22 November, 2024
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Dal primo giugno 2013 esiste una delibera con cui è stata decisa la costruzione dell’ospedale unico del Sulcis Iglesiente. La stessa delibera dichiara che la progettazione e l’esecuzione dell’opera verrà affidata alla ARES (Agenzia Regionale Sanità). Alla comunicazione inviata ai 23 Comuni del Sulcis Iglesiente è stata associata la richiesta di indicare la sede prescelta per situarvi il nuovo ospedale.
La scelta della sede apre a tre possibilità:
I – edificare l’ospedale in una delle due città maggiori;
II – la mancanza di risposta rischierebbe di veder edificato un palazzone qualsiasi in un luogo qualsiasi col pericolo che venga costruito “in mezzo al nulla” lontano dai centri abitati.
III – edificare in un “luogo condiviso” e secondo i “canoni dell’OMS”.
Stiamo vedendo quanto sia fragile il diritto alla salute nel caso in cui non si eserciti il diritto democratico della partecipazione alle scelte.
Allo scopo di evitare che ci venga calata dall’alto la scelta di un progetto burocraticamente perfetto, ma senz’anima, proviamo sommessamente a disegnare con l’immaginazione ciò che potremmo proporre seguendo i canoni ingegneristico-architettonici proposti a livello di OMS e UE.
Lo scopo atteso da tutti è quello di raggiungere, per il nostro territorio, l’autonomia sanitaria strategica per il futuro. Non sarà un semplice edificio di cemento: sarà una piccola città fortemente energivora che vivrà 24 ore al giorno e 365 giorni all’anno.

Ipotetico schema planimetrico dell’area sanitaria secondo le indicazioni emerse dai centri studi italiani e presentati all’OMS e UE.

Relazione allegata per spiegare l’ipotesi disegnata.
E’ fortemente aumentata l’insicurezza mondiale con l’esperienza della Pandemia Covid, con l’attuale minaccia nucleare, il rischio climatico e meteorologico, l’invecchiamento della popolazione, l’incremento delle migrazioni, la penuria energetica e alimentare, la nuova competizione del Sud del Mondo. Così come è già avvenuto nel passato, visto lo stravolgimento storico che stiamo vivendo, dobbiamo dedicarci al rinforzo delle strategie di sopravvivenza finalizzata a ottenere una maggiore autonomia alimentare ed energetica e una maggiore autonomia strategica in Sanità.
Da ciò deriva che per la futura generazione saranno necessari “nuovi criteri” per la progettazione degli ospedali.
I veri “criteri fondanti” dell’ospedale moderno furono quelli “rampiniani” (cardinal Enrico Rampini) del 1450,e cioè:
– umanizzazione,
– igiene,
– servizio idrico e fognario capillare
– corretta aerazione e riscaldamento delle camere di degenza,
– distinzione per “intensità di cure” (pazienti acuti e pazienti cronici),
– distinzione per genere,
– distinzione per specialità medica e chirurgica,
– servizio religioso,
– medicina di prossimità,
– buona gestione sotto controllo pubblico.
Dopo altri 450 anni, finita l’epoca storica delle “epidemie”, e finita la Grande Guerra, emerse un nuovo criterio: la “velocità” di intervento sanitario, sopratutto legata ai grandi traumi e alle emergenze chirurgiche.
Pertanto, fu necessario passare dagli ospedali a “padiglione” su piano orizzontale agli ospedali a monoblocco verticale dotati di veloci ascensori.
Era intervenuto un nuovo criterio: il “tempo” di intervento.
Nel 1930 l’architetto Alvar Aalto interpretò, graficamente, un’idea ancora più avanzata sul come debba essere disegnato il nuovo ospedale, e aggiunse altri due “criteri”:
Primo: il criterio dell’“economia” attraverso il “risparmio energetico” e lo fece progettando un ospedale che avrebbe sfruttato razionalmente la luce solare, orientando le grandi fenestrature delle camere di degenza verso sud-est e disponendo i servizi tecnici e amministrativi nel lato dell’edificio orientato a occidente.
– Secondo: il “criterio della “umanizzazione”. Questo criterio era già presente nell’idea di Enrico Rampini ma Alvar Aalto lo arricchì coll’idea di fornire ai degenti una vista godibile sul panorama circostante e mise in progetto l’esistenza di un grande parco verde in cui si doveva immergere la fabbrica dell’ospedale.
I “criteri” maturati in 2.000 anni di ingegneria e architettura ospedaliera sono tutt’oggi vigenti.

Attualmente sta avvenendo un ulteriore cambiamento per fenomeni sociali mai visti nella storia dell’Uomo:
– l’invecchiamento demografico,
– La sovrappopolazione del globo,
– la rivoluzione della comunicazione,
– La digitalizzazione e la dipendenza obbligata che ne è conseguita.
– La Pandemia Covid che ha messo in luce l’inadeguatezza del sistema Sanitario,

