21 November, 2024
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Il titolo del libro “L’Europa al bivio” riguarda una pubblicazione, curata da Salvatore Cherchi e Gian Giacomo Ortu, che raccoglie gli scritti dello stesso Ortu, di Christian Rossi, Benedetto Barranu e Omar Chessa, introdotti da Cherchi. Complessivamente, offre ben più che un pamphlet informativo e di un insieme di stimoli importanti per una discussione. Per quanto preceda la guerra in corso che obbliga a ripensamenti non da poco e non solo sul piano politico-istituzionale, storico-giuridico ed economico-finanziario. Impegna, soprattutto, verso nuovi percorsi di pace nelle relazioni non solo fra gli Stati, ma anche dentro ogni Stato. A mio avviso questo testo rappresenta uno sviluppo rispetto al manifesto di Ghilarza che determinò il raggruppamento Sinistra Autonomia Federalismo (SAF). Pertanto, offre una più ampia base di riferimento, per successivi e auspicabili aggiornamenti. Anche nell’immediato questa pubblicazione stimola profonde riflessioni che riguardano ogni gruppo progressista nello schieramento di sinistre sarde, italiane ed europee, per andare oltre l’Europa al bivio, compreso il bivio della guerra nucleare, in un impegno di pace e di giustizia sociale fra gli Stati e negli Stati.

Ho imparato molto da tutti i saggi e anche dalla pregevole introduzione di Tore Cherchi. Ringrazio tutti. In particolare, noto che Tore Cherchi, rispetto al passato, presenta innovative convinzioni e nuove determinatezze con una propria e straordinaria forza culturale e politica che, purtroppo, non emerge nella palude precongressuale del Pd in Sardegna. È utile leggerlo con particolare attenzione politica, per cogliere i suoi nuovi orientamenti. Forse, bisogna pensare a quali associazioni possono promuovere qualche dibattito precongressuale, per conoscere meglio le attuali posizioni in campo nel Pd sardo.

Dico subito che ho attraversato questo testo, come antropologa, con la mia “cassetta degli attrezzi” che verifica vecchie e nuove disumanizzazioni e vecchi e nuovi assoggettamenti, insieme a certe capacità di farsi soggetti autonomi a vari livelli, più o meno istituzionalizzati: individuali e collettivi, di classe e di genere, socio-etnici e della specie umana. Leggendo questo libro ho tenuto conto, in particolare, di una certa antropologia economica e di un suo percorso. Per dirla in breve su questo settore, nel quadro del sistema-mondo, l’antropologia economica alla quale mi sono riferita è diventata antropologia della globalizzazione finanziaria, analizzando processi ed effetti del neoliberismo con innovativi approcci. Appadurai per esempio, con il suo percorso biografico e di ricerca, illustra anche un recente tragitto di questo settore. Egli studiava nel 2011 le aspirazioni democratiche che producono futuro e che richiedono riconoscimenti (Le aspirazioni nutrono la democrazia). Nel 2016, giungeva ad approfondire il filone di studi antropologici che riguarda i fallimenti tecnici, finanziari e di mercato (Scommettere sulle parole. Il cedimento del linguaggio nell’epoca della finanza derivata). Nel 2020 egli passava allo studio dei fallimenti del “finanziarismo” (Fallimento). In questo percorso considerava anche angosce e tossicità che accompagnavano la gig economy, compresi gli investimenti sul rischio e la frammentazione dei soggetti che subivano le crisi.

Di lavori precari e di dequalificazione delle persone e di certi lavori si è occupato, inoltre, David Graebner (Bullshit Jobs, A Theory 2018), antropologo americano alla London School of Economics, morto in Italia ai tempi iniziali del coronavirus. Incoraggio fortemente a osservare la più attuale e innovatrice antropologia, anche nelle riflessioni sul federalismo che vogliamo sostenere.

