28 July, 2025
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Alcuni giorni fa è stato ricordato l’anniversario di uno degli eventi più incisivi della Storia: la presa della Bastiglia del 14 luglio 1789, simbolo dell’inizio della Rivoluzione Francese. Un mese prima si era riunita l’Assemblea Nazionale Francese per discutere sul come si sarebbe dovuto votare sugli argomenti in discussione: per “Stato” o per “Testa?”. Bisogna sapere che l’Assemblea Nazionale era formata da 1.100 “teste”, o elettori, divisi in tre “stati”: il “Primo Stato” era il Clero, il “Secondo Stato” era la Nobiltà, il “Terzo Stato” era la Borghesia. Fino ad allora avevano votato “per Stato”, pertanto, il Clero e la Nobiltà alleati vincevano sempre sul “Terzo Stato”. Quell’usanza acquisita fin dal 1600 aveva comportato un inevitabile vantaggio per il “primo” e il “Secondo Stato”. Quel giorno, però, i rappresentanti del “Terzo Stato” pretesero che si votasse per “testa”. La proposta non venne accettata e il “Terzo Stato” fece esplodere la Rivoluzione; il sangue corse fino al 1794. Furono tante le teste di conservatori da tagliare che si dovette inventare una macchina adatta: la ghigliottina.
Da allora si usano i termini di “Destra” e “Sinistra” per indicare la parte politica “conservatrice” e la parte “riformista”. Quei termini si riferivano proprio alla rappresentazione spaziale dei due schieramenti di maggioranza e opposizione nell’Assemblea Nazionale pre-rivoluzionaria. A destra, nel salone dell’emiciclo sedevano il Clero e i Nobili, a sinistra sedevano i Borghesi. Dato che il voto “per stato” faceva vincere sempre la coalizione di clero e nobili, questi avevano acquisito enormi privilegi come l’esenzione assoluta dal pagare le tasse al Re di Francia. Ciò aveva consentito loro di detenere enormi proprietà territoriali e immobiliari. Tutte le spese di Stato, come i vitalizi alla corona e alla nobiltà, gli stipendi ai militari, le guerre, la spesa pubblica per il decoro urbano e la manutenzione di tutte le proprietà statali, erano a carico del “Terzo Stato”.
Da allora il termine “destra” indica la parte politica che vuole conservare i privilegi acquisiti (da cui “conservazione”), evitando riforme che avrebbero potuto modificare l’ordine sociale esistente. Invece, il termine “sinistra” indica la parte politica che vuole una riforma dell’organizzazione sociale che garantisca l’“uguaglianza” di tutti i cittadini davanti allo Stato, l’abolizione dei privilegi e dei doveri che erano opposti e distinti nella società dei tre stati. Successivamente in questi due secoli e mezzo di distanza dalla Rivoluzione Francese gli scopi di “destra” e “sinistra” sono cambiati: è avvenuto che obiettivi di sinistra siano diventati di destra, e alcuni di destra siano diventati di sinistra. Per esempio L’obiettivo di ottenere il “libero mercato” apparteneva alla sinistra rivoluzionaria e oggi è appannaggio della destra. La sinistra borghese di allora fu la genitrice di quel “capitalismo” che oggi è invece diventato un principio economico della destra.
Nei tempi moderni i criteri che differenziavano nettamente destra e sinistra sono diventati più sfumati e talvolta si sono sovrapposti tra le due parti. Al tempo della Rivoluzione la Sinistra rappresentava solo la Borghesia e nessuno aveva mai pensato di dare una rappresentanza ai contadini e agli operai.
Successivamente, per rappresentare questi ultimi che costituivano la maggioranza dei francesi, si formò il ”Quarto Stato”. Con quel completamento della rappresentanza popolare venne realizzata perfettamente la “democrazia”, ovverossia il “governo del popolo” (da “Demos” = popolo; e “Kratos” = potere). Il concetto di “governo del popolo” o “potere al popolo” iniziò a prendere piede negli anni successivi al 1789 anche nella politica degli altri stati del mondo occidentale.
