22 November, 2024
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Nel pomeriggio di venerdì 11 gennaio 2019 (a vent’anni esatti dalla scomparsa di Fabrizio De André) è stata presentata in anteprima a Pavia, presso il Salone Teresiano della Biblioteca Universitaria, la seconda edizione ampliata del volume “La mia prima volta con Fabrizio De André. 515 storie” a cura di Daniela Bonanni e Gipo Anfosso, edito da Ibis.

Le storie, che raccontano la propria, personale iniziazione” a Fabrizio De André (come-dove-quando-con chi è successo), da 305 sono diventate 515. Questo interesse sempre vivo testimonia il fatto che Fabrizio De André è ancora tanto amato e presente nel nostro immaginario collettivo: di fatto si conferma essere sempre più il “filo rosso” che unisce vite e generazioni. Tanta è la voglia di raccontare e raccontarsi in rapporto al mitico Faber – dichiarano i due curatori -, che sono stati chiamati a presentare la prima edizione del libro in tutt’Italia e lo hanno fatto in osterie, biblioteche, librerie  e in qualche festival letterario.

Scrivono Bonanni e Anfosso: «Sono storie  scritte da persone di ogni età, dai 10 agli 82 anni. Da persone comuni e personaggi famosi (tra cui musicisti e stretti collaboratori di De André). Tutti inseriti, rigorosamente e molto democraticamente, in ordine alfabetico. Questa edizione, oltre al messaggio pieno d’affetto di Dori Ghezzi, è impreziosita da una introduzione – accurata e appassionata – di Enrico De Angelis. In collegamento con la nuova edizione del libro, in segno di omaggio a Fabrizio De André, si propone l’iniziativa: #deandregoccedimemoria 2019: dedicato a Fabrizio De André. Vent’anni dopo. Si tratta di una proposta semplice: dare un segnale, inserire “frammenti di De André” nelle nostre attività quotidiane. Una canzone, un testo, un pensiero di Fabrizio nella scaletta dei concerti (pop, rock, jazz, rap, musica classica…) per chi è musicista, nelle programmazioni scolastiche per chi è insegnante, nella playlist dell’I Pod, nelle librerie, nelle biblioteche… Ma anche nei negozi e negli uffici in cui lavoriamo. Una sorta di “De André diffuso”, perché mai come ora, in tempi sempre più cinici e disumani, sentiamo il bisogno, la necessità di divulgare la sua musica, la sua poesia, la sua direzione ostinata e contraria».

Adesioni: #deandregoccedimemoria, indicando generalità, luogo, titolo e breve descrizione dell’iniziativa. Info: danielabonanni52@alice.it ; gipoanfosso@gmail.com

Blog:  primavoltacondeandre.tumblr.com  /  Facebook @primavoltacondeandre».

La giornata pavese in ricordo di De André si è conclusa a Spaziomusica con l’omaggio da parte di diversi cantanti e gruppi musicali. Il cantautore sardo-pavese Antonio Carta ha cantato due pezzi di De André: “Monti di Mola” (testo in gallurese) e “Inverno”; con lui hanno suonato Giovanni Lanfranchi al violino e Matteo Zanesi alle percussioni.

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Ed ecco qui di seguito “la prima volta con Fabrizio De André” di Paolo Pulina (Ploaghe, 1948)

Quando uscì, nel 1963, il terzo 45 giri di Fabrizio De André, con i pezzi  Il fannullone e Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, anche in una classe di quinta Ginnasio del Liceo classico “Domenico Alberto Azuni” di Sassari, cominciarono subito a circolare – in una specie di samizdat – le parole trasgressive ed i contenuti  dissacratori di una figura mitizzata nella manualistica storica come Carlo Martello, contenuti molto più “intriganti” di due “licenze poetiche” pur presenti nei versi (Carlo Martello non era re, ma solo “maestro di palazzo” dei re Merovingi; la battaglia di Poitiers avvenne nel 732 nel mese di ottobre, non “nella calda primavera”).

Nel mio paese natale, Ploaghe, vicino a Sassari, in una famiglia di pastori come la mia non era certo disponibile un giradischi né c’erano le possibilità economiche di comprare degli oggetti voluttuari come i 45 giri.

Era successo però che, in cambio di numerose forme di formaggio pecorino, una famiglia che stava per emigrare in Francia, nei primi anni Sessanta, ci aveva  consegnato una vecchia, ingombrante RadioMarelli e lo Zingarelli, il famoso dizionario della lingua italiana: due strumenti di acculturazione sicuramente non di prima necessità vitale nel luogo di nuova residenza della famiglia costretta all’espatrio alla ricerca di un lavoro.

