21 December, 2024
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Crediamo che curare sia un atto finalizzato a far cessare una malattia, ma questo è solo un aspetto tecnico. Il significato vitale è più ampio. La cura in realtà è un “prendersi cura”, cioè un interessarsi al benessere di se stessi, della comunità e dell’ambito in cui si vive. Questo è quanto si comprende leggendo l’opera antropologica di Paola Atzeni “Corpi gesti stili”. Per corpi intende i corpi fisici che si prendono cura del sé. Per gesti e stili intende le attività svolte da quei corpi che vivono, desiderano, programmano, valutano e poi si prendono cura di tutto quanto li circonda. L’opera è una ricerca del significato ontologico della “cura”; significato che può essere sintetizzato nell’affermazione: curo, quindi sono. è un’affermazione simile al “dubito e quindi sono” di Sant’Agostino, o al “penso e quindi sono” di Cartesio.

Corpi gesti stili” è una ricerca scientifica del 1986 ed esamina un mondo “ marginale” vissuto da quattro donne delle periferie rurali del Sulcis. Non parla mai del mondo industriale, parallelo e “privilegiato”, che le ha escluse, però ne fa sentire la presenza incombente.

Nel mondo privilegiato esiste una società ricca, organizzata e altera che, chiusa in un ambito impenetrabile e respingente, ha sottomesso, abbandonato e poi espulso da sé quelle donne del mondo rurale. Il mondo rurale, a sua volta esiste inferiorizzato, senza protezioni fuori dai confini del mondo tecnologico che, al contrario, è racchiuso in un guscio di sicurezze.

I casi delle donne studiate riguardano una prima donna che sa macinare il grano con un’antica macina mossa da un asino; sa cernere la crusca dalla semola e dalla farina fine, e ne fa scambio con i prodotti di altre donne assicurando una riserva alimentare alla comunità. La seconda donna sa impastare e panificare in un forno a legna e rifornisce settimanalmente la piccola comunità; la terza donna sa potare le palme nane per farne scope per l’igiene delle abitazioni, e le vende e scambia in un vasto territorio. Il quarto gruppo di donne si occupa della raccolta dello olive per la fornitura di olio alla comunità.

L’organizzazione sociale in queste comunità di donne è basata su criteri di rispetto, di tutela del prossimo e di democrazia da fare invidia ai filosofi greci del quinto secolo avanti Cristo ad Atene.

Seguendo l’iter dello studio osservazionale, protratto per circa 40 anni, si scopre che le donne del mondo rurale, nel tempo, hanno maturato un duraturo sistema di sopravvivenza superiore a quello del mondo industrializzato, creando un’organizzazione sociale tale da metterle autonomamente al sicuro dai rischi di vita per penuria alimentare, sanitaria e di difesa dalle violenze. I casi studiati dimostrano come quelle donne si siano messe al sicuro prendendosi cura ognuna di sé, della propria famiglia, e delle altre donne della comunità, attraverso l’esercizio della solidarietà.

Questo ambiente antropologico è collocato storicamente negli anni ‘80 del 1900 e, come si vedrà, ha avuto la capacità di saper sopravvivere integro dalla sua origine fino ad oggi.

Gli anni d’inizio dello studio erano quelli in cui nel Sulcis era già avvenuta la transizione dall’economia agricola a quella industriale. I maschi negli anni ‘60-’70 erano stati selezionati per il passaggio dal mondo rurale all’industria mentre le donne degli abitati rurali erano state progressivamente marginalizzate dalla società tecnologica che si stava instaurando, ed erano state costrette a sopravvivere riprendendo metodi produttivi ancestrali basati sulla cura della terra.

Mentre nel mondo “privilegiato” si creava una gerarchia comunitaria basata sullo scambio di danaro e in fabbrica si instaurava una gerarchia del lavoro basata sulla logica della ingegneria sociale, nel mondo “marginalizzato” rurale si creava una convivenza basata sullo scambio di valori. Si trattava di valori non monetizzabili come la capacità e l’abilità nel produrre sicurezza alimentare per sé e per gli altri, lo scambio democratico di privilegi basato sull’alternanza nelle posizioni gerarchiche, il riconoscimento del merito e lo scambio di rispetto e di cura, generatori di felicità. Si erano instaurati due mondi, uno privilegiato e l’altro marginalizzato, con due sistemi etici divaricanti fra essi.