La “democrazia” emerse francamente in Italia con le elezioni del 18 aprile 1948. In quella data, finita la Monarchia, iniziò la Repubblica. Tutti gli italiani, senza distinzione, vennero chiamati a votare per eleggere i membri della Camera dei deputati e del Senato. Questo atto segnò il momento storico di inizio della “democrazia rappresentativa”. Votarono il 92% degli italiani. Fu quello il momento di reale conferimento al popolo del “potere” di governare e “controllare i politici eletti” attraverso elezioni periodiche. I partiti più votati furono la Democrazia cristiana, il partito Comunista italiano, il partito Socialista italiano. Grosso modo corrispondevano agli stessi partiti popolari e borghesi che nell’Assembla Nazionale e nell’Assemblea Costituente della Rivoluzione francese erano i rappresentati dal terzo e quarto stato. Nei decenni successivi al 1948 le differenze ideologiche fra quei partiti si attenuarono moltissimo fino, talvolta, a sovrapporsi.
La massima espressione democratica in Italia si concretizzò con la Riforma sanitaria di Tina Anselmi nel 1978 (due secoli dopo la Rivoluzione Francese) e nacquero le USL (Unità Sanitarie Locali). Tutte le Regioni e Province, vennero suddivise in USL. Ciò venne fatto ad imitazione della grande riforma sanitaria nazionale organizzata dal governo rivoluzionario francese. Una delle menti illuminate rivoluzionarie che avevano attuato la riforma sanitaria francese fu Jean-Paul Marat, triumviro con Georges Jacques Danton e Maximilien Robespierre. Costui era figlio di un sardo cagliaritano, di cognome “Marras”, che pronunciato in francese diventa “Marà”. Successivamente con l’aggiunta di una “t” divenne “Marat”.
Per seguire il piano di Riforma preparato da Marat e soci, tutto il territorio francese venne suddiviso in distretti sanitari e ad ogni distretto furono attribuiti ospedali e medici territoriali. Il numero dei medici era in rapporto alla popolazione (da 7 a 12 ogni 10.000 abitanti). Gli ospedali all’inizio vennero progettati per avere 1.200 posti letto, poi si pensò che fosse meglio decentrare i grandi ospedali, suddividendoli in tanti piccoli ospedali di 150-200 posti letto. Quegli ospedali furono i primi, nella storia della medicina, a far collaborare i medici internisti con i chirurghi, cosicché iniziarono a esistere reparti di medicina e di chirurgia affiancati che collaboravano. Fino ad allora, in nessuna parte del mondo occidentale, fra di essi era mai esistita alcuna affinità. Fu l’evento che fece evolvere la medicina ospedaliera, e che venne copiato poi da tutta Europa. I padri di quella riforma furono grandi personaggi della medicina e chirurgia, come Cabanìs, Desault, Guillotin, Corvisart, Chaussier, Fourcroy e Deschamps. Tutti medici rivoluzionari.
La grande novità rivoluzionaria che essi introdussero fu l’assistenza sanitaria di Stato gratuita per tutti, “dalla culla alla tomba”. Dietro quelle innovazioni c’erano i valori maturati nel “secolo dei Lumi” francese con Voltaire, Rousseau e Montesquieu. Senza il “Contratto Sociale” di Jean-Jacques Rousseau nessuno al mondo avrebbe mai capito perché solo in regime di Democrazia viene riconosciuta la sovranità popolare, il decentramento del governo, la suddivisione dei poteri e la partecipazione diretta dei cittadini al governo della Sanità pubblica.
Lo slogan dei medici illuministi  “la sanità per tutti dalla culla alla tomba” fu anche lo slogan che risuonò in tutti gli anni 1980 in Italia quando si parlò della Sanità italiana come della Sanità più bella del mondo. Nel 1978, su quella basi storiche, il ministro Tina Anselmi introdusse la sua Riforma sanitaria.
Tutto questo vien raccontato per rimarcare la leggerezza con cui, l’enorme valore storico e morale contenuto nella Riforma sanitaria del 1978, venne soppresso dalla modestissima Riforma sanitaria di Francesco di Lorenzo. Riforma nata nel 1992, sulle ceneri della disfatta morale dell’Italia di quell’anno.
La gestione politica delle USL nate dalla Riforma Anselmi del 1978 venne consegnata nelle mani dei rappresentanti popolari del territorio di appartenenza (“democrazia diretta” alla Rousseau); mentre la sola la gestione amministrativa venne affidata ai tecnici amministrativi. Ciò non si ripetè con Di Lorenzo.
