4 November, 2024
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Akela è un lupo capobranco del “Libro della giungla” di Rudyard Kipling. E’ un personaggio centrale dell’opera: è colui che educa il bambino Mowgli ad affrontare i pericoli e gestire i bisogni improvvisi della vita. La sua forza deriva da quattro caratteristiche:
– la profonda moralità,
– l’affetto paterno per i cuccioli d’uomo,
– la saggezza, autorevolezza e leadership,
– la funzione di garante della legge,
– il senso dell’onore del gruppo a cui appartiene.
Akela ed il suo branco furono usati da Robert Baden-Powell come metafora della organizzazione sociale e gerarchica degli Scout. Gli iscritti potevano assumere nomi dei lupi del branco.
Nel 1907 Baden-Powell fondò la prima “Organizzazione Mondiale dei Boy-scout”. Lo scopo di B.P. era quello di insegnare alle giovani generazioni la ricerca della pace con ogni mezzo, secondo i principi del servizio civico nel volontariato. Le reclute venivano addestrate a pensare in maniera indipendente, ad usare il proprio spirito d’iniziativa e a sopravvivere in qualunque condizione difficile. Il fine ultimo del movimento è quello di dare a tutti i giovani la possibilità di diventare buoni cittadini, di migliorare la propria società e sostenerla nella convinzione della fratellanza fra i popoli. Baden-Powell applicò questo metodo tra i giovani esploratori in Sud-Africa, poi lo perfezionò in Kenia dove visse a lungo e morì.
Il metodo di addestramento dei giovani si diffuse in tutto il mondo.

Il frate missionario francescano padre Giuseppe Madau aveva appreso quel metodo originale in Kenia. Costui era un uomo di profonda cultura umanistica e un eccellente glottologo. Fu il primo a tradurre il Vangelo in “Swahili”, una lingua Bantù parlata in Africa Centrale e Meridionale. Quel Vangelo è tutt’oggi letto in tutta l’Africa. Oltre che poliglotta nelle lingue moderne, era un’autorità nelle lingue antiche come il greco, l’ebraico antico ed il fenicio. Tradusse il “disco di Festo” del 1600 a.C., trovato a Creta, e tutt’oggi la sua traduzione è una delle più accreditate. Tale personaggio importò direttamente dall’Africa, in Sardegna, i valori civici dello scoutismo.
Padre Giuseppe nel 1967 fu destinato a Sant’Antioco e qui fondò il primo movimento di Scout secondo la scuola sudafricana e keniota di Baden-Powell. Lo fondò con con un gruppo di giovani. Paolo Locci fu tra i primi allievi e poi fu tra i primi addestratori. Paolo divenne educatore di quei principi morali che avevano come fine il servizio civile a vantaggio del prossimo. Educò molte generazioni di lupetti e guide. Iniziò così la sua “mission” del servizio civico sempre e comunque secondo la “promessa”: questo fu l’inizio della sua vita di servitore del prossimo.

Chiamato al servizio militare, Paolo Locci chiese di prestarlo nell’Arma dei carabinieri. Fu destinato a Milano, proprio negli anni più bui per l’ordine pubblico. Quegli anni erano iniziati con l’attentato alla Banca dell’Agricoltura, in piazza Fontana, e culminati con l’omicidio del commissario Luigi Calabresi. Nei sommovimenti di popolo che seguirono, Paolo fu impegnato in missioni ad altissimo rischio. Anche quello fu da lui vissuto come servizio civico.
Tornato a Sant’Antioco, formò la sua famiglia e la impegnò nel suo ideale di servizio sociale basato sul volontariato. Si dedicò all’educazione dei giovani allo sport. Fu dirigente nella quadra di basket, di quella di pallavolo, di calcio, e fondò la prima società sportiva agonistica di calcio a cinque, la Simpal, che portò alla vittoria in un torneo regionale, ottenendo la qualificazione ad un torneo nazionale.