Il contenuto del libro è ben rappresentato nella figura di copertina. Si tratta di un affresco in cui donne, disposte in riga, hanno il busto piegato in avanti e flesso sulle gambe diritte, nell’atteggiamento di chi sta svolgendo un lavoro in basso.

E’ un’immagine ancestrale, già vista molte volte. Rappresenta le raccoglitrici di olive in Sardegna, ma può rappresentare anche le mondine delle risaie, le raccoglitrici del cotone e del tabacco, le cernitrici delle miniere, le raccoglitrici di arselle in laguna, le vendemmiatrici, le potatrici di palme nane per ottenerne scope. Sono tutte immagini di donne al lavoro per portare nutrimento alla famiglia. Quell’affresco ricorda anche la postura delle donne degli asili infantili che assistono i bambini, le donne in divisa da infermiera inchinate sugli ammalati negli ospedali, le assistenti delle RSA chine sui pazienti non autosufficienti. Sono immagini di cura di corpi umani.

Questa immagine di donne chine al lavoro nella cura della terra e degli altri è probabilmente l’immagine più antica della storia dell’Uomo. Nel Mesolitico, al tempo in cui i cacciatori-raccoglitori migravano dal continente africano a quello asiatico ed europeo, ad un certo punto, mentre gli uomini si allontanavano per la caccia, le donne si fermarono per dedicarsi alla cura dei figli e alla produzione di alimenti coltivando cereali e allevando animali addomesticati. Furono le prime immagini di donne chine verso terra per raccogliere o coltivare qualcosa che assicurasse la famiglia dal pericolo di morte per penuria di alimenti. Lì nacquero i primi aggregati di abitazioni rurali e lì si formarono i primi villaggi. Lo fecero per prendersi cura di quei corpi che i loro corpi avevano generato, e lo fecero con gesti e stili che hanno attraversato il tempo fino a noi. Gesti e stili sempre uguali: chine, flesse ad accudire la famiglia e la comunità delle altre donne in un interscambio di cure.

Nella stesura del libro l’autrice non nomina mai la città tecnologica e l’enorme sviluppo industriale del Sulcis di 40 anni fa, tuttavia si percepisce che, col passare dei decenni, in quel mondo sono sopravvenute le crisi: quelle crisi che avvengono «quando il vecchio è morto e il nuovo non riesce a nascere».

Dopo la crisi dell’economia agricola del Sulcis, conseguente al richiamo degli uomini dalla terra all’industria, si passò in pochi anni ad una nuova crisi delle attività produttive; stavolta toccò agli operai delle industrie.

Le industrie vennero delocalizzate in altre aree dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa e il Sulcis de-ruralizzato si trovò in breve tempo anche de-industrializzato. Quell’ambito sociale, che era stato privilegiato dallo sviluppo industriale, venne a sua volta “marginalizzato”. Ripresero le emigrazioni degli operai e dei tecnici più giovani. Rimasero i vecchi e i pensionati.

Gli effetti si fecero sentire anche sul Sistema Sanitario Ospedaliero.

Negli anni ‘90 la spesa sanitaria degli Ospedali venne dichiarata insostenibile. Allora ci vennero inviati economisti di stampo bocconiano che ci insegnarono i metodi per ottenere “efficienza ed efficacia” facendoci credere che si potessero ottenere gli stessi risultati di cura riducendo, però, il personale e il finanziamento della sanità.

A causa della riduzione del personale e del mancato aggiornamento degli strumenti, avvenne il calo delle operazioni chirurgiche e dei ricoveri in medicina interna. Comparve per la prima volta la parola “doppioni”, usata per indicare i reparti ospedalieri simili fra Carbonia e Iglesias. Con la motivazione degli “inutili doppioni” si procedette alla soppressione di alcuni reparti a Carbonia e alla chiusura di interi ospedali ad Iglesias; per di più non si tenne conto che nella curva demografica stava avvenendo uno scompenso provocato dalla forte crescita delle età avanzate e, nonostante il forte aumento di tumori e di malattie vascolari, si chiusero posti letto di chirurgia e di Medicina. Fu un’euforia autodistruttiva e gli Ospedali, che sono il fulcro del sistema di cura, entrarono in crisi.