– le emigrazioni,
– la crisi climatica
– la nuova guerra in Europa,
– la paura di un possibile coinvolgimento in “fall-out” nucleare,
– la scarsità di nascite nel mondo occidentale.
– il Sud del mondo che avanza le sue richieste di ricchezza, potere e consumi.
La vistosa carenza di “visione “ della Sanità internazionale, messa alla prova dalla Pandemia, oggi ci obbliga a cambiare la prospettiva di osservazione.
Nel 2.000 Carlo Azeglio Ciampi se ne rese conto e dette incarico all’architetto Renzo Piano di disegnare l’“ospedale del futuro”. Questi produsse un nuovo criterio: “l’Umanesimo”.
Con tale termine egli indicava la necessità di introdurre il concetto di “bellezza” sia nei nuovi edifici che alle aree verdi circostanti destinati all’ospedale. Riteneva che la “bellezza” fosse necessaria per migliorare la qualità della vita dei degenti e del personale sanitario, ed era convinto che avrebbe avuto benefici effetti accelerando la guarigione.
In linea con l’OMS, la Commissione europea ha dato incarico agli scienziati di elaborare i “criteri” adeguati ai futuri ospedali europei.
Aggiungendo i nuovi criteri ai criteri classici del passato, i punti cardine da rispettare sarebbero:
– la flessibilità
– la autonomia energetica,
– la intensità di cure,
– la bellezza e gradevolezza del contenuto della struttura ospedaliera e dell’ambiente circostante (l’Umanesimo).
Secondo la proposta italiana presentata a Baku una decina di mesi fa dagli scienziati del Politecnico di Milano questi criteri dovrebbero essere preceduti da un altro criterio, necessario e imprescindibile: l’accettazione propedeutica di un “modello condiviso” tra gli attori pubblici in campo che sono:
– 1) l’Opinione pubblica,
– 2 ) la Politica,
– 3 ) le Istituzioni Sanitarie.
Secondo l’opinione degli scienziati in assenza della condivisione propedeutica di un modello non si può procedere all’esecuzione del progetto definitivo.
Tra le opzioni, proposte dai vari studi, prevale l’idea che nei progetti debbano coesistere le seguenti strutture:
1 – gli edifici a monoblocco o poliblocco;
2 – l’esistenza di torri parallele destinate all’impiantistica,
3 – l’ospedale per day surgery,
4 – l’ospedale stanziale, con prevalenza di camere singole.
5 – l’Hotel per pazienti dimessi,
6 – Percorsi separati per padiglioni a pressione negativa destinati agli infettivi,
7 – padiglione psichiatrico,
8 – giardino terapeutico (preferibilmente sulle terrazze); miniappartamenti per maternità.
A queste strutture di degenza si assocerebbero:
9 – i locali per i servizi di igiene (sterilizzazione e lavanderia) e di catering (cucine, ristorante),
10 – centrale energetica (pannelli fotovoltaici, etc..)
11 – servizio idrico (da fonti autonome e di rete; produzione di acqua sanitaria), serbatoi,
12 – eliporto,
13 – stazione metropolitana collegata alle città e alla rete ferroviaria,
14 – via d’accesso con immissione diretta ad arteria stradale principale,
15 – grande parco nel quale saranno immersi gli edifici. Superficie di 30 ettari per un ospedale medio.
16 – scelta dell’area in posizione tale da: non essere in ombra a sud-est ed essere ad un’altitudine sufficiente per non incorrere nel rischio di inondazioni; essere in località sismicamente stabile.

17 – ampi spazi sotterranei per parcheggi trasformabili all’occorrenza in rifugi antinucleari.
18 – miniappartamenti per il personale,
19 – edificio di culto
20 – inceneritore
21 – market
22 – Centro studi sia per ricerche universitarie sia per la formazione del personale.
Queste poche note hanno il solo scopo di mantenere viva l’attenzione sul nostro Ospedale del futuro affinché diventi, secondo le indicazioni citate, una piccola città immersa in un parco di 30 ettari di verde.

Tutti sono chiamati a fornire un contributo d’idee per concepire il progetto dell’ospedale del futuro. L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) oltre un anno fa avviò un concorso internazionale di idee per produrre le linee guida sul come progettare i futuri ospedali. A tal fine, alcuni mesi fa venne organizzato un convegno di esperti a Baku in Azerbaijan, a cui partecipò l’Italia, con il Politecnico di Milano.
Il relatore fu l’ingegner Stefano Capolongo, che espose un progetto curato dal “Design and Healt Lab” del dipartimento di Ingegneria e Architettura.
A conclusione di quel convegno la OMS decise di raccomandare a tutti i progettisti l’uso delle linee Guida del Politecnico di Milano.
I criteri di quelle linee guida risentono moltissimo dell’esperienza Covid e, in sintesi, raccomandano:
– infrastrutture flessibili
In particolare, il prof, Stefano Capolongo si è soffermato su:
– Scelta dell’area in cui situare il nuovo ospedale (città o periferia).
– Aree più vaste da destinate alle strutture ospedaliere.
– L’ospedale del futuro dovrebbe avere parti flessibili e rimodulabili col variare delle esigenze.
– Ospedali a strutture multiple a monoblocco verticale, distinte per funzione ma inter-comunicati.
– Sinergia con la rete sanitaria territoriale.
– Aumentare le strutture per i servizi di medicina locale.
– Gestione dell’energia e delle risorse.
– facilità di adattamenti e ampliamenti.
– Sicurezza generale (da incendi o eventi sismici e idrogeologici).
– Riduzione rischi di infezione e contagio.
– Comfort (umanizzazione e standard igienici elevati)
Gli esperti di Paesi bassi e Scandinavia hanno proposto ospedali con camere singole allo scopo di ridurre il rischio delle infezioni ospedaliere e dei contagi.
E’ emersa la proposta di distinguere gli ospedali in base ai tempi di intervento sanitario. Per esempio, vengono distinti gli ospedali ambulatoriali destinati a day Surgery, dagli ospedali stanziali destinati a ricoveri prolungati. A questi si assocerebbero gli Hotel per pazienti destinati ad ospitare i dimessi che non voglio rientrare al proprio domicilio e preferiscono risiedere temporaneamente in prossimità dell’ospedale.
Lo svizzero Eugen Schroeder, direttore dell’ospedale universitario di Zurigo, ha proposto il modello di ospedale a padiglioni con camere singole, situati in campagna, circondati dal verde dei parchi.
Tuttavia, i convenuti hanno fatto notare che nelle strutture modulari a padiglioni sorgerebbero criticità dovute alla difficoltà di gestione del personale che dovrebbe essere numerosissimo e impiegare tempi di percorrenza da un padiglione all’altro, troppo lunghi.
Tutti sono stati concordi sulla necessità di adattare gli spazi alle necessità sanitarie; spesso si è fatto il contrario.
Le discussioni di quel convegno hanno rinforzato l’idea che sia urgente e necessario redigere i criteri nazionali e internazionali a cui devono fare riferimento i committenti dei nuovi ospedali e i progettisti.
Ben 20 anni prima della pandemia, nel 2.000 il professor Umberto Veronesi dette l’incarico a Renzo Piano di progettare l’ospedale del futuro, formulandone i criteri. Oggi, in campo europeo e internazionale stanno prevalendo i “criteri” dell’ingegner Stefano Capolongo, del “Centro nazionale di edilizia ospedaliera”. Il prof. Stefano Capolongo ritiene che in fase iniziale sia imprescindibile creare un modello condiviso tra i vari attori interessati che sono: La Politica, l’Opinione pubblica, le Istituzioni sanitarie, le Aziende sanitarie. Per far ciò è necessario mettere sotto osservazione le esperienze più recenti di costruzioni di ospedali.

