far riabilitare i territori militari inquinati, al fine di farli diventare prima risanati e riabitabili e, una volta riabilitati alla vita, riabitati.
Per quanto riguarda il riabitare gli spazi militarizzati, si può prospettare nell’immediato l’ipotesi di realizzare progetti di pace a partire dalla natura dominata e violata in quegli spazi, come nutrimento delle iniziative antimilitariste, facendo ricorso a una serie accreditata di principi di nuova territorializzazione con interventi ispirati da orientamenti interdisciplinari. Pare utile infatti esplicitare, nelle mobilitazioni antimilitariste e pacifiste, l’obiettivo di realizzare neoecosistemi viventi. Possiamo aprire entrambi i poli spaziali civili e militari, con differenti temporalità immediate e future, all’attuazione del principio territoriale e dell’ecoterritorialismo di Alberto Magnaghi (2020, 2023). Possiamo in particolare porre i luoghi inquinati, come parti imprescindibili del patrimonio culturale territoriale, al centro di una nuova coscienza dei luoghi per attivare una loro nuova coralità produttiva territoriale, nel solco indicato da Giacomo Becattini (2015) e dal gruppo che fa capo al Manifesto per riabitare l’Italia. Mi pare necessario esplicitare l’ipotesi che i comuni il cui territorio è in parte militarizzato diventino fin da subito luoghi sperimentali di ecoterritorialismo.

Il principio territoriale è stato elaborato compiutamente da Alberto Magnaghi in un testo che ha questo stesso titolo, edito da Bollati Boringhieri nel 2020. Successivamente è stato esteso e compreso in un libro collettaneo, Ecoterritorialismo, da lui curato con Ottavio Marzocca, edito dopo la sua morte da Firenze University Press nel 2023.
Il principio territoriale è cruciale, a questo punto della riflessione, per comparare le esperienze di mobilitazioni temporanee realizzate dai movimenti antimilitaristi con quelle che possono diventare permanenti, a partire dai comuni militarizzati. Più in generale, la sua elaborazione ha un ruolo strategico e un’importanza primaria rispetto alle funzioni marginali e di marginalizzazione, proprie dei contemporanei modelli socioeconomici, più o meno informatizzati e a-spazializzati. Ispirato a Adriano Olivetti sulla comunità concreta territoriale, Magnaghi ne riprende anche il primario livello fondativo del sistema politico dello Stato federale. La comunità territoriale è pertanto prevista secondo dimensioni che consentono di poter autogovernare i fattori di vita e di lavoro in modo integrato. Il sistema decisionale è orientato dal basso verso l’alto. Rimettendo in discussione tutti gli elementi di produzione dello spazio e restituendo agli abitanti la capacità di riprodurre i propri ambienti di vita e di autogoverno socio-economico, egli richiama prioritariamente la ricostruzione innovativa di regole e comportamenti, culture e tecniche ecologiche. Il nuovo statuto di abitanti capaci di autogoverno territoriale nei loro mondi di vita prospetta una nuova civilizzazione antropica nella quale i consumatori, governati da flussi globali e ridotti a clienti di multinazionali a-territoriali, possono diventare agenti nella produzione di nuovi mondi di vita locale nelle derive tecnocratiche e centralistiche della nostra contemporaneità.
La portata culturale della nuova civilizzazione eco-antropica prospettata da Alberto Magnaghi riguarda multipli ordini, anche temporali. Rivolta fondamentalmente e innovativamente al futuro, tale nuova civilizzazione recupera il passato che cambia nel nuovo contesto di riqualificazione ecologica. Sorge pertanto una delicata questione sul rapporto di convivenza fra il nuovo e il vecchio, fra innovazioni e persistenze. Il passato storico muta funzione e valore, ovvero serve e conta altrimenti in un processo di nuova civilizzazione eco-antropica. Le persistenze diventano cangianti. L’orientamento volto al futuro, infatti, può indurre a cambiamenti funzionali e valoriali con «retroazioni» sul passato. Per quanto possano apparire evidenti gli elementi di continuità del passato è necessario saper vedere gli aspetti di novità emergenti. Nell’ordine delle grandi esperienze di civilizzazione può essere forse un ausilio conoscitivo pensare, con André Leroi-Gourhan (1943, 1964), a similitudini per certi versi comparabili, per quanto assai lontane. Pensiamo a quando l’umanità assunse innovativamente la stazione eretta e, per retroazione, liberò funzionalmente e culturalmente sia la mano e sia la faccia da precedenti loro funzioni e valori. Nel processo evolutivo la cultura cominciò dai piedi, ovvero dalla periferia del corpo, retroagendo a catena fino al cervello, per dirla provocatoriamente. Fare futuro, proiettando in esso storiche esperienze localizzate, può produrre certi mutamenti sul passato che permane trasmettendo ciò che è messo in divenire. Tale cruciale e primaria proiezione creativamente innovativa sul futuro può favorire, evidentemente, anche importanti mutazioni di retroazione su certe presenze del passato e sul loro mobile statuto culturale, funzionale e valoriale. In realtà la posta in gioco della produzione di futuro riguarda l’innovazione ecologica dello spazio critico ereditato, nel suo divenire spazio vitale e securizzato in modo durevole. Riguarda nuovi tempi e nuovi luoghi di pacifica vita naturale e umana possibile, in cui frammenti del passato possono essere presenti e partecipi con un nuovo protagonismo cangiante in nuovi quadri d’epoca.
La nuova centralità del territorio e il ritorno ad esso sono stati elaborati dalla Scuola territorialista italiana la quale, sviluppatasi negli anni Ottanta del secolo scorso, nel 2011 ha dato vita alla società dei territorialisti e delle territorialiste. Dopo il fordismo, il passaggio dalla civiltà delle macchine alla civiltà digitale ha messo a nudo nuove insicurezze e nuove povertà nei e dei territori facendo avanzare esigenze di re-identificazione comunitaria delle società locali con il proprio territorio, la cui conoscenza profonda per la sua messa in valore riapre prospettive per la produzione delle stesse nuove comunità autosostenibili, connesse in reti solidali e sostenute da applicazioni appropriate di nuove tecnologie. Lo statuto degli abitanti, diventati capaci di produrre spazi ecologici durevoli, alimenta nuove comunità auto-progettuali.
Dalla città-fabbrica alla città-digitale dell’informazione, continuano a essere trasferite incessanti relazioni di dominio spaziale in quelle a-spaziali delle reti globali con imponenti omologazioni dei modi di vita e dei consumi. Dati i fallimenti delle politiche delle emergenze, l’aver cura del territorio per prevenire i danni alla salute presume una progettualità strategica che definisca regole e forme, insieme a opportune dimensioni insediative per ristabilire una nuova alleanza fra umanità e natura, riconoscendo il rispetto per le alterità del vivente. Per quanto questa scelta possa apparire tardiva nell’accumulo di azioni antropiche negative realizzate nel lungo periodo, è il solo approccio che può garantire una minima possibilità di successo per salvaguardare il territorio, neoecosistema vivente e bene comune per eccellenza.

La cura è distinta fra le differenti tipologie del prendersi cura e dell’aver cura. Il prendersi cura è interpretato come un atto sostitutivo dell’altro e può creare dominio e dipendenza. L’aver cura è considerato come un riconoscimento dell’altro e come una condivisione in cui l’altro è sollecitato ad attivare le proprie energie. L’aver cura del territorio è prevenzione vitale attraverso nuove regole di relazione fra insediamento umano e natura. Se questo approccio territorialistico congiunge il territorio vivente ai viventi umani senza esclusivisti antropocentrismi, quali metodi di cura praticare?

Di fronte al quadro complesso di obiettivi multisettoriali che il territorio presenta è necessaria l’integrazione di ambiti disciplinari e di settori amministrativi molto diversi. Per superare le pratiche delle risposte settoriali alle emergenze, i compiti progettuali richiamano una scienza multidisciplinare che tratti unitariamente la scienza del territorio in chiave neopatrimoniale, ovvero producendo diagnosi sulle cause del degrado, sapendo ricomporre i saperi disciplinari in progetti integrati per costruire una nuova qualità complessiva del territorio, frammentato da politiche settoriali e da interessi estranei ai singoli luoghi.
I percorsi del ritorno al territorio, in controtendenza ai processi di centralizzazione e di deterritorializzazione dei poteri, sono realizzabili in un complesso cammino di nuove forme di sviluppo locale, capace di attivare nuovi strumenti di democrazia partecipativa in costante crescita con forme contrattuali e pattizie fra molti attori che affrontano il governo del territorio come bene comune. Risulta cruciale la scelta di assumere la nuova e innovativa patrimonializzazione ecologica, fondata sulla peculiarità, unicità, autosostenibilità, come base per la produzione di ricchezza sociale durevole condivisa umanamente e oltre l’umano. Per rendere concreto il percorso di ricomposizione delle azioni di aver cura, occorrono dunque nuovi strumenti di progettazione del territorio e di pianificazione partecipativa che rovesciano i processi decisionali centralistici.
La prospettiva della ricomposizione dei saperi, guidata dall’azione collettiva nel territorio, ha cominciato a modificare i paradigmi di molti ambiti disciplinari per l’interpretazione strutturale del territorio nei suoi aspetti materiali (ambientali, infrastrutturali, paesaggistici) e immateriali (saperi produttivi, artistici, contestuali, capitale sociale), come valori costituenti della nuova qualità dello sviluppo del territorio in ristrutturazione.