Vorrei, pertanto, indicare e richiamare ora alcune tematiche che riguardano i processi finanziari e gli impoverimenti dei soggetti umani fino al loro indebolimento, depotenziamento e annichilimento, insieme alle loro esperienze di resistenza e per un cambiamento democratico. Si tratta di temi che Appadurai affronta soprattutto nel suo saggio del 2016. Riguardano esperienze della frammentazione dei soggetti che per certi versi lo avvicinano ad Amartya Sen e ad Antonio Gramsci. Sono questioni presenti nel testo in discussione. Ne parla in un certo modo Giangiacomo Ortu, citando proprio Amartya Sen a proposito di Libertà individuale come impegno sociale. Non a caso si tratta di un’opera particolarmente vicina al Federalismo italiano ed europeo, a partire da Eugenio Colorni e dal Manifesto di Ventotene, in cui il rapporto problematico fra soggettività individuale e collettiva è assai consapevole e ben considerato. Si tratta di un tema di straordinaria importanza che merita di essere approfondito perché, a mio avviso, un nuovo federalismo deve chiamare in causa e implicare la vita di ogni persona, la dimensione soggettiva individuale nella creazione di un soggetto collettivo federale.

Tore Cherchi sostiene che bisogna ritornare a quel pensiero. Condivido tale affermazione, fatte salve, ovviamente, le opportune storicizzazioni su cui dovremmo avviare oggi qualche approfondimento ed effettuare qualche necessaria sottolineatura.

Parto dalle sottolineature. Riprendo due punti, fra i commenti del 1974 di Noberto Bobbio al Manifesto federalista di Ventotene. Uno riguarda la pace e il pacifismo transnazionale. Sono contenuti nella critica, propria del federalismo, alla sovranità assoluta. Questo punto concerne, inoltre, il rapporto fra il federalismo europeo e il federalismo mondiale, in attesa del quale pare a me che non ci si possa limitare alla sola cooperazione europea, per quanto importantissima, come soluzione funzionale e generatrice automatica di pace mondiale (Bobbio 2014:102):

In questo senso il pacifismo europeo non è propriamente una dottrina pacifista, non tanto perché a rigore se è valido il suo sillogismo – la causa delle guerre è la sovranità assoluta, per limitare le guerre bisogna limitare la sovranità – la conseguenza necessaria dovrebbe essere non la federazione europea ma la federazione mondiale (ideale che rimaneva, sì, sullo sfondo, ma non era diventata ancora un programma politico), ma perché la pace non viene considerata in seno al movimento federalista sin dai suoi inizi come il fine ultimo ma come il presupposto, la conditio sine qua non, per la realizzazione di altri fini considerati come preminenti, quali la libertà, la giustizia sociale, lo sviluppo economico e via discorrendo. (sottolineatura mia)

Si tratta di un punto che merita più che una sottolineatura. Per certi aspetti, ci rinvia a Piketty e a certe sue domande che precedono certe sue risposte, utili anche per precisare ora la nostra rotta. Quale federalismo? Per fare che cosa? Si tratta di domande contenute in un suo testo del 2015 che ha per titolo una principale domanda: Si può salvare l’Europa?

Prima di riprendere alcune proposte di Piketty, vale la pena di sottolineare un altro punto importante, indicato da Bobbio. Egli rimarca come il federalismo nasca nel crogiuolo della crisi e della risposta alla crisi con la Resistenza, volta a un nuovo assetto sociale. Egli, affermando il carattere storicamente inventivo della Resistenza e del federalismo, dice così (Bobbio 2014:108).

L’ideale federalistico si pone su questo terzo livello: la resistenza non come restaurazione ma come innovazione. La resistenza che deve chiudere e aprire, distruggere per costruire, essere negazione non in senso formale ma in senso dialettico. Che non deve limitarsi a vincere il presente ma deve inventare il futuro. Il federalismo fu, ed è tuttora una di queste invenzioni storiche. Per questo è legato a quel momento creativo della storia che fu la Resistenza europea. Una delle più alte coscienze della Resistenza italiana, Piero Calamandrei, scrisse: «Tutte le strade che un tempo conducevano a Roma conducono oggi agli Stati Uniti d’Europa». (sottolineatura mia)

Per quanto riguarda la crisi e il rilancio delle istituzioni europee tutti gli autori Rossi, Barranu e Chessa offrono con Tore Cherchi importanti riflessioni critiche e positivamente ponderate, senza autolesionismi. Le condivido con qualche più accentuata preoccupazione, già presente nei loro scritti. Per esempio, Benedetto Barranu mette in luce le importanti attenzioni europee ai parametri finanziari a fronte, tuttavia, della disattenzione verso gli obiettivi di integrazione economica, sociale e civile delle diverse regioni europee. Egli si riferisce a Piketty, ma se ne discosta in certa misura nell’ordine delle proposte. Sull’incremento della pressione fiscale, infatti, mi pare più forte in Piketty l’esplicitazione della progressività fiscale, sia come ordine prioritario e sia come ordine qualitativo, ordine che nello scritto di Benedetto Barranu risulta al quarto posto delle proposte. Mi pare, invece, che questo elemento della progressività fiscale sia considerato cruciale per poter combattere le disuguaglianze partendo dalla distribuzione, sia da Piketty e sia dal suo maestro Antony Atkinson.