Avendo potuto ascoltare fortunosamente “Carlo Martello” alla radio anche io potei vantare il “privilegio emozionante” (secondo il ben conosciuto meccanismo del  “fascino del proibito”) di aver sentito dalla viva voce di Fabrizio De André quelle “parole brutte” e dissacranti che non potevano non sollecitare l’interesse dei giovani  allevati in un contesto socio-culturale (prima metà degli anni Sessanta) di asfissiante pruderie che la studiosa Nora Galli de’ Paratesi si apprestava a documentare addirittura in un volume degli Oscar Mondadori (1969; ma l’edizione originale presso Giappichelli di Torino  era del 1964) con un titolo ineccepibilmente scientifico ma veramente ostico per la comprensione da parte di lettori comuni, cioè Le brutte parole: semantica dell’eufemismo. Sicuramente la spiegazione riportata in copertina dell’edizione economica era più intelligibile (“Uno studio sulla censura del linguaggio; l’interdizione verbale operata dall’inconscio, dal pregiudizio, dal pudore e dalla convenienza; le parole proibite nell’italiano, nei dialetti, nei gerghi”)  anche rispetto al sottotitolo originale che era “L’eufemismo e la repressione verbale: con esempi tratti dall’italiano contemporaneo”.

Da allora Fabrizio De André per me ha significato “trasgressività” e nel clima di rivoluzione sessuale inaugurato nel 1968 dal movimento studentesco la “favola d’amore” intitolata “La canzone di Marinella” ha trovato la sua più adatta collocazione e valorizzazione, diventando la colonna sonora di molte reali storie d’amore.

***

Scritta questa testimonianza – racconta Paolo Pulina -, da sardo, in omaggio a De André innamorato della Sardegna, mi sono divertito a tradurre nella variante logudorese della lingua sarda (Faber avrebbe certo apprezzato di più la variante gallurese, quella parlata nei luoghi a lui cari giustappunto in Gallura, ma non è la mia parlata materna…) La canzone di Marinella, in versione ovviamente cantabile.

Sa cantone de Marinella

Custa de Marinella est s’istòria bera 

chi in d’unu riu at illitàdu in berànu 

ma su entu chi l’at bida gai bella 

da-i su riu l’at giuta subra un’istèlla. 

Sola, chena amméntos de dolore,

vivías chena sónnios de amore, 

ma unu re, chena corona e chena iscorta 

at tzoccàdu tres bortas a sa porta. 

Biancu che-i sa luna  at su cappéddu 

che-i s’amore  ruju at su mantéddu 

tue l’as sighídu chena una rajone 

comente unu pitzínnu sighit s’abbilòne.

E bi fit su sole e aías ojos beddos

e isse t’at basadu laras e capíddos, 

bi fit sa luna e aías ojos istràccos 

isse t’at postu  sa  manu  in sos fiancos 

et fint meda basos et fint meda risíttos

poi fint solu sos frores bellítos   

e sas istèllas ant bidu cun própios ojos

trèmere sa pedde tua pro entu e basos. 

E naran poi chi cando ses torràda

in su riu chissà comente che ses falàda

e isse  chi non cheria a ti crèere morta 

at tzoccàdu àteros chent’annos a sa porta. 

Custa est sa cantone tua, Marinella, 

chi ses bolàda in chelu subra de un’istèlla 

e comente totu sas pius bellas cosas 

as vívidu solu una die comente sas rosas.

e comente totu sas pius bellas cosas 

as vívidu solu una die comente sas rosas.

Traduzione in logudorese di Paolo Pulina

La canzone di Marinella

Questa di Marinella è la storia vera

che scivolò nel fiume a primavera

ma il vento che la vide così bella

dal fiume la portò sopra a una stella.

Sola senza il ricordo di un dolore

vivevi senza il sogno di un amore

ma un re senza corona e senza scorta

bussò tre volte un giorno alla tua porta.

Bianco come la luna il suo cappello

come l’amore rosso il suo mantello

tu lo seguisti senza una ragione

come un ragazzo segue un aquilone.

E c’era il sole e avevi gli occhi belli

lui ti baciò le labbra ed i capelli

c’era la luna e avevi gli occhi stanchi

lui posò la sua mano sui tuoi fianchi

furono baci e furono sorrisi

poi furono soltanto i fiordalisi

che videro con gli occhi delle stelle

fremere al vento e ai baci la tua pelle…

Dicono poi che mentre ritornavi

nel fiume chissà come scivolavi

e lui che non ti volle creder morta

bussò cent’anni ancora alla tua porta.

