22 April, 2025
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La costruzione della “ Torre di Babele” venne fatta fallire con un metodo semplice: la confusione dalle lingue. Nessuno capiva più l’altro e, mancando la “comunicazione” tra i costruttori, l’edificazione fallì. Lo stesso metodo confusionario venne applicato contro la legge 833/78, confondendo le idee degli italiani tramite una comunicazione in cui vennero adottate terminologie ingannevoli che gettarono il marasma nella mischia del politica del tempo. La storia sanitaria che ne seguì andò avanti a colpi di sorprese, e non si capì mai chi ne fosse l’autore.
All’inizio (1978) il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) era costituito dalle USL (Unità Sanitarie Locali); nel 1992 vennero trasformate in ASL (Aziende Sanitarie Locali). Sembrava solo un cambio di nome, da “Unità” ad “Azienda”, invece stava crollando il mondo. In Sardegna, nel 2017 le ASL vennero unificate in un’altra sigla ancora: ASUR (Azienda Sanitaria Unica Regionale). Con questo atto vennero fatte sparire le ASL che conoscevamo, e comparve una nuova sigla: ASSL (Aree Socio Sanitarie Locali); queste nuove strutture organizzative non erano più “aziende”: di fatto, con la perdita di connotazione di “azienda” le ASL persero la loro autonomia programmatoria e gestionale. L’autonomia nella gestione degli acquisti e delle assunzioni finì nelle mani di una nuova unica entità: ASUR (Azienda Sanitaria Unica Regionale). ASUR , a sua volta, istituì un’altra azienda autonoma chiamata ARES (Azienda Regionale Sanità). In questo modo la parte politica regionale, delegando i suoi poteri ad una nuova struttura di tipo privatistico, ma di natura giuridica pubblica, rinunciò a gestire direttamente la Sanità Regionale. Ecco perché, da allora, i concorsi e le assunzioni furono “regionali”, con un contratto di dipendenza da ARES, e i neo-assunti potevano scegliersi la sede ospedaliera che preferivano, cioè quella più prestigiosa. Ne conseguì che il nuovo personale sanitario specialistico si accentrò negli ospedali di Cagliari e Sassari, mentre si impoverivano gli ospedali delle Province. Quanti si resero conto di cosa stesse succedendo in quel periodo? Quasi nessuno. Una cosa è certa: la distruzione della catena di comando della Sanità Ospedaliera delle USL precedenti ebbe la conseguenza di distruggere anche del capitale medico specialistico provinciale. Da allora non si capisce bene dove sia la testa e il corpo degli ospedali. Sono come navi alla deriva a cui manca sia il personale per governare i motori sia il Comandante e gli Ufficiali. Chi si fiderebbe a salirci?
Questa decapitazione della “catena di comando” delle strutture sanitarie delle province iniziò con l’opera di moralizzazione avviata nel 1992, l’anno dello scandalo della corruzione politica. Il 30 dicembre di quell’anno il ministro alla Sanità Francesco di Lorenzo eliminò la figura del “Presidente” delle USL e, con lui, il suo Consiglio di Amministrazione per il semplice fatto che allora i “Presidenti” USL erano Sindaci o Consiglieri comunali. In quel momento storico, i politici avevano lo stigma della corruzione e della condanna dell’opinione pubblica. Con lo stesso metodo vennero distrutte le “Partecipazioni statali”, considerate corrotte, e la conseguenza fu che ancora oggi, come si vede nei tristissimi fatti del polo industriale di Portovesme, stiamo pagando quella politica autolesionistica. In quell’opera moralizzatrice si dettarono le regole sul controllo delle spese dei candidati in campagna elettorale, con strascichi fino ad oggi. Per paura dei Sindaci, che erano di estrazione politica-partitica, e quindi potenzialmente corrotti, ma che in realtà nella gestione della Sanità erano stati eccellenti, essi vennero estromessi dal Sistema sanitario nazionale e al loro posto, e dei loro consiglieri, venne creata la figura del “Manager” derivandolo dalle aziende private. Si pensava che il “privato” fosse eticamente più sano del pubblico e per questo le USL (Unità Sanitarie Locali) divennero “Aziende Sanitarie Locali” (ASL).

Il Manager privato ha, per definizione, ampie libertà di “scelta” nella gestione dell’azienda; il suo potere nelle scelte decisionali è assoluto, ed agisce nell’interesse economico dell’azienda (lucro). I Manager vennero presentati ai cittadini come garanzia dell’indipendenza dalla politica. Questo fu l’unico motivo che ne giustificò l’esistenza. Dopo 32 anni di gestione manageriale e, dopo averne verificato il fallimento, è più che accertato che i Manager, inventati in un momento di grande confusione, in realtà non sono per nulla indipendenti dalla politica. Sono sempre legati al carro di un potente politico o di un partito. Allora, quale differenza c’è tra i Presidenti delle USL che governarono la Sanità tra il 1982 e il 1992, dai Manager che la governano dal 1992 ai giorni nostri? La differenza sta nel fatto che i Presidenti erano Sindaci del territorio o loro delegati e i cittadini avevano il vantaggio che essi erano in contatto continuo con i Consigli dei vari Comuni attraverso una cinghia di trasmissione rappresentata dal Consiglio di Amministrazione della ASL, che era formato da vari consiglieri comunali della zona; invece i Manager, scelti rigorosamente da un “elenco di idonei”, di fatto sono sempre provenienti da nomine politiche, ma non dipendono dalla politica degli enti locali. Costoro, al contrario dei Sindaci, sono figure estranee ai Comuni e, pertanto, inavvicinabili, impermeabili alle loro istanze e  come Achille, invulnerabili alle minacce di non essere votati alle future elezioni. Con questo metodo i cittadini, sottoposti alla gestione del Manager, non vincitore di tornate elettorali, non possono né controllare, né aggiustare, e neppure influire sulle scelte della politica sanitaria.
Oggi il problema immediato è: come fare a ricostituire le “catene di comando” degli apparati sanitari ridando il potere di scelta ai cittadini a nominare i propri rappresentanti deputati al controllo del funzionamento dei servizi pubblici? Tale potere-diritto dei cittadini venne sancito dallo articolo 114 della Costituzione. In quell’articolo gli enti territoriali autonomi sono collocati a fianco dello Stato come elementi costitutivi della Repubblica, secondo il principio democratico della sovranità popolare (la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato).
Quando Tina Anselmi presentò la sua bozza della legge di Riforma Sanitaria si premurò di rispettare quell’articolo e dichiarò che le USL (Unità sanitarie Locali) erano “…articolazioni dello Stato…” esattamente come lo sono i Comuni, le Province e le Regioni. Per questo motivo mise le USL sotto il diretto controllo politico dei Comuni. Quando il 30 dicembre 1992 venne fatta la riforma sanitaria n. 502/92 di Di Lorenzo, che aboliva la precedente riforma 833/78, le USL vennero degradate dal ruolo di “articolazioni dello Stato” a quello di “Aziende”. Sembrava un semplice cambiamento della terminologia, invece con quel nuovo termine si toglieva la Sanità dal controllo popolare per metterla sotto il controllo dei Manager. Quella dei Manager fu da subito una gestione fallimentare a causa della contraddizione tra la “mission” dell’azienda, che deve produrre “lucro”, e la “mission” di un servizio pubblico che invece deve produrre “profitto sociale solidale”, così come avviene per l’Istruzione e la Difesa; per tale motivo, non deve produrre “incasso” ma solo spese a carico della comunità solidale.
Questa contraddizione nacque dall’utopia del 1992 che predicava la moralizzazione dello Stato attraverso l’introduzione de principi aziendalistici (simili a quelli del privato) nel servizio pubblico. Oggi questa contraddizione sta continuando a vivere dentro le “Aree Socio Sanitarie Locali” (ASSL) , ex Aziende Sanitarie Locali (ASL), ex Unità Sanitarie Locali (USL), facendo molti danni.
La storia ci racconta che le USL avevano una Dirigenza strutturata come i Comuni. Come i Comuni avevano un Sindaco (Presidente) e un Consiglio politico di gestione (Comitato di Gestione); avevano inoltre un direttore generale per il funzionamento dell’apparato amministrativo. Tale composizione conferiva alle USL una notevole efficienza. E’ ragionevole credere che il ritorno ad una struttura amministrativa dotata di autonomia e una “catena di comandor” simile a quella delle USL e dei Comuni restituirebbe alle “Aziende socio sanitarie locali” l’efficienza che vorremmo.
Rimane da affrontare il problema della organizzazione da dare a tutta la rete sanitaria regionale attuale.
Se si desse ascolto a tutti i pareri e ai suggerimenti che provengono quotidianamente dai giornali e dai convegni sulla crisi sanitaria, anche i più esperti entrerebbero in confusione. E’ una Babele. La “confusione delle lingue” dei mille pareri continua a gettare disordine e immobilismo. Il 99% degli interventi riguarda la descrizione di varie sofferenze patite dai malati; 1% (l’un per cento) riguarda l’esame delle cause.
Nelle pagine dei giornali di questi giorni risalta la dichiarazione di un chirurgo del Brotzu il quale, con la concretezza e la concisione che solo un chirurgo possiede, in sostanza dice «… la causa del disagio dell’ospedale Brotzu sta nella destrutturazione degli ospedali delle Province…». A causa di ciò è conseguita l’alluvione continua di pazienti dal Campidano e dal Sulcis verso Cagliari. Fra tutte le cose dette, questa ha lo stesso valore di un “filo d’Arianna” utile a districarsi nella Babele; ad esso converrebbe aggrapparsi per trovare una via d’uscita.

Come porre riparo alla destrutturazione della rete ospedaliera provinciale? La risposta esiste già nelle leggi nazionali e nelle delibere regionali. E’ già tutto scritto. Non c’è bisogno di inventare nulla. Le leggi nazionali sono: la Costituzione, il DM 70/2015, il DM 77 / aggiornato al 2023, la legge sulla “rete ospedaliera sarda” del 2017.
La legge DM 70/2015 stabilisce:
a) come devono essere strutturati gli ospedali,
b) definisce gli ospedali sede di DEA di I e di II livello. Intendendo con DEA i Dipartimenti di Urgenza e Accettazione. La legge identifica con esattezza gli ospedali che sono destinati alle urgenze. Questi sono il centro motore della Sanità. Se noi oggi andassimo a visitare gli ospedali, scopriremmo che soltanto davanti agli ospedali pubblici (e mai davanti a quelli privati) esistono le lunghe file d’attesa di pazienti che aspettano d’essere visitati, e le file di ambulanze in attesa del ricovero dei loro trasportati.
Davanti alla visione delle file di pazienti che si presentano per patologie urgenti risulta chiaro come sia assurdo pensare di negare a tali richiedenti l’assistenza sanitaria gratuita universalistica.