Le tendenze all’innovativa ricomposizione del territorio inducono ogni disciplina a trattare il territorio come un soggetto aperto a relazioni in movimento, a realizzare azioni intersettoriali, a sostenere progetti integrati. Il nuovo processo potrà essere realizzato promuovendo una scienza del territorio in grado di trattare la nuova patrimonializzazione territoriale sia come antidoto al degrado ambientale e sia come valore di rinnovata esistenza per la produzione di ricchezza durevole, con un aumento del valore delle risorse locali per le generazioni future. Tali percorsi si fondano sulla crescita della coscienza di luogo specialmente degli abitanti-produttori i quali, attraverso numerose e variegate esperienze, grandi e piccole, tendono ad affermare il ruolo fondativo di nuove forme di comunità, caratterizzate da nuove relazioni coevolutive fra insediamento umano e ambiente. I processi di ri-territorializzazione che realizzano il principio territoriale di Magnaghi, il quale lega il vitale territoriale al vitale umano, sono imprescindibili dalla riconversione ecologica.
Non possiamo più prendere scorciatoie ecologiche rinaturalizzanti, secondo Magnaghi. Per curarele ecocatastrofi che abbiamo prodotto con la civiltà delle macchine dobbiamo dar spazio a nuovi strumenti adatti a produrre una nuova e migliore crosta dell’Antropocene, strumenti che facciano vivere il senso e la pratica di una vita comune nel cosmo.
Territorialista generosamente didattico, Magnaghi fornisce un prontuario per urgenti e volontari interventi che vale la pena di riportare per la loro importanza sia generale e sia specifica per i luoghi inquinati, anche militarizzati:
Reimparare ad abitare, ricostruire il territorio dell’abitare, dell’abitare i luoghi: andare e venire dal cyberspazio, ma tornare al territorio.
Preparare nelle coscienze, nei saperi, nelle visioni il ritorno dei luoghi, affinché gli abitanti li riconoscano.
Iniziare il pellegrinaggio verso i luoghi del ritorno là dove si torna.
Riaggregare i luoghi della comunità là dove i luoghi rinascono e rifioriscono curati dalle comunità come beni comuni; là dove, dopo il fordismo, nel territorio messo al lavoro, si formano econome di cura, ecosolidali, che trasformano l’idea di ricchezza e i suoi meccanismi di produzione, in conflitto con i meccanismi di mercato.
Questo «terrigno» viaggio di riconversione ecologica è portato nel caldo grembo di una nuova civilizzazione che, nell’aver cura dell’ambiente dell’uomo, possa restituirgli bellezza ed equilibrio, ricchezza durevole e autogoverno solidale: una civilizzazione eco-territorialista. La riconversione ecologica non è praticabile in una società senza coscienza del luogo da parte di abitanti inconsapevoli e incapaci di adeguate forme di autogoverno. Attraverso la coscienza del luogo si possono invece reinterpretare le regole costruttive del territorio, declinandole al futuro.
La declinazione al futuro delle storiche regole di territorializzazione induce a scandagliare il concetto di patrimonio in questo pensiero territorialista. Il ritorno al territorio non è un contro-esodo.
Ripercorrere sentieri e memorie di esperienze, storie di vita, classificazioni vegetali, elementi costruttivi, morfologie degli spazi, tecniche idrauliche, non è fine a sé stesso. Stimola ad andare oltre il patrimonio ereditato, per dar spazio ad un nuovo e meritevole processo di patrimonializzazione. La conoscenza del territorio ereditato può incoraggiare nuovi cimenti sulla nostra capacità non solo di stare al mondo, ma di trasformarlo per abitarlo felicemente e durevolmente, in modi democraticamente condivisi fra le persone e con la natura. Nel “far bene” o nel “ben fatto” dei profondi patrimoni che caratterizzano le comunità locali si possono scoprire impensati elementi di novità. Per esempio, alcuni beni tradizionali possono palesare anche il novum nell’attuale produzione di un certo cibo, o di un certo pane, o di un certo cultivar, che si innesta come unicum che particolarizza persone e territori storici nel corso di un cambiamento ecoterritorialistico. Appare importante, pertanto, distinguere esplicitamente i patrimoni storici ereditati in quanto tali, con un certo loro fissismo o continuità funzionale, dalle nuove patrimonializzazioni che possono riattivare parti ereditate situandole in un innovativo orizzonte culturale.
Il concetto di patrimonio elaborato da Magnaghi integra i concetti di patrimonio naturale e culturale e include molti caratteri del territorio, materiali e immateriali, specialmente quelli di coevoluzione di lunga durata, storicamente identificativi dei territori e dei suoi paesaggi, senza oscurare il novum che può ispirare le riterritorializzazioni e pertanto le nuove patrimonializzazioni. Il suo concetto di patrimonio, a ben vedere, integra il tradizionale e il nuovo, andando oltre il significato corrente di patrimonio riferito fondamentalmente al passato compiuto. Infatti, ha un carattere dinamico, non solo accrescitivo ma soprattutto innovativo. Tuttavia, la memoria dei luoghi rimane cruciale, non solo per attivare e parametrare le innovazioni. Infatti, le unità di paesaggi raccontate dagli abitanti producono uno sviluppo incrementale dei luoghi e concorrono alla produzione di mappe conoscitive a partire da parametri soggettivi. Percorsi familiari, luoghi simbolici e del sacro, conoscenza profonda della flora e della fauna e dei loro movimenti naturali, itinerari della raccolta di erbe e frutti spontanei, circuiti lavorativi fra campagna e paese, luoghi d’incontro, di festività, di cerimonie, di attività ludiche e così via, determinano una crescita incrementale degli elementi fondanti e rifondanti territori e paesaggi. In particolare, le reti dei mercati locali possono indicare nuove frontiere di sovranità alimentare. I saperi contestuali incrementali, messi in relazione con i saperi esperti nel percorso collettivo per la coscienza del luogo, portano a una moltiplicazione delle identità paesaggistiche e del loro carattere dinamico, mentre le addensano di elementi culturali.
La qualità, la quantità, la densità, degli storici elementi patrimoniali di un contesto, riconosciuti e immessi in un nuovo processo progettuale, sono strettamente correlati a fattori di soggettività individuale e collettiva che intervengono nella ridefinizione dello stesso patrimonio storico e del suo valore il quale può diventare risorsa innovativa che cresce in misura esponenziale integrandosi nell’insieme delle parti che concorrono al progetto nella sua complessità intersettoriale. Il concetto dinamico e processuale di patrimonio, elaborato da Magnaghi oltre la coevoluzione di lunga durata fra insediamento umano e ambiente, include anche i concetti di incrementalità e dinamicità della sua crescita. Il valore incrementale di patrimonio è determinato non solo dai macroprocessi storici coevolutivi, ma anche dai microprocessi locali di interazioni dinamiche fra società locale e patrimonio naturale, attraverso procedimenti generativi di specifiche tipologie ambientali che si situano all’interno di un percorso di ri-territorializzazione e di nuova patrimonializzazione.
Nei processi microlocali il valore d’uso del territorio può precipitare a zero o tendere all’infinito. Il primo caso si verifica con l’abbandono del presidio antropico, oppure con il seppellimento dei territori nell’urbanizzazione distruttiva dei luoghi rurali, o ancora con il loro riuso improprio. Il secondo caso si realizza nei processi di ritorno al territorio con l’aver cura crescente. Tali processi sono determinati da vari flussi. Per esempio sono determinati dalla nuova domanda di luoghi indotta dalla omologazione dello spazio; dai contro-esodi provocati dalla caduta della qualità della vita nelle condizioni urbane e post urbane; da contestazioni di invasione del globale nella vita quotidiana, come le megainfrastrutture, gli inceneritori, le cementificazioni; dalla sottrazione forzosa di spazi pubblici e di beni comuni territoriali. I processi incrementali delle nuove patrimonializzazioni, pertanto, non devono essere considerati soltanto negli aspetti quantitativi, accrescitivi del patrimonio, ma piuttosto in quelli qualitativi e perfino negativi che, rendendo complesso il patrimonio, ne ampliano le potenzialità innovative.
La relazione fra patrimonio territoriale, materiale e immateriale, e la società locale che ne ha cura è assai dinamica. Tale relazione dinamica, pertanto, si differenzia dal patrimonio in sé, nel suo valore di esistenza e d’uso come risorsa. Il suo percorso è marcato da varie tappe:
– riconoscimento progressivo del patrimonio alimentato dalla crescita della coscienza del luogo da parte della società locale (re-identificazione, ricostruzione individuale e collettiva della memoria dei luoghi, dei saperi contestuali;
– crescita, differenziazione, specificazione di azioni di cura e di riattivazione dei legami coevolutivi con l’ambiente;
– produzione di valore aggiunto territoriale;
– crescita di coscienza del valore d’uso e di identificazione identitaria del patrimonio, sia con il suo valore di esistenza e sia con le sue potenziali trasformazioni.
Il percorso di crescita della società locale può consentire nuove mediazioni culturali. Per esempio, può favorire l’identificazione di nuove potenzialità culturali, tecnologiche e progettuali del patrimonio storico come risorse cruciali, in una spirale di valore che può tendere a continuare secondo criteri di resilienze territoriali, di produzioni di ricchezze durevoli, di costruzioni di bioregioni. In tale spirale valoriale può avvenire un processo di intensificazione delle relazioni fra diversi settori di cui si percepisce l’interdipendenza culturale ed economica, con una crescita creativa della coscienza di luogo che può dar luogo a nuove patrimonializzazioni e a nuovi patrimoni, attraverso forme di coralità produttiva e di progettualità sociale.