Tra gli ospedali più recenti in Italia, c’è il “Papa Giovanni XXIII” di Bergamo. Si tratta di un ospedale da 1.024 posti letto, composto da 7 torri di 5 piani ciascuna. Le torri sono collegate fra loro da percorsi.
La superficie complessiva è di 320.000 mq (32 ettari).
La concezione del Papa Giovanni si basa su una versione rivisitata dell’ospedale a padiglioni ottocentesco. A Bergamo i padiglioni sono spariti lasciando lo spazio alle più moderne torri. Nella città più colpita dal Covid, questa struttura ha consentito, durante la fase peggiore dell’epidemia, di
continuare a gestire i pazienti senza tralasciare le altre patologie, in particolare quelle oncologiche.
Questa esperienza, che ha testato le strutture a torri, è piuttosto interessante.
L’ingegner Stefano Capolongo ha fatto notare che purtroppo gli ospedali nella prima ondata si dedicarono per il 90% al Covid, dimenticando tutte le altre patologie. Questa consapevolezza ha accelerato la riflessione e lo studio di nuovi processi tecnologici. L’esempio di Wuhan e degli ospedali tenda in Italia inducono a catalogare fra i criteri la “Flessibilità” e la “Resilienza”.
Flessibilità.
Questo concetto deriva proprio dalle osservazioni delle modifiche apportate attorno agli ospedali con l’edificazione di strutture mobili, ampliabili e trasformabili. Tali strutture di ricezione, degenza e cura, possono essere create con pareti mobili formate da pannelli metallici rivestiti in PVC e calamitati fra di loro. In questo modo le pareti si possono spostare velocemente al bisogno. Con questo metodo a Wuhan venne costruito un ospedale in due settimane.
Impiantistica.
L’avaria degli impianti all’interno degli ospedali, e la loro riparazione, può provocare gravi disagi al personale e ai degenti. Per evitarli occorre creare per tutta l’impiantistica, spazi dedicati in cavedi tecnici orizzontali o verticali, progettati in modo tale da non interferire con le aree destinate alle attività sanitarie. Per esempio si possono costruire edifici affiancati agli ospedali per potervi contenere impianti facilmente accessibili ai tecnici senza entrare nelle aree di degenza. Il progetto dovrebbe prevedere l’esistenza di un secondo edificio parallelo alla struttura principale che si sviluppi in verticale, connesso all’ospedale attraverso i controsoffitti. In questo modo gli impianti sarebbero autonomi rispetto all’ospedale.
La questione energia.
Questo argomento venne affrontato dal Politecnico di Milano per dare un significato concreto all’espressione “ospedale sicuro e sostenibile” contenuta nel PNRR. Si concluse che bisogna partire dall’idea che un ospedale è come una città che lavora e vive h/24 e pertanto è fortemente energivoro. Esiste l’esigenza dell’isolamento termico e il problema del risparmio energetico, per l’illuminazione, per il riscaldamento.
Una buona pratica è quella messa in campo dall’ospedale pediatrico Mayer di Firenze dove il progettista ha pensato di portare il più possibile la luce naturale dentro l’ospedale e prevedere in aggiunta un impianto fotovoltaico. Stefano Capolongo nella sua relazione ha sostenuto che si debba andare in questa direzione. Infine, Stefano Capolongo, convinto che i padiglioni non siano l’opzione migliore, ha affermato che i padiglioni sono utili solo per contenere le malattie infettive epidemiche, motivo per cui si svilupparono soprattutto nel 1800, quando si scoprì l’esistenza dei microbi e i modi di trasmissione dei contagi. La loro necessità è giustificata solo dalla norma del “distanziamento”.

Il Nuovo Policlinico di Milano
Il Policlinico di Milano è conosciuto anche come “Ospedale Maggiore” o “Ca’ Granda”; è specializzato in materno infantile, malattie rare, trapianti, dermatologia, gastroenterologia, epatologia, medicina del Lavoro.
La sua struttura verrà modificata: sarà composta da 7 piani: piano terra, tre piani di blocco centrale, due piani di parcheggio interrato. L’edificio Sud sarà dedicato a donne e bambini, ma la vera particolarità saranno le “Case parto”. Le case parto saranno dei veri e propri mini-appartamenti che daranno la possibilità alle donne di vivere l’esperienza di partorire in casa, rimanendo in ospedale. Esisterà un “giardino terapeutico” sopraelevato sul tetto dell’edificio.