Nel 2012 diede vita alla sezione della ANC (Associazione Nazionale Carabinieri) di Sant’Antioco. Lo fece impostando un programma ben preciso: non voleva che la sede si limitasse ad essere un ritrovo per ex commilitoni, ma, al contrario, voleva per tutti gli iscritti un impegno che li avrebbe portati in strada, a fianco della gente, per condividere le necessità che potessero essere soddisfatte col volontariato. La ANC dette inizio subito alla sorveglianza dei ragazzi all’ingresso ed all’uscita dalle scuole. Erano gli anni in cui in tutta Italia imperversavano il bullismo e la diffusione criminale di sostanze illecite fra i giovani. Erano anche gli anni in cui si diffondeva il terrorismo internazionale e si vissero drammi come la strage del Bataclan a Parigi nel 2015, la strage di Nizza del luglio 2016, le stragi dei mercatini di Natale nel 2016 a Berlino, e quella del 2018 a Strasburgo.
La paura si era diffusa ovunque e, anche a Sant’Antioco, le Autorità presero provvedimenti per mettere in sicurezza la popolazione durante le manifestazioni culturali e le feste religiose. I carabinieri ANC della sezione di Sant’Antioco presero parte alla sorveglianza sia degli accessi viari alle feste, sia delle piazze gremite, avvalendosi di osservatori distribuiti in postazioni strategiche.

Nel 2015 Paolo organizzò, a Sant’Antioco, il primo ed unico convegno regionale dei carabinieri; tutt’oggi quel convegno viene ricordato per l’ampia partecipazione di popolo e di iscritti. Fu il riconoscimento ufficiale della sezione ANC intitolata al tenente Marco Pittoni, un giovane carabiniere di Villarios morto per proteggere dei civili.

Nel gennaio 2020 esplose l’epidemia di Covid-19. L’Italia fu chiusa in lockdown per 70 giorni. Il DPCM del 22 marzo 2020, per la prima volta, vietò a tutte le persone fisiche di spostarsi in qualunque Comune diverso da quello in cui si trovavano, e venne pubblicata una lista delle attività che dovevano essere sospese. Il lockdown durò fino al 18 maggio 2020. Solo il 3 giugno si consentì la circolazione fra regioni.
Fu un’esperienza di cui nessuno, in Italia, aveva conoscenza. Furono i mesi in cui iniziarono le quarantene dei contagiati, e l’isolamento dei pazienti sintomatici. Nasceva un problema: chi avrebbe dato assistenza a queste persone, visto che nessuno poteva spostarsi dal proprio domicilio senza mettere a repentaglio la propria salute e anche la vita? Paolo Locci organizzò i volontari della ANC in piccole squadre che si occuparono di questi pazienti rifornendoli di alimenti, consegnando farmaci, ritirando indumenti e biancheria da lavare, smaltendo rifiuti speciali pericolosi. Le sue squadriglie, aggiunte alla forze dell’ordine, misero tutti al sicuro, controllando l’osservanza dei DPCM nelle strade, nei supermercati, verificando e rendendo tollerabile l’isolamento dei casi sospetti nei propri domicili. Fu un’operazione nuova, straordinaria, geniale, pericolosa, imprescindibile.
Nell’estate del 2020, l’arrivo dei turisti infetti da mettere in isolamento, fu un ulteriore banco di prova del volontariato: oltre alla sorveglianza a domicilio, venne attivata anche la sorveglianza dell’accesso alle spiagge, con squadriglie di osservatori-esploratori, allo scopo di aumentare la sicurezza dei vacanzieri e della popolazione.

Finita la prima ondata di epidemia, fu evidente che quell’esperienza maturata andava rafforzata e conservata per il futuro. Alla fine del 2020 vennero allestiti in America i primi vaccini Moderna, Pfizer e Johnson&Johnson. I vaccini in Italia arrivarono a dicembre; vennero inoculati al personale sanitario a gennaio-febbraio 2021; poi. a marzo, la vaccinazione venne estesa a tutti gli italiani anziani. Allora iniziò una sfida di efficienza per l’organizzazione di una campagna di vaccinazioni destinata a molti milioni di cittadini in varie condizioni di autosufficienza. Nacquero gli Hub vaccinali e tornarono utilissimi il genio organizzativo di Baden-Powell e l’addestramento dei suoi adepti a trovare soluzioni per problemi gravi, improvvisi, sconosciuti, con azioni rapide, semplici ed efficaci.
