5 November, 2024
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Il lavoratore ha diritto alle ferie. Il diritto alle ferie, infatti, consente al lavoratore di soddisfare le sue esigenze psicofisiche dandogli la possibilità di partecipare attivamente alla vita sociale, familiare…

La durata delle ferie è fissata in quattro settimane, ma i contratti collettivi possono estendere o ridurre questo periodo.

Le ferie del lavoratore maturano ogni mese in genere uno o due giorni per mese.

Può accadere che il lavoratore nel corso della sua attività lavorativa maturi troppi giorni di ferie ed essendo certo di non goderle ne vorrebbe ottenere il pagamento in busta paga.

A questo punto è d’obbligo chiedersi: è possibile ottenere il rimborso delle ferie non godute?

Chi scrive ritiene, prima di rispondere all’interrogativo, precisare al lettore quanto segue:

  1. Il lavoratore ha diritto al riposo giornaliero: 11 ore di riposo consecutivo ogni 24 ore. Il riposo giornaliero deve essere fruito in modo consecutivo ad eccezione per quelle attività caratterizzate da periodo di lavoro frazionati durante la giornata;
  2. Se il lavoro giornaliero eccede il limite di 6 ore il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa le cui modalità e la cui durata sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro.

Rispondiamo ora all’interrogativo. 

La risposta è positiva.

L’art. 10, comma 2 del D.lgs. 66 del 08.04.2003 stabilisce che «il periodo minimo di quattro settimane non può essere sostituito dalla relativa indennità per ferie non godute, salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro».

Dalla norma si desume che il lavoratore ha diritto all’indennità per ferie non godute solo in caso di risoluzione del rapporto di lavoro.

Si raccomanda, in ogni caso, di fare sempre riferimento al contratto collettivo del settore dell’attività lavorativa per cui operate perché potrebbe stabilire diversamente ed essendo norma speciale rispetto a quella generale prevale sulla prima o addirittura non prevedere nulla ed in questa ipotesi trova applicazione l’art. 10, comma 2 del summenzionato decreto legislativo.

Avv. Luisa Camboni

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Separazione dei coniugi: dopo il provvedimento del Giudice entro quanto tempo il marito deve abbandonare la casa coniugale?

Dopo la prima udienza – udienza presidenziale – e dopo che i coniugi vengono autorizzati a vivere separatamente può capitare che il marito non ottemperi a quanto disposto continuando a restare all’interno della casa coniugale. E’ bene porsi questa domanda: quanto tempo la moglie può concedere al marito per trovare un’altra sistemazione e portare via tutti i suoi effetti personali?

Prima di dare una risposta al quesito, chi scrive ritiene necessario precisare che la moglie non può obbligare il marito ad abbandonare la casa coniugale prima che il Giudice abbia emesso il provvedimento con cui dichiara lo stato di separazione.

La separazione legale, sia essa consensuale o giudiziale, consente ai coniugi di allontanarsi e, conseguentemente, la moglie potrà chiedere al marito di lasciare la casa coniugale sempre che i due si siano accordati in tal modo in caso di separazione consensuale, o il Giudice, nel suo provvedimento, abbia assegnato la casa coniugale alla moglie (separazione giudiziale).

Che cosa succede dopo che viene dichiarato lo stato di separazione tra i coniugi?

Ecco le diverse ipotesi che possono verificarsi.

1. Il Giudice può decidere di assegnare la casa al genitore collocatario dei figli sia nel caso di figli minorenni, sia nel caso di figli maggiorenni, ma non ancora autosufficienti dal punto di vista economico. In questo caso, la casa coniugale viene assegnata alla madre che potrà abitarvi sino a che i figli non raggiungono l’indipendenza o non si trasferiscono in altro luogo.

2. In assenza di figli o nel caso in cui questi abitano per conto loro, il Giudice non potrà mai assegnare la casa che è di un coniuge in godimento all’altro.