Questa evoluzione della struttura degli ospedali concepita in chiave moderna iniziò nel 1456 con l’Ospedale Maggiore di Milano, progettato e realizzato dal Filarete su commissione di Enrico Rampini.
Nel 1700 si diffusero in Europa gli ospedali a padiglione, composti da più edifici immersi nel verde, distinti secondo la patologia dei pazienti.
In seguito, colla riduzione del problema dei contagi si studiarono nuove soluzioni per risolvere un’altra problematica: il consumo di tempo impiegato dal personale per percorrere le lunghe distanze tra i padiglioni dell’ospedale.
La soluzione si trovò con gli ospedali monoblocco, ovvero edifici più compatti che si sviluppano in verticale e a dipartimenti.
Negli anni dal 1950 in poi si svilupparono gli ospedali a piastra-torre, cioè edifici con una base più ampia in cui si collocavano i servizi ambulatoriali, mentre le degenze si collocavano nella torre.
Sicuramente i futuri progettisti di ospedali dovranno tener conto dei “criteri aggiuntivi” maturati con l’esperienza della pandemia. All’esigenza di nuovi ospedali si somma oggi la carenza di strutture ospedaliere efficienti a causa dei mancati ripristini provocati dalle ridotte disponibilità di finanziamenti per la sanità. Si calcola che dagli 8 miliardi annui destinati alla Sanità ospedaliera nel 2008, sia avvenuta una decrescita annuale del finanziamento, fino ai 5,5 miliardi nel 2017.
Si stima che saranno necessari altri 32 miliardi per intervenire sulle strutture sanitarie dell’intero paese. Quando si passerà alla realizzazione dei nuovi ospedali, oltre ai “criteri generali” che dovranno ispirare i progettisti (umanizzazione, economicità, sicurezza, igiene, rapidità di intervento, etc..), si dovranno considerare i “requisiti” strutturali imposti dalle leggi vigenti.
La legge di riferimento più nota del ventesimo secolo è il DCG del 20 luglio 1939. Esso detta norme su:
– Elementi generali da tener presenti nella costruzione degli ospedali.
– Scelta dell’area secondo parametri d’obbligo (dati meteorologici della località, temperature minime e massime dell’anno ed escursioni giornaliere, umidità, stabilità dei suoli, andamento altimetrico e planimetrico del terreno, direzione e velocità dei venti dominanti, durata dell’insolazione media, presenza di acque superficiali, profondità della falda freatica, libera esposizione a sud-est, possibili inquinanti nell’aria, rumorosità ambientale).
– Ampiezza dell’area: non meno di 75 mq per posto letto.
– Approvvigionamento idrico e smaltimento liquami
– Numero posti letto adeguato alle finalità dell’ospedale.
– Sviluppo verticale a monoblocco o poliblocco
– Requisiti costruttivi (doppio corpo, orientamento sec. l’arco solare, illuminazione, aereazione).
-Elementi funzionali (servizi generali, direzione sanitaria, cucine, lavanderia, centrale termica).
– Servizi di accettazione.
– Locali di degenza.

Alle legge del 1939 si sono aggiunte negli anni nuove disposizioni che rendono ancora più complessa la normativa per la realizzazione di un ospedale:
– Legge 833/78; legge 502/1992; DPR 503/1996; DPR 380/2001 (barriere architettoniche);
– DM 5 luglio 1975 (requisiti igienico-sanitari)
– D.L. 396/1993 (disposizioni in materia edilizia;
– DPR 14 gennaio 1997 (requisiti strutturali, tecnologici, organizzativi minimi per servizi sanitari).
Inoltre, sarà necessario verificare che il progetto soddisfi tutti i “criteri urbanistici” definiti dal “Piano regolatore” di riferimento, con rispetto di parametri come la “densità edilizia”, le “altezze” degli edifici, la “distanza tra fabbricati” e la “destinazione d’uso”.
L’intento dichiarato, nei programmi politici, di costruire nuovi ospedali è semplice da scrivere su delibere di poche righe, ma è piuttosto difficile da concretizzare in opere compiute.
Tra l’intento e la realizzazione c’è di mezzo il “tempo disponibile”. Questo fattore, stante la richiesta pressante di sanità, è l’incognita dell’equazione che si frappone tra le esigenze sanitarie dell’attuale generazione e l’ospedale del futuro.

Il giorno 1 giugno 2023 la Giunta regionale ha deliberato la costruzione di 4 nuovi ospedali in Sardegna. Ne sono stati previsti uno a Cagliari, uno nel Sulcis Iglesiente, uno ad Alghero ed uno a Sassari. Il nuovo “Ospedale della città” di Cagliari dovrà sostituire gli attuali Brotzu, Oncologico, Microcitemico e SS Trinità che verranno chiusi. Similmente l’ospedale nuovo del Sulcis Iglesiente sostituirà il Santa Barbara, il CTO e il Sirai. Così avverrà per Alghero e Sassari.

La delibera, tuttavia, non contiene indicazioni sulle risposte da dare ai seguenti quesiti: “Quando?”, “dove?”, “come?”e “perché?”. Per ora sono in sospeso e non sarà facile definire i Tempi, i Criteri e le Norme.

I “Tempi”.

Se i 4 ospedali sorgessero all’istante sarebbe una bella idea, ma non è così perché nel mondo reale le cose avvengono col “consumo di tempo”. E’ presumibile che per costruire i nuovi ospedali ci vorranno dai 15 ai 25 anni e molti degli attuali sardi sessantenni non ne vedranno l’inaugurazione.

Oggi, con gli incombenti pericoli di nuove epidemie, del cambiamento climatico, di altri shock energetici, di un’immane immigrazione, e di un inedito cambiamento demografico, gli attuali sessantenni dovranno assolutamente assicurarsi che per i prossimi 20 anni gli ospedali continuino a funzionare benissimo. E’ certo che i futuri ospedali saranno destinati alla futura generazione.