Il personale medico dell’Ufficio di Igiene della ASL, le Forze dell’Ordine, i militari attivati dal Commissario Domenico Arcuri e successivamente dal Generale degli Alpini Francesco Figliuolo, si avvalsero anche dell’organizzazione di volontariato guidata da Paolo Locci. L’ANC (Associazione Nazionale Carabinieri) organizzò a Sant’Antioco un servizio estremamente efficace di accompagnamento della popolazione più fragile all’Hub vaccinale. Non avvennero mai confusione o disguidi, né si formarono mai file d’attesa, né assembramenti prolungati e pericolosi. Fu un successo organizzativo sia nella sede dell’Hub, sia nel capillare servizio di assistenza vaccinale a domicilio. Arrivarono note di soddisfazione dalle autorità locali e regionali, sia civili che militari per la ANC di Sant’Antioco.

Non era neppure terminata l’emergenza epidemica che Paolo Locci era già all’opera per un nuovo obiettivo che avrebbe aumentato l’impegno di volontariato del suo gruppo: l’iscrizione ufficiale della ANC di Sant’Antioco al Terzo Settore-Volontariato. Cos’è? Il Terzo Settore viene definito come il complesso degli enti privati costituiti con finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale che, senza scopo di lucro, promuove e realizza attività d’interesse generale, mediante forme di azione volontaria e gratuita.
Il passo successivo è stata l’iscrizione della ANC di Sant’Antioco nel novero delle organizzazioni di volontariato idonee ad essere inquadrate nella “Protezione civile”. Con ciò erano state messe le basi per un impegno di portata enorme, perché Paolo aveva ottenuto l’assegnazione di auto fuoristrada per la sorveglianza dell’isola e natanti per la perlustrazione della fascia di mare antistante le nostre coste.

Raggiunto questo obiettivo, ne stava maturando un altro ancora più complesso: nella sua mente di boy-scout, di educatore, di carabiniere, di volontario civile, stava maturando il disegno per costituire un Sistema sanitario civile vicino al malato in difficoltà. Aveva intravisto nel PNRR (Piano di Ripresa e Resilienza), nella “missione 6”, la possibilità di impiego del volontariato nella nuova gestione della medicina di prossimità. Tale opzione è contemplata nel Piano, prevedendo che possano comparire difficoltà a reperire il personale necessario per l’assistenza sanitaria nel territorio. Egli prefigurò, sotto la tutela della ANC, un servizio di volontariato negli ambulatori della ASL, nelle Case della Salute, nell’Ospedale di Comunità, e a domicilio di chi ha bisogno.
A metà luglio 2022 emerse la malattia mentre si trovava a Roma, per ricevere disposizioni dalle Autorità nazionali del volontariato della ANC, sul proseguo della missione. Il 27 luglio fu operato. Passò due mesi preso negli ingranaggi della macchina sanitaria che tanto aveva aiutato. Non smise mai di sognare nuove imprese e soluzioni di problemi sociali. Continuò sempre a guidare, dal letto dell’Ospedale, il suo gruppo. Poi, il 27 settembre 2022, l’allievo di Baden-Powell e di padre Giuseppe, si è spento.

Mario Marroccu

Giovedì 3 febbraio 2022 l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha dichiarato che la pandemia in Europa sta rallentando e che forse presto l’emergenza sanitaria sarà finita. Nello stesso giorno Letizia Moratti, assessore della Sanità della Regione Lombardia, se ne è rallegrata e ha dichiarato che si dedicherà a creare un apparato “Infettivologico” per affrontare la prossima emergenza pandemica. L’esempio di questo assessore dovrebbe essere seguito.
La gerarchia mondiale della organizzazione anti-pandemica è una piramide. Al vertice c’è il Segretario Generale dell’OMS. In Europa la Commissione sanitaria deve vigilare sulla preparazione dei Piani pandemici nazionali degli Stati membri. Recentemente essa è stata ritenuta responsabile di omissione per mancato intervento nei confronti dell’Italia che non aveva rinnovato il proprio Piano pandemico, fermo al 2006.
Il Piano Pandemico è competenza del SSN e degli apparati militari per la Sicurezza nazionale. Non va dimenticato che gli strateghi prevedono che la prossima guerra, la più distruttiva, sarà una guerra batteriologica. I centri studi strategici militari di tutto il mondo sono particolarmente addestrati per allestire le difese delle Nazioni da un attacco batteriologico. Per la stessa ragione, a capo della organizzazione vaccinale italiana è stato posto un esperto militare di logistica: il Generale Francesco Figliuolo.