I caratteri dinamici del patrimonio elaborato da Magnaghi impongono continui rinnovamenti degli strumenti e dei metodi di analisi. Tali strumenti evidenziano i modi ancora statici che determinano il risultato delle sintesi storico-strutturali e morfologiche del territorio. Le rappresentazioni paesaggistiche evidenziano solitamente, infatti, gli aspetti ritenuti di valore degli elementi ambientali, insediativi, rurali, che compongono le strutture territoriali note, mettendo in primo piano gli elementi persistenti della lunga durata. In generale, vengono lasciati sullo sfondo elementi considerati di bassa qualità territoriale, creando modelli di rappresentazione incompleti e accecanti rispetto alle realtà in cambiamento. Le innovazioni urgenti riguardano pertanto i metodi di rilevazione analitica che devono comprendere le dinamiche di trasformazione dei rapporti tra insediamento umano e ambiente nella scala delle microstorie, le quali evidenziano i ruoli delle soggettività nel definire qualità, quantità e densità degli elementi patrimoniali di uno spazio.
Il patrimonio territoriale è relativizzato dai cambiamenti d’uso e dalle possibilità tecnologiche di trasformarlo in risorsa durevole. I modelli di rappresentazione del patrimonio devono comprendere pertanto sia gli elementi statici e sia gli elementi dinamici. L’arricchimento metodologico degli strumenti di rappresentazione dinamica dei caratteri storico-patrimoniali di un contesto consente di misurare la consistenza patrimoniale di un territorio, mentre la sua trasposizione nel nuovo quadro trasformativo permette di moltiplicare gli elementi a disposizione per un progetto di ri-territorializzazione con nuove patrimonializzazioni e con nuovi patrimoni.
I processi di nuova patrimonializzazione ecocompatibile del territorio come bene comune sono alla base di modelli di sviluppo locale autosostenibili di nuova generazione nei quali la produttività non dipende dal singolo settore. Dipende piuttosto dall’ambiente locale, dalla maturazione della coscienza di luogo e dai caratteri tecno-merceologici improntati a filiere integrate dalla neoagricoltura, multifunzionale al terziario avanzato. Si parla di filiere che configurano sistemi locali di produzione e consumo fondati sulla specializzazione dei luoghi e delle comunità, volte all’autogoverno e a finalizzare la produzione al benessere socialmente condiviso. Per quanto riguarda i paesaggi, il carattere innovativo è dato dal fatto che non si tratta solo di conservazione dei paesaggi storici, ma di creazione di nuovi paesaggi e di nuove architetture la cui bellezza sarà data dall’esser frutto di regole produttive culturalmente mediate con l’ambiente: una nuova civilizzazione che produce il suo territorio.
Il principio territoriale elaborato da Magnaghi configura le produzioni locali in un ordine durevole, di salute e di securitas vitale condivisa in una nuova civilizzazione, con orizzonte culturale salutare e vitale di nuova generazione capace di superare i limiti economici dell’ambito mercantile, il quale ignora o comprime i costi sociali delle precarietà di salute provocati dagli inquinamenti.
4 Misure
Quali pratiche democratiche possono sostenere le aspirazioni all’autogoverno dei luoghi, fondato sulla messa in valore di una nuova patrimonializzazione territoriale come bene comune, nell’ambito di uno sviluppo locale autosostenibile? Sia la democrazia rappresentativa e sia la democrazia diretta, nelle versioni referendarie e telematiche, sono in evidente crisi. Un nuovo modello può ispirarsi alle forme più avanzate di democrazia partecipativa, strutturata in modi comprensivi delle forme di autogoverno territoriale delle comunità locali, secondo Magnaghi. Si parla di processi di mobilitazione permanenti come processi di riappropriazione delle capacità di autodecisione sulla quotidianità nel plasmare le forme di vita e dell’ambiente dell’uomo, oggi mercificate e fortemente degradate. Tali apprendimenti di autonomia richiedono l’attivazione di forme comuni di conoscenza e di cura gestionale dei beni comuni territoriali.
I movimenti antimilitaristi e pacifisti che agiscono in Sardegna possono ampliare ecologicamente i loro interventi pacifisti, curvandoli nelle mobilitazioni costanti e quotidiane dell’aver cura, orientate dal principio territoriale e dall’ecoterritorialismo delineato come neoecosistema di vita? Possono partire dalle varie esperienze di sicurezze vitali ambientali realizzate in vari comuni, orientandole verso un nuovo ambito tecno-culturale e valoriale come nuove piste situate in un nuovo ordine di neopacifismo ecoterritoriale, permanente e dirompente? Possono creare nuovi modelli di neopacifismo ecoterritoriale e di ecoterritorialismo pacifista? Lascio aperte queste domande insieme ad alcune ipotesi avanzate.
Nell’accostare la conoscenza di due esperienze e di due pensieri, quelli dell’antimilitarismo e dell’ecoterritorialismo, sul piano storico-antropologico ho cercato di introdurre il malsano come elemento culturale territoriale con un proprio carattere rilevante, non solo patrimonialistico ed esistente in quanto ereditato e non ricusabile. L’inserimento del malsano, come nocivo per la vita nell’ordine dei biopoteri, è stato rilevato specialmente come opportunità di specifica e innovativa responsabilità culturale nel campo dei reali luoghi compensativi di sicurezza, ossia delle eterotopie, piuttosto che delle irreali utopie. Ha suscitato, infatti, una doppia e incoraggiante sollecitazione: al pacifismo per diventare neopacifismo radicato con permanente esito ecoterritorialista e all’ecoterritorialismo per diventare esplicitamente ecopacifista.
La nuova responsabilità ecoterritoriale, che ha la rilevante portata culturale di una nuova civilizzazione, sottolinea gli elementi innovativi che sostengono le riterritorializzazioni in quanto nuove patrimonializzazioni ecologiche, vitali per umanità e natura. Per converso sul piano sociale il nuovo ordine culturale, che mantiene lo sguardo rivolto alle comunità locali produttive di nuovi autonomismi, riguarda la giustizia vitale nei poteri locali e nei territori. Tale giustizia vitale può essere attualizzata con nuovi protagonismi che materializzano nuove spaziature territoriali attraverso bonifiche dei luoghi, degli habitat, degli ambienti, degli ecosistemi e della terra in un possibile novum spaziale e temporale. Assai utile a tal fine è apparsa l’ipotesi di assumere profondamente e ampiamente l’ecoterritorialismo elaborato da Alberto Magnaghi per realizzare un esteso e pragmatico cimento civile federalista, culturalmente democratico e materialmente costituzionalistico, per un possibile dar luogo al luogo bonificato in ogni luogo malsano come prima istanza di una forma di nuova civilizzazione vitale del vivere giustamente, singolare e corale, democraticamente condivisa anche con la natura. Nei contesti di riconversione ecologica in corso, realizzando questo principio ecoterritorialista, si tratta non solo di valorizzare le esperienze tecnologiche come fatti innovativi, ma di connetterle territorialmente sostenendo il valore non solo di ogni parcella sperimentale, ma anche rilevandone plurali linee unitarie di possibili tendenze durevoli, capaci di alterare le storiche violenze o incurie storicamente inflitte alla natura, situandole in un nuovo orizzonte di pace.
La mia intromissione nel pensiero dell’ecoterritorialismo è forse fuori luogo rispetto ai discorsi di altri antropologi. Mi riferisco alle pertinenti elaborazioni di Pietro Clemente, con la sua dislocazione teneramente sovversiva che porta «Il centro in periferia», minando complessivamente le strutture centralistiche pensate e/o istituzionalizzate. Guardo inoltre le visibili “restanze” e i possibili ritorni, individuati da Vito Teti come risposte attive alle marginalizzazioni di luoghi storici, resi inerti dai processi globali de-territorializzanti. Mi è parso tuttavia necessario indicare alcuni problemi a mio avviso ineludibili, teorici e pratici, per quanto riguarda gli storici patrimoni culturali territoriali nocivi, ereditati e/o ereditabili, data l’urgenza di una loro diffusa innovazione vitale attraverso specifiche neopatrimonializzazioni ecologiche produttive di futuro vitale, democraticamente condiviso anche con la natura.
Le globalizzazioni neoliberiste sono state accompagnate da numerosi studi generalisti. In questo contesto, vari studi antropologici italiani si sono distinti per aver mantenuto un forte legame con le forme locali di vita e sui soggetti locali di cambiamento e/o di resistenza. Le alterità, caratterizzando sé stesse nelle autonome soggettivazioni, hanno offerto e offrono non trascurabili repertori di conoscenze anche dei luoghi in trasformazione. Pare giunta l’ora per ritrovarli.
Paola Atzeni

Prima di tutto, vorrei esprimere un’osservazione generale. Il libro di Tore Cherchi è un gran bel libro. Ben scritto, ben fatto, ben vestito. Oltre il principale contributo dell’autore, il testo ha una pregevole produzione, in comunanza con altri. Mi spiego. Ha notevole importanza la generosa e acuta prefazione di Antonello Sanna, che coglie rilevanti stratificazioni narrative nello scritto. Ha grande valore il significativo dossier fotografico dell’architetta Laura Tuveri. Ha raro pregio la veste editoriale che offre Giampaolo Cirronis. Si tratta, pertanto, di un libro di molti pregi in comunanza.
Tuttavia, il testo è il prodotto di un imprescindibile impegno di lavoro dell’autore, un lavoro assai accurato. Basta controllare la cura storico-narrativa di Tore Cherchi per le date dei fatti narrati, per le persone incontrate, per i libri e gli autori citati, per rendersene conto. In breve, il libro è assai apprezzabile e fa onore alla città, facendone un segno distintivo. Il libro è avvincente. Bisogna, pertanto, stare attenti a non farsi prendere dalla narrazione fino a perdere la necessaria distanza critica.