3. Se la casa coniugale è in comproprietà, al fine di evitare uno scontro tra i coniugi, la soluzione è quella di dividerla se l’immobile lo consente o, in caso contrario, di venderla e dividerne in parti uguali il ricavato.

Una volta emesso il provvedimento con il quale il Tribunale autorizza i coniugi a vivere separatamente e in presenza di una delle condizione sopraelencate, il genitore collocatario può, da quel momento, obbligare l’altro a lasciare la casa coniugale. Tale richiesta può essere rivolta dal genitore collocatario all’altro coniuge lo stesso giorno in cui viene autorizzata la separazione.

Il coniuge assegnatario della casa può, anche, chiedere all’altro la copia delle chiavi visto che non potrà più accedere in quella che, da quel momento in poi, diventa l’abitazione del coniuge che resta lì.

Si noti bene: il coniuge al quale non è stata assegnata la casa coniugale vi accede senza permesso, commette il reato di violazione di domicilio e rischia una denuncia.

Può capitare che il coniuge al quale viene assegnata la casa conceda all’altro un po’ più di tempo al fine di consentirgli di trovare un’altra sistemazione.

Se il Giudice non ha disposto diversamente, l’assegnazione della casa ha effetto immediato. Infatti, non è previsto un termine entro il quale il coniuge non assegnatario della casa coniugale deve lasciare la stessa.

Che fare se il marito non lascia la casa nel tempo concessogli?

In questo caso la moglie ha due possibilità:

a. l’esecuzione forzata;

b. la denuncia.

  1. Esecuzione forzata: occorre provvedere a notificare al marito il provvedimento del Giudice ed il precetto. L’avvocato, poi, chiederà l’intervento dell’Ufficiale Giudiziario, che dovrà dare esecuzione al provvedimento del Giudice e, nel caso di resistenza da parte dell’interessato, potrà chiedere l’intervento dei carabinieri
  2. Querela: chi non rispetta il provvedimento del Giudice commette il reato di “mancata esecuzione dolosa dell’ordine del giudice”. In questa ipotesi, il marito rischia la reclusione sino a tre anni o forse la multa da 103 a 1.032 euro.

La querela risulta essere il modo di agire più veloce e l’istituto processuale necessario per dare avvio all’azione penale.

Avv. Luisa Camboni

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L’istituto dell’Amministrazione di Sostegno è una figura giuridica introdotta, nel nostro ordinamento, per tutelare quei soggetti che, a causa di una malattia o di una menomazione fisica o psichica, si trovano nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi. 

La ratio dell’istituto è, dunque, quella di tutelare la gestione patrimoniale di soggetti deboli, ovvero di quelle persone che in un determinato momento della propria vita siano impossibilitate a provvedere alle proprie necessità.

Nell’iter che porta alla nomina dell’Amministratore di Sostegno figura fondamentale è quella del Giudice, cosiddetto Giudice Tutelare. Il Giudice Tutelare, a seguito di ricorso, provvede con decreto a nominare  l’Amministratore disponendo l’indicazione dell’oggetto dell’incarico, degli atti che l’Amministratore ha il potere di compiere in nome e per conto dell’Amministrato/Beneficiario, nonché di quelli che l’Amministrato/ Beneficiario può compiere solo con la sua assistenza.

Il compito dell’Amministratore di Sostegno è quello di aver cura della persona dell’Amministrato/ Beneficiario e non soltanto del suo patrimonio. In altre parole, l’Amministratore di Sostegno deve svolgere i propri compiti tenendo conto dei bisogni e delle aspirazioni dell’Amministrato/ Beneficiario.

Qual è l’iter da seguire per arrivare alla nomina dell’Amministratore di Sostegno? Quali i soggetti legittimati a chiederne la nomina?

Il tutto ha inizio con il deposito, presso la Cancelleria del Giudice Tutelare, di un ricorso.

I soggetti legittimati a chiedere la nomina di un Amministratore di Sostegno sono:

a. il diretto interessato,

b. il coniuge,

c. il convivente more uxorio (purché la convivenza abbia il requisito della stabilità), parenti entro il quarto grado e affini entro il secondo.