Gli scienziati militari della Sicurezza Pandemica Nazionale Statunitense, con sede al Pentagono, prevedono che in futuro arriverà una pandemia incontenibile, che chiamano “Pandemic X”, e si stanno preparando ad essa. Sarà dovuta ad un virus, o a un batterio, resistente a tutti i farmaci noti e determinerà la fine dell’Umanità. Per questi motivi l’America rispose con una prontezza ed una violenza inaudita al semplice sospetto che Saddam Hussein possedesse un armamento batteriologico costituito da colture di Bacillus Anthracis resistenti agli antibiotici e fosse pronto a diffonderle. La gravità del potenziale pericolo fa capire il motivo per cui l’OMS costrinse alle dimissioni il Commissario italiano quando ci si accorse che non era stato aggiornato il nostro Piano pandemico nazionale dal 2006. All’inizio della pandemia da Coronavirus ci trovammo senza un piano adeguato e corremmo gravi pericoli. La sofferenza nazionale degli ultimi due anni è una lezione che ci induce a non essere sprovveduti. Oggi l’OMS invita ad un cauto ottimismo perché il numero dei contagi sta diminuendo, ma ci chiede anche di non ad abbassare la guardia.
Vista la grave situazione degli ospedali sardi questa dichiarazione autorevole ci rasserena. Sarà tutto finito? Facciamo qualche riflessione aiutandoci con le informazioni che ci fornisce la storia delle pandemie.
Nel passato storico tutte le pandemie venivano chiamate “peste”, pes -pestis. Il termine deriva da “peius” che vuol dire “il peggio”. Anche se tutte le epidemie venivano chiamate “peste”, in realtà l’agente infettivo non era quasi mai la “yersinia pestis” ma si trattava di batteri, virus o parassiti di svariata natura che si trasmettevano all’uomo da animali, da insetti o da altri uomini infetti.
Quanto duravano le epidemie? Era molto raro che durassero solo due anni. La “peste Antonina” venne dall’Asia nel 165 dopo Cristo, durò 25 anni. La pandemia di Giustiniano iniziò nel 545 dopo Cristo e durò 45 anni. Si ripresentò ad ondate fino al 750 d.C., quindi per 200 anni. La “Peste nera” del 1347-48, descritta dal Boccaccio durò a Firenze due anni ma si ripresentò in 5 ondate nei 50 anni successivi; poi si ripresentò ad ondate successive fino al 1700 in tutta Europa.
Napoleone venne perseguitato dalla “peste di Alessandria d’Egitto” e perdette la guerra; poi venne afflitto dall’epidemia di “tifo petecchiale” durante la campagna di Russia e gli convenne ritirarsi disastrosamente. Nel 1853-56 la “Guerra di Crimea” fu funestata da un’epidemia di tifo petecchiale e da una mortifera epidemia di colera che uccise 3.000 dei 15.000 soldati sardi inviati da Cavour contro i russi. Nel 1600 imperversarono, soprattutto in Inghilterra le epidemie di vaiolo e di colera che decimarono la popolazione di Londra, e durarono molti anni. Nel 1700 nell’isola di Sant’Antioco avvenivano epidemia di vaiolo che comparivano ad ondate ogni 5 anni e si portavano via tutti i bambini nati nel quinquennio precedente. La comunità di Calasetta, appena formata nel 1761, stava per essere sterminata da quelle epidemie. Nel 1800 il forte inurbamento di operai, che vivevano ammassati negli affollati quartieri sorti intorno alle industrie, facilitò alla tubercolosi la sua diffusione mortifera; le epidemie di tisi polmonare e ossea durarono fino a metà del 1900. Le cose cominciarono a cambiare dopo il 1950, quando comparvero sul mercato l’antibiotico streptomicina, le penicilline, le cefalosporine e le Tetracicline ad adiuvare i sulfamidici comparsi 20 anni prima.