Il proposito di costruire nuovi ospedali venne ufficialmente espresso nella legge regionale 24/2020 all’articolo 42. Per produrre la delibera attuativa, pubblicata il 13 giugno 2023, ci son voluti 3 anni. Questi sono i tempi tecnici di qualunque amministrazione pubblica. Ora ci vorranno i tempi necessari per il concorso di idee e per l’individuazione di un’area di almeno 30 ettari adatta dal punto di vista geomorfologico. Altro tempo sarà necessario per la scelta del sito esatto in cui costruire il nuovo ospedale mettendolo al centro delle vie di comunicazione terrestri, marittime e ferroviarie, rispettando la densità della popolazione, la non interferenza con altri interessi, e l’accordo politico che dovrà essere raggiunto con il concorso di un referendum provinciale. Vi saranno i tempi per la progettazione, l’edificazione, l’arredamento, l’impiantistica, le variazioni in corso d’opera, il reperimento del personale e, soprattutto, il reperimento di altri fondi dato che l’inflazione avrà svalutato i finanziamenti attualmente disponibili. Considerato che per porre la prima pietra del nuovo ospedale di San Gavino ci sono voluti 20 anni si può supporre che la previsione di 15-25 anni per vedere costruiti e in funzione i futuri 4 ospedali sia abbastanza realistica.

Le discussioni dei politici riportate dai quotidiani, intanto, continuano senza chiarire bene i termini.

I “Criteri”.

Non si può fare a meno di osservare che in queste pubbliche discussioni manca un fattore ineludibile: i “Criteri” da utilizzarsi per raggiungere lo scopo. In passato per formulare i “Criteri” ci vollero molti secoli.

Ogni periodo storico, da 2.000 anni ad oggi, ha avuto i suoi “Criteri”.

Ai tempi di Cesare Augusto gli ospedali non esistevano.

A Roma, nell’Isola Tiberina, esisteva una “vulneraria” in cui venivano curate le ferite dei gladiatori e degli schiavi. Il criterio per l’esistenza del vulneraria fu: avere un luogo specializzato e isolato per riparare gli strumenti del divertimento e del lavoro.

Ai tempi di San Benedetto e San Basilio, nel quinto secolo d.C.,  gli “hospitalia” servivano a prendersi cura dei “poveri cristi”. Il Criterio era religioso.

Nel Medio Evo, tra il 1.000 e il 1.400, gli “hospitalia” venivano costruiti con fondi donati dai ricchi commercianti. Il loro vero fine era quello di acquisire meriti per essere ammessi in  Paradiso. Il criterio per l’edificazione di quegli ospedali era caritativo.

Quel sistema caritativo dette vita ad un’economia fiorente basata sulle donazioni alle organizzazioni pseudoreligiose che lo dominavano. A Milano nel 1450 esistevano ben 16 ospedali caritativi in mano a “conversi e converse “che agli occhi della chiesa suscitavano scandalo. Il cardinal Enrico Rampini per mettervi ordine dette il via alla costruzione dell’Ospedale Maggiore. Per riuscire nel suo piano ebbe necessità della protezione degli Sforza e del Papa. Così poté chiudere quei 16 ospedali caritativi privati e trasportare i malati nel suo nuovo ospedale. L’Ospedale Maggiore fu destinato ai malati acuti; i malati cronici vennero messi in un altro ospedale alle porte della città.

Con quell’impresa il Cardinale aveva realizzato il primo sistema ospedaliero “per intensità di cure”.

Per costruire l’Ospedale Maggiore (tutt’oggi funzionante) il cardinale Enrico Rampini dettò i suoi criteri:

1 – La  prossimità dell’ ospedale alla popolazione;

2 – L’ amministrazione controllata da rappresentanti popolari.

3 – La vicinanza ai Navigli per le fonti d’acqua;

4 – L’affidamento del progetto al massimo architetto del tempo: il Filarete;

5 – Il servizio d’acqua corrente in camera e nei bagni;

6 – L’ esistenza di una efficace e capillare rete fognaria;

7 – I letti singoli (fino ad allora erano ovunque a 4 e a 8 posti e il fratturato stava coll’appestato);

8 – Gli  armadietti singoli personalizzati (vennero inventati i comodini);

9 – I servizi igienici dovevano essere separati dalle degenze e situati in una corsia parallela;

10 – La cucina in un piano separato;

11 – La corsia maschile  distinta da quella femminile;

12 – I malati chirurgici distinti da quelli internistici;

13 – Le  “Zone filtro” per l’igienizzazione dei  nuovi ricoverati;

14 – Le abitazioni per il personale annesse all’ospedale

15 – Gli Impianti di riscaldamento e di aerazione per tutti gli ambienti.

Il Filarete, progettò l’opera secondo i Criteri dettati dal Cardinale e tale progetto divenne pilota per tutta l’Europa. Egli fu il primo architetto dell’ospedale moderno.

I “Criteri rampiniani” i cui scopi erano l’igiene e l’umanizzazione, rimasero immodificati fino al ventesimo secolo.

Dopo il disastro della Prima Guerra Mondiale e le due epidemie di Spagnola e Tubercolosi che seguirono gli architetti specialisti in ospedali aggiunsero altri “criteri”. Si trattò di Criteri, oltre che di umanizzazione delle cure e di difesa dalle infezioni epidemiche, di buona gestione economica e di risparmio di energia.