Possono proporre ricorso, anche, soggetti esterni al nucleo familiare come il pubblico ministero, il tutore o il curatore, i responsabili di servizi socio-sanitari qualora fossero a conoscenza di fatti tali da rendere necessaria l’apertura del procedimento.

Si noti bene: La proposizione del ricorso può essere fatta personalmente presso la Cancelleria del Giudice senza l’assistenza di un avvocato.

Chi può ricoprire l’incarico di Amministratore di Sostegno?

In ragione della ratio dell’istituto e dell’essenziale legame di fiducia che deve sussistere tra le parti, Amministratore di Sostegno e Amministrato, generalmente il Giudice predilige, nella scelta del soggetto da nominare, una persona facente parte del nucleo familiare dell’Amministrato/ Beneficiario o, comunque, legato allo stesso da vincoli di parentela – affettivi.

Nel caso in cui per vari motivi la nomina di un familiare non sia possibile, la scelta dovrà ricadere su un soggetto esterno alla famiglia.

Quali qualità deve possedere la persona nominata Amministratore di Sostegno?

L’Amministratore deve svolgere il proprio incarico in totale autonomia, avendo riguardo unicamente agli interessi dell’Amministrato, garantendo, quindi, la totale imparzialità e l’assenza di qualsivoglia interesse personale. Insomma, deve esercitare tale incarico nel pieno rispetto dei diritti della persona e della dignità umana.

L’attività posta in essere dall’Amministratore di Sostegno è soggetta al controllo da parte del Giudice Tutelare; infatti, l’Amministratore, annualmente, è tenuto  a depositare  un rendiconto nel quale non si limita solamente ad indicare le entrate e le uscite del patrimonio dell’Amministrato, ma anche a dar conto dello stato di salute, della vita sociale… dello stesso.

Il conflitto endofamiliare incide nella scelta dell’Amministratore di Sostegno?

La risposta è positiva.

L’articolo 408 c.c. indica un elenco di soggetti che possono ricoprire l’incarico di Amministratore di Sostegno: il coniuge non separato legalmente, la persona stabilmente convivente, il padre, la madre, il figlio, il fratello, la sorella, il parente entro il quarto grado, ovvero il soggetto designato dal genitore superstite con testamento, atto pubblico, scrittura privata autenticata.

Normalmente la scelta dovrebbe ricadere tra i soggetti sopraelencati, però, qualora sussistano gravi motivi è possibile che la scelta ricada su un professionista esterno al nucleo familiare; tale ipotesi è rappresentata proprio dalla sussistenza di “conflitti endofamiliari”.

Con l’espressione “conflitti endofamiliari” vi rientrano tutte quelle ipotesi di scontro, di disagio, di qualsiasi natura che nascono all’interno del nucleo familiare e che determinano un clima di tensione, stress che mal si concilia con quella che è la ratio dell’istituto dell’Amministrazione di Sostegno, ovvero garantire tranquillità, tutela al soggetto Amministrato.

Pertanto, in presenza di una accertata conflittualità all’interno del nucleo familiare, la soluzione migliore che consente di amministrare gli interessi del beneficiario con la dovuta imparzialità è rappresentata dalla nomina di un Amministratore esterno.

Ed anche perché il conflitto endofamiliare va ad incidere negativamente sul benessere psico-fisico dell’Amministrato/Beneficiario, tale da poter compromettere gravemente lo stato di salute dello stesso.

Il coniuge legalmente separato può essere nominato Amministratore di Sostegno?

La risposta è fornita dal Giudice Tutelare del Tribunale di Varese che ritiene si possa  nominare il coniuge legalmente separato quale Amministratore di Sostegno dell’Amministrato/Beneficiario quando è provata l’assenza di conflitti di interessi e l’adeguatezza della designazione, specie se la nomina è fatta dal beneficiario stesso.

Avv. Luisa Camboni