Procederò in questo modo percorrendo il testo: 1) motiverò il mio sguardo antropologico; 2) seguendo la narrazione dell’autore, metterò in evidenza Carbonia fra identificazioni attribuite da altri e realizzate da sé in modi propri, cioè fra identità eteronome e autonome; dalla città industriale a quella post-industriale, attraverso la de-industrializzazione subita; 3) in questo profilo, farò emergere tre nuclei di stile di governance autonomistica, governance che caratterizza il sindaco Tore Cherchi. Si tratta di nuclei che individuo in tre nodi narrativi che riguardano: il suo progetto di conoscenza, la sua politica dello spazio, la sua politica del tempo; 4) inoltre, metterò in rilievo la sua politica unitaria delle culture industriali e rurali; 5) sosterrò, infine, la tesi che Tore Cherchi è stato come sindaco, ed è inoltre con questo libro, produttore di futuro.

1. Lo sguardo antropologico, l’antropologia delle istituzioni, qualche non detto nella narrazione
Ho letto il libro con uno sguardo antropologico, e ciò richiede qualche spiegazione. L’antropologia, etimologicamente, è studio dell’uomo. Ma l’etimologia dice poco e può perfino risultare androcentrica. In modo descrittivo, posso dire che studia i modi socio-culturali di farsi umani o disumani dell’umanità femminile e maschile, e non solo, a vari livelli: individuale e socio-etnico, dei generi e della specie umana. In modo problematico, posso dire che l’antropologia democratica e critica studia i modi di farsi umani e disumani, specialmente nei rapporti di potere e di violenza, a vari livelli: guerre, femminicidi, sottomissioni, inuguaglianze… L’antropologia tratta pertanto, oltre la paleo-antropologia, anche temi di viva contemporaneità. L’antropologia nacque nel 1871, offrì un nuovo concetto scientifico di cultura che comprende tutto ciò che umanamente è detto e fatto, più o meno incorporato, abolendo la distinzione fra cultura “alta” e “bassa” e ampliando l’ambito di ricerca scientifica sulla cultura. Ha sviluppato un ampio apparato di concetti e metodi: osservativi, interpretativi, di produzioni documentarie creando nel tempo fonti scritte, fotografiche, audio-visive. Gli studi di antropologici hanno favorito non poche specializzazioni, sia tematiche e sia territoriali: antropologia storica, contemporanea, economica, sociale, culturale, politica, giuridica, delle religioni, delle istituzioni, medica, urbana, migratoria, rurale, meridionalistica, alpina, industriale, esotica, africanistica, americanistica, orientalistica, dei generi, dello spazio, del paesaggio, dell’ambiente… In poche parole, l’antropologia non è un insieme di racconti acritici di usi e costumi passati o presenti, come impropriamente e diffusamente si crede e talvolta si fa, raccogliendo semplicemente racconti o opinioni e pensando di fare antropologia.
L’antropologia, invece, è una scienza empirica, osservativa e critica, che svolge generalmente spogli documentari e rilevamenti con “ricerche sul campo”, non in laboratorio. Produce dati critici d’informazione, cioè fonti di conoscenza codificate e controllabili, sia teoricamente e sia metodologicamente. Fra i più recenti sviluppi, troviamo l’antropologia mineraria e industriale. In questo campo specialistico, Carbonia emerge come particolare laboratorio antropologico di cambiamenti di valori culturali condivisi, come ethos identificante e identitario, secondo i tempi e i modi. Pertanto, questa città ha avuto e ha parte rilevante nell’antropologia mineraria, industriale e urbana, specialmente nell’antropologia italiana ed europea.
La domanda antropologica, da cui parto nel dispormi a osservare le vicende dal punto di vista dell’antropologia delle istituzioni, è la seguente: fino a che punto Tore Cherchi è giunto per democratizzare, e quindi per umanizzare, sia le istituzioni nelle quali è entrato e sia sé stesso, sia come autorità istituzionale e sia come persona? Come ha agito per potenziare dal punto di vista dei poteri istituzionali la città e la sua personalità di sindaco?
Carbonia è la città che costituisce il centro dell’analisi di antropologia istituzionale per interpretare le azioni e i processi politico-culturali messi in opera da Tore Cherchi. Si tratta, stiamo attenti, di un’analisi bifacciale o doppia: riguarda il luogo fisico della città di Carbonia con una precisa messa in forma storico-istituzionale, democratizzante e umanizzante realizzata dal sindaco, e concerne anche il modo di democratizzarsi e umanizzarsi dello stesso protagonista istituzionale.
Segnalo subito che la narrazione dell’autore può avere un’immediata rilevanza antropologica in quanto parte di una narrazione autobiografica, come spezzone di vita personale, tranche de vie. Inoltre egli è, metodologicamente, un informatore privilegiato sulla città. Può dare, infatti, molte informazioni da vagliare criticamente come fonti storico-antropologiche. Non è questa la sede, né l’occasione per approfondire tanti aspetti di interesse accademico. Limiterò, invece, i mei passi nella sua narrazione, come ho premesso, e cerco subito di provocare alcune sue risposte.
La narrazione biografica e prevalentemente urbana di Tore Cherchi, è necessariamente piegata sulla sua esperienza di sindaco della città e poi di presidente della Provincia, cioè sulle sue esperienze amministrative. Egli lascia non dette le sue importanti esperienze legislative, sia alla Camera e sia al Senato. Tali esperienze legislative, a mio avviso, non riguardano solo conoscenze di bilancio e di visione istituzionale, di fonti di finanziamento e di procedure. Riguardano anche alcune scelte storiche, com’è avvenuto per esempio con la soppressione delle le PP.SS. Si tratta di scelte governative nazionali che hanno avuto una loro importanza nel delimitare il perimetro delle traiettorie operative che gli consentirono poi di amministrare sia la città e sia la provincia, successivamente fino al Piano Sulcis. Mi fermo un attimo sulle esperienze legislative perché lì si situa l’arretramento complessivo dell’intervento dello Stato, a partire dall’economia e dall’industria, che interessarono la nostra città.
Gli anni dell’esperienza parlamentare di Tore Cherchi, dall’ottanta al duemila del Novecento, sono stati i primi due decenni di neoliberismo montante. Sono stati, in parallelo, decenni di indebolimento, di arretramento, di sottomissione dello Stato a interessi neo-proprietaristici e privatistici. In quegli anni si realizzò un processo di sottomissione dei poteri pubblici da parte di un ipercapitalismo incontrollato delle nuove inuguaglianze (Piketty 2020). Lo scioglimento nel 1993 del Ministero delle PP.SS., che ha avuto un peso determinante nel Sulcis, si situa in quel processo. Come si deve tener conto di quel processo nelle nostre vicende locali?
Credo sia necessario esplicitare ora qualche parola non detta nel libro. Guardiamo al processo complessivo. L’iniziale ridimensionamento della presenza dello Stato nel settore alimentare, certo necessaria, è continuato poi in campo industriale senza individuare efficacemente settori strategici. Il ruolo dello Stato si è ridotto perfino in ambito culturale, eliminando sia enti inutili e sia enti utili. Non di tutte le privatizzazioni (avvenute dal 1985 al 2007), c’è da essere orgogliosi. Il Comitato di garanzia per le privatizzazioni della Corte dei Conti nel 2010 e nel 2012 ha in parte svelato il lato oscuro delle privatizzazioni di ex aziende pubbliche e ha rilevato, fra l’altro: 1 l’aumento delle tariffe di certi beni e servizi più alte in Italia rispetto ad altri paesi europei; 2 il mancato recupero di efficienza per migliorare servizi e infrastrutture privatizzate, 3 la scarsa trasparenza dei nuovi proprietari privati. Pertanto, è necessario un esplicito ripensamento critico per attivare, anche localmente, una nuova proposta di rinvigorimento democratico del ruolo pubblico dello Stato italiano nel contesto istituzionale europeo, nel quadro dei nuovi processi economici e istituzionali.
La domanda da cui parto ora, pertanto, è la seguente: perché Tore Cherchi, protagonista di alto valore nelle istituzioni nazionali, come si vede anche in internet, preferisce parlare della sua esperienza di amministratore locale?
L’ambito delle istituzioni economiche nazionali è stato ristretto ed ha assecondato l’affermarsi del neoliberismo incontrollato. Carbonia permette di verificare, nella narrazione di Tore Cherchi, la portata dell’arretramento economico dello Stato sia nel campo industriale e sia nelle sue articolazioni locali, comunali. Insisterò nel domandare pertanto se e quanto, nell’arco storico proprio del neoliberismo incontrollato, di arretramento dello Stato e di indebolimento delle sue articolazioni locali, Carbonia è stata importante per democratizzare-umanizzare l’istituzione comunale che veniva indebolita nella sua forza autonomistica e, congiuntamente, è stata importante per il democratizzarsi e per l’umanizzarsi personalmente di Tore Cherchi. Egli, come sindaco autonomistico, si cimentava in modi alternativi rispetto all’indebolimento delle articolazioni locali dello Stato. Vorrei, a tal proposito, insistere fortemente nel mettere in luce che l’impegno locale di Tore Cherchi si realizza in un contesto di indebolimento, di de-potenziamento, di assoggettamento dei poteri pubblici, statali e delle articolazioni locali, da parte del neo liberismo che realizzava e determinava politiche di abbandono (Elisabeth Povinelli 2011), che produceva «espulsioni» e «terre morte» (Saskia Sassen 2014), con de-localizzazioni e de-industrializzazioni in certi territori e neo-localizzazioni industriali in altri luoghi del mondo.
I due fuochi di lettura che seguo, istituzionale e personale, in entrambi i piani riguardano pertanto il passaggio da soggetti sottomessi a soggetti agenti per diventare più autonomi nell’articolato sistema delle autonomie, sottoposte a un preciso attacco democratico nel corso del neoliberismo che si affermava, come ha recentemente messo in evidenza Noam Chomsky (2021).