Fino ai primi del 1900 gli ospedali furono costruiti su un piano orizzontale e a padiglioni. Poi nei primi decenni del 1900 in America comparvero gli ospedali skyscraper (grattacieli) nella forma di complessi verticali alti fino a 30 piani. Si trattava di strutture in acciaio e calcestruzzo, costruite in moduli prefabbricati, dotate di veloci ascensori. Negli anni ‘20-’30 il modello si diffuse in tutta Europa. L’antesignano di tali progetti fu l’architetto finlandese Alvar Aalto. Il criterio che pilotò verso il monoblocco fu quello della riduzione  dei tempi di percorrenza per favorire la prontezza nel soccorso. Il “Tempo “ è il fattore che condiziona tutta la medicina d’urgenza e ciò ha indotto alla progettazione degli ospedali verticali dotati di trasporti semplificati e veloci. L’altro vantaggio è l’impiantistica comune e facilmente accessibile posta all’interno di colonne in cavedi verticali attraversanti tutti i piani. Il monoblocco di Alvar Aalto venne realizzato nella città di Paimio in Finlandia. Quel progetto di ospedale vinse un concorso internazionale di idee indetto dal Governo americano nel 1930. Fu la vittoria definitiva degli ospedali a monoblocco verticale sui complessi ospedalieri orizzontali a padiglioni. L’ospedale di Paimio aveva la caratteristica d’essere un monoblocco con annesse due “stecche” laterali. Il blocco centrale, destinato alle camere di degenza, aveva ampie fenestrature esposte a sud-sud-est secondo l’arco del sole. Lo scopo era quello di captare il più possibile i raggi solari per l’illuminazione, per il riscaldamento e la salubrità della stanze, secondo il criterio di efficienza e efficacia. La vista riservata ai degenti dava su un grande parco con alberi e prati. Il lato esposto verso occidente era riservato ai servizi. La prima stecca serviva alle camere operatorie, ai laboratori e alle radiologie. La seconda stecca era destinata ai servizi amministrativi e tecnici. Esisteva nel complesso una parte destinata alle residenze del personale sanitario. Il criterio era l’autosufficienza.

Nel periodo fascista in Italia il regime dette notevole impulso alla costruzione di nuovi ospedali. Negli studi tecnici ingegneristici specializzati in architettura ospedaliera nacque un vivace dibattito sulle varie idee di progettazione. Il criterio generale era: ridurre al minimo ingombro i fabbricati sviluppandoli in altezza e accentrando i servizi.

In vari concorsi di idee prevalsero sia i progetti dell’architetto Concezio Petrucci che sviluppò un progetto a “T”, con 4 letti per camera, sia i progetti dell’architetto Giorgio Rossi. Il criterio era l’umanizzazione. Erano gli anni in cui si costruiva la città di Carbonia; nell’originale linea a “T” del suo ospedale si notano tutti gli influssi del pensiero architettonico del tempo.

Quei progetti  rispettavano i criteri di Alvar Aalto:

Nel 1964 il più famoso architetto del ventesimo secolo, Le Corbusiér, ebbe l’incarico di progettare l’ospedale di Venezia. Con quel progetto egli andò contro-corrente e modificò le linee guida di Alvar Aalto: progettò un ospedale orizzontale. Il motivo era legato alla necessità di non erigere un grande edificio al centro di Venezia che col suo corpo di calcestruzzo e acciaio confliggesse con gli antichi edifici in mattoni rossi della città lagunare. L’ospedale fu progettato su tre piani. Il piano terra fu destinato ai servizi per il pubblico; il primo piano per i servizi medici veri e propri sale operatorie e diagnostiche); il secondo piano per le degenze. Si seguì il criterio della efficienza, dell’urbanistica e dell’estetica.

In questo anno 2023 nella città di Cremona è in corso una preselezione per partecipare al concorso per il nuovo ospedale. I criteri dettati dal committente sono:

Strutture modulari e flessibili in grado di adattarsi con facilità agli eventi (vedi nuova epidemia);

La Logistica che dovrà prevedere percorsi interconnessi fra Ospedale, Territorio, casa del paziente;

– L’ Ecosostenibilità che metta al centro la cura del paziente, degli operatori e dei visitatori.

Si tratta con tutta evidenza di nuovi criteri di prevenzione, prossimità e umanizzazione esaltati dall’esperienza Pandemica Covid.

Attualmente esiste, anche in Toscana, il progetto di costruire 4 nuovi ospedali: a Prato, a Pistoia, a Lucca, e nel territorio Apuano. Lo scopo è quello di sostituire i vecchi ospedali nati più di un secolo fa.

Anche qui sono stati individuati alcuni criteri pilota che dovranno essere rispettati dai progettisti:

– La persona e le sue necessità messe al centro del progetto;

– L’assistenza continua personalizzata;

– L’integrazione dei percorsi di cura col territorio;

– percorsi multidisciplinari; modello a “intensità di cure”

Tutto sommato sembrerebbero criteri non molto diversi da quelli del cardinal Enrico Rampini nel 1450 e di Alvar Aalto del 1930.

Le “Norme”.

All’elenco di “criteri” maturati nei secoli oggi se ne potrebbe aggiungere uno specifico per il Sulcis Iglesiente: ritorno al passato restituendo ai nostri Ospedali tutti i Servizi e il Personale cancellati da leggi restrittive. L’unico modo per ottenere quella restituzione consiste nel ridurre la rigidità delle  normative vigenti nate dopo la fine della Grande Riforma Sanitaria del 1978. Esse creano gravi problemi agli ospedali provinciali a tutto vantaggio degli ospedali dei capoluoghi di regione. L’ultima di queste leggi restrittive, il DM 70/2015, ha posto limiti all’attività e alla dimensione agli ospedali provinciali cancellando le speranze di autosufficienza e di ripresa.