Il problema grave a cui stiamo assistendo sta negli ospedali d’urgenza DEA e nel fatto che i DEA di I livello delle Province sono stati immiseriti in personale e deprivati di attrezzature.
Se la legge DM70/2015 fosse stata rispettata ciò non sarebbe successo.
La legge DM 77 / aggiornata al 2023:
Questa legge riporta tutte le indicazioni del Decreto Draghi sul PNRR nel capitolo della Mission 6.
Essa riguarda :
– Case della salute
– Case della Comunità
– Medici di base
-Personale
– Attrezzature
– Finanziamenti.
Il rispetto di questa legge avrebbe evitato il blocco della sanità territoriale e la crisi degli ospedali.
La legge regionale sarda sulla “rete ospedaliera” del 2017 indica la distribuzione degli ospedali nel territorio sardo e chiarisce con esattezza quali sono gli ospedali DEA di I livello e i DEA di II livello.
Va precisato che in Sardegna sono attivi 29 ospedali. Due (2) di essi sono sede di DEA di II livello (Brotzu e Santissima Annunziata di Sassari).
8 (otto) sono ospedali DEA di I livello, e sono distribuiti uno per provincia. Essi sono:
1 – Sassari (Santissima Annunziata)
2 – Olbia (San Giovanni Paolo II)
3 – Nuoro (San Francesco)
4 – Lanusei (Ogliastra)
5 – Oristano (San Martino)
6 – San Gavino Monreale (Medio Campidano)
7 – Carbonia (Sirai)
8 – Cagliari (Santissima Trinità – Is Mirrionis).
La differenza tra DEA di I e di II livello sta nel fatto che i DEA di II livello trattano le patologie più rare e impegnative come: Neurochirurgia; Cardiochirurgia; Radioterapia; Chirurgia toracica; Trapianti d’organo. Le altre patologie devono essere curate a dagli Ospedali DEA di I livello, alla pari con quelli di II livello.
I 19 ospedali restanti possono essere inquadrati come ospedali zonali di base oppure come ospedali di Comunità per cronici.
La riattivazione immediata degli 8 ospedali di I livello salverebbe l’intera sanità regionale.
Inoltre, è necessaria l’eliminazione dell’Azienda Unica Regionale e la ricostituzione delle Aziende Sanitarie Locali. Queste dovrebbero essere dirette da un Direttore Generale per la parte amministrativa e presiedute da un Presidente, per la parte politica. Il Presidente della ASL sarebbe coadiuvato dal Consiglio dei sanitari (Medici, Infermieri e Tecnici) e dalla Commissione Sanitaria provinciale (formata dai Sindaci della Provincia).

