Programmi elettorali e progetti culturali realizzabili per Carbonia – di Paola Atzeni
Nel lessico politico della città di Carbonia, nei programmi e negli impegni culturali che cominciano ad apparire, se ho visto bene, non compare la parola antropologia che studia le esperienze delle relazioni umane, con i loro valori e disvalori culturali. Si tratta di un fatto assai significativo. Il noto antropologo francese Marc Augé nel 1994 scriveva così nel suo Storie del presente. Per un’antropologia dei mondi contemporanei, proprio nella prima frase del primo capitolo: «Il termine «antropologia» è oggi servito in tutte le salse». Egli affermava che l’antropologia poteva rallegrarsene, ma poteva anche inquietarsene.
Infatti, mentre il nocciolo del discorso antropologico combinava la triplice esigenza della scelta di un terreno, dell’applicazione di un metodo, e della costruzione di un oggetto di ricerca, l’antropologia era diluita in vaghe allusioni, non fondate scientificamente. Non è il caso della cultura politica carboniese e dei programmi di politica culturale cittadina, in cui la parola antropologia pare del tutto assente. Si tratta di un fatto che richiede spiegazioni dai protagonisti di tali discorsi e di tali programmi.
A questo proposito, vengo subito all’antropologia come punto importante e inespresso di discorsi politici per obiettivi culturali realizzabili nella città e della città. Si tratta di un punto che riguarda la valenza antropologica, distintiva e caratterizzante l’esperienza urbana di Carbonia, che ha reso durevoli originali valori democratici della città, propri della sua cittadinanza democratica per lungo tempo: la capacità culturale delle persone che davano vita alla città, non solo tecnicamente ed economicamente, ma con specifici modi di lavorare e di abitare che producevano originali relazioni di umanità solidale. Si tratta di un complesso e ricco fenomeno culturale con spessori ed ampiezze che fece e fa di Carbonia uno straordinario
laboratorio antropologico: aperto e funzionante in un antifascismo e in una democrazia a trama minuta e quotidiana. Un laboratorio antropologico che si è palesato in varie lotte popolari per un futuro vivibile egualmente condiviso. Carbonia appare differente da altri centri minerari con esperienze di grande valore culturale. Altri centri minerari non ebbero una fondazione voluta da un fascismo che si volle imperiale e razzista e che il razionalismo architettonico non può far dimenticare. La città seppe uscire democraticamente dalle contingenze della sua fondazione fascista, nonostante l’impianto urbanistico gerarchizzante, la toponomastica che esaltava il fascismo e la negazione della storica antropizzazione rurale locale che Mussolini riduceva alla definizione di “landa quasi deserta”, nella sua svolta industrialista e bellica che determinava la nascita di Carbonia.
Studi antropologici nella e della città hanno contribuito a far nascere e operano ancor oggi per far valere, specialmente in Italia e in Europa, una specifica antropologia mineraria e industriale. Tali studi agiscono nell’ambito di una disciplina condizionata storicamente dal colonialismo, dall’esotismo, dal ruralismo. L’antropologia è stata, generalmente, poco attenta a certe differenze culturali, locali e globali, sociali e di genere, proprie della modernità industriale e delle sue crisi, con esperienze umane disumanizzanti ma anche resistenziali o alternative, emancipative o liberatrici. La democratica antropologia mineraria è stata ed è ancora impegnata in un confronto accademico, non solo teorico ma anche pratico, condizionato da asimmetriche relazioni e assetti di potere accademico. Tuttavia, tale antropologia mineraria democratica si cimenta assai valorosamente in vari confronti all’interno della disciplina stessa,
con un orientamento che riguarda ora principalmente, ma non solo, il cosiddetto “post-industriale”. Nel post-industriale di nuova attenzione culturale, Carbonia assume una particolare rilevanza antropologica, e politica, specialmente nell’attuale fase di necessaria transizione ecologica.
In questo periodo storico, certe necessarie trasformazioni locali e territoriali richiederanno di essere sostenute, perfino con certi nuovi progetti amministrativi che faranno capo a finanziamenti europei, partendo dallo spoglio e dal confronto delle fonti storiche. L’archivio comunale, pertanto, non solo deve essere sottratto all’incuria e all’abbandono, ma deve necessariamente essere informatizzato e valorizzato come vera e propria “miniera di dati”, da cui estrarre informazioni, ordinabili e tematizzabili con efficaci opzioni, anche per rendere realizzabili e validabili nuovi progetti. Il nuovo ordinamento dello storico Archivio Comunale, aperto a nuove fruibilità, riguarda ovviamente anche l’organizzazione della stessa struttura comunale, per la quale un nuovo assetto informatico fu previsto fin dal 1979, con una precisa delibera del Consiglio Comunale. Tali aspetti, interessano anche l’antropologia delle istituzioni, cioè il modo in cui l’amministrazione vorrà caratterizzare l’operatività comunale, tenendo conto anche dei trattamenti che riserverà agli accessi conoscitivi e agli esiti deliberativi, passati, presenti e futuri, per rendere partecipe la popolazione delle esperienze storico-antropologiche della città.