Circa quattro decenni dopo, con l’indagine antropologica di “Corpi gesti stili” siamo ad un’ulteriore svolta storica: siamo definitivamente entrati nella de-globalizzazione degli scambi commerciali e nella globalizzazione della minaccia nucleare. Questo nuovo stato di cose ci trova impreparati e non abbiamo idea di come evolverà la condizione dell’economia in questo angolo di Sardegna.

La citata opera antropologica, che fu portata a termine nel 2019, ci offre, nella terza parte del libro, riflessioni che oggi possono rappresentare un indirizzo per affrontare l’ incerto futuro economico che incombe. A tal fine, l’autrice chiama in causa tre donne scienziate, esperte di organizzazione sociale in condizioni critiche, femministe, filosofe e antropologhe: Carol Gilligan, Judith Butler e Maria Puig de la Bellacasa.

Confrontando le sue ricerche con quelle delle tre scienziate giunge alle stesse conclusioni suggerendo il recupero dei valori del mondo rurale basati sulla “cura della famiglia, del prossimo e dell’ambiente”.

Le quattro scienziate concludono in sintonia che si deve ricostruire una società umana e politica basata sulla “cura vicendevole”, la “buona cura” e la “cura orientata”, cioè deve trattarsi di un rapporto di cura interscambiabile ed esteso all’Ambiente. La Gilligan suggerisce la costituzione di un sistema di cura autoprodotto, autosufficiente e indipendente. Sostiene che l’autonomia della cura è fondamentale per assicurarsi la libertà e la sicurezza; inoltre introduce un principio innovativo con cui avverte che si deve avere la certezza che nessuno possa utilizzare il bisogno di “cura” al fine di instaurare un rapporto di dipendenza a danno di chi usufruisce di quella “cura”. Per non cadere nella soggezione di nessuno essa afferma che le comunità devono esercitare un serrato controllo sull’apparato che elargisce la “cura” e afferma: «Non mettetevi nelle condizioni di dover accettare delle cure che non siano sotto il vostro controllo, pena la dipendenza, la carenza di cure, la mancanza totale di cure o anche l’abbandono».

Sembra una premonizione di quello che sta avvenendo oggi a danno dell’apparato sanitario del Sulcis Iglesiente che a causa della dipendenza da altri è entrato in sofferenza.

Questa lezione dovrebbe costituire la base antropologico-filosofica da cui non possono prescindere i nostri sindaci, nel momento in cui si confrontano con i poteri regionali, perché i poteri sovraordinati sono difficilmente controllabili e, soprattutto, potrebbero essere “interessati ad accrescere se stessi” come afferma Judith Butler citando Nietzsche.

Dopo quasi 40 anni dall’inizio dello studio, e dopo i rivolgimenti politico-economici del pianeta, la nostra studiosa ha verificato che la società tecnocratica, a sua volta emarginata dalla globalizzazione e dalla fine delle industrie, per la propria sussistenza ha nuovamente necessità della terra per l’agricoltura, per l’allevamento, per fini di autoconsumo, e anche per fini turistici.

L’autrice, seguendo le osservazioni della filosofa-antropologa Maria Puig de la Bellacasa, che sostiene la “Permacultura” (equilibrio permanente fra Uomo e Ambiente) invita a porre attenzione sulla “Biopolitica”, e sui “Biopoteri” (quei poteri che condizioneranno la vita sulla Terra oggi che il pianeta, con suoi quasi 9 miliardi di abitanti, ha un forte bisogno di terra utile).

Per sopravvivere in questo contesto umano e planetario ella suggerisce una politica di sviluppo culturale ed economico indirizzato verso la cura di quei luoghi che prima chiamavamo “abitati rurali sparsi” che nello studio sono gestiti da donne. Essi oggi potrebbero essere una via necessaria per la futura “cura” di noi stessi e per sfuggire alla penuria di alimenti e di sicurezza che dovremmo attenderci.

Mario Marroccu