Mario Marroccu

Il disastro sanitario ed economico del Sulcis Iglesiente non è nato dal nulla. Ha radici nei fatti politici del 1992. E’ utile fare un viaggio nella storia di quegli eventi sia per capire e, forse, per porre qualche riparo.
Lo stato di salute della sanità pubblica è oggi talmente grave e la sua gravità è talmente complessa che, a questo punto, è difficile anche il solo sospettare che veramente esista fisicamente qualcuno che abbia programmato tanto degrado. Dovrebbe essere un genio fornito di una maligna intelligenza superiore.
Ammesso che esista un soggetto del genere, a che scopo lo avrebbe fatto? C’è chi sostiene che il danno al servizio sanitario nazionale sia stato progettato da un’ignota organizzazione al fine di favorire la sanità privata. Sarebbe un’organizzazione di matti veramente sciocchi perché sostituirsi del tutto alla Sanità pubblica non conviene a nessuno. Per esempio: a chi converrebbe accollarsi i malanni di tutti i vecchi d’Italia, soli, inguaribili e con in tasca i pochi soldi per la sopravvivenza? A chi converrebbe l’onere di assistere tutti i malati di cancro, debilitati nel fisico, nella famiglia e, soprattutto, nel conto in banca? Chi glielo farebbe fare ad assumersi l’impegno di prendersi in cura i pazienti in Rianimazione in uno stato di coma più o meno profondo? Perché dovrebbero pagare le ingenti spese dei trapianti d’organo a pazienti senza speranza e non solvibili? E gli infarti del miocardio? E tutti i casi di diabete ai limiti della invalidità? E i tossicodipendenti? E le malattie rare? I morti sul lavoro? E gli psichiatrici? E gli incidenti stradali? Chi glielo farebbe fare ad assumersi il compito costosissimo di affrontare le epidemie tipo Covid-19 o le campagne vaccinali, o le spese dell’Inail e dei Pronto soccorso?
Gli imprenditori privati non sono matti. A sé riservano le cliniche dove si curano le malattie, tutto sommato, più semplici, facili, guaribili e, soprattutto, di pazienti solventi. Ciò che compete alla Sanità pubblica è diversissimo da ciò di cui si occupa la sanità privata.
E’ assolutamente vero che negli Stati Uniti d’America esistono le assicurazioni private costosissime che si limitano a poche malattie e per tempi di cura molto limitati; in genere non pagano le spese del pronto soccorso o fanno dimettere i malati dopo tre giorni da un intervento a cuore aperto, per risparmiare sulla degenza in ospedale. Bisogna sapere che in America esiste anche una Sanità pubblica, che si chiama “Medicare”, a beneficio di chi non può pagarsi l’assicurazione privata e che, oltre ad essere molto carente, costa allo Stato il doppio di quanto costa il Sistema sanitario italiano. A questo punto, oltre al sospetto che dietro ci sia l’interesse di qualcuno, potremmo anche considerare il sospetto che dietro il nostro disastro sanitario ci sia in realtà qualche grosso errore commesso da politici poco accorti. Può anche essere accaduto che la grande Riforma sanitaria varata col DPR 833 del 1978 si sia inceppata a causa di leggi successive fatte male; può anche darsi che quelle nuove leggi non siano state lette con attenzione e che i votanti abbiano votato senza vedere gli errori che hanno prodotto queste conseguenze.
Anche questo sospetto, paradossalmente, è sommamente ingiusto, perché è anche vero che i politici italiani furono i primi al mondo a riconoscere nella Costituzione del 1948, all’articolo 32, il diritto di tutti alla salute. Quell’articolo, nella sua semplicità e completezza, fu uno degli elaborati intellettuali più geniali che un Costituente potesse generare: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti». Fu una frase rivoluzionaria contenente due principi: l’inviolabilità assoluta del diritto alla salute e la certificazione che tale bene è di rilevanza collettiva. Così fu sancita la solidarietà nazionale. Altro che privatizzazione! Altro che svantaggio a danno dei molti che non possono permettersela! Tutte le leggi che vanno contro questo principio sono incostituzionali e, se qualcuno avesse votato nuove norme contrarie a questo principio per disattenzione, sarebbe gravemente colpevole.
Esaminiamo cosa è avvenuto nella storia delle Riforme sanitarie italiane. Nell’anno 1968 la legge Mariotti istituì gli “Enti ospedalieri” che sostituirono gli ospedali caritativi provenienti dalla tradizione ospedaliera medioevale. La stessa legge istituì il “Fondo ospedaliero nazionale” e attribuì la competenza di gestione degli ospedali alle Regioni. Quel Fondo e quella legge ospedaliera furono la base su cui si costruì la Grande Riforma sanitaria con la legge 833 del 1978, concepita dalla Commissione parlamentare di Tina Anselmi. Ella raccontò in quei giorni che quell’idea era nata da discussioni e progetti formulati da gruppi partigiani riuniti intorno ai fuochi dei bivacchi di montagna. La legge 833/78 rappresentò un’utopia che si concretizzava in un documento scritto. Il sogno prese forma nella premessa della legge nel cui testo sta scritta la frase: «…Il Sistema sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture (ospedali), dei servizi e delle attività destinate alla promozione, al mantenimento, e al recupero della salute fisica e della salute psichica di tutta la popolazione». In nessuna legge del mondo era mai stata scritta questa premessa.
Mentre gli ospedali, dal medioevo al ‘900, erano stati sempre amministrati da comitati caritativi religiosi o filantropici, nella nuova legge si volle che gli ospedali fossero amministrati da rappresentanti popolari democraticamente eletti. Fu una rivoluzione. I cittadini, dopo 1.500 anni dall’istituzione degli ospedali dai tempi di San Benedetto e San Basilio, divennero per la prima volta i proprietari e gestori diretti degli ospedali. La comunicazione fra cittadino e gestore divenne immediata perché il Sistema venne dato in mano ai sindaci e ai consiglieri comunali. Essi avevano il compito di eleggere l’”Assemblea generale” che era formata da consiglieri comunali e l’Assemblea eleggeva il presidente della Usl (Unità sanitaria locale). Furono gli anni più produttivi della storia sanitaria italiana.
Scomparvero le Casse mutue e comparve il Ssn (Sistema sanitario nazionale), finanziato dal sistema fiscale universale. Ne conseguì anche che ai grandi miglioramenti si associò il crescere della spesa pubblica dello Stato. Per contenerla il ministro Carlo Donat Cattin nel 1987 abolì l’Assemblea generale ma mantenne il presidente della Asl e il Comitato di gestione, eletto dai sindaci dei Comuni del territorio.
Secondo gli indicatori economici internazionali, l’Italia godeva di un generale benessere economico tanto che nell’anno 1991 venne dichiarata quarta potenza industriale del mondo e il PIL pro capite risultava superiore a quello dell’Inghilterra.
Appena un anno dopo, la Repubblica entrò nel suo “annus horribilis”: il 1992. La commissione governativa presieduta dall’economista Piero Barucci rivelò che l’economia era al collasso a causa di un imponente debito pubblico causato dalle Partecipazioni statali. Eni, Enel, Iri, Ina, Efim, stavano portando al tracollo lo Stato. L’indebitamento aveva messo in crisi il Governo espresso dal CAF (Craxi-Andreotti-Forlani). Caduto il Governo Andreotti II e dimessosi Francesco Cossiga, si andò a nuove elezioni sotto l’effetto dell’esplodere dello scandalo di Tangentopoli. A febbraio era iniziata l’indagine della procura di Milano diretta da Francesco Saverio Borrelli e condotta da Antonio di Pietro, in seguito alle rivelazioni di Mario Chiesa, il direttore del Pio Albergo Trivulzio. Oscar Luigi Scalfaro, sostenuto dalla corrente dei “moralizzatori”, venne eletto presidente della Repubblica e immediatamente indisse le nuove elezioni; queste avvennero ad aprile contemporaneamente all’esplosione della sfiducia popolare nei partiti storici, in un clima di forte instabilità politica. I partiti tradizionali crollarono ed emerse la Lega Nord che passò da 2 a 80 parlamentari. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiutò di concedere incarichi di Governo a Bettino Craxi e nominò presidente del Consiglio il deputato Giuliano Amato. La Prima Repubblica era finita con un’ondata di arresti e di avvisi di garanzia. A maggio, ad opera della mafia, avvenne la strage di Capaci, seguita due mesi dopo da quella di via d’Amelio. Lo Stato era preso fra molti fuochi. Giuliano Amato si trovò ad affrontare una condizione di dissesto economico più grave dal dopoguerra ad allora. Si correva il rischio di non poter pagare gli stipendi pubblici. La Nazione si sarebbe fermata.
La Banca d’Italia fu costretta a vendere 48 miliardi di dollari per difendere il cambio e la lira fu svalutata del 30%. La lira uscì dallo Sme (Sistema monetario europeo); era il 16 settembre 1992, il “mercoledì nero”. Giuliano Amato per sostenere le casse dello Stato procedette al “prelievo forzoso” retroattivo del 6 per mille dai conti correnti degli italiani e, in base alle indicazioni del ministro del Tesoro Piero Barucci, dette avvio ad una grande operazione di privatizzazione delle Partecipazioni statali (banche, energia elettrica, trasporti pubblici, Alitalia, industrie manifatturiere, industrie dell’acciaio, comunicazioni, poste, idrocarburi, assicurazioni, agroalimentare, etc.). Lo Stato si spogliava di tutte le sue pregiate proprietà, nell’intento di allontanare la politica dalla gestione delle imprese statali. Su tutta la gestione pubblica, sotto l’effetto delle indagini di Tangentopoli, cadde il sospetto di possibile collusione con la corruzione e vennero varate leggi e norme fortemente restrittive nell’intento di arginare l‘idea che il malaffare fosse in agguato ovunque ci fosse la gestione del politico. In questo crollo finirono anche le miniere del Sulcis Iglesiente e le industrie di Portovesme espressione dell’Eni. Gli operai di Portovesme, per fermare i licenziamenti in massa di oltre 20mila operai promossero la famosa “Marcia per lo sviluppo”. Gli operai iniziarono a marciare il 19 ottobre e, al suono di tamburi di latta, saltarono il mare. Raggiunta Civitavecchia, percorsero a piedi le vie del Lazio fino a Roma, dove vennero accolti da Papa Woytila ma non da Giuliano Amato.
A fine anno, il vortice autodistruttivo coinvolse anche il Sistema sanitario nazionale quando il ministro della Sanità Francesco di Lorenzo il 31 dicembre varò il decreto che iniziò la “privatizzazione” del Sistema sanitario pubblico col DPR 502/1992. Le Unità sanitarie locali (Usl), rette dai sindaci, vennero trasformate in entità rette dai “Direttori generali con autonomia gestionale di diritto privato” nominati dalla Regione all’interno di un elenco di idonei. La “mission” del Sistema sanitario cambiò in modo radicale per due motivi. Primo, i sindaci, che rappresentavano la parte politica, vennero espulsi dalla gestione del sistema sanitario locale; secondo, l’obiettivo dei nuovi amministratori non fu più quello di soddisfare le richieste della popolazione locale ma venne sostituito dall’“equilibrio di bilancio”.
Questo dava ai direttori generali l’opportunità di poter modificare la risposta alle richieste provenienti dal territorio, ignorandone la soddisfazione globale e mettendo al centro il calcolo ragionieristico della salute che doveva ora attenersi a un nuovo criterio: i Livelli essenziali di assistenza (Lea). Oggi, a distanza di 32 anni, sappiamo che tutte le premesse alla legge, che promettevano Uguaglianza, Equità e Prossimità dell’assistenza sanitaria in tutto il territorio nazionale non sono state rispettate. Ciò avvenne a causa della mancanza del “controllore”, cioè la parte politica elettiva rappresentata dai sindaci. Al ministro Francesco di Lorenzo, seguirono le ministre Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi che perfezionarono l’“aziendalizzazione delle Asl”.
Nell’anno 2003 il Governo Berlusconi dettò regole per ridurre la spesa sanitaria dello 0,5% l’anno; ciò comportò il blocco del turn-over del personale andato in pensione e portò all’assottigliamento e disgregazione dei reparti ospedalieri. Col Governo Monti, il ministro Balduzzi emanò norme restrittive per i reparti ospedalieri che, ridotti in povertà di personale dalle norme precedenti, non potevano più funzionare. Ne conseguì la chiusura di ospedali.
Nel 2015 il DM 70 del Governo Renzi pose regole stringenti, basate anch’esse sul risparmio; ne conseguì un peggioramento ulteriore degli ospedali provinciali che portò alla desertificazione del sistema sanitario territoriale a vantaggio della centralizzazione della Sanità. In Sardegna la Sanità pubblica venne centralizzata a Cagliari e Sassari.
Nel 2017 la regione Sardegna, presidente Francesco Pigliaru e assessore della Sanità Luigi Arru, istituì la Ats (Azienda tutela salute). Con tale legge le 8 Asl sarde vennero ridotte a 1 soltanto, che assunse tutte le funzioni delle altre 7. Sopravvissero:
– l’Ats (a Cagliari e Sassari)
– il Brotzu di Cagliari
– il Policlinico Universitario di Cagliari
– il Policlinico Universitario di Sassari
Alle altre 7 Asl venne tolto il nome di “Azienda” e divennero “Aree sanitarie locali”. Erano diventate periferie sanitarie e persero l’autonomia programmatoria e amministrativa precedente. Ne conseguì l’esplosione delle “liste d’attesa” e l’insoddisfazione popolare. Alle elezioni del 2019 la popolazione sarda mandò a casa la Giunta Pigliaru e promosse una nuova maggioranza guidata dalla “Lega” di Matteo Salvini che, capeggiata da Christian Solinas, prometteva di restituire le vecchie ASL alle 8 province sarde. In effetti, la Giunta Solinas produsse rapidamente una sua riforma sanitaria regionale e l’assessore Mario Nieddu varò la legge regionale 24/2020 con cui istituì la Ares (Azienda regionale salute). In realtà però le vecchie Asl non vennero integralmente ricostituite; al posto delle “Aree territoriali sanitarie” vennero identificate le Asl 1-2-3-4-5-6-7-8 che, a parte il nome, non hanno nulla delle precedenti Asl; infatti, non hanno il diritto né di assumere personale, né di far acquisti e programmare. In sostanza non esistono; l’unica vera Azienda capace di programmare e gestire, centralizzando tutti i poteri gestionali, è la Ares di Cagliari e Sassari. Oggi lo stato di degrado direzionale e amministrativo nelle Province è ulteriormente peggiorato e l’insoddisfazione e infelicità dei cittadini sono esplose nelle elezioni regionali del 25 febbraio 2024 con la bocciatura del Governo regionale sardo.
Recentemente un politico esperto ha suggerito di cercare nella legge 833/78 gli strumenti per uscire dalla crisi sanitaria. Quale può essere lo strumento?
Lo strumento che si deve utilizzare nella pubblica amministrazione è sempre lo stesso: il rispetto delle regole democratiche. Queste regole prescrivono che la volontà popolare sia affidata ai propri rappresentanti eletti e, nel territorio, i rappresentati ufficiali dello Stato sono i sindaci. E’ certo che i sindaci non possono entrare nel merito di tutto, ma possono essere i “custodi” degli interessi della gente. Fra questi, oggi, l’interesse più sentito è la Sanità. Dare un nuovo ruolo ai sindaci nelle Asl è fortemente indicato.