Questa è la tua canzone Marinella

che sei volata in cielo su una stella

e come tutte le più belle cose

vivesti solo un giorno, come le rose

e come tutte le più belle cose

vivesti solo un giorno come le rose.            

Fabrizio De André

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Il 12 gennaio del 2019 il prof. Manlio Brigaglia (Tempio Pausania, 12 gennaio 1929 – Sassari, 10 maggio 2018) avrebbe compiuto novanta anni. Lo voglio ricordare come docente di Italiano nel Liceo “Azuni” ametà degli anni Sessanta.

La prima volta che ho visto all’opera il professor Manlio Brigaglia è stato all’orale dell’esame di ammissione ai tre anni del Liceo dopo i due anni del Ginnasio nel glorioso Ginnasio-Liceo “Domenico Alberto Azuni” di Sassari, quindi nell’estate 1964. Sapevamo della fama che il professore si era conquistato – presso colleghi e alunni – in virtù della sua preparazione culturale ad amplissimo raggio e quindi della sua autorevolezza. Vedermelo di fronte non poteva non causarmi un po’ di timore reverenziale. Per mia fortuna, avevo letto da poco “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa e quindi – quando mi chiese qual era l’ultimo libro che avevo letto – gli feci una buona impressione, confermata dal fatto che fui in grado di ricordare i personaggi principali. Il primo insegnamento che ricevetti: dovevo continuare a leggere con costanza dei buoni libri se volevo migliorare le mie possibilità espressive, in rapporto a quanto aveva potuto verificare dal mio tema, sufficiente certo ma non esaltante, diciamo così… La prima lezione: se ci fosse capitato di avere il professor Manlio Brigaglia come docente di Italiano, c’era già da sapere che non ci si poteva limitare alla lettura dei manuali, dei libri di testo. In effetti, ritrovàtomelo nei tre anni di Liceo come insegnante titolare, verificai da subito che avevamo nelle sue ore non un “lettore” di libri di testo (come succedeva con il docente di qualche altra disciplina…) ma un “monstrum” di memoria. Entrava in classe e non portava con sé né libri di testo né registro!

La parte dei canti della “Divina Commedia” che ci doveva spiegare in quell’ora la proponeva a mente, a memoria. Per tutti i tre anni, sempre così: mentre lui recitava e spiegava dovevamo seguire il testo di Dante nell’edizione curata da Natalino Sapegno. Per qualche passo ad interpretazione non univoca, ci faceva leggere la nota del Sapegno e si divertiva ad aggiungere il punto di vista – non coincidente – di qualche altro studioso.

All’interrogazione bisognava recitare a memoria (tanto per tenerla in esercizio e affinarla) i passi di Dante che ci aveva indicato, saper fare la parafrasi dei versi ma verificava anche se avevamo letto le pagine storico-critiche presenti nell’antologia in dotazione per ciascun anno. Anche per gli altri poeti il procedimento era lo stesso. Per i prosatori – data la sua esperienza di lettore dei propri testi per la radio regionale della Sardegna – non rinunciava al piacere di una lettura ad alta voce ben intonata. Per ritornare su Dante: se volete sapere chi è stato Dante – ci diceva – leggete il ritratto che ne ha fatto il critico fiorentino Piero Bargellini in un libro appena uscito (“Vita di Dante”, Vallecchi, 1964). Per ogni argomento ci dava indicazioni bibliografiche relative a pubblicazioni recenti e ci invitava a ricercarle senza timidezza nella Biblioteca Universitaria di Sassari. Ci educava alla lettura dei giornali: la pagina dei libri de “Il Giorno” imparammo a conoscerla da lui. Un giorno volle ricordarci a muso duro che la lingua in cui egli voleva che scrivessimo non doveva essere l’anti-lingua del pezzo appena uscito sul supplemento settimanale de “Il Giorno” (articolo poi diventato famosissimo) in cui Italo Calvino confrontava un immaginabile orribile burocratese in cui un maresciallo dei carabinieri avrebbe scritto un rapporto dopo una ispezione con i termini semplici e correnti di una riscrittura vicina al linguaggio parlato. Su questo non transigeva: se volete imparare a scrivere bene in italiano – ci diceva – seguite le indicazioni che vi dò io anche per l’uso corretto della punteggiatura (virgola; punto e virgola; due punti; punto). Le parentesi lasciatele stare – amava dire – e, se proprio è necessario, ricordatevi di chiuderle! La sua revisione dei temi era un lavoro certosino di correzione e di proposta alternativa per ogni espressione non adeguata. Insomma, se uno voleva imparare a scrivere doveva profittare dei suggerimenti rigorosi proposti dall’“allenatore”, in questo caso della mente. E mente – ci ricordava sempre – come già intendeva Dante, vuol dire memoria. E il professor Brigaglia, come ho già detto, era un maestro-monstrum di memoria. I voti non li segnava sul registro, ma li ricordava bene e giusti alla fine di ogni trimestre, quando ce li comunicava con appropriati commenti e suggerimenti per migliorare. Alle lezioni del professor Manlio Brigaglia si notava una sola assenza: la noia. E non era possibile la distrazione né di un singolo né della massa (questo avveniva con qualche altro docente). Tutto questo perché al professor Manlio Brigaglia, pronto a discutere con noi di ogni argomento cui sono sensibili i giovani – a partire dal calcio , nessuno si poteva permettere di mancare di rispetto, dato che era la rappresentazione vivente dell’educatore, rigoroso nell’insegnare come studiare, come documentarsi, come scrivere, come prepararsi agli Esami della Scuola e anche, e soprattutto, alle Prove della Vita. Come nella canzone di Francesco De Gregori “La leva calcistica della classe ’68”