Contro i virus sono stati messi a punto vaccini molto efficaci. Basti pensare al vaccino antivaioloso, all’antipolio, al vaccino contro il morbillo, la varicella, la parotite, la rosolia, la difterite. Questi vaccini dovrebbero dare una immunità perenne. In realtà non è così perché s’è visto che tutte le immunità invecchiano e, col tempo, diventano meno protettive. Lo scoprirono i russi quando nel 1988 si ritirarono dall’Afghanistan e da quel paese portarono con sé, in Georgia, una epidemia di difterite che uccise in breve tempo decine di migliaia di cittadini, sopratutto adulti già vaccinati in tenera età.
Di tutti gli agenti virali e batterici nominati, nessuno è mai scomparso dalla terra. Forse solo il virus del vaiolo. Il virus polio è ancora presente in Siria, in Somalia e in paesi asiatici. In Africa imperversano sia l’AIDS, che la malaria, e la tubercolosi, e si affaccia episodicamente il virus ebola. Nessuna malattia contagiosa è diventata un “raffreddore”. Tra gli animali imperversano il virus della blue-tongue delle pecore e il virus della peste suina africana; nonostante le campagne vaccinali veterinarie e lo sterminio dei capi infetti, le epidemie si ripresentano regolarmente. Anche queste malattie sono dovute a due virus RNA simili al Coronavirus SARS-Cov-2.
La difesa più efficace è data dai vaccini, tuttavia i vaccini non sono tutti uguali. Vi sono quelli che conferiscono un’immunità perenne, e quelli che danno una immunità di breve durata. Vi sono poi infezioni da batteri e virus che non danno nessuna immunità. Per esempio non danno immunità l’escherichia coli, lo streptococco e lo stafilococco, o i virus del raffreddore, se non di durata ultrabreve.
Fortunatamente esiste la difesa farmacologica, che però non è efficace al 100 per cento, ed esistono la prevenzione ed il contenimento del contagio.
Visto che la storia insegna che questi ospiti patogeni durano secoli, che si sono sempre mantenuti aggressivi con l’uomo e quindi il pericolo di epidemia è sempre immanente, esaminiamo cosa fecero i nostri antenati per sopravvivere.
Già Ippocrate e Galeno consigliavano, davanti all’epidemia, “fuge, longe, tarde”, che vuol dire «fuggi subito, vai il più lontano possibile, torna il più tardi possibile». In sostanza la prima forma di “distanziamento” era la fuga. Tra il 1300 ed il 1400 si capì l’importanza anche dello “isolamento” degli infetti; nel 1377 a Milano i Visconti dettero ordine di inchiodare le porte delle abitazioni dei contagiati. Nel 1423 il Doge di Venezia ordinò che i contagiati venissero racchiusi nell’isola di San Lazzaro, dove esisteva una chiesetta dedicata a santa Maria di Nazareth. Da quell’“isola” nacque il termine “isolamento” e gli edifici di ricovero presero il nome di “Lazzaretti”. I drastici metodi di “distanziamento” e di “isolamento” italiani si rivelarono efficaci e vennero imitati in tutto il mondo. Nei porti, frontiere dei nostri mari, sono ancora presenti sia i “Lazzaretti” sia i “moli Sanità” dove gli ufficiali di igiene ispezionavano le navi che provenivano da Paesi sospetti di epidemia. Dopo l’ispezione i marinai, i viaggiatori e le merci, ricevevano un lasciapassare di sanità che attestava l’autorizzazione ad entrare in città. Il green pass è un’invenzione italiana di molti secoli fa.
La più grave pandemia a noi più vicina nel tempo, con cui possiamo confrontarci, fu quella dell’influenza detta “Spagnola”.
La pandemia “Spagnola” del 1918-19 è paragonabile a quella attuale da Coronavirus? Sì. In ambedue i casi il contagio avviene da uomo a uomo per via respiratoria. Colpisce, soprattutto, i polmoni, ma danneggia anche gli altri organi.
La mortalità da “Spagnola” fu in Italia pari a 600.000 morti su quasi 5.000.000 di infettati.
Morirono il 12 per cento dei contagiati in due anni. Oggi, col Coronavirus, siamo arrivati a circa 150.000 morti su 11.000.000 di contagiati. Apparentemente c’è una differenza abissale nella mortalità ma, a ben vedere non è così.