Mario Marroccu

Rodolfo Valentino fu il massimo attore di film muto degli anni ‘20. Fu tanto amato da suscitare, nei suoi fans, il primo fenomeno di massa mai visto: la “divinizzazione”, essendo ancora in vita. Da quel fatto, ancora oggi deriva l’espressione “divo del cinema”.
La sua fama mondiale era esplosa col film “I quattro cavalieri dell’Apocalisse”, per effetto di una famosa scena in cui egli ballava il “tango argentino”. Morì a 31 anni nel più importante ospedale di New York, dopo un’operazione per appendicite acuta complicata da peritonite. In tutto il mondo, i suoi ammiratori dettero luogo a scene di disperazione isterica.
Nel 1977 si ricoverò nel reparto Chirurgia dell’ospedale Sirai di Carbonia il suo sparring partner. Anche costui era un pugliese che era emigrato in America da ragazzino. Aveva conosciuto Rodolfo Valentino a San Francisco e con lui aveva fatto squadra nelle gare di tango organizzate dalle balere americane. Erano gare pazzesche che duravano ininterrottamente per più giorni, senza dormire e senza fermarsi mai. Chi sopravviveva alla fatica vinceva cospicue somme di denaro. Quando costui si ricoverò al Sirai, a causa di una gangrena alla gamba destra, raccontò che talvolta in quelle gare vinceva Rodolfo Valentino e talvolta lui stesso. In valigia aveva articoli e fotografie di rotocalchi americani dell’epoca che lo ritraevano col “divino” e le mostrò con fierezza. Era tutto vero: era proprio il compagno di gare di Rodolfo Valentino. Invecchiando si ritrovò in solitudine e decise di tornare in Italia ma, non avendo più parenti in Puglie, decise di venire ad invecchiare a Carloforte.
Trascorreva le giornate fumando come aveva sempre fatto. In valigia, oltre ai rotocalchi americani degli anni ‘20, aveva stecche di sigarette americane. Il primario, professor Lionello Orrù, lo avvisò che per tentare di fermare la gangrena era necessario smettere di fumare lui, magrissimo, sempre sorridente e molto cortese, continuò a fumare nascondendosi in bagno o nei balconi. La suora ogni giorno gli sequestrava le stecche di sigarette ma l’indomani, sotto il materasso, si materializzavano altre stecche di Chesterfield e Pall Mall.
La gangrena peggiorò. I farmaci vasodilatatori erano chiaramente inutili e lui concordò: «Professore, non posso smettere di fumare e non posso più tollerare i dolori alla gamba. Me la tagli». Fu una scena incredibile. Lui, che aveva vissuto in virtù delle doti atletiche delle sue gambe nelle esibizioni di ballo col “divino”, preferiva rinunciare alla gamba destra piuttosto che alle sigarette. Il professore lo accontentò e dette disposizione ai suoi “aiuti” di eseguire l’amputazione a livello della coscia destra. Egli avrebbe seguito l’intervento. L’indomani il ballerino era sereno e sorridente. Continuò a fumare.
Non si capì mai chi gli portasse le sigarette: si trattava di un miracolo derivato dalla sua pensione in dollari americani. Dopo una settimana comparvero i segni della gangrena anche alla gamba sinistra. Il professor Lionello Orrù lo mise in guardia: «Se continua a fumare perderà anche l’altra gamba». Nei giorni successivi i dolori alla gamba sinistra peggiorarono e la gangrena salì dal piede alla caviglia. Nonostante tutto continuò a fumare e nessun discorso del Primario lo fece desistere. Fu lui stesso a risolvere il problema con questa proposta: «Professore mi tagli anche l’altra gamba perché io voglio continuare a fumare ma non tollero più i dolori che mi dà». Il professore lo accontentò e dette disposizione agli “assistenti” di eseguire l’intervento di amputazione, lui avrebbe seguito l’operazione. Il primario desiderava che tutti i chirurghi eseguissero correntemente quel tipo di intervento così come le operazioni per peritonite, per occlusione intestinale e per rottura traumatica di milza. Voleva che chiunque fosse presente in servizio, in sua assenza o in assenza degli “aiuti” più esperti, fosse in grado di eseguire con urgenza quel genere di operazioni salva-vita.
Era l’anno 1977 e l’ordinamento degli ospedali era ancora sotto le leggi Mariotti 132/ ‘68 e 128/ ‘69 ed esisteva nei reparti ospedalieri una struttura gerarchica dei medici ben definita; essa era formata dal primario, dagli “aiuti” e dagli “assistenti”. Tale struttura aveva un duplice fine. Primo creare una scala di responsabilità e di autorevolezza. Secondo: addestrare i medici e formarli alla professione.
La legge 128/’69 definiva esattamente, all’articolo 7, che il Primario aveva tutti i poteri, le responsabilità e tutti i doveri: doveva vigilare sul lavoro di medici ed infermieri e aveva la responsabilità di tutti i malati; era il giudice unico sui criteri diagnostici e terapeutici a cui dovevano attenersi gli “aiuti” e gli “assistenti”; formulava la diagnosi definitiva; doveva inoltre indicare la terapia medica o la tecnica chirurgica da adottarsi nel caso fosse necessaria un’operazione. Doveva eseguire personalmente sui malati gli interventi diagnostici e le operazioni chirurgiche curative che riteneva di non dover affidare ai suoi collaboratori; era l’unico che poteva autorizzare le dimissioni. Ne derivava che sui primari, con la loro responsabilità assoluta su tutto, ricadessero oneri ed onori; per tale ragione, i detrattori li definivano “baroni”. Un articolo successivo della legge 128 disponeva che il primario si impegnasse a mantenere elevato il livello culturale dei medici con una formazione continua sul campo. Egli era il caposcuola e la sua missione di insegnamento conferiva all’ospedale le funzioni di “ospedale di specializzazione”.
Insomma, per i medici il primario era il maestro e il parafulmine da tutti i guai. Gli “aiuti” venivano dopo il primario. Essi erano i medici più titolati, dotati di una certificazione di idoneità rilasciata da una commissione d’esame nazionale con sede a Roma. La legge disponeva che essi sostituissero il primario, in tutte le sue funzioni, ogni qualvolta fosse assente. Era come se la figura del “primario” fosse sempre presente e non se ne sentiva mai la mancanza. Al terzo livello erano classificati gli “assistenti”; si trattava dei medici più giovani, meno esperti, usciti da poco dall’Università, ma ancora da formare come professionisti specialisti.
Ogni Ospedale era una vera e propria scuola di formazione continua nella pratica medica. L’Università aveva fornito la cultura basilare portando gli studenti alla laurea in Medicina, e l’esame di Stato aveva garantito che il neonato medico fosse idoneo ad esercitare la professione come medico generico.
La costruzione professionale dei medici ospedalieri avveniva in ospedale ed era affidata al primario e agli “aiuti”. Mentre il primario era la figura carismatica autorevole che presiedeva la “scuola”, gli “aiuti” erano gli “istruttori” sempre disponibili e pronti a familiarizzare mentre addestravano gli “assistenti” alla professione.
La “scuola ospedaliera” di formazione alla professione di medico specialista (chirurgo, internista, ostetrico , traumatologo, pediatra, etc.) garantiva la costituzione di un perenne capitale culturale e umano all’interno dell’ospedale. Questo rapporto formativo continuo fra primario, “aiuti” e “assistenti” generava un rapporto di fidelizzazione tra medici, ospedali e territorio, e spesso induceva i medici venuti da lontano a trasferirsi nella città sede dell’ospedale, viverci tutta la vita e perfino formarvi le proprie famiglie. Le Amministrazioni ospedaliere favorivano e proteggevano questa funzione docente all’interno dell’ospedale perché così si garantiva la reputazione, la fiducia e il mantenimento di una sicura forza professionale che si sarebbe replicata, da una generazione all’altra di nuovi arrivati, senza temere mai l’abbandono degli ospedali da parte dei medici. Fin dall’inizio fu tale l’interesse che aveva l’Amministrazione ospedaliera a fidelizzare i medici e, soprattutto, i primari venuti da lontano, da costruire per essi, in prossimità dell’ospedale, degli appartamenti per la residenza loro e delle loro famiglie. Oggi non è più così.
Anche nella Medicina territoriale avveniva lo stesso fenomeno: i medici più anziani e più esperti contribuivano alla formazione professionale di altri medici, e anche lì si realizzava una catena solidale che assicurava la continuità.
Nell’ultimo decennio del secolo scorso, in conseguenza della grave crisi economica dello Stato, esplosa nel 1992, il Governo Amato tentò di arginarla con la privatizzazione delle Partecipazioni statali, ed avviò il processo di privatizzazione anche della Sanità pubblica. Le USL divennero ASL; i presidenti delle USL, che in genere erano sindaci del territorio, vennero sostituiti dai manager e tutto cambiò. Il ministro Francesco di Lorenzo fu l’artefice della legge 502 di controriforma; le ministre Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi modificarono l’assetto degli ospedali e abolirono le diversificate figure dei medici: gli “aiuti” e gli “assistenti” vennero posti ad uno stesso livello, dichiarati “dirigenti medici” e messi, praticamente, alle dipendenze del sistema burocratico. I primari vennero declassati a livello di precari, e ridefiniti col titolo di “direttori di Struttura complessa”, con incarico a termine della durata di 5 anni.
L’incarico poteva essere rinnovato previa valutazione dell’Amministrazione della ASL. Se non confermati venivano riclassificati ad un livello inferiore. Lo stipendio era uguale fra tutti i medici, corretto per anzianità, e con l’aggiunta di un’“indennità” di dirigenza per il direttore del reparto. I reparti e le Divisioni ospedaliere cessarono di esistere e furono sostituite dalla dizione “Unità operative complesse”. Terminologia usata anche per gli Uffici amministrativi. Era finita un’epoca. Del periodo che precedeva il 1992 ai medici era rimasta soltanto la “responsabilità medico-legale”. L’instabilità e l’incertezza, che ricaddero come una spada di Damocle sul loro futuro, ebbero conseguenze.
Il nuovo tipo di “direttore” non aveva più gli “aiuti” che lo coadiuvassero o lo sostituissero. Non aveva più le funzioni di “addestratore” delle nuove generazioni di medici e, in quanto sostituibile da chiunque ogni 5 anni, non aveva alcun interesse a crearsi un “competitor”.
Oggi l’improvvisa assenza del “direttore” per pensionamento o per trasferimento crea uno scompenso organizzativo, non esistendo più gli “aiuti”. Tale vuoto gerarchico e l’instabilità del primario “a tempo”, comportano un vuoto di autorevolezza e operativo.

Adesso stiamo assistendo alla crisi degli ospedali per mancanza di medici specialisti. Tale fenomeno non è dovuto solo alla “scarsità” di nuovi laureati; dipende anche dal fatto che nessun giovane medico si sente sicuro a lavorare in un reparto in cui manca il primario-direttore perché i rischi medico-legali che comporta ogni decisione, soprattutto, se presa in solitudine, sono molto, molto, molto pericolosi; meglio starsene nel territorio o nelle cliniche private. In passato la funzione del Primario era principalmente quella di prendere decisioni ad ogni momento della giornata; da essa derivava la salvezza o no del malato.
L’urgenza-emergenza era sempre in agguato. Il processo clinico che portava alla formulazione della diagnosi e del programma terapeutico costituiva di per sé lo strumento di addestramento dei nuovi medici alla professione ed era la base dalla “scuola-ospedale”. L’addestramento alle responsabilità medico-legali era una formazione imprescindibile: era l’esercizio che faceva la differenza tra il periodo dell’apprendimento universitario e il periodo della formazione professionale in ospedale.
Gli studiosi di “psicologia delle decisioni” nei dipendenti pubblici, hanno concluso ricerche che dimostrano come il sospetto che in tutto ci sia del “marcio”, dal 1992 in poi, ha indotto il ceto politico a produrre leggi che hanno generato un atteggiamento di alta avversione al rischio. Erano gli stessi anni in cui vennero soppresse e sostituite le figure gerarchiche dei primari e degli “aiuti” negli ospedali. Il timore dei dipendenti pubblici a prendere decisioni portò dapprima al rallentamento, poi alla quasi paralisi operativa. Questo è ciò che stiamo sperimentando. Gli illustri studiosi sostengono che l’alta percezione del rischio e delle conseguenze professionali genera il tipico comportamento di astensione prudenziale e il blocco decisionale.
Non è vero che la crisi sanitaria che stiamo vivendo sia da attribuirsi solo alla diminuzione dei nuovi laureati in medicina o ai pensionamenti. Questo fenomeno di decadenza dell’assistenza ospedaliera non ha solo motivazioni contabili.
Fra le cause assumono molta importanza il sovvertimento della politica sanitaria territoriale, sostituita dalla burocrazia e l’ inconsistenza delle gerarchie mediche negli ospedali, dominate anch’esse dalla burocrazia.
Prima o poi si prenderà atto che oltre al valore della contabilità esistono anche i professionisti e i loro principi etici. E’ auspicabile che venga agevolato il libero ritorno ai valori non contabili come: lo spirito critico, l’indipendenza dall’egocentrismo dei poteri centralizzati, lo spirito civico, la coscienziosità, l’altruismo, l’impegno e il sentimento di identità col territorio in cui si opera.
Adesso è urgente, per gli ospedali, ricostituire le figure dei “primari-guida” mancanti nelle Unità operative in crisi. Poi saranno loro ad attirare, con il loro prestigio, i nuovi medici.

