26 December, 2024
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E’ notte fonda. L’ambulanza della ASL 7 si è appena arrestata davanti all’ingresso di un ospedale pubblico del capoluogo e ha sbarcato una barella che trasporta una vecchia paziente. La poveretta ha necessità di un intervento urgente che al Sirai non si può fare per difficoltà organizzative riguardanti il personale. Il medico dell’ospedale di destinazione ferma il medico del Sirai all’ingresso del suo reparto mentre entra con la paziente e lo accoglie con frasi scortesi: «Che altra [robaccia…] ci stai portando oggi?». Pare che con una certa frequenza l’accoglimento dei nostri malati in altri ospedali pubblici avvenga in modo sgradevole e respingente.
Per la burocrazia contabile anche questo trasferimento di paziente dalla nostra ASL 7 verso altre ASL, verrà inquadrato nelle statistiche sanitarie sarde come “mobilità passiva”.
L’espressione “mobilità passiva” è burocraticamente elegante, tuttavia, se esaminiamo il significato dei due termini, emerge quanto segue: per “mobilità” si intende l’atto dello spostarsi di qualcuno da un luogo ad un altro. Col termine “passiva” si intende significare che l’azione del muoversi non avviene per autonoma decisione del soggetto ma per necessità ineludibile o per decisione presa da altri .
Quindi si tratta di “spostamento senza il desiderio di farlo”. L’espressione più esatta non dovrebbe essere “mobilità passiva” ma “emigrazione” e l’emigrazione è il passaggio dal proprio territorio di appartenenza verso uno estraneo. In questo caso, si corre il rischio d’essere male accetti. Noi Italiani ne abbiamo una triste esperienza e da quella esperienza passata, possiamo ancora trarre insegnamento.
L’emigrazione italiana fa parte della nostra storia. Essa si protrasse per circa un secolo, dal 1876 al 1970. All’inizio i migranti italiani provenivano dal Nord Italia: lombardi, veneti, friulani, piemontesi, e si dirigevano verso le Americhe. Nel 1900 iniziò l’emigrazione in massa dal Meridione. Le navi, gestite da veri e propri trafficanti di uomini, partivano da spiagge, dai porti e da approdi di barche da pesca di tutta la penisola. Sia alla partenza, che durante l’attraversata, che nei porti d’arrivo oltremare, avvennero fatti gravissimi contro la pietà umana. Molti morirono di stenti, maltrattamenti e linciaggi. Per fermare la disfatta morale il Governo Giolitti, nel 1901, emanò una legge al fine di fermare lo stato penoso in cui si svolgeva il trasporto di quella umanità. Il fenomeno migratorio italiano si attenuò durante le due Guerre Mondiali, sia per il più accanito respingimento dei paesi verso cui si migrava, sia per la comparsa di provvedimenti restrittivi messi in atto dal fascismo.
Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, dal 1946 al 1970, l’emigrazione fu soprattutto interna e andava dal Meridione e Isole verso le città industriali del Nord che chiedevano mano d’opera per il boom economico.
L’emigrazione più terribile fu tra la seconda metà del 1800 e l’inizio del 1900. La richiesta di mano d’opera a basso costo proveniva soprattutto dal Brasile e dagli Stati Uniti del Sud.
Avvenne a causa della fine della schiavitù. Gli schiavi neri utilizzati in Brasile nelle piantagioni di caffè e canna da zucchero divennero liberi a causa della “ley do ventre libre” (legge del ventre libero). Si racconta che la figlia dell’imperatore del Brasile, opponendosi ai fazenderos schiavisti avesse ottenuto dal Parlamento brasiliano che dall’anno 1871 tutte le donne schiave in attesa di un figlio, dovessero darlo alla luce libero. Da allora la schiavitù lentamente scomparve. Ciò comportò la mancanza di mano d’opera schiava per il lavoro nelle piantagioni. Il problema venne risolto inviando agenti arruolatori di mano d’opera a basso prezzo nelle regioni più povere del neonato Stato Italiano.