Paolo Pulina

Vicepresidente della F.A.S.I.

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Ritorna il Festival di Scirarindi, la grande manifestazione a carattere regionale interamente dedicata al benessere, al buon vivere, ai temi della sostenibilità e alla Sardegna naturale, attraverso la partecipazione attiva di oltre 280 realtà e aziende locali e un format ormai consolidato con la sua grande capacità di coinvolgimento di visitatori (oltre 16mila presenze nella scorsa edizione) che compie quest’anno il settimo compleanno.

Organizzato dall’associazione culturale Scirarindi con il patrocinio del Comune e della città Metropolitana di Cagliari e della Regione Sardegna, dal 25 al 26 novembre vede in programma un weekend denso di appuntamenti dalle 10.00 del mattino fino alle 22.00 per un pubblico di tutte le età, distribuiti alla Fiera Internazionale della Sardegna tra il Padiglione I (primo piano) che comprende la Sala Grande, Sala Piccola, Area dimostrazioni; il Padiglione G con le due aree laboratori food dedicate alla scuola di pasta e alle degustazioni, il Padiglione B e le cinque sale del Palazzo dei Congressi, a Cagliari (ingresso da Viale Diaz). Diecimila metri quadri in cui si snoderanno le 240 attività, tra iniziative speciali, attività food, tavole rotonde e conferenze con ospiti sardi e nazionali, laboratori, lezioni dimostrative aperte a tutti, momenti di meditazione, ascolto interiore, libri, mostre e spettacoli, cooking show, aree relax, punti ristoro bio-veg, servizi di animazione per i bambini con percorsi tematici e laboratori, consulenze del benessere e trattamenti gratuiti, attività per le scuole e per i più piccoli, degustazioni dei prodotti sardi.

Un percorso culturale ricco di iniziative di approfondimento che si aggiunge a un cartellone di tantissime attività pratiche, e uno espositivo, cuore pulsante del festival, che si articola tra i 280 espositori organizzati nelle 9 aree tematiche: alimentazione, economia etica e partecipazione, compranaturale, ambiente & bioedilizia, ecoturismo, salute & benessere, vita interiore, spazio bambini e spazio animali. E ancora, tavole rotonde e presentazioni. A supporto dell’organizzazione e del festival anche 60 volontari e 70 studenti dell’alternanza scuola-lavoro provenienti dall’Istituto di Istruzione “Domenico Alberto Azuni” e Liceo scienze umane e linguistico “Eleonora d’Arborea” di Cagliari, preparati ad accogliere il pubblico e a fornire tutte le informazioni utili.

«L’auspicio è che Scirarindi sia sempre più una piazza come quelle di un tempo, dove si incontravano non solo le merci ma si davano appuntamento le persone e circolavano le idee, i progetti, i sogni – spiega Giovannella Dall’Ara, responsabile del programma culturale e anima del festival insieme a Cristina Pusceddu, responsabile degli espositori. Dedichiamo questa edizione a tutti coloro che hanno costruito insieme a noi le precedenti. E a tutti coloro che ne hanno tratto o ne trarranno ispirazione.»