Mario Marroccu

Recentemente nei giornali sardi due primari chirurghi, rispettivamente dell’ARNAS di Cagliari e AOU di Sassari, hanno definito gli ospedali delle ASL “ospedali filtro “. Esattamente il concetto che hanno espresso al giornalista è stato: «I nostri reparti chirurgici sono intasati di lavoro perché gli “ospedali filtro” non funzionano». Si era già sentito definire i nostri ospedali “ospedali periferici”, ma è la prima volta che vengono dichiarati non più “centri di cura” ma declassati a semplici “funzioni di filtro”. La degradazione sottende l’incomprensione della Costituzione e delle leggi sanitarie vigenti che declamano l’obbligo di erogare la salute pubblica con criteri di equità e uguaglianza in modo democratico a tutti gli italiani in ogni luogo. Ne consegue che tutti i reparti ospedalieri che producono le cure debbano essere ugualmente ad alto livello di prestazione. Tutti i cittadini, in qualunque ospedale dello Stato, hanno diritto a prestazioni eccellenti. Pertanto, tutti gli ospedali, nell’espletamento delle loro funzioni, sono “centrali “e non sono “periferia” di nessuno. Il contrario, sarebbe un colpevole fatto politico-amministrativo anticostituzionale.

L’idea di periferia sanitaria contrapposta al centro, nacque quando si teorizzò il concetto che gli alti costi dovuti all’evoluzione tecnologica per le malattie poco frequenti dovessero essere contenuti concentrando nei capoluoghi di regione alcune strutture specialistiche. Questo è necessario per le malattie e le procedure chirurgiche poco frequenti come la Neurochirurgia, la Cardiochirurgia, i trapianti d’organo e la Radioterapia per Oncologia. All’inizio, si era pensato che tale meccanismo dovesse essere riservato solo a quegli ambiti patologici infrequenti e costosi, e che solo quelle specifiche strutture dovessero essere centralizzate nei capoluoghi di regione. Naturalmente era inteso che invece le patologie più frequenti dovessero essere sempre trattate negli ospedali dei capoluoghi di provincia e in tutti gli ospedali dello Stato. Non fu così. Se ne abusò inventando il concetto di “Hub and Spoke”. E’ un’espressione inglese che sfrutta il disegno delle ruote del carro come le conosciamo: al centro della ruota c’è il “mozzo”, che in inglese si chiama “hub”. Sul mozzo confluiscono i raggi che in inglese si chiamano “spoke”.
L’espressione figurata della confluenza al centro dei raggi della ruota, rappresenta esattamente il concetto che esistono determinati servizi speciali che devono essere sempre convogliati nel capoluogo di Regione e messi al servizio di tutti indistintamente. Ecco perché, in quegli ospedali, esistono: la Neurochirurgia, la Cardiochirurgia, la Chirurgia pediatrica, i Servizi di trapianti d’organo, la Chirurgia vascolare, la chirurgia toracica, la radioterapia, i centri di immunologia e ematologia. Questi sono ospedali regionali disponibili alla pari per tutti i sardi. I reparti generalistici come la Chirurgia generale, l’Urologia generale, la Traumatologia e Ortopedia, la Medicina interna, la Neurologia, la Psichiatria, la Pediatria, l’Ostetricia e Ginecologia, il Nido pediatrico, l’Anestesia e Rianimazione, la Cardiologia, il Servizio emotrasfusionale. La Radiologia, il Laboratorio delle analisi ematochimiche, microbiologiche e virologiche, la Nefrologia e Dialisi, la Riabilitazione, la Pneumologia, la Diabetologia, l’Anatomia Patologica, l’Oculistica, l’Otorinolaringoiatria, la Geriatria, etc,., sono invece servizi ospedalieri che devono esistere alla pari in tutti gli ospedali capoluogo di provincia. Questi servizi devono avere una dotazione di strumenti e Personale sanitario professionalmente alla pari ovunque.
I Servizi sanitari di Carbonia, Iglesias, Oristano, Olbia, Alghero, San Gavino Monreale e Nuoro, e delle stesse strutture generalistiche ospedaliere di Cagliari e Sassari, devono funzionare parimenti bene e devono essere in condizione di indipendenza funzionale; in sostanza, non devono far confluire nulla verso i reparti generalistici che si trovano a Cagliari e Sassari. Ecco perché, non sono “ospedali di periferia” e neppure “filtro” per altri. Devono essere perfettamente dotati per dare con competenza e qualità tutti i servizi di prossimità ai malati dei propri territori.
In contrasto con la Costituzione e con le leggi sanitarie, dal 1992 in poi, iniziò l’abuso. Si impoverirono progressivamente sia il Personale che le Strutture specialistiche della città capoluogo di Provincia e si obbligarono i pazienti a rivolgersi a Cagliari anche per tutte le altre patologie. Dapprima ciò avvenne in modo inapparente, poi in modo più marcato, fino a diventare tumultuoso in questi ultimi anni, e sottrarre ai nostri ospedali le loro funzioni. Il travaso di malati verso Cagliari si chiama “mobilità passiva”. Con questa leva, indotta ormai anche per le patologie più banali, si sta soffocando lo spirito vitale dei nostri ospedali. Le prestazioni sanitarie rese dai servizi sanitari del Cagliaritano attraverso la “mobilità passiva” vengono pagate secondo un tariffario che si chiama “DRG” . E’ una classificazione del valore delle prestazioni sanitarie inventata dalle assicurazioni sanitarie private americane. Ogni prestazione, secondo il valore in euro stabilito, deve essere pagata da ciascuna ASL sarda alle strutture cagliaritane che le erogano secondo i DRG. Nel tempo tali strutture centralizzate sono state fortemente potenziate e ciò ha dato luogo ad una globale e diffusa applicazione della micidiale teoria dello “Hub and Spoke”. Quanto più esse sono state potenziate, tanto più sono stati depotenziati i nostri ospedali. Quante più prestazioni si chiedono a quelle strutture centralizzate tanto più le nostre ASL si indebitano e impoveriscono. Questo si traduce in perdita di personale e di posti di lavoro per il nostro territorio. Dopo l’epoca delle miniere e dell’industrializzazione, ora stiamo perdendo anche la Sanità. Naturalmente, il nostro impoverimento sta producendo di riflesso l’arricchimento degli ospedali del capoluogo in personale, strumenti e finanziamenti.
Chi potesse osservare tali ospedali, impropriamente arricchiti, vedrebbe dentro le corsie l’intenso traffico di medici e collaboratori. Si tratta di personale sottratto agli ospedali di provincia. La sottrazione avviene secondo i termini di legge. Per capire il meccanismo patologico che induce a questo travaso di soldi, uomini e mezzi, bisogna fare un passo indietro. Nell’anno 1992 Il ministro Francesco di Lorenzo con la legge 502, trasformò le USL (Unità Sanitarie Locali) in ASL (Aziende Sanitarie Locali). Aveva introdotto il seme della privatizzazione della sanità Pubblica. Erano gli anni in cui si stava completando la dismissione delle industrie delle PPSS (Partecipazioni Statali). Quello fu l’anno in cui avvenne la storica “Marcia per il Lavoro”, per attenuare l’impatto dell’uscita dello Stato dalle Partecipazioni statali e quindi anche dalle industrie metalmeccaniche e chimiche.
Contemporaneamente, iniziava timidamente l’uscita dello Stato dalle USL e al posto dei nostri sindaci al loro comando comparvero i manager delle neonate Aziende sanitarie. Prese piede allora la teoria economica dell’“efficienza ed efficacia” che semplicemente significa “spendere di meno mantenendo la stessa produttività” del Servizio sanitario. Nell’anno 2004, il Governo emanò il Dlgs 311 che imponeva la riduzione progressiva dei fondi destinati alla Sanità (-1,4% per anno). Ciò venne ottenuto col blocco del turn-over del personale andato in pensione e la riduzione della spesa corrente in Sanità (assunzioni e manutenzioni).
Nell’anno 2012 la legge Balduzzi (Governo Monti) ridusse i posti letto ospedalieri a 3,7/1.000 abitanti. Un valore ben lontano dagli 8 posti letto per 1.000 abitanti della Germania. Gli effetti negativi di questa legge si videro poi durante la Pandemia Covid del 2020. Nell’anno 2015 col DM 70 del Governo Renzi vi fu un’ulteriore riduzione dei posti letto, in funzione della valutazione di “volumi ed esiti” del lavoro prodotto. Cioè se il lavoro era diminuito, si dovevano chiudere i relativi posti letto ospedalieri.
L’effetto letale di queste leggi per i nostro ospedali è ancora attivo. Per effetto di quelle leggi, potremmo assistere nell’imminente futuro alla chiusura di altri reparti nei nostri ospedali. Usando queste leggi, presto potrebbe venir chiusa l’Urologia di Carbonia che, come si sa, è stata gravemente depotenziata privandola di colpo del Primario e di 4 medici. Purtroppo, a causa di questa perdita, i molti malati urologici del Sulcis Iglesiente si stanno rivolgendo agli ospedali e alle case di cura private di Cagliari.
Questo fenomeno, la cui origine è da ricercarsi in ambienti fuori da questa ASL, ha creato un crollo dei “volumi ed esiti” di prestazioni urologiche. Nessuno può pretendere dai due medici urologi sopravvissuti i “risultati ed esiti” che darebbe lo stesso reparto se avesse ancora in attività tutti i sette medici previsti dall’organico. In forza di quelle leggi, l’assessore Carlo Doria potrebbe chiudere l’Urologia di Carbonia. Speriamo che la cittadinanza e i politici locali spalanchino gli occhi un po’ di più sulla spoliazione che potrebbe ricadere anche su questo servizio. Nessuno è innocente. Non lo sono i politici che non controllano e non lo sono neppure le nostre popolazioni che subiscono senza reagire.
La voluta induzione del calo di produttività dei nostri due Ospedali sta avvenendo con un meccanismo contabile strabiliante. Bisogna riconoscere che i fondi del Piano sanitario regionale vengono equamente suddivisi tra gli abitanti della Sardegna, tuttavia quei soldi non restano nel territorio di destinazione. Rimbalzano in buona parte a Cagliari.