Giungo a un punto democraticamente cruciale. Nelle diseguaglianze – come notano questi due autori e come sappiamo – quelle di genere hanno una particolare rilevanza. Tuttavia, particolare attenzione deve essere dedicata anche alle disuguaglianze interne ai generi. Infatti, debbono essere ora considerate con una nuova attenzione, che scientificamente riguarda le “intersezioni”. Detto semplicemente, si tratta di considerare i fili delle condizioni e delle posizioni non solo sociali, ma anche locali, per esempio infrastrutturali e ambientali, specialmente per le donne. Tali intersezioni sono anche individuate come socio-geo-culturali, per esempio considerando le relazioni di genere secondo il colore della pelle e secondo i contesti locali, anche di spopolamento o di abbandono o d’inquinamento. La questione delle disuguaglianze, in particolare di genere ma anche interne al genere, a mio avviso, è un punto dirimente per un nuovo federalismo democratico e partecipativo.

Nelle egemonie vecchie e nuove, considerate dal federalismo che si sta elaborando in Sardegna, pare rimanere in ombra il nesso con le nuove subalternità, generazionali e di genere, determinate dal neoliberismo, imperante anche nelle complessive politiche europee non solo con le politiche di austerità. Negli approcci federalistici finora da noi pubblicati, gli aspetti delle “nuove subalternità” sembrano ancora sottaciuti o impliciti, oscurati o fuori da ogni interesse programmatico di nuovo federalismo. Ovviamente la realtà non è sempre quella che appare e ciò vale anche in questo caso. I ritardi e gli offuscamenti, di cui sono anche io responsabile, sono di varia natura e riguardano anche vari impedimenti personali. Tuttavia, non possiamo restare insufficienti su tali aspetti.

Dobbiamo, evidentemente, fare qualcosa in più e di diverso, per promuovere, specie con studentesse e studenti, nuovi protagonismi di donne e di giovani che siano non conformistici verso chicchessia, ma seriamente rigorosi nei pensieri, nelle iniziative e nelle relazioni. In ogni caso, non possiamo essere soddisfatti di una nostra cornice concettuale generale, fatta in casa, che lascia nella stagnazione e nell’opacità tali aspetti delle nuove subalternità e delle nuove inuguaglianze, specie di genere, diffuse nel mondo ultraliberistico, incontrollato e diventato imperante.

Il federalismo che Sinistra Autonomia Federalismo (SAF) richiede, a mio avviso, proprio nel piano delle nuove subalternità e delle nuove inuguaglianze, una specifica connessione con il pensiero gramsciano sulle subalternità, operante nella cultura politica globale. Vale la pena di affermarlo proprio oggi 27 aprile, in modo non celebrativo a 85 anni dalla sua morte, ma per rivelare la vitalità concettuale e operativa di parti importanti del suo pensiero.

Forse, ma non vorrei mettere troppa carne al fuoco, la nostra riflessione può giovarsi anche di una parte del pensiero berlingueriano. Egli, infatti, guardava all’eurocomunismo e al rapporto fra democrazia e socialismo in un suo orizzonte riformista dell’Europa dei popoli, e della stessa Nato. Posso solo auspicare una riflessione collettiva su tali aspetti di rilettura dell’eurocomunismo berlingueriano. Tuttavia, è necessario ponderare ora su che cosa si può fare di più e meglio in merito alle nuove subalternità e alle nuove inuguaglianze di genere e nei generi, nel nostro progetto di un “democratico federalismo sociale”.