Durante la prima ondata della pandemia, a marzo-aprile del 2020 avemmo 236.000 contagiati e 29.000 morti. La mortalità fu del 12 per cento. Esattamente come al tempo della “Spagnola”. Se la velocità dei decessi avesse proceduto alla stessa velocità con cui crebbe in Lombardia tra marzo ed aprile 2020 avremmo avuto, fino ad oggi, 1 milione e 300mila morti. Invece nella seconda, terza e quarta ondata, nonostante il numero dei morti totali sia aumentato, abbiamo avuto, in realtà, una straordinaria diminuzione percentuale di mortalità. A cosa dobbiamo questo risultato?
– alle misure di distanziamento,
– alle mascherine,
– al lavaggio delle mani,
– ai lockdown,
– alla comprensione del meccanismo della infiammazione e all’uso di farmaci antinfiammatori adeguati,
– ai vaccini,
– agli anticorpi monoclonali,
– agli antivirali,
– ai tamponi antigenici,
– ai tamponi molecolari,
– alle Terapie Intensive,
– alle campagne vaccinali condotte con disciplina militare,
– ai DPCM governativi,
– all’Informazione capillare data dai giornali, dalle radio, dalle televisioni e dai social.
Ora si pone il problema: cosa fare se il virus rimane fra noi e continua a contagiare?
I provvedimenti presi fino ad ora sono stati emergenziali a “breve termine” e a “medio termine”. Se il virus resterà a lungo non potremo permettergli di tenere bloccati i nostri Ospedali generali. Bisogna che i nostri Ospedali riprendano a lavorare per le malattie tumorali, cardiovascolari, neurologiche internistiche, etc. Un tale problema si pose ai tempi delle epidemie di tubercolosi. Allora si procedette alla costruzione, ex-novo di ospedali dedicati che vennero chiamati “tubercolosari”, “Preventori anti-TBC”, “Ospedali Marini”, “Stazioni climatiche di montagna”. La costruzione di tali ospedali, paragonabili ai “Covid Hospital”, ai “Covid Hotel” avvenne in periodi storici in cui l’Italia era veramente povera, ma tutti capirono l’importanza di quell’investimento pubblico che avrebbe salvato l’economia. Era a tutti chiaro che quei malati non potevano essere ricoverato negli Ospedali civili generali perché avrebbero diffuso il contagio tra gli altri pazienti e, attraverso essi, lo avrebbero diffuso alle famiglie e a tutta la comunità.
Oggi ci troviamo in una situazione paradossale. Proprio adesso che viviamo nel periodo più ricco della nostra storia economica non sappiamo dove ricoverare questi pazienti e siamo costretti a sistemarli negli Ospedali generali mettendo a rischio l’intero sistema ospedaliero, strutturalmente inadatto e adeguato ad altri impieghi. Abbiamo visto quanto è avvenuto recentemente al Brotzu, che ha dovuto fermare le sue attività di Cardiochirurgia, Neurochirurgia, Chirurgia generale, etc. Per la presenza di troppi contagiati tra gli operatori sanitari.
La visibilità della rotta da seguire in questo momento, nella politica sanitaria, è obiettivamente scarsa; un percorso ragionevole è stato indicato da Letizia Moratti quando ha detto, dopo la dichiarazione dell’OMS, «è il momento di creare una struttura Infettivologica Ospedaliera dedicata alle malattie contagiose epidemiche».
Questo è un “programma a lungo termine”, adatto anche a noi.
A Carbonia vivemmo un momento simile nei primi anni ‘90 quando il Governo, davanti al pericolo di diffusione della AIDS, preparò un “Piano nazionale per le epidemie” e in quel piano inserì la costruzione di un Ospedale per malattie contagiose a Carbonia. La scelta della sede cadde in un sito a circa 100 metri dall’Ospedale Sirai. La struttura venne concepita come un bunker attrezzato per essere autonomo dall’Ospedale generale, con un ingresso separato, impianti separati, una sterilizzazione separata, una sala attrezzata per procedure invasive, ambienti sotterranei adatti ad ospitare laboratori ed attrezzature diagnostiche indipendenti dall’Ospedale generale. Probabilmente questo edificio, con quella specifica destinazione d’uso, è ancora iscritto fra le strutture strategiche del “Piano pandemico nazionale”. Se così fosse sarebbe ancora d’interesse per la “Commissione sanitaria europea” e per l’“OMS”.

Mario Marroccu