Per esempio, al Sulcis Iglesiente vengono attribuiti 245 milioni però nelle sue casse ne arrivano 209 (cioè 36 milioni in meno). Con quei 209 milioni vanno pagate le spese degli ospedali e quelle dei medici di Medicina generale, comprese farmacie, radiologie e laboratori analisi. I 36 milioni che mancano vanno alle casse di strutture sanitarie prevalentemente cagliaritane. Sicuramente una buona parte di quei milioni serve a pagare i DRG dovuti alla Cardiochirurgia, alla Neurochirurgia, ai Trapianti alla Radioterapia e Oncologia ma un’enorme parte serve a pagare le spese per patologie comuni di: Chirurgia generale, Urologia, Ostetricia e Ginecologia, Oncologia, Ortopedia, Radiologia, Laboratorio, Oculistica, Otorinolaringoiatria, Pediatria, Anatomia patologica e altro che sono state erogate a Cagliari e che invece dovrebbero essere erogate a Carbonia e Iglesias. Purtroppo, noi non riusciamo più a farlo, perché ci mancano i medici, gli infermieri, le attrezzature e i soldi. A causa di queste spese indotte dall’insufficienza dei nostri servizi rispetto alle richieste della popolazione, infatti, ci siamo dovuti indebitare con Cagliari e non possiamo permetterci di assumere personale o acquistare attrezzature. Avviene esattamente il contrario nelle strutture specialistiche delle città capoluogo regionali di Cagliari e di Sassari, dove i finanziamenti sono sempre in attivo proprio per l’afflusso di soldi provenienti da tutte le ASL sarde. Ciò si desume dai dati esistenti in un prospetto sui finanziamenti e spese delle ASL sarde (delibera RAS n. 10/33 del 16 marzo 2023). In questo prospetto la teoria “Hub and Spoke”, per quanto riguarda il flusso di soldi dalla periferia al centro, è perfettamente rappresentata. Naturalmente non si tratta solo di questo ma anche di un riallocamento di personale, mezzi e interi servizi verso gli ospedali più ricchi del capoluogo (vedi il caso della Anatomia patologica del Sirai trasferita in blocco al Santissima Trinità di Cagliari). Oggi i servizi di Anatomia patologica dobbiamo comprarli da altre ASL.
Tutto quanto descritto è possibile perché le ASL delle province sarde non sono più delle vere ASL. Tutti i poteri di autonomia sono stati assorbiti da una struttura pubblica di diritto privato che oggi si chiama ARES, e in passato era ATS. Il patologico ciclo economico che deriva da tale organizzazione sanitaria centralizzata, visto ciò che sta avvenendo, non può essere favorito, pena il fallimento di tutti i nostri ospedali. Ne consegue, che per salvare i nostri ospedali, bisogna contrastare la teoria “Hub and Spoke”, o perlomeno bisogna precisare che quel concetto vale solo per le alte specializzazioni di Neurochirurgia, Cardiochirurgia, Trapianti d’organo, Chirurgia toracica e Chirurgia vascolare, lasciando tutte le altre chirurgie e le patologie internistiche più diffuse agli ospedali di provincia. Si avrebbe il vantaggio di conservare la medicina di prossimità, la cultura ospedaliera esistente storicamente e il vantaggio di contrastare lo spopolamento, la perdita di posti di lavoro e il problema demografico incombente.

La nostra è una popolazione molto invecchiata, e per di più il numero di vecchi è in un preoccupante crescendo, inarrestabile, pertanto, necessita della vicinanza del suo ospedale.

Mario Marroccu

Lo spopolamento delle nostre città e la crisi della Sanità hanno una stessa origine che va combattuta. Analizzando le cause potremmo scoprire di non essere così impotenti come appare. In ogni centro urbano vi sono edifici pubblici o monumenti in cui i cittadini riconoscono la loro appartenenza perché hanno un valore storico, affettivo e esistenziale. Se quei luoghi vengono modificati avviene un danno nella struttura stessa del proprio vissuto. Luoghi come il Comune – sede del potere politico-amministrativo, la chiesa – sede della religione, il tribunale – sede della giustizia e l’ospedale – sede della sanità, sono l’anima vitale della città.
Se in una città viene cancellato il centro urbano, avviene un pericoloso vulnus dell’identità collettiva e sorge nel cittadino un senso di disagio, di frustrazione che sono premessa alla disaffezione, alla fuga e allo spopolamento. Ciò succede quando la città ha insufficiente potere politico e quando ha per vicino un’altra città molto più forte che si appropria di quelle funzioni urbane esistenziali.
Alcuni mesi fa un ex-presidente del Censis spiegò che lo spopolamento delle città di provincia iniziò negli anni ‘90 del Novecento quando l’esercizio della politica negli Enti locali divenne meno appetibile per i cittadini più vocati ad essa. Il fenomeno prese avvio a causa di alcune leggi. La prima fu la legge 142/90 che sottrasse agli organi politici locali il potere di amministrare gli uffici comunali.
A quell’epoca i consiglieri comunali avevano ancora il potere della gestione della Sanità attraverso le USL. Allora la legge istitutiva del Sistema sanitario nazionale dichiarava che le USL erano “articolazioni” dei Comuni, e che i Comuni dovessero esserne gli amministratori. L’assemblea dei sindaci portò gli ospedali al loro periodo d’oro. Ma durò poco. Nel 1992 iniziò la spoliazione dei Comuni. I ministri Francesco Di Lorenzo, Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi approvarono tre leggi (502-517- 229) che tolsero i poteri sulla Sanità ai politici degli enti locali e li consegnarono alle Regioni.
Fu un’opera di “centralizzazione” radicale. Finì il tempo in cui i sindaci assicuravano ai propri ospedali i migliori medici strategici per conquistarsi un prestigio sanitario. L’esclusione dalle decisioni politiche indusse la demotivazione progressiva dei cittadini all’interesse alla politica. La città maggiore che assorbiva le funzioni di gestione della cosa pubblica divenne attraente. Ne conseguì che i cittadini della provincia persero la passione per la partecipazione alla politica nella propria città, svuotata di servizi, e cominciarono a trasferirsi nelle nuove sedi del potere centrale. Cessò l’epoca del fervore per la partecipazione attiva alla politica negli enti locali e, da allora, è cresciuto il disinteresse al dibattito e alle candidature. Alla carenza di potere decisionale nonostante progetti lungimiranti conseguirono il disinteresse degli elettori e l’astensionismo.
Con un’altra legge, varata nel 2001, nota col nome di “Riforma del titolo V della Costituzione”, la centralizzazione dei poteri nella Regione aumentò ulteriormente. Contemporaneamente dallo stesso periodo iniziò il degrado della rete ospedaliera e della medicina territoriale.
A conferma di questa tendenza ad accentrare servizi sociali fondamentali nel 2011, per effetto di una rigida legge di risparmio del Governo Monti, vennero chiusi i tribunali periferici, ed anche la giustizia fu centralizzata. Secondo i sociologi del Censis lo spopolamento, l’immiserimento di servizi e l’impoverimento dell’economia, sono strettamente connessi alla “centralizzazione” voluta da un chiaro progetto che viene da lontano. Anche la salute entrò in quel meccanismo.

Mentre la salute in sé è una competenza della medicina, la “Sanità” intesa come organizzazione per dare salute al popolo è una competenza della politica. Il senso di scoramento che ci prese nel vedere l’impreparazione ad affrontare il Covid nei tre anni passati è ben motivato da quella distruzione delle gerarchie politiche locali. Oggi ci saremmo aspettati che il Sistema sanitario nazionale e quello regionale, con l’esperienza della pandemia, si fossero attrezzati meglio sia per contenere il probabile arrivo di altri virus, sia per l’epidemia demografica in atto.
E’ evidente che il problema sociale futuro sarà l’enorme aumento di richiesta di assistenza sanitaria dovuta al forte invecchiamento della popolazione e alla mancanza di progetti di “presa in carico”. In contrasto con questa evidenza, negli ospedali stanno diminuendo sia i posti letto che il personale nelle Terapie intensive e nelle Rianimazioni; nel contempo, è in campo il progetto di costruire nuove strutture murarie, che chiameremo ospedali, le quali dovranno funzionare senza il personale necessario per lavorarci.
Negli ultimi 20 anni abbiamo assistito alla distruzione del sistema ospedaliero di Iglesias, al decadimento progressivo dell’ospedale Sirai di Carbonia e alla rarefazione dei medici di base.
La Regione, un volta esclusi i Comuni, ha creato una nuova entità amministrativa di tipo privatistico che ha il compito di governare tutte le Aziende Sanitarie Locali. Tale entità si chiama ARES (Azienda Regionale Salute). Le ASL hanno oggi perso una reale autonomia di gestione: non hanno veri poteri di iniziativa e sono di fatto strutture acefale. L’unica testa pensante è ARES regionale. I poteri decisionali di questa nuova entità sovrana della Sanità pubblica sono assoluti. Per “assoluto” si intende esattamente la definizione del vocabolario: “assoluto = che non ammette limitazioni, restrizioni o condizioni, relativamente a se stesso, alla propria volontà o alle proprie attribuzioni”.
Ciò avviene perché la legge istitutiva della ARES non prevede i contrappesi della politica territoriale. Pertanto, si tratta di un’entità che non può essere scalfita dalla critica né può essere influenzata da alcunché se non dalla sua sola volontà. La legge, che ha costituito questo ente regionale, consente alla “Conferenza sanitaria provinciale dei Sindaci” la sola possibilità di esprimere pareri sul programma sanitario annuale. Ma tali pareri non sono vincolanti. Ciò significa che la volontà dei sindaci, se in contrasto con ARES, non ha mezzi per penetrarne la corazza di potere in cui è racchiusa.
La ARES venne istituita dalla regione Sardegna con la legge 24/2020, in piena pandemia, e fu progettata affinché avesse una struttura perfetta, monolitica, come un purissimo cristallo profondamente antidemocratico, impenetrabile alle influenze esterne. Il potere sanitario è tutto contenuto in questa entità e noi, popolo, siamo prigionieri all’esterno.
Mentre assistiamo al collasso della Sanità, scopriamo dalla stampa le notizie su innovazioni che dovrebbero avvenire nelle strutture ospedaliere di Iglesias, di Carbonia e dei Distretti. Si tratta di un bel disegno legato ai fondi messi a disposizione dal PNRR missione 6. Ma si tratta solo di un bel disegno, molto simile a un libro dei sogni.
Il quadro reale dello stato della nostra sanità è invece quello descritto dalle cronache dei quotidiani. Di Iglesias sappiamo molto perché è una cittadina che si lamenta puntualmente, e fa bene, attraverso gli organi di informazione. Di Carbonia sappiamo meno. Tuttavia dalle notizie che trapelano si sa che all’ospedale Sirai il corpo degli anestesisti è allo stremo. Una volta vi erano in dotazione dai 15 ai 20 anestesisti; oggi sono 6. Tre di questi sono in Rianimazione; gli altri tre assistono le sale operatorie.
Uno specialista anestesista-rianimatore è giunto all’età della pensione, pertanto, dovrebbe mancare presto per messa in quiescenza. I due restanti non sono sufficienti per un lavoro che impegna 24 ore su 24, senza interruzioni, tutto l’anno. I tre anestesisti dedicati alle sale operatorie devono assicurare l’urgenza ed emergenza e, pertanto, non possono sempre essere disponibili per le sedute operatorie di chirurgia programmata.

