25 November, 2024
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In natura non vi sono regole morali. Al contrario, vige la regola del più forte. La storia naturale delle epidemie e delle catastrofi è la storia di una “prova di forza” continua tra il più forte ed il più debole e, davanti al bisogno di sopravvivere, la lotta viene condotta senza esclusione di colpi. Ecco alcuni esempi.
La “Peste nera” del 1347/1348 si diffuse dopo alcuni anni di freddo globale che gli storici chiamarono “Piccola glaciazione”. Gli unici, tra Europa ed Asia, che riuscirono a produrre cereali per gli uomini e gli animali, furono i contadini dell’Ucraina. Il loro mercato si trovava nei porti della Crimea, sul Mar Nero.
Per questo i commercianti italiani si rivolsero agli armatori genovesi che avevano i granai nei loro magazzini a Caffa, in Crimea. Per arrivarci, le navi italiane dovevano attraversare il Mar Egeo, lo Stretto dei Dardanelli ed il Mar di Marmara. Quindi, superata Istanbul accedevano al Mar Nero. Da qui puntavano la rotta a Nord, verso la Crimea. Si tratta dello stesso percorso seguito dai soldati sardi che combatterono la Guerra di Crimea del 1854-56. La Russia aveva occupato la Crimea (esattamente come oggi) ed il Regno di Sardegna fece parte dell’alleanza che andò a liberarla. I Sardi si trovarono nel pieno di un’epidemia di colera e ne morirono 3.000. In quella occasione vennero assistiti dalla signora Florence Nightingale che, dopo quell’esperienza, fondò l’ordine mondiale delle Infermiere. Anche nel 1347 i marinai genovesi si trovarono implicati in una guerra tra Mongoli e Ucraini e anche allora gli italiani si trovarono nel bel mezzo di un’epidemia. Era avvenuto che i Mongoli, abituali incursori nelle campagne cinesi, quell’anno le avevano trovate deserte e con i granai vuoti. I contadini cinesi erano morti a causa di un’epidemia di Peste provocata dalle pulci del ratto nero (rattus alessandrinus). In mancanza di preda “l’Orda d’Oro” dei guerrieri mongoli si diresse ad Ovest verso i granai di Caffa per impadronirsene. Si misero al loro seguito anche i ratti, con le loro pulci infette, mossi anch’essi dalla fame. I mongoli assediarono la città di Caffa ma vi fu una strenua resistenza. Allora il capo mongolo, Gani Bek, pronipote di Gengis Khan, ebbe l’idea di lanciare oltre le mura, con catapulte, i corpi di soldati mongoli morti di Peste. Così la peste entrò nella città ed il morbo mortifero si diffuse. Alcune navi genovesi riuscirono a scappare col loro carico di grano e, con sé, portarono anche i ratti della peste. Mentre gli equipaggi morivano, le navi entravano nel porto di Messina. Fu la prima città europea ad essere appestata. Da Messina partirono altre navi, col loro carico di merci e di Peste, verso Napoli, Genova, Venezia, Cagliari, Alghero, e diffusero la peste in tutta Italia. L’Italia fu la porta d’ingresso dell’epidemia in Europa.
Esattamente come oggi col Coronavirus, il percorso del contagio fu: Cina, Italia, Europa. E’ dimostrato che la diffusione della Peste Nera fu facilitata dall’estrema debolezza del sistema immunitario delle popolazioni stremate dalla carestia. La carestia, a sua volta, derivava dal lungo periodo di freddo della “piccola glaciazione”. In quel “braccio di ferro” tra uomini e microbi vinsero i microbi.
La pandemia di “Spagnola” del 1919 esplose alla fine della Prima Guerra Mondiale. Le Nazioni erano indebolite dalla scarsità alimentare provocata dalla mancanza di uomini nelle campagne perché impegnati nello sforzo bellico.
Anche le epidemie di Vaiolo e di Febbre Petecchiale esplodevano a ridosso di guerre e di carestie. La Campagna di Russia di Napoleone del 1812 si trasformò in una disfatta a causa di un’epidemia di Tifo Petecchiale da Rikettsia Prowazeki. La Rikettsiosi era endemica negli eserciti ed esplodeva incontrollata per l’associazione tra carenze igieniche e carenze alimentari. Sappiamo che già due anni prima del 1812 era iniziata una grave carestia in Sardegna (“Su famini de s’annu doxi”). Nel vicino Nord Africa la situazione alimentare era ancora più grave perché alla carestia si era sovrapposta anche una invasione di cavallette che divoravano i pochi raccolti. I Bey di Tripoli, Tunisi e Algeri, che già abitualmente equilibravano il bilancio annuale dei loro Stati con i proventi delle scorribande, in quell’anno ripresero con più frequenza a rapinare le coste sarde. Nel 1812 le incursioni barbaresche si aggravarono, soprattutto, sulle coste del Sulcis. In quell’anno la famiglia reale viveva a Cagliari, dove aveva trovato riparo dagli eserciti napoleonici. Fu allora che avvenne l’assalto al “Forte del Ponte” di Sant’Antioco, la cattura di schiavi ed il furto di derrate alimentari. Di quell’episodio esiste un grandioso affresco nel Palazzo Viceregio di Cagliari.
Persistendo la carestia in Nord Africa, i corsari tunisini attuarono una nuova incursione su Sant’Antioco il 16 ottobre 1815. Furono fatti schiavi 130 antiochensi e uccisa parte della popolazione. Nei mesi successivi esplose una epidemia di vaiolo che si portò via tutti i bambini nati nei cinque anni prima un centinaio. Fu un fatto grave ma era stata ben più grave l’incursione su Carloforte del 1798 che era costata quasi 1.000 sequestrati destinati ad essere venduti al mercato degli schiavi di Algeri, Tripoli e Derna.
Le popolazioni cercavano consolazione nella religione pregando: «Alla crisi economica, dalla epidemia, e dalla guerra liberaci o Signore» («A famine, a peste, a bello libera nos Domine»).