Questo ragionamento oggi appare solidamente fondato. Lo conferma una autorevole nota ministeriale che sta sollecitando il riesame di certe leggi. E’ quanto sembrerebbe di capire dal documento emanato il 6 giugno 2023 dal Capo di Gabinetto del Ministero della Salute. Esso decreta “l’istituzione di un tavolo tecnico presso l’Ufficio di Gabinetto per lo studio delle criticità emergenti dall’attuazione del DM 70 e del DM 77”.

Il DM 70 è quel decreto che con le sue regole stringenti, provocò l’ulteriore riduzione dei posti letto e di servizi specialistici nei nostri ospedali di Carbonia e Iglesias.     

Oggi i nostri politici dovrebbero porre attenzione a questo riesame  delle Norme che regolano l’organizzazione dei servizi ospedalieri. Per ora si può già dire che la nota del Capo di Gabinetto del 6 giugno conferma la validità delle nostre segnalazioni sulla disparità di trattamento tra territorio e capoluogo.

Qualora la commissione per il riesame del DM 70 confermasse le nostre ragioni e dettasse Nuovi Criteri per la definizione della rete ospedaliera regionale, forse i nostri ospedali recupererebbero l’efficienza perduta e potremmo aspettare serenamente i 20 anni che ci vogliono per costruire i nuovi 4 ospedali sardi.

Il castello dei valori umani su cui si basava la Sanità Ospedaliera del Medioevo si sgretolò durante l’epidemia del 1347-48 : l’etica del sistema di mutua assistenza si era infranta davanti all’incapacità di affrontare la peste. La gente moriva in massa nelle proprie case, nelle campagne e per le strade.
L’apparato sanitario, governato dagli Ufficiali di Sanità, gestì il problema dei morenti e dei morti con metodi spicci. Li caricava sui carretti e li smaltiva in fosse comuni. Questo fu il massimo del “prendersi cura”. I medici , pochi, spaventati e impotenti, seguivano i consigli di Galeno: «Fuge, longe, tarde» («fuggi lontano e torna il più tardi possibile»). L’inconsistenza del sistema di sicurezza prodotto dai governanti generò, nel popolo, odio contro i medici. Il disprezzo per i medici fu tale che per un secolo persero credibilità e scomparvero dalla storia. Nel 1348 il più grande odiatore dei medici fu Francesco Petrarca, il poeta. La sua amata, la bella Laura De Sade, morì di peste, nonostante le cure dei migliori specialisti di Avignone. Per offendere i medici del tempo li chiamò “maccanici”. Con questo termine, che di per sé non è offensivo, voleva dire: «La vostra professione è senza spiritualità; curate i corpi malati come se fossero macchine rotte e non vedete che dentro hanno un’anima carica di valori etici».
La medicina era caduta talmente in disgrazia che per un secolo i malati trovarono conforto soltanto in ricoveri gestiti da personale di assistenza, fratres et sorores, che agivano autonomamente e si mantenevano con le donazioni dei benefattori. Tali strutture erano destinate al ricovero dei vecchi non autosufficienti, dei poveri, dei folli, dei bambini abbandonati e degli infettivi. Anche in questi ricoveri la spiritualità si deteriorò davanti alla tentazione di arricchimenti personali con le donazioni incamerate.
A Milano un secolo dopo, nel 1448, vi fu un duro intervento di  ri-spiritualizzazione” degli ospedali caritativi del tempo. L’arcivescovo della città degli Sforza, Enrico Rampini, sostenuto dal Papa Nicolò V, fece demolire 16 di questi infami ricoveri e costruì il Grande Ospedale dell’Annunciata che poi venne chiamato  Ospedale Maggiore”. Fu una rivoluzione. La gestione sanitaria dell’ospedale venne affidata ai medici, per la prima volta assunti in pianta stabile, e quella amministrativa fu affidata ad una commissione cittadina di persone di fiducia. Con l’intervento dell’architetto Filarete fu progettato un ospedale in cui i letti erano singoli, avevano un armadietto esclusivo per ogni malato e un sistema igienico di scarichi che allontanava i residui di umanità direttamente nei navigli. Si concordò che quello fosse l’“Ospedale per acuti”, da dove i malati dovevano essere dimessi dopo poco tempo guariti o morti. Alle porte di Milano fu costruito l’“Ospedale per i cronici”, destinato ai vecchi, ai folli e agli incurabili. Non se ne usciva mai se non da morti.
L’Ospedale Maggiore di Milano era costruito a “crociera”. Due ali della croce erano destinate alle donne; le altre due agli uomini. Al centro, dove si incrociavano le quattro corsie dell’ospedale, era posto un altare col Santissimo esposto, a significare: «Noi vi curiamo ma è Lui che vi salva». Fu chiara a tutti l’equa divisione delle responsabilità.
Il Sistema Sanitario Milanese attirò la curiosità di tutta l’Europa e molti Governi inviarono i loro medici e architetti per copiarlo. Così si diffusero gli “Ospedali Maggiori” nel mondo occidentale.
La Riforma Sanitaria dell’arcivescovo Rampini fu fondamentalmente una “ riforma etica©. Quella concezione di Ospedale, in Italia e in Europa, rimase fino alle riforme sanitarie sperimentate dopo la Seconda Guerra Mondiale.
La stessa eticità venne ripresa nella Riforma Sanitaria allestita dalla Commissione ad hoc presieduta da Tina Anselmi. Fu lei a presentare il testo della legge n° 833 del 1978 alle Camere. In un’intervista raccontò al giornalista che le idee fondanti erano emerse dalle discussioni fra partigiani nei bivacchi di montagna. Raccontò che fu lì che si decise di introdurre nella riforma i tre valori guida: l’Universalità delle cure, l’Equità e l’Uguaglianza. Lo slogan che sintetizzava lo spirito della nuova sanità fu: «Dalla culla alla tomba, gratuita per tutti». Fu il trionfo della solidarietà.