L’antropologia nella città e della città di Carbonia non è solo depositata nei libri e nei confronti accademici di convegni, seminari, dibattiti, tesi di laurea ed altro ancora. Ha trovato spazio localmente, per esempio, nel raro impegno culturale del sindaco Tore Cherchi che ha consentito l’istituzione della Sezione Antropologica nella Grande Miniera di Serbariu. In poco più di 100 metri quadri, che corrispondono a uno dei corridoi con le docce della miniera, dialogano varie discipline: antropologia mineraria, etnografia visiva, storia, ingegneria mineraria, medicina del lavoro, archivistica, museologia, espografia, grafica…Il dialogo interdisciplinare, sgorgava da un comitato scientifico ben vivo e attivo, istituito e reso dinamico da periodici incontri, attivati dallo stesso sindaco che vi contribuiva continuamente. Il comitato scientifico, a cui l’antropologia ha dato impegni non sottovalutabili, non è stato più convocato e non mi risulta che sia stato rinnovato con nuove nomine. Per Medau Sa Grutta, inoltre, egli aveva sollecitato un progetto etno-antropologico, dal momento che gli studi antropologici sugli habitat sparsi sulcitani avevano interessato le ricerche sull’architettura popolare e avevano trovato spazio sia in un’importante collana nazionale edita da Laterza, sia in un testo sulla Sardegna, pubblicato in quella collana nel 1988. Tuttavia, l’antropologia è stata bandita da Medau Sa Grutta e non sta a me fornirne spiegazioni.
Tore Cherchi ha dato all’antropologia uno spazio qualitativamente importante e ben visibile sebbene ridotto, uno spazio prima negato per molto tempo all’antropologia, se si pensa che l’Università di Cagliari e in particolare l’Istituto di Discipline Socio-Antropologiche, fin dai primi anni Ottanta, presentò all’Amministrazione Comunale di Carbonia le linee di un progetto museale territoriale chiamato Ecomuseo, allora poco conosciuto e assai innovativo, ispirato da modelli francesi. Si tratta di un progetto finito nel nulla.
Richiamo alla memoria una costellazione di fatti. Nel 1982 l’Amministrazione Comunale formulò una richiesta di collaborazione all’Istituto di Discipline Socio-Antropologiche Nel 1983 promosse un Convegno dal titolo Carbonia. Un progetto per la memoria storica e la cultura materiale. Nel 1987 il Comune di Carbonia acquistò il progetto preliminare dell’Istituto di Discipline Socio-Antropologiche con le linee ispiratrici del progetto attuativo di un museo territoriale, chiamato Ecomuseo. Una delibera del Consiglio Comunale approvò una Convenzione tra l’Amministrazione Comunale e il Consiglio di Amministrazione dell’Università di Cagliari, il quale approvò quella Convenzione nella seduta del primo settembre 1988. Era stato fatto tutto quanto era necessario sul piano istituzionale. Non so quali successive delibere cambiarono quelle decisioni e stornarono le relative spese in bilancio. Sappiamo bene che Ecomusei si fecero altrove, nel Sulcis e in Sardegna, come in altre Regioni italiane. Ricordo, doverosamente, che il progetto era sostenuto per la Società Umanitaria regionalmente da Fabio Masala, oltre che da dirigenti nazionali di questa società che vennero ripetutamente da Milano, partecipando a vari convegni per sostenere la realizzazione di quell’obiettivo ecomuseale.
Pare a me, nell’attuale fase di transizione per la riconversione ecologica, che una innovativa amministrazione comunale abbia non poche ragioni culturali per riprendere, rimotivare, rimodulare, rifinalizzare le direttrici antropologiche e multidisciplinari delineate in quello storico progetto di Ecomuseo territoriale, a partire dalle sue sedi dislocate e articolate, come “antenne”, nella rete delle frazioni industriali e rurali, inurbate e non inurbate. La concezione del museo era, ed è ancor più oggi, assai cambiata. Il museo non è più un mero deposito di oggetti, staticamente esposti. Il museo si caratterizza ormai da molto tempo, secondo la nuova museologia, come fabbrica di esposizioni a lavorazione continua per produrre mostre temporanee, possibilmente interattive: in genere almeno quattro all’anno, che accompagnano la mostra permanente, prevista istituzionalmente come stabile. Le mostre possono essere residenziali o itineranti per far conoscere la città. Sono orientate dal Comitato scientifico interdisciplinare, ma si servono di varie competenze legate a ricercatori, sia stabili e sia legati ai vari progetti.