Vorrei tornare ora alle inuguaglianze, perché credo che queste debbano essere declinate non solo a scale limitate in Sardegna, in Italia e in Europa. Penso che le inuguaglianze debbano essere inserite anche in più ampie scale transnazionali, cercando di individuare legami tematici trasversali, dalle politiche di genere a quelle ambientali. A mio avviso, infatti, è necessario far emergere un federalismo sociale, nuovo e avanzato democraticamente, in cui le nuove subalternità e le nuove inuguaglianze siano individuate e connesse fra loro secondo specifiche trasversalità e in cui la pace sia, non presupposta, ma un obiettivo permanente e mai definitivamente compiuto. Penso a un federalismo sociale europeo, gramscianamente aperto al mondo

Nel quadro delle nuove subalternità, credo che tutte e tutti noi dobbiamo dare continuità e sviluppo a un altro versante dell’impegno di Sinistra Autonomia Federalismo, avviato con Laura Pennacchi il 26 novembre 2018, per ripensare la crisi capitalistica, la socializzazione degli investimenti e la lotta agli impoverimenti attraverso la promozione del buon lavoro per tutte e tutti. L’iniziativa del novembre 2018 corrispondeva in parte, sul piano scientifico, al titolo del libro dell’economista keynesiano Hyman Philip Minsky, edito nel 2014, Combattere la povertà. Lavoro non assistenza, in cui Laura Pennacchi pubblicava un saggio introduttivo. In questo testo, come in altri impegni di questa studiosa, si affermava con particolare forza l’importanza dell’autonomia culturale nelle esperienze lavorative in cui i soggetti diventavano autonomamente protagonisti attivi di un cambiamento democratico.

Vorrei, mantenendo il focus sul lavoro, metter l’accento sul fare, sul fare immediatamente possibile che sia Piketty e sia Atkinson rendono evidente per realizzare un’Europa caratterizzata dalla democrazia ugualitaria e dal federalismo sociale. In questa Europa il buon lavoro per tutte e per tutti è un obiettivo fondamentale. Si tratta, infatti, di promuovere un democratico federalismo sociale in cui il lavoro viene garantito a chi lo chiede.

Parto da Atkinson (2015:307-308). Il titolo Sulla disuguaglianza ha come sottotitolo la domanda Che cosa si può fare? La parte finale del testo indica La strada che ci sta davanti. In questa parte egli delinea vari percorsi per andare avanti ed esplicita 15 proposte che è ora impossibile riportare o riassumere. Ne vorrei selezionare alcune, a titolo esemplificativo.

La proposta n. 3 recita: Il governo deve adottare un obiettivo esplicito per prevenire e ridurre la disoccupazione e deve sostenere tale obiettivo offrendo un impiego pubblico garantito a salario minimo a quanti lo cercano.

La proposta 8 dice: Dobbiamo tornare a una struttura di aliquote più progressiva per l’imposta sui redditi delle persone fisiche, con aliquote marginali crescenti per scaglioni di reddito imponibile, fino a un’aliquota massima del 65%, il tutto accompagnato da un ampliamento della base imponibile.

I due punti sono evidentemente connessi, ma vado in fretta e richiamo ancora qualche punto dell’elenco, rinunciando alle esplicitazioni. Per fare progressi democratici egli prevede: al punto 9 uno sconto sui redditi da lavoro; al punto 10 eredità e donazioni con imposta progressiva; al punto 11 l’imposta progressiva sugli immobili, basata sulla valutazione catastale aggiornata; al punto 15 l’assistenza allo sviluppo dei Paesi poveri da parte di quelli ricchi, elevata all’1% del reddito nazionale lordo. Si tratta di questioni all’ordine del giorno anche in Italia.

L’approccio dinamico di Atkinson, teso realisticamente al fare possibile, si riscontra anche nel suo allievo Piketty. Quest’ultimo, con altri studiosi, nel 2017 pubblicò un pamphlet: Democratizzare l’Europa! Per un Trattato di democratizzazione dell’Europa. Egli considerava la fattibilità politica di tale trattato, per la governance economica dell’eurozona. Valutava i possibili cambiamenti dell’assemblea dell’eurozona, anche di fronte a un rifiuto di vari partner. Prospettando un’alleanza fra Francia, Spagna e Italia, forniva una bozza di tale trattato di 22 articoli, che merita indubbiamente un’attenzione particolare, ora impossibile.