Questo linguista democratico continua e irrobustisce un internazionale filone critico-democratico che si è ben distinto negli studi di economia politica e specialmente nella critica delle multiple ineguaglianze (Minsky 2013, Atkinson 2015, Stiglitz 2016, Mazzucato-Jacobs 2016, Pennacchi 2018, Piketty 2020).

I due processi di soggettivazione istituzionale e personale, del Comune di Carbonia e del sindaco Tore Cherchi, che partono da assoggettamenti o da varie riduzioni dei poteri
autonomistici, permettono di cogliere due piani antropologici di soggettivazioni autonomistica, con dinamiche che muovono dalla subordinazione in parte subita per giungere, tuttavia, a una maggiore autonomia soggettivizzante: autonomia relativa ma importante perché rende i soggetti istituzionali assoggettati più padroni di sé. Si tratta di cambiamenti istituzionali, relazionali e culturali, davvero cruciali nella nostra storia non solo locale.

2. Carbonia, identificazioni attribuite e autonomamente realizzate, dall’industrializzazione fascista al post-industriale attraverso la de-industrializzazione
La riflessione di Tore Cherchi sulla città si muove a partire da alcune identificazioni attribuite a Carbonia, solo in parte sovrapponibili: città di fondazione, città industriale, company town (p. 4). Provo ad uscire dall’ambito nazionale ed eurocentrico per dare il giusto valore a questo libro in un’ampia scala. Sulle minerarie città aziendali si trovano interessanti narrazioni antropologiche comparative, a partire dalla cosiddetta “scuola di Manchester”. Si tratta di un gruppo di antropologi inglesi che, negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, privilegiò nello Zambia lo studio delle città minerarie della zona del Copperbelt, la fascia territoriale a prevalente estrazione di rame, come dice il nome. Vari studi di antropologia mineraria, sulle migrazioni o altro, hanno poi attraversato i centri urbani minerari fino ai tempi più recenti, anche nello studio del lavoro e delle imprese minerarie in una prospettiva globale e del neoliberismo. Fra le più importanti voglio ricordare James Ferguson (1999, 2006, 2009); Stuart Kirsh (2014); Robert Pijpers e Thomas Eriksen (2019). Li ricordo per dire che il libro su cui discutiamo non ha un interesse limitato, parrocchiale e di portata localistica, quando parlo di istituzione locale. In un ampio quadro comparativo globale, appare che l’aziendalismo pubblico ebbe peculiari caratteristiche distintive, funzionalmente e politicamente differenti da vari aziendalismi privati di altre company town. Carbonia, infatti, ebbe una storia industriale determinata non da un’azienda privata ma pubblica, nel quadro politico dello Stato fascista a partire dai bellici obiettivi mussoliniani, poi nella ricostruzione post-bellica e infine nella nascita della Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio.
Come acutamente e consapevolmente afferma Tore Cherchi, la sua esperienza amministrativa si situa nell’ambito della relazione fra l’esperienza urbana industriale e quella del
cosiddetto post-industriale, nella abusata marea dei “post-qualcosa”, come egli dice usando il corsivo nel testo (p.54). Si tratta di un filone di riflessioni che si può far risalire alla crisi della modernità espressa nel pensiero filosofico di Jean-François Lyotard del 1979 con il titolo La condizione postmoderna in cui emerge la fine delle narrazioni del progresso, promesso dalla modernità specialmente industriale che si realizzava. Le esperienze di modernità industriale diventano sempre più importanti negli attuali studi storico-antropologici, locali e globali. Studi storici e antropologici, pertanto, si annodano con precise peculiarità leggendo questo scritto.
L’autore analizza alcune nozioni di industriale e post-industriale, specialmente sociologiche.
Riprende la nozione di post-industriale del sociologo francese Alain Touraine, che nel 1969 connetteva la nozione di post-industriale alla società dell’informazione e nel 1998 poneva il problema della fine della fabbrica fordista e dei nuovi soggetti del cambiamento: i giovani, le donne e i movimenti ambientalisti. L’autore considera inoltre la nozione del sociologo americano Daniel Bell, che nel 1973 connetteva i cambiamenti all’avanzare della conoscenza teorica e scientifica. Nota anche la nozione di post-industriale dell’influente tecnologo Jerry Kaplan, che nel 2017 collegava lo sviluppo tecnologico alla produzione di capitali. Infine, pondera la concezione di post-industriale dell’economista di Cambridge Ha John Chang il quale nel 2018 criticava il mito dell’economia post-industriale. Tore Cherchi declina tali nozioni a suo modo e riprende come questione aperta il tema dei soggetti sociali del cambiamento posta da Touraine. Gli approfondimenti dell’autore percorrono un articolato dibattito sociale, tecnico, economico e sono di indubbio ed evidente spessore culturale. Tuttavia, al di là del suo serio impegno analitico, prevale l’impressione che manchino alcune parole, politicamente incisive. Cerco di chiarire.
L’autore rileva la contrazione dello Stato sociale e l’espansione delle ineguaglianze, parla di problema aperto per la sinistra politica e sindacale. Tuttavia, mancano parole incisive sull’indebolimento democratico dei partiti della sinistra. Egli, inoltre, criticando correttamente l’abuso semplificatorio della parola post-industriale, lamenta la rinuncia dei Paesi più sviluppati a realizzare una moderna industria manifatturiera. Anche sulla rinuncia a perseguire una innovativa industrializzazione manifatturiera, ho sentito la mancanza di precise parole riguardanti da un lato l’incontrastato avanzamento delle politiche neoliberistiche e dall’altro lato il debole ruolo della sinistra politica e sindacale, non solo locale, per contrastare il dominio incontrollato neoliberistico che in questi nostri luoghi de-industrializzava il territorio, dopo la liquidazione delle PP.SS.
Al di là di certe parole non dette sui processi politici globali e nazionali che influenzavano le vicende territoriali e urbane di riferimento, nel libro si trovano passi espliciti e preziosissimi. Si tratta di parti imprescindibili, perché risultano assai validanti dell’impegno di grande eccellenza democratica di Tore Cherchi, come sindaco personalmente teso verso l’affermazione autonomistica della vita durevole condivisa di Carbonia. Egli, infatti, si situa in una linea drammatica che riguarda la vita stessa della città. Si tratta di impegni di alto profilo di cultura democratica che esorbitano certe parole non dette. Vediamo ora, pertanto, qual’é la sua articolata e caratteristica governance.
3. Il modello e lo stile di governance autonomistico caratterizzante Tore Cherchi: la politica di conoscenza, la politica dello spazio e la politica del tempo
Individuo tre nuclei operativi nel modello personale di governance istituzionale realizzata da Tore Cherchi, che presenta un preciso e raro stile autonomistico nell’ambito di una originale politica dis-assoggettante il Comune di Carbonia:
1. il nucleo di politica di conoscenza, che lui chiama «progetto di conoscenza» (Cherchi 2021:70), costituisce una traiettoria non breve. Parte dalle identificazioni attribuite alla città (città fascista, città della ricostruzione industriale, città delle chiusure delle miniere, città della nascita di Portovesme, città dell’abbandono delle PP.SS. e dello Stato) per giungere, con una precisa azione istituzionale e personale caratterizzante, a una nuova identificazione conoscitiva e trasformativa di Carbonia, come città dei servizi e di rigenerazione urbana. Tale percorso, trasformativo e potenziante dell’autonomia locale, è antropologicamente assai rilevante.
Assistiamo, dal punto di vista storico-culturale, a una capacità istituzionale della città di mutare le identità istituzionali e culturali attribuite, creando nuove identità autonomamente realizzate. Tore Cherchi fa realizzare alla città un’importante metamorfosi identitaria innovativa, come città dei servizi e di rigenerazione urbana. Le metamorfosi identitarie, acquisite dalla città che si rigenerava, appaiono ben dinamiche. In tutta evidenza, non si presentano oggi statiche o «sospese», come è stato scritto improvvidamente nel dossier per far riconoscere Carbonia capitale nazionale della cultura. Tale identificazione sospensiva attribuita, di particolare provenienza sociologica su migranti, non mi pare culturalmente pertinente ad alcun momento storico di Carbonia, sia dal punto di vista delle aspirazioni di chi abitava la città nel suo primo decennio di vita, sia dal punto di vista delle istituzioni nazionali e dell’immediato post-fascismo che determinavano il ruolo istituzionale della città.
Complesse identificazioni culturali e identitarie, imposte e autonome, secondo i poteri, sono state rese storicamente e dinamicamente possibili in vari modi in città, come mostra il testo.
Anche grazie a questo testo in discussione, considero non fondate certe interpretazioni identitarie della città che le attribuiscono un’identità sospesa senza elementi storico-culturali probanti.
Sostengo, invece, che varie dinamiche, culturali e identitarie, attribuite e autonome, costituiscono il forte e mobile patrimonio antropologico dei Carbonia che richiede continue e aggiornate rigenerazioni, come mostra bene questo testo.
Si tratta ora, pertanto, di seguire le traiettorie dell’impegno dinamico del sindaco Tore Cherchi per un processo nella città e della città, impegno che ha consentito all’ente locale di diventare soggetto di progetti e di scelte autonome, pur in una fase critica in cui le autonomie comunali erano sottomesse a un multiplo centralismo: globale e europeo, nazionale e regionale.
Non potendo entrare in tanti dettagli, invito chi legge a seguire questa linea culturale della soggettivazione istituzionale, come linea autonomistica dei fatti e delle relazioni dis-assoggettanti il Comune di Carbonia, nell’azione del sindaco Tore Cherchi.