Il nostro territorio del Sulcis Iglesiente, dal 1980 al 1992, con questa perfetta collaborazione tra politici eletti e corpo amministrativo, venne distinto nelle due USL: USL 16 (Iglesias) e USL 17 (Carbonia).
A capo della USL 17 venne posto un cittadino di Carbonia: Antonio Zidda. Suo vice fu un cittadino di Sant’Antioco: Andrea Siddi. Il consiglio d’Amministrazione era costituito da rappresentanti di tutti i Comuni del Sulcis. Sotto tutte le amministrazioni che seguirono gli ospedali Sirai, CTO e Santa Barbara crebbero in dotazione di personale e tecnologia. Non esisteva il problema delle liste d’attesa e dei posti letto. Chi ricorda il Sirai ricorderà anche che il dottor Enrico Pasqui, Direttore sanitario, aveva creato con propria iniziativa un reparto di 40 posti letto chiamato “Medicina seconda”, situato in un padiglione separato dal corpo centrale. In esso trovavano ricovero i pazienti che, dimessi ma ancora da riabilitare, non potevano tornare in famiglia. Il dottor Enrico Pasqui aveva inventato una “RSA” anzitempo. Essa aveva il vantaggio di essere circondata da tutti i servizi: il personale sanitario, la mensa, la farmacia, il laboratorio analisi e gli specialisti medici. Le famiglie in difficoltà ebbero così un grande aiuto senza oneri aggiuntivi. Furono gli anni migliori della Sanità pubblica del Sulcis Iglesiente. Poi arrivò l’anno della svolta: il 1992.
Fu l’anno di “ Tangentopoli”. Gli inquirenti avevano scoperto a Milano un giro d’affari illegale che coinvolgeva anche uomini politici. Si trattava di figure di secondo piano di diversi partiti della maggioranza di Governo. Lo scandalo si estese a tutta l’Italia e provocò la fine di un’epoca iniziata con la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio della Repubblica. In quello stesso anno iniziò la reazione contro i partiti e, ovunque fossero presenti amministratori eletti dalla politica, si supponeva l’esistenza di malaffare. In breve tempo i politici vennero allontanati da tutte le amministrazioni dello Stato, fra cui le USL. Alla fine del 1992 il ministro Francesco Di Lorenzo abolì la riforma sanitaria di Tina Anselmi e ideò una sua riforma tesa a ottenere un unico fine: eliminare i politici dalle amministrazioni delle USL. Per questo trasformò le USL in ASL (Aziende Sanitarie Locali) in cui la struttura burocratica dell’amministrazione, privata della presenza dei politici, assunse tutti i poteri. I sindaci vennero di fatto espulsi dal controllo della Sanità. Il comando dell’Azienda assunse una struttura verticistica e venne consegnato nelle mani dei “Manager”: figure apicali, con pieni poteri, create allo scopo di mantenere l’equilibrio di bilancio e fare profitto aziendale. Dopo il ministro Di Lorenzo divennero ministri alla Sanità Maria Pia Garavaglia e poi Rosy Bindi. Costei con la legge 229/99 potenziò ulteriormente la “mission” privatistica delle ASL attraverso l’articolo 3 che recita: «Le Unità Sanitarie Locali si costituiscono in azienda con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale; sono disciplinate con Atto aziendale di diritto privato». A dirigere le Aziende Sanitarie Pubbliche vennero incaricati i “manager”. Con questo atto i sindaci vennero definitivamente esclusi dal controllo della Sanità dei loro territori. Era avvenuto un fatto anti-storico: i politici di Sinistra avevano posto ai vertici della Sanità Pubblica una struttura amministrativa “non” elettiva. Così era avvenuto che ministri di partiti di centrosinistra avevano adottato una legge che, ai tempi dell’Assemblea Nazionale del 1789, sarebbe stata considerata di destra, cioè partorita dal “Primo” e “Secondo Stato”. Jean-Jacques Rousseau avrebbe condannato questa legge come lesiva del “diritto naturale” dei popoli alla “democrazia diretta” e avrebbe condannato l’accentramento dei poteri in poche mani “non elettive”, non controllabili dai cittadini.