Successivamente, nel suo libro edito nel 2020, Capitale e ideologia, Piketty (2020:61) affermava che intendeva «delineare i contorni di un socialismo partecipativo e di un socialfederalismo basato sulle lezioni della storia». Ciò richiedeva, a suo avviso, una ridefinizione radicale dei fondamenti programmatici che sostengono le attuali categorie politiche, intellettuali, ideologiche. Si tratta di affermazioni che hanno per noi un particolare interesse, in questa occasione e in questo clima politico-culturale. Soffermandosi sulle esperienze antidiscriminatorie in India e analizzando l’esperienza delle quote sociali e di genere, egli affermava (Piketty 2020: 414).

Quando un gruppo sociale è vittima di pregiudizi e di stereotipi antichi e consolidati, come le donne un po’ in tutto il mondo o come gruppi specifici nei diversi paesi (per esempio, le caste inferiori in India), di fatto risulta insufficiente organizzare la redistribuzione unicamente in funzione del reddito, del patrimonio o del titolo di studio. In questi casi può essere necessario introdurre sistemi di accesso preferenziale e apposite quote (come le “quote riservate” in ambito indiano) basate sulla pura e semplice appartenenza a specifici gruppi. (sottolineatura mia)

Egli considerava che nel 2016 erano 77 i Paesi che utilizzavano sistemi di quote specifiche per aumentare la rappresentanza femminile nelle assemblee legislative, mentre le democrazie elettorali dei Paesi ricchi registravano la forte diminuzione dei deputati che appartenevano alle classi popolari, in particolare operai e impiegati. Altri problemi di inuguaglianza riguardavano, a suo avviso, gli accesi preferenziali all’istruzione secondaria e universitaria. Idealmente, nella sua concezione il sistema di quote dovrebbe includere e contemplare anche le condizioni del proprio superamento. Comunque, direi che tali problemi di disuguaglianza di genere, in quanto questioni di alto profilo democratico, riguardano anche un nuovo e democratico sociale federalismo della Sardegna, nella disuguaglianza compiuta e nell’uguaglianza incompiuta che caratterizza il XXI secolo. Le inuguaglianze di genere riguardano, fra l’altro, divari salariali occultati in vari modi, ancora persistenti perché le sinistre politiche e sindacali, specialmente in Italia, a mio avviso non le hanno affrontate in modo storicamente adeguato.

Le possibilità di un innovativo e democratico federalismo sociale europeo sono reali e di ampia portata, per Piketty (2020: 1009). Indurre certi Stati alla perdita del privilegio del diritto di veto non sarà facile. Tuttavia, secondo questo studioso, si può insistere sulla regola della maggioranza qualificata per le deliberazioni sui temi fiscali e di bilancio.

Nel raccordo fra sovranità parlamentare europea e sovranità parlamentari nazionali, egli sostiene, bisogna pensare a un vero e proprio trattato per democratizzare l’Europa con un asse costituito da 4 importanti imposte comunitarie: 1 una tassa sugli utili delle società, una sugli alti redditi, una sui patrimoni elevati, una sulle emissioni di CO2. I proventi potrebbero essere così ripartiti: una metà trasferiti agli Stati per diminuire il prelievo che grava sulle classi popolari e medie, l’altra metà per la transizione energetica, per la ricerca e la formazione, per agevolare l’integrazione dei migranti e renderla più condivisa.

Il progetto del federalismo sociale di Piketty è teso verso il futuro. Inoltre, contiene interessanti proposte operative per risolvere il problema della crisi del debito pubblico che probabilmente ora aumenterà, date le guerre in corso. Il suo approccio di federalismo sociale è indirizzato a un gruppo di Paesi europei che intendano attuare un’unione politica e fiscale migliorata e potenziata, che egli chiama Unione Parlamentare Europea per distinguerla dalla attuale Unione europea. Tali Paesi europei possono operare senza metter in discussione l’Unione a 27 Stati, mettendo nel conto l’ovvia opposizione dei Paesi che praticano il dumping fiscale. Tuttavia, si può procedere anche gradualmente, ma tenacemente.

Nei limiti della sintesi necessariamente sommaria che ho potuto abbozzare, alcune proposte di Piketty possono apparire radicali. Invece si iscrivono nel filone del socialismo democratico, superandone varie debolezze in cui certe opzioni socialdemocratiche avevano di socialista solo il nome, come egli dice a un certo punto di quel testo del 2020.