Lo stesso fecero i coltivatori di cotone degli Stati del Sud degli Stati Uniti d’America alla fine della guerra di secessione che sancì la fine della schiavitù dal 1865. Nel 1888 una convenzione internazionale abolì il commercio degli schiavi e il traffico delle navi negriere dall’Africa all’America si fermò. Quelle orribili carrette dal mare per il traffico di schiavi restarono inutilizzate nei porti americani, europei e africani.
Gli sfruttatori del traffico di esseri umani non si fermarono. La contemporaneità fra blocco del commercio degli schiavi e la necessità di mano d’opera a basso prezzo europea restituì valore a quelle navi negriere appena dismesse. Esse vennero rimesse in attività nella rotta dell’Atlantico; stavolta non partirono più dalle coste della Guinea ma dalle coste del Mediterraneo e trasportarono in America masse di bianchi bisognosi. Il disprezzo e l’intolleranza contro i migranti in arrivo furono enormi. Mentre gli ex schiavi pretendevano contratti di un dollaro al giorno per lavorare nelle piantagioni, gli immigrati italiani accettavano mezzo dollaro. Questo fu un motivo di screzi anche gravi tra neri e bianchi immigrati.
I padroni americani chiamavano gli italiani alle loro dipendenze “negri bianchi”. Le atrocità che seguirono al disprezzo e alla disumanizzazione sono note. Questo fatto divenne argomento di scandalo nel Parlamento italiano e un senatore del regno d’Italia, il ministro degli Esteri Giulio Prinetti propose una legge per la regolamentazione dell’emigrazione economica verso le Americhe. La sua legge venne applicata immediatamente per fermare gli abusi sui migranti perpetrati dagli agenti brasiliani. Costoro battevano la campagna del meridione d’Italia promettendo lavoro, la fine della povertà, benessere e il viaggio pagato. Poi, una volta sbarcati in Brasile, pretendevano la restituzione della somma anticipata per pagare il viaggio in nave. Il debito era impossibile da restituire e quei poveracci dovettero lavorare per i fazenderos fino alla restituzione della somma anticipata che cresceva per gli interessi e per il pagamento degli alimenti e dell’affitto delle baracche per l’alloggio di cui erano proprietari gli stessi fazenderos. Di fatto i debitori, non potendo mai restituire le somme pretese, divennero schiavi e come tali vennero trattati insieme alle loro famiglie.
Per fermare l’abuso la Legge Prinetti del 1901 impose quanto segue:
1 – le navi dei migranti potevano salpare dall’Italia soltanto da tre porti autorizzati che venivano controllati dalle forze di polizia: Napoli, Palermo, Genova.
2 – Da nessun altro porto italiano, da nessuna spiaggia e da nessun approdo era consentita la partenza di dette navi.
3 – Nei tre porti autorizzati esistevano i “Patronati” dello Stato Italiano che provvedevano a pagare in anticipo il biglietto della nave e tutte le spese di viaggio.
4 – La nave , prima della partenza, veniva ispezionata da un Medico militare italiano che faceva verifiche sulle condizioni igieniche delle cabine e la salubrità del vitto. Chi era malato veniva sottoposto a cure prima della partenza.
5 – Ogni nave doveva avere un “Commissario di bordo” italiano per i passeggeri. Egli aveva la responsabilità della sorveglianza del benessere dei migranti.
6 – I porti di arrivo in America dovevano essere autorizzati secondo accordi bilaterali col Governo italiano.
7 – Allo sbarco i migranti dovevano ricevere, nel porto d’arrivo, l’assistenza da un ufficio di “Patronato”.