Anche oggi le paure delle popolazioni sono le stesse: la crisi economica, la pandemia, i conflitti fra Stati.
La pandemia attuale da Coronavirus avviene in un pianeta afflitto da centinaia di guerre locali e da una competizione commerciale fra i potenti ai limiti della guerra finanziaria come mai si era vista. In modo simile alle pandemie del passato anche oggi assistiamo al crescere di una crisi economica globale. Anche nel nostro piccolo mondo locale assistiamo ai problemi del commercio, dell’iniziativa privata e del lavoro in generale.
Come affermano gli osservatori economici, la crisi finirà solo quando cesserà la crisi sanitaria. E la crisi sanitaria finirà quando verrà posto riparo alla deficienza di Servizio sanitario in cui ci troviamo.
Ieri il direttore generale del CENSIS, il dottor Massimiliano Valeri, ed il presidente dell’Agenzia Nazionale per i Servizi sanitari regionali (AGENAS) dottor Enrico Cosciani, hanno pubblicato un documento, destinato al Governo, in cui si dice testualmente: «La pandemia ha squarciato il velo sulle fragilità strutturali in Sanità. La pandemia ha travolto le nostre vite, con un forte impatto sociale e economico. Ma, di fatto, rappresenta un potente ed improvviso fattore di accelerazione dei processi».

«Ci siamo scoperti vulnerabili dopo anni di contenimento della spesa pubblica che hanno provocato la riduzione dei posti letto e la chiusura di piccoli Ospedali.»
Se analizzassimo la regressione del Sistema Sanitario del Sulcis Iglesiente, attuato ad arte negli ultimi 20 anni ricorderemmo che negli anni ’90 l’Ospedale di Carbonia aveva una dotazione di 384 posti letto, ed era stato appena costruito un padiglione separato destinato ad ospitare il reparto specialistico per le Malattie Infettive. Era Commissario il dottor Tullio Pistis e presidente il geometra Antonello Vargiu. Il padiglione, destinato ai pazienti affetti da AIDS, non venne mai utilizzato ed il Centro Infettivi non sorse mai. Iglesias aveva un ottimo Ospedale Traumatologico Ortopedico attrezzato per fornire un servizio di alto livello secondo la scuola del Rizzoli di Bologna. Vi era inoltre un Ospedale per le patologie generali, il Santa Barbara, che soddisfaceva la popolazione. Ad Iglesias vi era inoltre un grande complesso, l’Ospedale Fratelli Crobu, destinato alla malattia infettiva più diffusa nel secolo scorso: la Tubercolosi.
Nel 1983, quell’Ospedale, venne convertito per ospitare un reparto di Chirurgia pediatrica, un reparto di Pediatria ed uno di Otorinolaringoiatria. All’inizio ebbe successo, poi col calo demografico venne progressivamente ridimensionato fino alla sua completa chiusura. Oggi è nell’abbandono.
Negli anni ’90 il numero degli operatori sanitari dipendenti del Sistema sanitario del Sulcis Iglesiente si attestava sulle 2.000 unità. Oggi, tra Carbonia ed Iglesias, il numero di dipendenti è ridotto ad appena un migliaio.
Dove sono finiti i mille dipendenti che mancano ai nostri Ospedali?
Si capisce immediatamente dove sono andati a finire quei posti di lavoro se si osserva la crescita tumultuosa dei presidi ospedalieri e universitari di Cagliari. Contemporaneamente al depauperamento del nostro personale abbiamo assistito alla chiusura di interi ospedali ad Iglesias ed alla soppressione di reparti e Servizi al Sirai di Carbonia. Carbonia, che aveva in passato 384 posti letto, oggi ne vanta poco più di 100.
Così come le incursioni corsare dei secoli scorsi nelle nostre coste avvennero per motivi economici, anche nell’ultimo ventennio le crisi economiche nazionali sono state contenute depredando i nostri ospedali di personale, strumenti scientifici, interi reparti e fondi destinati “pro rata” al nostro territorio per dirottarli verso altri centri già ricchi e saturi di servizi sanitari.
Il direttore del CENSIS ed il direttore di AGENAS osservano anche, nel loro documento, che la distruzione della rete degli Ospedali provinciali ha condotto alla:
– riduzione e soppressione di visite specialistiche, accertamenti diagnostici;
– riduzione dei ricoveri di medicina interna;
– screening per la prevenzione dei tumori.
Inoltre affermano testualmente: «Anche se non ci fosse stata la pandemia, la transizione demografica ci avrebbe obbligati a rivedere l’offerta sanitaria a causa dell’invecchiamento della popolazione. Investire in Sanità è un moltiplicatore di processi di sviluppo e creazione di occupazione. Servono 58mila medici e 72mila infermieri per la Sanità del futuro.»
Ora bisogna stare molto attenti.
Con i soldi del “Recovery plan” inserito nel “Next Generation EU”, si potrà procedere a quelle assunzioni.
I nostri politici locali dovranno sorvegliare chi stilerà il programma di spesa.
Se non staremo attenti potrà avvenire un ulteriore peggioramento a nostro danno.