Gli argomenti da lui esposti sotto le etichette del socialismo partecipativo e del federalismo sociale, in realtà, riprendono sviluppi culturali che riguardano i cambiamenti delle disuguaglianze, osservabili in varie parti del mondo, che egli colloca in un’ampia prospettiva storica e mondiale. Si tratta anche di elementi suscettibili di sviluppi culturali che spesso appaiono, anche in contesti limitati, come repertori di idee di equità o come tracce democratiche, a cui attingere nei momenti di crisi.

Su questo piano frammentato, ma che può essere germinativo di cambiamenti democratici, egli afferma di essere condizionato nel suo punto di vista e nel suo percorso personale, dal suo background familiare. Ha visto le sofferenze delle sue due nonne per il modello patriarcale, subito dalla loro generazione. Una, scontenta della sua vita borghese, scomparve prematuramente. L’altra era domestica di campagna già a 13 anni, durante la seconda guerra mondiale. Da una delle bisnonne, invece, Piketty ha avuto i sofferti racconti delle guerre.

Questa genealogia culturale familiare che accomuna acute e storiche sofferenze di donne, a cui egli ricorre giungendo alla fine del libro, dà un senso alle sue opere germinate dalle relazioni intime e affettive con le donne della famiglia. A tali relazioni egli si riferisce per risolvere le nuove subalternità e le nuove disuguaglianze di genere. Attinge da tale genealogia di donne, e dalle loro sofferenze, l’impegno per un federalismo sociale culturalmente partecipato proprio dalle donne con le proprie storie, le proprie motivazioni, le proprie urgenze, individuali e di gruppo.

Le domande e le risposte contenute nel libro curato da Salvatore Cherchi e Gian Giacomo Ortu riguardano un’Europa al bivio delle crisi democratiche e della guerra. Interessano anche quale federalismo scegliamo di realizzare e per che cosa. Fanno, però, sentire la mancanza di un nuovo federalismo sociale, democraticamente partecipativo, che deve necessariamente passare attraverso un ineludibile e urgente scrutinio delle politiche di genere, anche nei nostri impegni locali.

Paola Atzeni

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«Nonostante  le gravi difficoltà e i limiti dell’Unione Europea, emersi soprattutto negli anni più recenti,  il rafforzamento politico, in una prospettiva federale, dell’Unione europea non ha alternative, se non negative. Sono infatti regressivi i rigurgiti nazionalisti e esclusivisti emergenti in numerosi Paesi europei, Italia compresa: bisogna contrastarli innanzitutto sul piano culturale.»

E’ questo il messaggio centrale emerso in (circa duecento partecipanti) a Cagliari, coordinata da Lucetta Milani e Tore Cherchi, introdotta da tre intellettuali, Gian Giacomo Ortu, Christian Rossi e Andrea Deffenu e che ha visto un dibattito serrato con 13 interventi dalla platea e significative testimonianze con la presenza come quella di Francesco Pigliaru, presidente della Regione, a dimostrazione che il tema è sentito.

Europeisti e federalisti perché? «Senza l’Europa unita – ha detto Gian Giacomo Ortu – non avremmo avuto il lungo periodo di pace vissuto dal 1945 ad oggi e mai conosciuto prima; non avremmo avuto i grandi  progressi ottenuti nell’affermazione e nella tutela dei diritti fondamentali e la formazione di una identità transnazionale permeata di valori umanistici e solidali». A Christian Rossi, storico delle Relazioni Internazionali, è toccato il compito di analizzare la crisi politica in atto, originata da spinte egoiste di taluni Stati e ad Andrea Deffenu argomentare perché l’unione politica e federale sia la strada per superare la crisi e dare una risposta europea, la sola realmente efficace, ai problemi del presente.

“Europa dove vai?” si è chiesto don Ettore Cannavera, indignato per la situazione drammatica dei migranti alla deriva nel Mediterraneo. Un tema, quello delle migrazioni, che è ritornato negli interventi di Giulio Calvisi e della deputata Romina Mura. La politica di cooperazione nord-sud in alternativa ai nuovi muri è la strada indicata da Cristina Zuddas che di cooperazione transfrontaliera si occupa professionalmente e dall’avvocato Patrizio Rovelli. Giulio Lai, Erasmus alle spalle, testimonia lo spirito europeo dei giovani di oggi. Mauro Sarzi illustra un suo lavoro artistico ispirato ad Ernesto Rossi, coautore con Altiero Spinelli del Manifesto di Ventotene. Del linguaggio internazionale dell’arte parla Angelo Liberati. Mauro Pistis ha rivendicato una riforma elettorale che garantisca la  rappresentanza sarda nel Parlamento europeo. Remo Sizza, Benedetto Barranu, Luca Pizzuto ed il segretario della CGIL, Michele Carrus hanno rilanciato la necessità di un profondo cambio della politica economica e di welfare per fare fronte alla disoccupazione ed alle diseguaglianze crescenti: rivendicano un’Europa con un’anima sociale, attenta alle persone e non alle agenzie di rating.