Di fatto, la situazione è gravissima e può portare, essa da sola, alla chiusura dell’Ospedale. La persistenza di queste condizione immobilizzerebbe la Chirurgia Generale. L’Ortopedia ha i limiti della Chirurgia Generale. L’Urologia sarà presto senza primario e probabilmente perderà 4 medici per trasferimento in altri Ospedali. Ne resteranno due che eroicamente dovranno prendersi cura dei problemi urologici dei 119.000 abitanti della ASL 7. Impossibile.
La Medicina è presa tra Covid e malattie non-Covid. Il Pronto Soccorso è ora senza primario; ha pochi medici di ruolo e deve ricorrere a convenzioni con esterni. Inoltre, deve assicurare tutte le urgenze del Sulcis Iglesiente. La Cardiologia è sovraccarica di lavoro ed è fortemente impegnata nel settore dell’urgenza. Il Laboratorio non esiste più in sede da nove mesi. Ora pare che debba riaprire la notte. La Radiologia ha l’organico del personale sottodimensionato. La Dialisi per i nefropatici è ridotta a tre medici e presto ne perderà uno. Come faranno a lavorare anche la notte, il sabato e la domenica, Estate e Inverno, sempre, e per tutto il Sulcis Iglesiente in urgenza, non si sa.
Questo quadro descrive uno stato di necessità sanitaria che, così grave, non si era mai visto. Sembra d’essere alle porte della caduta dell’Ospedale. Tutti i professionisti che lavorano nella struttura amministrativa dell’ospedale manifestano competenza e buona volontà. Se ne avessero i poteri, sicuramente affronterebbero i problemi della carenza di personale e li risolverebbero. Purtroppo, non hanno i poteri né di assumere liberamente il personale che necessita né di procedere liberamente agli acquisti. Tutti i meccanismi amministrativi per il funzionamento della sanità provinciale sono stati trasferiti dai nostri uffici di Carbonia e Iglesias quelli della ARES (vedi le competenze nell’articolo 3 della legge di istituzione).
A chi possono rivolgersi i dirigenti della ASL 7 per procedere alla soluzione dei problemi, senza vincoli, e secondo le necessità? Ai sindaci? Sarebbe la soluzione migliore, ma i sindaci sono stati estromessi dalla gestione della Sanità. Il problema è nato dalla centralizzazione dei poteri a Cagliari; non esistono responsabilità di questo disastro né ad Iglesias né a Carbonia.
Esiste una sola soluzione: cambiare la legge 24/2020 della regione Sardegna. Non è necessario cambiare tutta la legge, è sufficiente attenuare l’articolo 3 e aggiungere una riga dell’articolo 9 per iniziare a tornare alla partecipazione democratica nella sanità, questa (al punto – a -):

Articolo 9
Organi dell’azienda Sanitaria.

Sono organi delle Asl e dell’Azienda ospedaliera:
a) il presidente della ASL, che sarà un eletto tra i componenti della Conferenza provinciale sanitaria dei sindaci.
b) il direttore generale
c) il collegio sindacale”

Dando la carica di presidente a un sindaco si stabilirebbe perlomeno un controllo degli Enti locali all’interno della ASL. Con questo provvedimento si consentirebbe ai sindaci di svolgere realmente le funzioni loro attribuite dal Testo unico degli Enti locali, e salveremmo subito gli ospedali e la medicina di base.
Dai quotidiani apprendiamo che stanno nascendo Comitati per la difesa delle sanità territoriale in tutte le province della Sardegna. Questo movimento popolare in supporto ai sindaci è un bene perché i sindaci non possono essere lasciati soli ad affrontare l’ignoto che sta arrivando sul nostro futuro sanitario.

E’ tempo che tutti, maggioranze e opposizioni, parti sociali e enti locali di tutta la Provincia, comincino a discuterne. Il Sistema Salute è da ripensare prima che lo spopolamento e l’inerzia chiudano le città.

Mario Marroccu

L’incidenza della calcolosi urinaria fra noi sardi è altissima. Sarà la genetica, o il metabolismo, o l’alimentazione, o l’esposizione solare e la produzione di vitamina D? Fatto sta che, soprattutto noi del Sud Sardegna, abbiamo un’incidenza di calcolosi come non si vede in nessuna parte d’Italia. Per tale ragione i chirurghi sardi sono stati sempre esperti nel trattamento delle malattie ostruttive delle vie urinarie provocate da calcoli. Già ai primi del 1900, al San Giovanni di Dio, i chirurghi avevano grande esperienza in questo campo. Durante la Prima Guerra Mondiale ebbero stretti rapporti professionali negli ospedali da campo, con i colleghi di Trento, Trieste e Udine che erano di scuola austriaca. Il chirurgo triestino Giorgio Nicolich, specializzato a Vienna attrezzò il primo reparto d’Urologia in Italia. Tra i chirurghi sardi che operavano in quel fronte vi era il dottor Nino Lasio di Serramanna, che proveniva dal San Giovanni di Dio; questi fu molto apprezzato per le sue capacità professionali nel trattamento delle malattie urinarie e, alla fine della Guerra, venne trattenuto all’Università di Milano dove gli venne conferito l’incarico di direttore della nuova scuola di specializzazione in Urologia. Tale specialità ancora non esisteva come branca indipendente in nessuna Università italiana. Dopo Milano la scuola di specializzazione di Urologia venne aperta anche a Cagliari. Un primo caposcuola fu il professor Rodolfo Redi, direttore patologo chirurgo. I suoi aiuti erano il dottor Gaetano Fiorentino ed il dottor Mario Sebastiani.
Il dottor Gaetano Fiorentino fu il primo sardo a specializzarsi in quella scuola.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, il dottor Gaetano Fiorentino fu arruolato nell’Armir e destinato alla campagna di Russia. Tornò con un’enorme esperienza maturata operando traumi di guerra. Per le sue doti chirurgiche, il dottor Gaetano Fiorentino venne precettato dal Governo ed inviato a dirigere la Chirurgia Generale dell’Ospedale Sirai di Carbonia, dove affluivano i minatori traumatizzati dagli incidenti nel sottosuolo.
Quando Gaetano Fiorentino occupò il suo posto nella nuova sede dell’Ospedale Sirai, ebbe l’opportunità di conoscere il comandante della Sesta Flotta americana che gli fece dono dell’intera sala operatoria di una corazzata. I vari strumenti vennero utilizzati fino agli anni ‘80; tra questi vi erano un letto operatorio, una lampada scialitica, un respiratore automatico complesso, un broncoscopio, un esofagogastroscopio rigido, un sigmoidoscopio, l’attrezzatura da craniotomia, un cistoscopio ed un rarissimo elettroresettore, prodotti dalla ACMI del Minnesota, illuminati in punta da una minuta lampadina ad incandescenza. In quei tempi, all’ospedale Sirai le operazioni urologiche e, soprattutto, quelle per calcolosi urinaria, erano all’ordine del giorno.
Con l’andata in pensione del dottor Gaetano Fiorentino, il posto di primario chirurgo venne occupato dal professor Lionello Orrù, urologo, professore di Anatomia Umana normale all’Università di Cagliari, professore di Anatomia Chirurgica nella scuola di specializzazione. Anche col professor Lionello Orrù le operazioni per calcolosi urinaria furono molto frequenti. Il motivo di tale frequenza, era dovuto sia all’alta incidenza di calcolosi nel Sulcis Iglesiente, sia al fatto che, quando la calcolosi dell’uretere era irrimediabilmente ostruente, si doveva sempre procedere all’asportazione chirurgica del calcolo, pena la morte del rene. In quei tempi non era raro trovare pazienti con un solo rene funzionante, perché l’altro aveva cessato di funzionare a causa di un calcolo. Dato che chi produce un calcolo in un rene, prima o poi, potrà produrlo anche nell’altro rene, poteva capitare che all’improvviso, con una nuova colica dal lato opposto, anche il rene superstite cessasse di funzionare. Allora non esisteva la dialisi sostitutiva della funzione renale ed i poveretti morivano se non si procedeva ad una nuova operazione. Questo valeva in tutto il mondo.
Le cose cambiarono nella Primavera del 1986, quando comparve un articolo nella rivista francese “Le Journal d’Urologie”, a cui venne dato poco risalto dalle riviste italiane. L’autore del lavoro si chiamava Enrique Perez Castro Ellendt. Egli sosteneva d’aver messo a punto un metodo endoscopico per asportare i calcoli dagli ureteri senza ricorrere all’operazione classica di lombotomia, con grande taglio dalla base del torace prolungato in basso in addome. Ciò che descriveva era fantascienza. Sosteneva d’aver costruito con la ditta Storz tedesca, uno strumento ottico molto lungo, fatto come un sottilissimo cannocchiale d’acciaio di 55 centimetri, diametro 4 millimetri, che, passando dall’uretra e dalla vescica, poteva penetrare nell’uretere fino a raggiungere il calcolo per romperlo, asportare i frammenti, e liberare il passaggio alle urine, arrestando così le coliche e salvando il rene. Tutto questo senza operazione.
Nel mese di luglio, avvenne un fatto che segnò il cambiamento nella storia della calcolosi per l’ospedale di Carbonia.