Il Patronato indirizzava i migranti alle aziende richiedenti lavoratori. La legge Prinetti e le integrazioni che seguirono contenevano disposizioni di umanizzazione che anche oggi darebbero utili suggerimenti. Oltre all’intervento di tutela dello Stato crebbe anche l’opera di solidarietà del Volontariato. Alle organizzazioni laiche si aggiunsero le organizzazioni religiose missionarie. La più nota al tempo era la “Missione del Sacro Cuore”. L’aveva fondata la suora Francesca Saverio Cabrini. Questa donna era stata una maestra elementare che, fattasi religiosa nel 1874, fondò il suo Ordine ad imitazione di san Francesco Saverio, protettore dei naviganti in mare, fondatore dell’ordine terziario francescano e dell’Ordine delle Clarisse. Francesca Cabrini fece numerosi viaggi transoceanici sulle carrette del mare per accompagnare i migranti italiani negli Stati Uniti e fondò 80 istituti di assistenza per i migranti. Costruì asili, scuole, orfanotrofi, ospedali, e convitti per studentesse. Le ragazze migranti venivano prese in carico dai suoi istituti, addestrate a parlare la lingua inglese e ad una professione. Quindi venivano avviate alla vita come persone libere, sostenute da un elevato livello culturale. Nel Minnesota fondò un collegio femminile così avanzato che il frequentarlo divenne un titolo di prestigio, e fu una moda per i potenti locali iscrivervi le proprie figlie.
Francesca Cabrini morì a Chicago nel 1917, fu canonizzata da Pio XII del 1946. E’ patrona dei migranti. Sarebbe consigliabile, sopratutto per chi ci amministra, tornare allo studio del fenomeno migratorio, perché di quel fenomeno esistono diverse varianti. Anche se è avvenuto in tempi diversi, in luoghi diversi e in parti diverse della Terra, con gradi di gravità differenti, si tratta sempre di vicende di esseri umani che la storia ha indotto alla perdita progressiva della titolarità dei diritti civili, e li ha destinati a subire abusi e sottrazioni.
Il caso raccontato all’inizio contiene elementi in comune con la storia delle migrazioni umane:
– la sottrazione mascherata di più diritti costituzionali come il diritto alla salute individuale e collettiva e il diritto costituzionale all’uguaglianza e alla realizzazione delle aspirazioni della persona umana;
– l’appropriazione della gestione del diritto alla salute da parte di entità inaccessibili;
– il difetto di solidarietà.

Esiste la convinzione diffusa che si stia tentando di soppiantare la Sanità pubblica con una privata.
Si tratta di due entità assolutamente differenti:
– la Sanità privata è un’organizzazione auto-mantenentesi che deve affrontare spese con fondi propri destinati a: personale, edifici, attrezzature, manutenzione, materiali di consumo, servizio alberghiero, trasporti, burocrazia, tasse, eccetera. Il godimento del suo servizio è oneroso;
– la Sanità pubblica è una grande società di mutuo soccorso solidale dello Stato, il cui servizio dovrebbe essere gratuito, che si finanzia attraverso la contribuzione fiscale dei cittadini secondo regole condivise di contribuzione progressiva in base al reddito. Ciò è necessario per produrre il Fondo Sanitario Nazionale.
Il Fondo Sanitario Nazionale serve a finanziare il Piano Sanitario Nazionale. Il Fondo Sanitario Nazionale viene ripartito equamente fra le Regioni. Le Regioni devono ripartirlo equamente fra le Aziende Sanitarie Locali (ASL) in base alla numerosità della popolazione.
Il cittadino viene assistito attraverso quel fondo che egli stesso ha contribuito a formare. Ne consegue che la proprietà della Sanità pubblica è del cittadino. L’uguaglianza tra i cittadini non è soltanto un diritto costituzionale ma ha anche solide basi matematiche per uguaglianza nella contribuzione.