Il populismo è alimentato anche dal disagio sociale. L’Unione europea deve porre al primo punto le questioni del lavoro e dell’equità sociale. Non casualmente, il programma federalista del Manifesto di Ventotene che ha ispirato la discussione, ha una forte caratterizzazione anche sociale perché si propone, oltre che la «definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani», anche «l’emancipazione  delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita». Le prossime elezioni europee saranno un referendum sul futuro dell’Europa: o si va avanti o si regredisce pericolosamente. Non stare alla finestra, è l’invito conclusivo dell’assemblea.

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Lunedì 8 maggio, in occasione dell’edizione 2017 dell’EUROPE DAY (istituito in ricordo della Dichiarazione Schuman, che nel 1950 pose le basi per l’Unione europea), ma anche in occasione del trentesimo anniversario del programma di scambio Erasmus e in coincidenza con i 60 anni dalla nascita della Comunità economica europea, gli studenti dell’Ateneo di Cagliari e quelli presenti in città per un periodo di studio Erasmus daranno vita alla Festa dell’Europa con una parade. L’allegro corteo – raduno ore 15.00, partenza ore 15,30 – andrà da piazza Yenne fino al Conservatorio “Giovanni Pierluigi da Palestrina” (in piazza Porrino 1), che per tutto il pomeriggio ospiterà un evento ad ingresso libero con interventi culturali, testimonianze di esperienze Erasmus all’estero ed intermezzi musicali.

Lo scorso anno l’evento è stato organizzato dal Settore Erasmus dell’Ateneo di Cagliari, in collaborazione con il Conservatorio, nell’area pedonale del Corso Emanuele, con seminari e lezioni universitarie all’aperto e coinvolgendo i giocatori del Cagliari Calcio nel simbolico quanto suggestivo lancio augurale di palloncini. L’edizione 2017 della manifestazione vede per la prima volta organizzatori sia l’Università sia il Conservatorio, in collaborazione con l’associazione studentesca European Student Network (ESN) e con l’Europe Direct Regione Sardegna.

Per gli studenti saranno in palio i premi del concorso a quiz “Cosa fa l’Europa per me?”: per vincere basterà partecipare all’evento e rispondere correttamente al questionario predisposto dal Centro d’informazione Europe Direct della Regione Sardegna. Il questionario sarà distribuito all’arrivo al Conservatorio e potrà essere compilato sul posto. Alle ore 20.00 circa, il termine della serata, con la premiazione e un buffet finale.

Dopo i saluti istituzionali (la direttrice del Conservatorio, Elisabetta Porrà, la Rettrice Maria del Zompo e Francesco Ventroni per Europe Direct) le presentazioni prevedono approfondimenti sui Trattati di Roma (Christian Rossi, professore di Storia dell’integrazione europea dell’Università di Cagliari), sul Programma Erasmus (prof.ssa Clara Grano, Agenzia Indire) e i racconti in prima persona sulle esperienze Erasmus e sul contributo dei mesi di studio all’estero per la propria preparazione e maturazione.

Durante la serata saranno proposti anche diversi intramezzi musicali (saranno presenti tutte le scuole, dalla classica al jazz sino alla musica elettronica) che vedranno esibirsi sul palco dell’Auditorium del Conservatorio musicisti sardi e stranieri coinvolti in esperienze Erasmus. Tra gli stranieri ci sarà anche il violoncellista Pjeter Guralumi, docente all’Università delle arti di Tirana, arrivato in città grazie allo specifico programma Erasmus+ rivolto agli IPA countries (Instrument for pre-Accession Assitance), pensato per i paesi che hanno appena attivato le procedure di ingresso nell’Unione europea. Il Conservatorio di Cagliari è infatti uno dei quattro in Italia ad aver avuto accesso, nel 2015, a finanziamenti dedicati a questo tipo di iniziative.