Vediamo, oltre la complessiva azione autonomistica, qualche elemento che caratterizza lo stile di governance di Tore Cherchi. Il suo stile è duplice, conoscitivo e insieme securitario, a mio modo di vedere. Tale stile emerge fin da quando egli parla della necessità e dell’importanza della conoscenza profonda per decidere cosa fare e come fare (Cherchi 2021: 70).
Per fare bisogna conoscere e a fondo. Non fu uno slogan annunciato e accantonato: l’Amministrazione promosse un “progetto di conoscenza” (in corsivo e fra virgolette nel testo)

Vorrei richiamare l’attenzione su questo punto importante. Infatti, il progetto di conoscenza di Tore Cherchi non fu solo un cimento d’esordio. Fu, invece, un vettore culturale continuo. Dell’importanza della conoscenza, pertanto, egli parla anche nella parte finale del testo dove ricorda il suo impegno nella Provincia, nel 2011, ancora come «progetto di conoscenza» (Cherchi 2021:123). La caratteristica della sua governance riguarda l’asse portante e di lunga durata di un suo profondo progetto di conoscenza.
Restando agli inizi del testo, vediamo l’autore mentre racconta che, per il suo progetto di conoscenza, fu essenziale il rapporto con l’Università di Cagliari e in particolare con il Dipartimento di Architettura. Egli dice che i rapporti istituzionali furono ampi e inclusero studiosi della Facoltà di Ingegneria mineraria, di medicina del lavoro, storici, studiose e studiosi di antropologia… Sul rapporto con quella che forse possiamo chiamare la “scuola territorialistica di Antonello Sanna”, Tore Cherchi spende molte pagine giustamente meritorie e gratificanti. Mette in luce studi e opere, formazione di studiosi e di professionalità, capacità di dialogo professionale migliorativo con i tecnici e con le strutture del Comune che non si esauriscono nelle tesi e nelle pubblicazioni importanti e di lungo corso, da quelle con Giorgio Peghin (2009 e 2011) a quelle più recenti con Giuseppina Monni (2020). Entrambe le opere sono ben citate in questo libro. Vorrei rimarcare pertanto, a questo punto, un tratto culturale che, a mio modo di vedere, unisce Tore Cherchi e Antonello Sanna: è il loro democratico e continuo modo di “lavorare con”, cioè di realizzare uno speciale modo cooperativo e unitario, collettivo e creativo di un “noi” inclusivo, ma rispettoso di ogni-uno e di ogni-una, sia come persona e sia come disciplina accademica.
A proposito del Premio sul paesaggio del 2010-2011, l’autore scrive con molta cura nel suo libro pagine interessantissime che invito a leggere: sui concorrenti, sui riconoscimenti e sulle motivazioni del premio. Richiamo, inoltre, l’attenzione su un libro, a cura di Giorgio Peghin e Antonello Sanna (2011), Il patrimonio urbano moderno, perché fu frutto di un incontro, che avvenne a Carbonia subito dopo il premio, non solo per celebrare gli onori acquisiti, ma specialmente per continuare l’impegno collettivo di vari studiosi sul patrimonio urbano moderno.
In breve, nessuno, a partire dal sindaco, si adagiava sugli allori, dopo il premio ottenuto. Fu un incontro di altissimo impegno culturale e democratico, presieduto da un illustre studioso, Carlo Olmo. Egli dirigeva allora il Giornale dell’Architettura, era stato preside della Facoltà di Architettura al Politecnico di Torino, aveva insegnato all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, al Mit di Boston e in numerose università straniere, come Londra e Barcellona.
L’incontro aveva un’immediata e ampia valenza, non solo nazionale. Fu un incontro immerso nel passato e nel presente della città e, congiuntamente, ancora una volta teso al suo futuro.
Dobbiamo colmare ora, dolorosamente, il triste vuoto di un compagno di lavoro, come Stefano Asili, che non è più con noi. E non è vero che uno vale l’altro. I talenti individuali sono differenze culturali assai importanti per una valida orchestrazione culturale collettiva, come accade in ogni lavoro di gruppo, come insegnava Gilbert Simondon (1989), e come ho verificato assai istruttivamente analizzando le relazioni in certe squadre operaie di miniera.
Dal punto di vista dell’antropologia delle istituzioni l’azione autonomistica realizzata da questo sindaco ha un forte valore culturale, come ho cercato di esplicitare. Dirò qualcos’altro, pertanto, su due importanti nuclei operativi di governance locale autonomistica di Tore Cherchi.
Riguardano sia le traiettorie culturali che si annodano nella sua politica dello e nello spazio, sia le traiettorie culturali che si annodano nella sua politica del e nel tempo, per la città e della città.
Le traiettorie culturali che si annodano nelle sue politiche dello e nello spazio manifestano che lo stile di governo di Tore Cherchi, informato e conoscitivo, è teso a creare cambiamenti autonomistici soggettivanti, per creare futuro sicuro nella città e della città, per la città e per le sue persone. Gli obiettivi di sicurezza abitativa e di qualità della vita abitativa perseguiti da Tore Cherchi scaturiscono da matrici antropologiche che vorrei portare alla luce.
2. Il nucleo della politica spaziale e paesaggistica intrapresa da questo sindaco è ben connessa alla dimensione antropologica del paesaggio che egli fa propria. Indico alcuni aspetti che ben compaiono in questo libro. Nel solco del premio sul paesaggio Tore Cherchi continua ad impegnarsi, com’è evidente, anche con questo libro, come «responsabilità da onorare» il premio (Cherchi 2021:19). Cosa che egli fa, a suo modo. Nella quarta di copertina, infatti, egli riporta la nozione di paesaggio contenuta nella convenzione europea sul paesaggio che marca fortemente, in tutta evidenza, un mutamento concettuale dalla concezione estetica del paesaggio alla concezione antropologica del paesaggio, una valenza antropologica spesso ignorata, sottovalutata o dimenticata: paesaggio designa una determinata parte del territorio, così com’è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione dei fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni. (corsivo mio)
Con una citazione in quarta di copertina Tore Cherchi dà spazio, ancora una volta, a una visione antropologica che non riguarda solo i manufatti architettonici e urbanistici con i loro contenuti di saperi, ma anche il sentire incarnato nelle e delle persone negli edifici e nei luoghi abitati. Abbiamo nell’isola, a tal proposito, un antropologo sardo che ha scritto per primo in Italia sull’antropologia del paesaggio. Credo che egli possa ben contribuire alla continuazione di un dialogo universitario interdisciplinare sul paesaggio, e su Carbonia. Ora però mi preme sottolineare, nelle conoscenze di Tore Cherchi, il passaggio da una conoscenza del paesaggio estetico a una più ampia conoscenza del paesaggio antropologico della città.
Elenco i passi del percorso antropologico, paesaggistico e spaziale, autonomistico-istituzionale e personale, realizzati da Tore Cherchi, richiamando soltanto certi capitoli, per sottolinearne l’importanza: la Grande Miniera di Serbariu, ovvero il Lingotto del Sulcis; Piazza Roma, Frammento del vuoto; altri spazi pubblici, la piazza Venezia di Cortoghiana e piazza Santa Barbara di Bacu Abis, i parchi; il nuovo piano urbanistico comunale e il piano particolareggiato per il centro storico, le residenze della città di fondazione; il CIAM; la cultura, l’arte contemporanea; una nuova architettura e il centro intermodale. Le 44 pagine, che comprendono i titoli richiamati, spiegano con rara efficacia la politica spaziale e istituzionale di soggettivazione autonomistica e di antropologia istituzionale a cui Tore Cherchi diede speciale impulso per Carbonia nel suo progetto di rigenerazione urbana.
3. Per capire meglio in tutte le valenze la sua politica dello spazio, dobbiamo portare ora la politica autonomistica di rigenerazione dello spazio realizzata da Tore Cherchi nella sua politica del tempo. Dobbiamo pertanto saper vedere un’altra intersezione dopo quella fra autonomia dell’istituzione comunale e personalità autonomistica sindaco. Dobbiamo, infatti, situare ora l’operativa cultura politica autonomistica spaziale di Tore Cherchi in un incrocio con un arco storico. Mi riferisco a uno specifico arco storico in cui Carbonia era città di fondazione, avendo scuole e ospedale, ma rimaneva una città Aziendale, per quanto pubblica: una città senza proprietà comunali e in gran parte incompiuta (Cherchi 2021:43-44). Tore Cherchi assunse pienamente questo lascito storico-culturale della città di fondazione fascista, incompiuta e ancor più carente a fronte di nuove esigenze. Vediamo dunque ora la sua politica del tempo per incrociarla a quella dello spazio.
Percorro, andando all’indietro, la prima parte del suo libro in cui la città industriale è declinata soprattutto nel tempo (Cherchi 2021:27-50). Tore Cherchi delinea un arco temporale, antropologicamente significativo per la sua azione amministrativa. Infatti, inizia unendo la città di sotto alla città di sopra. Comincia, assai significativamente, dal patire della città del sottosuolo che emerge nella città visibile. L’inizio è avvincente: è il pathos dei morti in miniera nel 1938, l’anno della inaugurazione della città: 5 morti per una venuta d’acqua e un totale di 15 morti nel 1938. I morti in miniera diventano 32 nell’anno seguente. Questi fatti narrati dicono la precarietà della vita nel lavoro di miniera durante il regime fascista orientato alla guerra, e che destinava pertanto la città, nata in fretta, a una vita breve. Tore Cherchi ricorda oltre 300 morti nelle miniere di Carbonia, dei quali 138 a Serbariu. Richiama la vicenda della medaglia d’argento al valor civile, conferita alla città nel 2011 dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Riprende il patire dei lutti storici come problematico bene comune del presente.