Esiste la possibilità che l’apparato burocratico che gestisce il Fondo possa optare per una suddivisione non equa sia per motivi di bilancio che per motivi di pianificazione sanitaria, risultando così non equamente solidale ma tendenzialmente preferenziale e vantaggiosa per una parte rispetto ad un’altra della popolazione. Per questo motivo, alle esigenze contabili dovrebbero affiancarsi quei principi etici di uguaglianza e di equità di cui sono ricchi gli articoli della Costituzione.
I guardiani dell’etica politica nella pubblica amministrazione sono gli uomini politici legittimamente eletti. Può avvenire che alla “sorveglianza” dei politici sfugga qualche “sbavatura” contabile. La somma di più sbavature nella distribuzione delle finanze del Fondo Sanitario Nazionale può generare disuguaglianze e disparità per cui può avvenire che il Welfare di una parte del territorio fallisca mentre un altro vicino fiorisca.
Questo è quanto è avvenuto alla nostra ASL 7. Altri si sono appropriati della gestione della Sanità pubblica, racchiudendola nei propri confini sotto forma di “centralizzazione”. La seconda faccia di quella medaglia è l’“esclusione” della Provincia dalla gestione della Sanità. Ora spetta alla politica illuminata futura il compito di riparare i danni della politica passata e presente che, credendo di far bene, ha fatto molto male.
Nell’attesa che si torni alla “statu quo ante” è necessario che la “mobilità passiva”, nuova forma di emigrazione, non voluta ma subita dai nostri pazienti, presso altri territori provvisti di ospedali efficienti, cessi.
Per la cessazione di questo nuovo fenomeno migratorio interno è necessario che si rispetti il Piano sanitario della Rete ospedaliera regionale del 2017 e si provveda a:
– dare un ospedale di base ad Iglesias perfettamente e completamente funzionante;
– dare a Carbonia un ospedale che abbia anche funzioni di Urgenza ed Emergenza;
– o, in alternativa, un ospedale unico.
Tra la promulgazione della legge n. 23 del 1901 del senatore Giulio Prinetti e il raggiungimento dell’obiettivo di frenare i disagi delle emigrazioni passarono 69 anni.
Tra il dire e il fare, ci sarà un lasso di tempo che vorremmo breve, ma potrebbe essere lungo. Nel frattempo, i nostri “Migranti per motivi di salute” hanno bisogno di tutele che può dare solo lo Stato, esattamente come lo Stato fece nel 1901 nei confronti dei Migranti economici italiani.
Pertanto, per tutelare i nostri malati e i nostri medici che li accompagnano presso altri ospedali necessita che:
1 – il paziente che ha bisogno di ricovero non venga rimandato a casa dai nostri ospedali con consiglio di cercarsi un posto in altri ospedali. Ciò equivale ad abbandonarli al loro destino. Invece, il paziente dovrebbe essere accolto e accompagnato previo accordo bilaterale fra direzioni sanitarie delle diverse ASL (come fece il Regno d’Italia con l’America);
2 – il paziente che necessita d’essere ospedalizzato dovrebbe essere accompagnato con ambulanza dotata di equipaggio sanitario completo (idem);
3 – giunti all’ospedale di destinazione il medico accompagnante dovrebbe ottenere dalla Direzione sanitaria ospitante il mandato di disporre l’accettazione già concordata prima della partenza (come fecero i patronati);

4 – il nostro paziente, una volta ricevuto da un altro ospedale dovrebbe godere della tutela dei nostri medici che dovrebbero ottenere alla pari con i medici riceventi la condivisione delle informazioni cliniche sull’evoluzione successiva;
5 – alla dimissione dall’ospedale ospitante, il nostro paziente dovrebbe godere della tutela dei nostri mezzi di trasporto medicati nel caso esistano impedimenti economici e organizzativi familiari.
Il Regio Decreto n. 23 del 1901 e l’esempio dato da santa Francesca Saverio Cabrini sono tutt’oggi validi per allestire sistemi di tutela per i nostri malati-migranti costretti ad essere trasferiti in ospedali di altri territori a causa della nostra povertà assistenziale.

Mario Marroccu