A mio avviso, un tale innovativo progetto museale, antropologico e multidisciplinare, a carattere diffuso di Ecomuseo territoriale, come continua fabbrica di mostre residenziali e specialmente itineranti, potrebbe comprendere le bonifiche delle discariche minerarie ed essere aperto alle varie esperienze artistiche e creative. Potrebbe, soprattutto in questa fase, esporre e valorizzare ogni innovazione produttiva che ha marcato e marca il territorio cittadino e la zona, anche con esposizioni aziendali culturalmente validate, dando un forte senso culturale ad ogni iniziativa di transizione ecologica, in opera o via via realizzata. Potrebbe, infatti, collegare elementi della fase contemporanea di transizione ecologica alle storiche e caratterizzanti esperienze umane di saper vivere e di saper far vivere che marcarono culturalmente, secondo i tempi e i modi, sia certe relazioni antropologiche nella città e sia le identità della città: continuamente reinventata da rurale a industriale, da industriale a terziaria, non più monocolturale ma tesa verso un futuro di vita durevole.
Credo che tale cimento, articolato e precisato negli obiettivi di risorse finanziarie e umane, in connessione a vari programmi europei per modi e cronoprogrammi, sia il necessario risarcimento di attenzione e di impegno che una seria amministrazione deve in primo luogo alle future generazioni della città. Tale impegno può essere attraversato e realizzato proprio grazie all’apporto delle discipline antropologiche, trascurate e neglette, non si sa se per limiti culturali di certe politiche amministrative o per miopi calcoli basati solo sul peso elettorale di tali discipline, considerato esiguo.
Il peso culturale delle discipline antropologiche, in realtà, non è irrisorio nel presente, e neppure nel futuro della politica culturale della città. Non si tratta, infatti, di un recupero né di “radici”, né di “semi”, né di “DNA”, espressi dal senso comune senza fondamenti scientifici per essere validati come fatti culturali.
La dimensione culturale non può essere ridotta solo al biologico, anche se la cultura è prodotta da corpi viventi, può essere conosciuta mentalmente e può essere incorporata negli stili di vita individuali e comunitari. Non si tratta quindi di recuperare semplicemente elementi significativi delle identità del passato, ma di saper cogliere l’imprescindibile contributo scientifico che le discipline antropologiche hanno dato e danno per capire il senso e la portata dei continui cambiamenti delle identità individuali e di gruppi, locali e territoriali. Tali aspetti, riguardanti i rapidi mutamenti culturali e identitari negli ambienti minerari, sono emersi con particolare vigore specialmente in un recente incontro internazionale, promosso dall’Università di Cagliari nel novembre del 2019. L’incontro aveva un titolo significativo che richiamava le esperienze di cambiamento culturale personale e collettivo, dei luoghi e dei territori nella complessiva vita
globale delle miniere, nel minerario e nel post-minerario, fra estrattivismo e creazione di un patrimonio: The Global Life of Mines. Mining and post-mining between Extractivism and Heritage-Making.
Si tratta di temi e di problemi antropologici che risultano ormai non più rinviabili per una attuale politica culturale nella e della città, nell’avanzare del tempo e dei nuovi bisogni culturali che implicano in certi modi le relazioni sia di genere e sia di giovani generazioni, le cui identità sono annichilite nelle disoccupazioni e frantumate nei “lavoretti” precari. Tali relazioni sono particolarmente sollecitative per realizzare una politica culturale adeguata alle nuove domande socio-culturali, più o meno esplicitate ma assai importanti nei rischi e nelle opportunità del nostro difficile poter vivere. Si tratta di bisogni culturali che sollecitano cambiamenti delle culture politiche locali e delle politiche culturali, particolarmente urgenti nel fragile presente di salute e di istruzione formativa, industriale e rurale, che Carbonia vive dolorosamente: per produrre un nuovo futuro, condiviso con pratiche accomunanti creative e inventive, capaci di caratterizzare antropologicamente innovative identità personali e collettive in metamorfosi nella città e della città, abili nel farla in nuovi modi solidale e durevole.
Paola Atzeni