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Lunedì 8 maggio Università di Cagliari, European Student Network Cagliari, Conservatorio Pierluigi da Palestrina e Europe Direct Regione Sardegna organizzano i festeggiamenti in coincidenza di tre ricorrenze per l’Europa: i 60 anni dalla firma dei Trattati di Roma, i 30 anni del Programma Erasmus e l’edizione 2017 dell’EUROPE DAY.

PARADE degli studenti dell’Ateneo e degli universitari stranieri in città. Partenza da piazza Yenne alle 15,30. Lo scrittore Flavio Soriga ospite speciale del pomeriggio al Conservatorio con interventi culturali, testimonianze di esperienze Erasmus all’estero e intermezzi musicali.

Il pomeriggio alle 15.30 gli studenti dell’Ateneo di Cagliari, in compagnia dei loro colleghi Erasmus, si incontreranno in Piazza Yenne da dove partirà una festosa parade per le vie della città. La meta è il Conservatorio Pierluigi da Palestrina dove, alle 17.00, avrà inizio il seminario Auguri Erasmus! – 30 anni di Erasmus, 60 anni dei Trattati di Roma che avrà come ospite d’onore lo scrittore Flavio Soriga.

I lavori prevedono, oltre ai saluti istituzionali, una presentazione dedicata ai Trattati di Roma a cura del prof. Christian Rossi, docente di Storia dell’integrazione europea presso l’Università di Cagliari ed un intervento sul Programma Erasmus della prof.ssa Clara Grano dell’Agenzia Indire. Spazio poi alle esperienze di studenti di ieri e di oggi che racconteranno le proprie esperienze Erasmus e di come i mesi di studio all’estero abbiano contribuito ad arricchire il loro bagaglio di esperienze.

I lavori saranno allietati dagli intermezzi musicali offerti dagli studenti del Conservatorio Pierluigi da Palestrina.

Gli studenti potranno vincere dei premi partecipando al concorso quiz: Cosa fa l’Europa per me? Per concorrere basterà rispondere correttamente al questionario predisposto dallo Europe Direct Regione Sardegna e che potrà essere compilato tra le 16.30 e le 17.00 al Conservatorio.

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Il team di “#ReAct”, la campagna social sul tema dell’immigrazione e sul contrasto dell’estremismo in tutte le sue manifestazioni ideata dagli studenti dell’Università di Cagliari guidati dal professor Christian Rossi della Facoltà di Scienze economiche, giuridiche e politiche ha conquistato il terzo posto nel “Facebook digital global challenge”. Il premio è stato assegnato loro giovedì sera a Washington, al termine della finale in cui ciascun team ha presentato il suo progetto.
Alla sfida mondiale lanciata dal popolare social network si sono presentati 150 gruppi di ogni nazionalità: meglio degli studenti dell’Università di Cagliari hanno fatto solo le squadre libanese (primi classificati) e belga (secondi). Tra i primi a congratularsi con gli studenti sardi, l’Ambasciata italiana negli Stati Uniti.
Il gruppo che – con il professor Rossi – ha presentato il progetto a Washington è formato da Alessia Dessalvi, Giulia Tumatis, Giulia Marogna, Luciana Ganga e Ema Kulova. Gli altri studenti del team sono Claudio Pitzalis, Jacopo Lussu, Pier Andrea Cao, Lucia Corrias e Alessio Zuddas. Da ieri – insieme ai gruppi libanese e belga – gli studenti vincitori, che grazie al terzo posto si sono aggiudicati un premio di mille dollari, seguono un programma di visite del Dipartimento di Stato americano, l’International Visitor Leadership Program, e visiteranno varie istituzioni e think thank a Washington, New York e San Francisco, tra cui il quartier generale di Facebook.
#ReAct è: Re= Rigettare, opporsi ad ogni forma di estremismo e violenza; A= awarness, ovvero la consapevolezza che vogliamo trasmettere al nostro pubblico attraverso l’informazione; C= courage, coraggio di contrastare l’estremismo, i pregiudizi e i luoghi comuni contro gli immigrati; T= tolerance, tolleranza intesa come convivenza tra più culture che possono coesistere.

Il team di #ReAct,

Il team di #ReAct,