Egli, a mio modo di vedere e come ho avuto modo di verificare, nel suo impegno come sindaco raccoglie il pathos dei lutti e del difficile poter vivere di miniera insieme al versante delle esperienze minerarie capaci di diventare produttive di vita. Unisce ai lutti, cioè, le esperienze caratteristiche e le capacità tecniche e culturali dei minatori di trasformare i rischi mortali in opportunità di vita. Egli pertanto, a mio modo di vedere, assume i saper fare che producevano securitas biografica individuale e collettiva di vita in miniera, e che erano anche saper vivere solidali, traducendoli in significati culturali amministrativi di nuova securitas in ogni iniziativa rigenerativa di vita per la città, nella città e della città. Egli, in tal modo, fa proprio e mette in continuità il filone storico-culturale del produrre sicurezze di vita a partire dagli spazi rischiosi di miniera. Assume il saper fare come saper vivere dei bravi minatori, per tradurlo in linee operative della sua amministrazione. Per esempio, realizza opere significative di rigenerazion e di ri-vitalizzazione di vari siti, democraticamente condivisi dalle persone come luoghi pubblici, dando loro nuovi tempi di funzioni e di vita. La grande miniera di Serbariu è forse l’esperienza più vistosa di rigenerazione di un sito nella complessiva rigenerazione urbana, che ha anche una precisa valenza di rivitalizzazione temporale. Nell’arco temporale, ogni intervento di questo sindaco che ri-crea nuovi luoghi di vita si può intendere, antropologicamente, come una congiunzione storico- culturale con la migliore cultura securitaria creata dai bravi minatori della città, capaci di trasformare i luoghi di rischi di vita in luoghi di opportunità di vita sicura. La rigenerazione urbana, a ben vedere, è per lui produzione di nuove sicurezze di vita durevole, condivisa nel tempo. Come viene ponderata tale misura, tale metrica di rivitalizzazione dei luoghi e dei tempi di vita cittadina?
Tore Cherchi usa particolari misure ponderate per congiungere i bisogni collettivi con quelli individuali. Per esempio, la sua ponderazione operativa, calibrata su differenti bisogni, appare chiaramente quando parla con pacata comprensione di interventi edilizi esteticamente discutibili, da lui ripresi con soluzioni messe in campo per accogliere bisogni individuali, riqualificando tali bisogni in uno storico e collettivo patrimonio edilizio qualificato. Tore Cherchi porta quindi ad un livello culturale molto alto e fortemente solidale il bisogno di vivere e di vivere bene in una bella città: un livello che marca quel suo presente amministrativo aprendovi un futuro al meglio, anche se dopo di lui, in tutta evidenza, è avvenuto un peggior tempo istituzionale a Carbonia. La cultura del tempo vitale per la città, nella e della città, come quella dei minatori nella quotidianità del sottosuolo e nelle loro storiche lotte popolari democratiche, è una cultura che tende a produrre futuro nell’azione amministrativa complessiva di questo sindaco. Egli tende ad affermare insieme la vita e la qualità della vita della città. La mia tesi principale, pertanto. riguarda Tore Cherchi come produttore di futuro e di miglior futuro per la città. Seguiamo, a tal proposito, la sua politica del tempo.
Gli incontri di Tore Cherchi con Renato Mistroni e con Giorgio Carta nella sua narrazione, a mio modo di vedere, si inseriscono nell’arco del loro impegno per una di vita durevole per la città, democraticamente condivisa. Riguardano, per alcuni versi, certe consonanze che i modi d’agire di quelle persone in quei tempi avevano con le tensioni democratiche che premevano Tore Cherchi.

Nell’arco temporale, culturale e democratico, aperto da quelle due persone, questo sindaco si dispone prendendo in carico una città che storicamente è capace di elaborare culturalmente i suoi lutti e che risponde ai lutti affermando il proprio voler vivere e saper vivere solidale, in miniera e in città. Dell’esperienza antropologica vitale del sottosuolo e della città, Tore Cherchi comprende e assume antropologicamente nelle sue azioni amministrative il diritto a poter vivere, diritto che costituisce la trama culturale quotidiana dell’antropologia mineraria e urbano-mineraria della Carbonia solidale. Si tratta di una trama di antropologia quotidiana, di uomini e di donne che rifondarono la città non sulla durezza delle pietre, ma sulla forza relazionale della solidarietà. Tale forza nutrì non solo i grandi scioperi a partire dal 1948, ma sostenne l’istituzione locale quando ebbe i suoi migliori sindaci, tali da produrre un futuro condivisibile e tali da incoraggiare, per programmi e per qualità personali, una grande partecipazione elettorale, come accadde con le elezioni di questo sindaco.
Tore Cherchi si situa in un solco storico e democratico, popolare e istituzionale, di un diritto a poter vivere, e di poter vivere nel bello artistico delle persone e della città, attraverso la produzione di un futuro condiviso democraticamente di vita durevole e di bellezze artistiche per la città. Non mancano, a questo punto, quando ricorda le dimissioni da ogni incarico da parte dell’ingegner Giorgio Carta, le sue misurate parti critiche rivolte alla degenerazione e alle ingerenze dei partiti nella nomina dei dirigenti di società pubbliche. Quando detto sul forte arco storico-culturale per affermare il diritto a una vita durevole condivisa nel bello, propria di Carbonia e della cittadinanza, attraversa vari tempi e costituisce la politica del tempo caratteristica dell’azione di governo comunale di Tore Cherchi. Ma a quale cittadinanza si rivolgeva Tore Cherchi?
4. La politica unitaria delle culture industriali e rurali realizzata da Tore Cherchi
Vorrei ora spostare l’attenzione verso uno speciale versante, che non può  essere sottovalutato. Come sindaco, l’autore racconta di aver assunto storicamente il contesto comunale, territoriale e culturale, come città e come campagna. Si tratta di un’affermazione assai rilevante, istituzionalmente e culturalmente. Riguarda un territorio comunale antropicamente e antropologicamente negato dal fascismo mussoliniano, o meglio ridotto al livello di territorio spopolato, con un plateale falso storico nella inconfutabilità della parola del duce. Per capire l’importanza della scelta e delle parole di Tore Cherchi bisogna risalire al discorso inaugurale di Mussolini a Carbonia, il 18 dicembre del 1938. Mussolini, nella sua svolta industrialista e bellicista che abbandonava il precedente ruralismo, parlò del Sulcis come una “landa quasi deserta”. In realtà, nel Censimento del 1936, i Comuni sulcitani istituiti erano diventati ben nove: Giba, Gonnesa, Narcao, Palmas Suergiu, Portoscuso, Santadi, Serbariu, Teulada, Tratalias. Si trattava di Comuni autonomi, nati dall’evoluzione degli abitati sparsi a partire dalla loro nascita nella seconda metà del 1700.
Tore Cherchi racconta che 20 medaus furono tutelati come beni paesaggistici alla stregua del centro storico della città, fra gli 82 che costituiscono l’abitato rurale sparso comunale, rilevati nel 2006 come complessiva trama dei medaus per l’elaborazione del PUC, approvato dalla Regione nel 2011, sindaco Tore Cherchi (Cherchi 2021: 92-93). Egli ne sottolinea l’ampia valenza culturale quando, considerando il valore non solo archeologico, ma anche antropologico del sito di Medau Is Maccionis o Medau sa Grutta, afferma la validità di farne «l’epicentro di un progetto culturale sul territorio rurale e sulla civiltà agropastorale di Carbonia e del Sulcis, l’altro mondo convivente con quello industriale» (Cherchi 2021:112).
Questo sindaco esprime una concezione assai avanzata e molto utile, anche operativamente, del rapporto fra cultura industriale e rurale, rapporto che costituisce la ricca trama culturale unitaria della città. Fra l’altro, consente di riprendere le linee progettuali dell’Ecomuseo, elaborate dall’Istituto di discipline socio-antropologiche dell’Università di Cagliari negli anni Ottanta del secolo scorso e di tradurla in un immediato futuro, con i necessari adeguamenti. Permette, inoltre, di riprendere parternariati inevasi dal Comune di Carbonia con quella Università, per declinare nuovi modi che possono caratterizzare le esperienze rurali con le loro eccellenze tecno-culturali, anche di nuova economia circolare e sostenibile, a cui l’autore fa in generale riferimento nel suo libro. Sottolineo ancora, pertanto, che Tore Cherchi ha assunto, in tutta evidenza, la città e la campagna di Carbonia come impegno unitario delle due culture, industriale e rurale, di non breve momento e particolarmente volto al futuro. Tale impegno richiede di essere ora sviluppato.
5. La produzione di futuro realizzata da Tore Cherchi. Un fatto culturale di grande rilevanza che continua nel libro e che il libro riapre nel presente
Prima di concludere, per riassumere senza presentare un quadro idilliaco delle attività amministrative di Tore Cherchi, segnalerò due rapporti critici che lui ha avuto trattando con altre istituzioni, o come sindaco o come Responsabile del Piano Sulcis. Sul primo versante critico segnalo il rapporto critico con il Parco Geominerario che è «divenuto di nessun aiuto al bacino minerario» (Cherchi 2021:77). Sul secondo lato indico i ritardi dei finanziamenti del piano Sulcis da parte della Regione (Cherchi 2021:131-132). Entrambe le esperienze critiche, in tutta evidenza, hanno limitato il suo perimetro di azione.
Non posso soffermarmi, per evidenti ragioni di tempo, sulla valorizzazione artistica della città, né sulla qualificazione della mobilità realizzata da Tore Cherchi che possono essere sottolineate da altre persone. Richiamerò invece per concludere solo due tesi, emergenti dalla lettura del libro, sull’eccellente lavoro autonomistico e di cultura democratica raccontata.