Recentemente uno dei massimi chirurghi viventi in Italia ha ricevuto l’incarico da un’importante rivista medica americana, di scrivere un articolo sulla “spiritualità” nella chirurgia del cancro in stadio avanzato. Per chi opera negli ospedali di questo tempo, l’articolo commissionato al chirurgo, è stupefacente.
L’obiettivo di chi ha commissionato l’articolo è quello di ridare all’ospedale il significato di “luogo etico” in qualità di contenitore di “valori”. Ciò contrasta con l’idea dell’ospedale come semplice luogo di produzione aziendale secondo calcoli economici di tipo privatistico. Quel chirurgo sicuramente esplorerà l’angoscia di chi non ha più speranza e che non si sente ancora pronto alla fine, e discuterà la “compassione” del medico in questo passaggio. Nella stessa “compassione” che letteralmente significa “sentire la sofferenza insieme all’altro” è coinvolto il personale infermieristico e chi svolge il ruolo di care-giver.

Oggi lo Stato, con il PNRR missione 6, certifica un altro “valore”: il diritto del malato alla “prossimità” del luogo di cura e di chi lo cura. Il luogo più prossimo è la propria casa, poi vengono la
Casa della salute e gli Ospedali.
Negli Atti aziendali di varie ASL qualcuno ha cercato di definire quanto deve essere vicina questa “prossimità”. Vi è chi suggerisce che i luoghi di cura debbano essere distanti non più di un chilometro e mezzo dal luogo in cui sorge l’improvviso bisogno di cure; vi sono altri che invece quantificano la distanza in tempi di percorrenza non superiori ai 15 minuti. Secondo questa visione della “prossimità” si esclude l’accentramento esasperato dei servizi ospedalieri nelle grandi città e cresce l’idea che l’ospedale debba tornare alla sua dimensione etica mantenendo il suo radicamento nel territorio.
Il problema è come fare a tornare allo spirito della legge 833 di Tina Anselmi superando le riforme fallimentari che si sono succedute.
In questo periodo storico di indeterminatezza della percezione del senso del diritto, della giustizia e della politica, è stata citata una dichiarazione del giurista Carlo Arturo Jemolo. Egli ha sostenuto che la Carta costitutiva dell’ONU, così come la Costituzione Italiana, pur piene di buoni principi, sono destinate a rimanere “pezzi di carta” se non esiste un’Istituzione che le faccia rispettare.
La differenza tra quella prima riforma e le successive sta nel fatto che la 833/78 conteneva al suo interno un Istituto di controllo con funzioni assimilabili all’idea di Jemolo.
L’Istituzione in oggetto era rappresentata dal Presidente della ASL e dal Comitato di gestione. Nella nostra esperienza i componenti erano tutti consiglieri comunali delle 23 città del Sulcis e dell’Iglesiente. Gli assistiti allora erano abbastanza soddisfatti dei loro ospedali. Eppure allora avevamo meno medici di oggi. Al Sirai c’erano una trentina di medici contro il centinaio degli attuali. Ad Iglesias i rapporti erano simili. Si dovrebbe concludere che quei consiglieri comunali fossero dei geni del management sanitario. Invece no. Non avevano alcuna formazione in sanità, però avevano una grande capacità politica di interpretare i bisogni del personale sanitario e dei malati. Essi non si sostituivano al personale dell’apparato amministrativo ma facevano rispettare i valori umani di cui erano rappresentanti: la dignità, la sicurezza, la speranza, la condivisione, il coraggio, la compassione e, soprattutto, avevano l’umiltà di ascoltare. Quella capacità di “ascolto” in seguito si attenuò fino a scomparire. Dall’umanizzazione della Sanità pubblica si passò all’ingegnerizzazione della Sanità.
La lettura accurata delle leggi sanitarie di oggi fa emergere la centralità di un nuovo complicatissimo apparato burocratico. Vi si possono leggere centinaia di pagine che descrivono processi, uffici e commissioni, senza mai incontrare le parole: medico, infermiere, malato. Queste tre figure che dovrebbero essere centrali, si trovano invece alla periferia dei programmi; talvolta non sono neppure alla periferia, sembra che proprio non ci siano.
La sede di comando del potente apparato burocratico centrale è un luogo indefinibile della mente, impenetrabile, distante fisicamente e psicologicamente. E’ avvolto da una forma di indeterminatezza e di estraneità per cui è difficile instaurare quei sentimenti empatici che invece con i politici locali erano la norma. La sensazione che ne risulta è che il nuovo sistema sia respingente, come se si trattasse di una corazzata impenetrabile che non lascia spiragli per accedervi.
Leggendo gli atti, si ha la sensazione che tale apparato sia inaccessibile ed escludente pure per i Direttori generali, a cui sono preclusi tutti i poteri essenziali per la reale gestione della ASL, come la facoltà di assumere personale ed acquistare strumentazione con decisioni indipendenti.
Perdendo i nostri sindaci e i nostri politici locali alla guida della sanità, abbiamo perso la cinghia di trasmissione che ci faceva entrare in contatto con i vertici. Ormai siamo al di fuori della possibilità di controllo di questa entità superiore.
Sicuramente non è un’esperienza nuova nella storia dell’uomo.

Nel 15° secolo un rappresentante dell’Aragona davanti alla Cortes catalana espresse al re un giuramento di obbedienza in questi termini: «Noi che siamo leali come lo sei tu, giuriamo a te, che non sei migliore di noi, di accettarti come nostro re e signore sovrano, purché tu rispetti le nostre libertà e le nostre leggi; ma se non le rispetti, non ti riconosciamo». Da “La Spagna imperiale. 1469-1716” di John Elliott.

Mario Marroccu