In quel mese dell’estate del 1986 si presentò nel reparto Chirurgia, al secondo piano del Sirai, un elegante signore attempato che riferì d’aver urinato sangue. Venne sottoposto a cistoscopia e fu diagnosticato un tumore maligno della vescica. Il signore aveva un problema: la premura di rientrare nella sua città di residenza, Madrid. Ci chiese consiglio sul centro madrileno a cui rivolgersi e ne approfittammo per indirizzarlo alla clinica “La Luz”, dove operava il dottor Enrique Perez Castro Ellendt. La clinica era peraltro già famosissima in tutto il mondo, perché vi era stato operato il “caudillo” Francisco Franco, e lì era deceduto per complicazioni emorragiche. Enrique Perez Castro Ellendt fece, al nostro paziente, una resezione vescicale asportando tutto il tumore con successo. Incuriosito dal racconto del paziente inviato da Carbonia, indagò sul nostro interesse per lui. Il paziente gli riferì che i chirurghi di Carbonia erano a conoscenza del nuovo metodo per asportare i calcoli dagli ureteri inventato da lui e gli trasmise il nostro desiderio di conoscerlo. Enrique Perez Castro Ellendt immediatamente ci invitò a Madrid nella sua Clinica. Fino ad allora aveva mostrato la procedura di asportazione dei calcoli ureterali, senza operazione, soltanto ad altri due italiani: il dottor Francesco Rocco dell’Università di Milano, ed il dottor Michele Gallucci dell’Università di Roma. Il nostro paziente-intermediario generosamente si offrì di ospitare noi chirurghi di Carbonia nella sua casa a Madrid e decidemmo di partimmo. All’arrivo, avemmo una prima sorpresa: la casa si trovava in “Calle Urola”, la via delle ambasciate. Si scoprì in quel momento che il nostro ospite era stato ambasciatore d’Italia in Spagna. La casa, ora di sua proprietà, era una villa divisa in due parti. L’altra metà era appartenuta al presidente argentino Juan Peron e alla moglie Evita Peron. Si capì allora il motivo della grande disponibilità del chirurgo madrileno ad accoglierci nella sua clinica e mostrarci i segreti della sua metodica. Il nostro ospite in Spagna era un personaggio illustre. Così pure lo erano la moglie spagnola ed il cognato che facevano parte dello staff medico della famiglia reale.
Furono giorni densi di studio ed esperienza. Carpimmo i segreti della tecnica di “ureterolitotrissia endoscopica” che consentiva, per la prima volta nella storia, di polverizzare i calcoli dentro l’uretere ed estrarli senza operazione.
Tornati a Carbonia, facemmo un accurato rapporto al presidente dell’Ospedale: il sindaco Pietro Cocco. Egli ascoltò con molta attenzione e accolse la nostra richiesta di acquistare l’attrezzatura necessaria. L’ordine partì pochi minuti dopo il colloquio.
Il materiale richiesto era tanto e costoso. Si trattava di un ureteroscopio Storz da 12 Charrière (3 Ch = 1 mm) quindi del diametro di 4 mm, progettato da Enrique Perez Castro Ellendt e realizzato dalla ditta tedesca. Ad esso si associava un’ottica lunga 55 centimetri. Dentro la camicia d’acciaio vi erano tre canalicoli paralleli destinati ad ospitare l’ottica, costituita da una serie di microscopiche preziosissime lenti, una via per l’acqua, una via per introdurre le sonde da ultrasuoni per rompere i calcoli, e le pinzette per estrarne i frammenti. L’acqua che si pompava dentro il canalicolo serviva a creare una camera liquida che consentiva di dilatare il sottile lume ureterale, penetrarvi, e procedere dentro l’uretere fino a raggiungere il calcolo.
L’operazione più difficile era la penetrazione della punta dello strumento nel meato ureterale. Il meato è il punto in cui l’uretere, che arriva dal rene, penetra in vescica. Per fare questa procedura, fino ad allora ritenuta impossibile alle ottiche in uso in quel tempo, il dottor Enrique Perez Castro Ellendt aveva pensato di aprire la strada utilizzando una sottile sonda flessibile che aveva in punta un palloncino gonfiabile. Introdotta la sonda nel meato ureterale e gonfiato il pallone, si otteneva l’apertura del tratto finale dell’uretere e del suo sbocco in vescica, sufficiente per introdurvi l’ureterorenoscopio. La progressione dello strumento dentro l’uretere veniva agevolata dal getto d’acqua ad alta pressione, prodotto dalla pompa Ureteromat inventata, anch’essa, da Enrique Perez Castro Ellendt.
Una volta giunti sul calcolo si procedeva alla sua frammentazione con la sonda ad ultrasuoni; i frammenti venivano asportati con la pinza a “bocca di caimano”. Tutta la procedura veniva controllata al monitor di un apparecchio radioscopico; era, pertanto, inevitabile che l’intera équipe medica e infermieristica presente, assumesse notevoli quantità di radiazioni nonostante i grembiuli piombati. Furono tante le procedure eseguite, e tante le radiazioni assunte dagli operatori che i fisici nucleari della Commissione regionale di controllo definirono l’Ospedale di Carbonia la “zona nera” dei raggi X della Sardegna. Oltre al monitoraggio radiologico l’intervento veniva controllato da una telecamera endoscopica Storz che mostrava le immagini della procedura in uno schermo televisivo.
Quando il presidente Pietro Cocco, nel 1986, fece l’ordine d’acquisto dell’ureterorenoscopio per ureterolitotrissia alla ditta Sanifarm di Cagliari, nessuno ancora lo possedeva in tutta Italia. Lo stesso direttore della Storz Italia, che aveva sede a Torino, l’ingegner Boggio Marzet, non ne conosceva ancora l’esistenza.

Da quell’anno 1986, a Carbonia, i calcoli ureterali non vennero più operati con il taglio lombare o addominale, e molte centinaia di pazienti vennero trattati col nuovo metodo endoscopico. I pazienti entravano in ospedale con le coliche renali ed i reni ostruiti, e ne uscivano entro 24-48 ore sani e pronti a riprendere la vita normale. A Carbonia arrivavano pazienti da ovunque. Venne prodotto un filmato endoscopico che mostrava il difficile metodo usato per introdurre lo strumento nell’uretere. Dopo cinque anni di attività, mostrammo le immagini endoscopiche alla fine di un convegno tenutosi a Cagliari, sulla calcolosi urinaria, nell’aula convegni posta al sesto piano del Banco di Sardegna. Nessuno degli astanti aveva mai visto immagini del genere. Dopo quella data altri iniziarono ad apprendere la tecnica.
Quanto raccontato avvenne quando l’Ospedale di Carbonia cresceva in efficienza, qualità e passione. Era il tempo in cui quasi 2.000 bambini l’anno nascevano nel suo reparto di Ostetricia, quando si eseguivano più di 1.000 interventi chirurgici l’anno, in Chirurgia vi erano 84 posti letto ed esistevano due reparti di Medicina Interna; l’Ospedale allora aveva 384 posti letto, contro gli attuali 120, e non vi erano ancora le liste d’attesa mostruose che oggi affliggono gli ospedali italiani.
Perché vi fu tanta crescita professionale e tecnologica in quel periodo? Certamente avvenne per coincidenze storiche. L’avere avuto ricoverato nel 1986 un signore che in tempi lontani era stato ambasciatore italiano in Spagna, mentre a Madrid si metteva a punto quel metodo rivoluzionario fu fortuito. Un elemento sicuramente determinante fu l’avere in quel momento come presidente della ASL un uomo come il sindaco Pietro Cocco. Erano anche gli anni in cui nascevano la Dialisi, la Cardiologia, la Medicina Nucleare, la Psichiatria, l’Endoscopia Digestiva. La coincidenza di più elementi eccezionali, coerenti con la missione pubblica data agli Ospedali dalla legge di Riforma Sanitaria 833 del 1978, produsse il terreno adatto per far sviluppare quelle particolari crescite professionali in quella particolare generazione di medici e di infermieri.
Successivamente, cosa è cambiato? I cambiamenti che hanno portato gli ospedali allo stato attuale, avvennero in progressione. Nel 1987 Il ministro Carlo Donat Cattin iniziò ad intaccare il potere di controllo dei Sindaci sulle ASL, abolendo l’istituto delle Assemblee Generali che rappresentavano i Consigli comunali del territorio. Poi nel 1992 il ministro Francesco di Lorenzo introdusse il concetto dell’“Aziendalizzazione delle ASL”, con principi gestionali privatistici. Come primo atto di quella riforma, i presidenti delle ASL, nominati dai Sindaci, vennero affiancati dai “Commissari straordinari”, nominati dalla regione. In seguito  con le riforme del 1995 e 1999, nel periodo del ministro Rosi Bindi, i presidenti delle ASL vennero eliminati e sostituiti dai manager. Questi erano nuove figure di amministrativi indipendenti dai sindaci e rientranti nella stretta gerarchia della burocrazia regionale.
Con questo atto i sindaci vennero totalmente estromessi dal controllo politico e amministrativo delle ASL. Dopo i manager, negli anni 2000, comparvero i direttori generali di nomina regionale. Così, con la centralizzazione politica ed amministrativa arrivò a compimento la “centralizzazione” dei servizi sanitari. Il centro fisico della Sanità cominciò a coincidere con le sedi del potere regionale: le città di Cagliari e Sassari. L’idea di centralizzare i servizi sanitari di altissima specializzazione, come la cardiochirurgia, la neurochirurgia, i trapianti d’organo, è corretta. Invece, non è corretta la centralizzazione del servizio sanitario di base che la legge assicura equamente a tutti i cittadini, proporzionalmente alla consistenza demografica delle popolazioni provinciali. Purtroppo, però, nel nostro caso, è avvenuta la centralizzazione anche della sanità di base, con il conseguente svuotamento del territorio provinciale.
Oggi, l’unificazione di tutte le ASL in un’unica ASL regionale, ha creato un unico centro di potere amministrativo. Ciò ha sottratto anche ai nuovi direttori generali delle ASL quella libertà di gestione che avevano i presidenti ai tempi di Pietro Cocco. Ora che gli ospedali provinciali sono usciti dal centro del potere sanitario stiamo vedendone gli effetti: i cittadini sono scontenti e si rivolgono ai propri sindaci che, per essi, incarnano lo Stato; ormai tutti i giorni vediamo nei notiziari, immagini di sindaci che prendono dure posizioni nei confronti di quella struttura burocratica centralizzata che li ha sostituiti.

Mario Marroccu