Riguardano lo stile autonomistico di questo sindaco, sia per le produzioni di futuro durevole condiviso, come ho in parte detto, e sia per le produzioni di partecipazione democratica: produzioni che caratterizzano lo stile e la cultura politica autonomistica dis-assoggettante di questo sindaco per Carbonia come istituzione locale ed anche per sé, come sindaco. Per tali fini, esplicito alcune mie posizioni.
Sostengo che la produzione di fatti amministrativi volti al futuro da parte di Tore Cherchi è, in sé, una produzione culturale di futuro. Cito solo nelle mie conclusioni, per rafforzare la mia tesi non avendo tempo sufficiente per argomentare più compiutamente, il libro di Arjun Appadurai del 2013 e tradotto in Italia l’anno seguente, Il futuro come fatto culturale: Saggi sulla condizione globale.
Affermo, inoltre, che la produzione di un’attiva partecipazione della cittadinanza alle imprese culturali, promosse da Tore Cherchi come sindaco, è stata un tratto caratteristico del suo stile amministrativo produttivo di nuova socialità: produttivo di nuovi modi solidali di stare insieme e di creare nuovi “noi” di cittadinanza solidale. Riprendo dal libro, a tal proposito, alcuni ricordi. In primis l’importanza qualitativa dei reperti situati nella Sezione Antropologica, con il prezioso contributo delle ricercatrici Claudia Fenu e Maura Murru, come fa l’autore (Cherchi 2021:78). Ricordo inoltre l’importante contributo dell’assessora Maura Saddi alle feste dei donatori a cui partecipavano anche molti donatori anonimi che non voglio dimenticare. Segnalo pertanto che il nostro validissimo consulente André Dubuc, direttore del pluripremiato Museo Minerario di Leward a Pas-de-Calais, nel Nord della Francia, valorizzava ogni piccolo dono, affermando che quei reperti erano preziosissimi un quanto davano forte carattere di autenticità culturale al museo che nasceva a Serbariu. Devo ricordare anche lo straordinario contributo della Società Umanitaria e in particolare di Tore Figus, contributo partito con il sostegno regionale di Fabio Masala che aveva sollecitato e ottenuto impegni nazionali della società Umanitaria già nella fase di elaborazione delle linee culturali della rete di Ecomuseo territoriale che Carbonia doveva promuovere. Richiamo, riferendomi ancora al testo, l’insostituibile apporto della Sezione di Storia Locale del Sistema Bibliotecario Interurbano del Sulcis (SBIS), ben diretto da Maria Giovanna Musa nel lavoro archivistico e ben portato avanti da tutte le collaboratrici scientifiche della cooperativa.
Ricordo, in particolare, l’iniziale raccolta di foto che faceva diventare beni comuni i beni privati, costituiti dalla foto degli album di famiglia, come accadde poi in generale per gli oggetti di miniera, con molte donazioni anonime. Le fotografie ebbero esito culturale in vari calendari e un libro, intitolato Carbonia in chiaroscuro, edito nel 2002. Le fotografie ebbero poi una postazione, a video multipli, nella Sezione Antropologica e, infine, in città, nei totem del CIAM a cui quella raccolta, organizzata dalla Società Umanitaria e di cui avevo la direzione scientifica, ha dato un suo imprescindibile contributo.
Entrambi gli obiettivi perseguiti da Tore Cherchi, sia l’obiettivo di produzione di futuro durevole condiviso e sia di attiva partecipazione democratica, devono essere ora rilanciati e corroborati in forme e contenuti nuovi, considerata la crisi della democrazia partecipativa, specialmente a livello locale dove i passi indietro, anche di partecipazione elettorale, sono assai vistosi.
Nel racconto di Tore Cherchi emergono varie direttrici, numerosi strati e pieghe di narrazione, fra cui io ho privilegiato gli assi e le prassi culturali delle soggettivazioni autonomistiche: cioè, come ho detto, del farsi soggetti potenziantesi di scelte autonome, sia dell’istituzione comunale e sia del sindaco stesso, come sindaco autonomistico di particolare eccellenza.
Ho privilegiato gli assi e le prassi delle soggettivazioni, istituzionali e personali, come antropologicamente rilevanti e che s’incrociano nell’antropologia delle istituzioni e nel farsi persona, nel piano ontologico. Infatti, la trasformazione del comune di Carbonia, ente assoggettato ai vari centralismi dominanti, nel suo divenire autonomo soggetto di scelta e di decisione, interseca il divenire di Tore Cherchi mentre realizza una propria trasformazione da sindaco sottomesso ai vincoli dei poteri di livello più alto, Egli diventa, tuttavia, capace di operare anche per una propria autonomia personale, culturale e politica, di sindaco autonomista, nel non subire passivamente i vincoli, ma operando nel superarli anche verso di sé, in quanto sindaco, a partire dal rafforzamento dell’autonomia della città per volgere la nuova forza decisionale della città come nuovo rafforzamento del proprio ruolo personale di sindaco. I finanziamenti ottenuti dalla città ai tempi di Tore Cherchi, infatti, furono dovuti a una straordinaria e personale capacità di vincere vari bandi pubblici, nazionali ed europei, attraverso i quali le spese d’interesse per i mutui e le quote partecipative ai finanziamenti furono assai inferiori rispetto agli enormi benefici di risorse acquisite per la città (Cherchi 2021:128).Un nuovo percorso autonomistico di Tore Cherchi si apre ora, a partire da questo libro.
Ho mostrato come egli abbia concettualmente e praticamente attraversato molte temporalità di Carbonia, molti tempi con caratteri storici e identificazioni culturali, imposte o autonome, differenti: città fascista incompiuta, città della ricostruzione industriale, città dei vari tempi delle chiusure delle miniere, città della nascita di Portovesme, città dell’abbandono delle PP.SS. e dello Stato, città dei servizi e della rigenerazione urbana volta a un futuro durevole condiviso.
Ho sottolineato come Tore Cherchi abbia realizzato a Carbonia un’esperienza autonomistica assai fruttuosa nel tempo, per tutti noi e per la Sardegna. Si tratta di un’esperienza da ripensare ora adeguatamente, in questi nostri tempi di molteplici rischi di vita.
Questo libro induce a un importante ripensamento per la nostra contemporaneità. Ciò può avvenire con nuovi progetti di conoscenza, suoi e anche nostri. Per esempio, sull’abbandono delle PP.SS. appare nel libro la giustificazione di uno stato di necessità che forse va ora accompagnato da qualche ripensamento delle politiche pubbliche, come appare dagli studi di economisti democratici raccolti, per esempio, da Mazzucato e Jacobs nel loro libro Ripensare il capitalismo (2016). Si tratta di un ripensamento che riguarda l’Europa e gli Stati europei in chiave di federalismo democratico, di un socialismo partecipativo e di un’Europa da democratizzare, se si seguono le traiettorie dell’ultimo Piketty attento alle ideologie neoliberistiche ineguaglianti, ancora ben vive e attive, per quanto visibilmente in crisi (2017, 2020, 2021). Il ripensamento tocca anche l’autonomismo regionale nel quadro di un federalismo democratico, e non di autonomie differenziate ed inferiorizzanti, come vogliono le destre sovraniste assolutamente libere da ogni responsabilità sociale, verso le quali l’azione politica delle sinistre in Sardegna mostra gravi carenze culturali e politiche.
Nei quadri d’epoca di autonomia democratica, che si susseguono negli spazi e nei tempi della narrazione del libro, Tore Cherchi appare pertanto produttore di futuro e di partecipazione democratica condivisa, sia nel fare amministrativo e sia nel fare narrazione scritta. Di entrambe le esperienze gli sono assai e profondamente grata.
Nella scrittura di questo libro l’asse culturale antropologicamente rilevante è l’impegno per un complesso di cambiamenti partecipativi tesi a un futuro durevole, democraticamente condiviso.
La mia tesi è che Tore Cherchi, come sindaco e come autore di questo libro, è stato ed è produttore di futuro e di partecipazione democratica come fatto culturale di rilevanza antropologica, nel solco del pensiero di Appadurai.
Con questo libro, a mio avviso, si apre a una nuova temporalità autonomistica di Carbonia e della Sardegna: sia nei rischi diffusi creati dalla globalizzazione neoliberistica, in crisi e tuttavia ancora economicamente e ideologicamente forte, e sia nei rischi di incompiutezza e di precarietà della nostra stessa costituzione, non realizzata in certi aspetti istituzionali e sociali, specie localmente nel Meridione italiano e nei luoghi di spopolamento, come la nostra città. Si tratta di rischi esistenziali che la post-pandemia, a ben vedere, pone in un nuovo piano di rischi democratici, che richiedono ineludibili e di urgenti interventi.
Tore Cherchi, con questo libro, apre nuove prospettive, su molti piani:
– per inedite produzioni di futuro durevole condiviso democraticamente, come fatti culturali antropologicamente rilevanti, a partire da Carbonia e dalla nostra Isola;

– per innovative imprese di democratizzazione dell’Europa attraverso un federalismo democratico e a orientamento sociale partecipativo, nei vari rischi dell’ineguale e difficile poter vivere del presente;
– per inventivi e sperimentali modelli di democrazia partecipata, a varie scale territoriali e istituzionali, che riguardano anche il futuro e lo sviluppo degli studi antropologici.

Paola Atzeni

Antropologa

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N.B. Le foto allegate sono state scattate il giorno della presentazione del libro, svoltasi nella sala Centro di documentazione di Storia locale della Grande Miniera di Serbariu.