Nei nostri Ospedali provinciali abbiamo bisogno di quei 58mila medici e 72mila infermieri. Ci servono per ricostituire i reparti specialistici che ci sono stati sottratti a favore delle città. La teoria degli “Hub and spoke”, cioè della “centralizzazione” è stata il grimaldello con cui sono state divelte le basi della nostra Sanità. Ci hanno sottratto i fondi, il personale, i servizi specialistici, per trapiantarli nella città capoluogo.
Con la sottrazione di quei Servizi ci hanno sottratto almeno 1.000 posti di lavoro, che equivalgono a mille stipendi al mese sottratti alla nostra rete commerciale. La scomparsa di quegli stipendi va di pari passo con la scomparsa di clienti dai negozi per l’edilizia, dai negozi di abbigliamento, dai ristoranti, etc.
La scomparsa di quei mille operatori sanitari va di pari passo con la scarsità di offerta sanitaria nel nostro territorio, con l’allungamento delle liste d’attesa per essere operati e per ottenere le visite specialistiche, le TAC, le Ecografie, le Risonanze magnetiche e l’efficienza dei Pronto soccorso. In un articolo comparso giorni fa in un quotidiano regionale ci è stato riferito che la Regione ha speso per analisi cliniche strumentali nel 2020 una somma pari a 15,6 euro per abitante a Cagliari mentre ha speso 2 euro per abitante nel Sulcis. Questo dato la dice lunga sulla disparità di distribuzione di danaro per la sanità tra Cagliari e Carbonia Iglesias.
La stessa scarsità di personale a cui ci hanno ridotti è all’origine della riduzione dei posti letto nei nostri reparti ospedalieri, che a sua volta ha portato alla fusione di reparti specialistici in piccole Unità Operative, rese obbligatoriamente piccole dalla povertà di medici e infermieri. Il personale, che si trova carente di numero, mal motivato, e sovraccaricato della responsabilità di un bene prezioso come la salute degli altri ha bisogno di un forte supporto politico e popolare.
Come giustamente sostengono il presidente del CENSIS e quello dell’AGENAS, la riassunzione di quelle 1.000 persone che ci mancano dagli Uffici, tra gli Infermieri e tra i Medici, equivarrà ad un investimento economico. Assumere urgentemente nuovo personale è la via giusta per dare più Sanità a tutti e, investito in assunzioni nella nuova generazione, porterà nuovi posti di lavoro, nuove coppie, nuovi figli, e nuovi clienti per negozi e artigiani. Cioè: benessere.
In fondo questo è il fine di chi ha inventato il fondo del Next Generation EU. Dobbiamo volere che la suddivisione dei fondi provenienti dalla Comunità Europea venga fatta con una redistribuzione equa tra le province della Sardegna. Dobbiamo impedire un nuovo catastrofico accentramento di Sanità nel capoluogo. E’ necessario che i politici locali veglino su quei fondi per salvarci dal prossimo disastro: la povertà.

Mario Marroccu

Foto del Premier Mario Draghi licenza CC-BY-NC-SA 3.0 IT