Nella stessa legge 229/99 comparvero provvedimenti che consentirono, all’interno della Sanità pubblica, la coesistenza della “sanità a pagamento “ contro il principio rivoluzionario della sanità gratuita per tutti “dalla culla alla tomba”. Rosy Bindi aveva introdotto i ticket sui farmaci e le visite. La Sanità a pagamento si aggravò nel decennio successivo quando i Governi, di tutte le parti politiche, allo scopo di risparmiare, ridussero il personale e i posti letto negli ospedali pubblici. Le carenze assistenziali prodotte da questo provvedimento indussero forzosamente la popolazione a cercare le cure presso strutture sanitarie private. Era avvenuto un ribaltamento dei principi di solidarietà ispiratori della Sanità pubblica.
Con l’accettazione, da parte della Sinistra, di metodi di gestione economico-sociale di Destra, stava avvenendo uno scambio di ruoli tipici delle destra storica con quelli tipici della sinistra storica. Ancora oggi i manager continuano a mantenere chiusi ospedali e reparti specialistici. Del resto, i manager hanno un mandato con un obiettivo che prevale su tutti: quello di proteggere il bilancio aziendale, riducendo la spesa e creando profitto. La funzione di ascoltare l’opinione dei cittadini e curarne gli interessi appartiene alla politica, ma la politica territoriale è stata disarmata dai tempi di Francesco Di Lorenzo ad oggi. Solo qualche raro sindaco agguerrito riesce a proteggere un po’ l’ospedale della propria città. Questa inversione-scambio dei valori storici e del concetto di “democrazia” era iniziato nel 1992 col governo Amato. In sostanza, costui che in altri tempi, per suo orientamento politico, sarebbe stato un rappresentante del Terzo e del Quarto Stato (operai, contadini, borghesia), introdusse tecniche di accentramento di potere e di eliminazione di “democrazia diretta”, esattamente come avrebbero fatto il “Primo” e il “Secondo Stato” pre-rivoluzionario francese. Tale comportamento antistorico è continuato con tutti i Governi che si sono succeduti. Tutti hanno escluso il principio di Jean-Jacques Rousseau della “democrazia diretta” nell’amministrazione della Sanità pubblica. La soppressione della rappresentanza democratica territoriale per il controllo delle ASL è persistente e oggi è evidente che quel metodo ha fallito.

Mario Marroccu

Nella Storia, chi fosse l’autorità competente a gestire il “fine vita”, non venne mai messa in discussione: era per tutti un’esclusiva del “destino”. Per questo i medici, dall’antichità fino al 1800-1900 ritennero d’avere solo il compito di alleviare le sofferenze del malato e non si illusero mai d’avere il potere di contrastare la morte. Agli inizi del 1800, Edward Jenner diffuse la vaccinazione antivaiolosa e avvenne per la prima volta il crollo della la mortalità ritenuta obbligata. Città come Londra o Napoli, che avevano 40.000 morti l’anno per vaiolo, videro crollare il numero dei morti a poche centinaia l’anno. Fu un successo entusiasmante e la medicina ufficiale cominciò a pensare che fossero maturi i tempi per attenuare l’ineluttabilità della morte e si iniziò ad alimentare l’illusione di poterla domare prevenendola, o ritardandola, o impedendola, o, perlomeno, programmandola. Coi successi della medicina del ventesimo secolo si passò dalla illusione alla certezza che con la “morte” si possa aprire una trattativa. I medici cominciarono ad opporle tecniche di “rianimazione” sempre più avanzate, terapie efficaci contro le infezioni batteriche: gli antibiotici. Sempre nel 1900, si scoprirono i gruppi sanguigni e il metodo di rendere il sangue incoagulabile: ne conseguì il sereno uso delle emotrasfusioni. Poi, più recentemente, comparvero le tecnologie per il sostegno automatizzato alle funzioni vitali del cuore, polmoni e reni; infine, giunsero i trapianti d’organo e lo sviluppo di una nuova scienza: l’Immunologia.
I veri successi erano iniziati con la fine della Seconda Guerra Mondiale: la grande macelleria conclusasi con la strage delle bombe nucleari di Hiroshima e Nagasaki.
– Nell’anno 1948 il nuovo Governo Italiano, approvò la Costituzione della Repubblica. Essa, negli articoli 2 e 32 dichiarava il diritto fondamenta le di ogni individuo alla vita e alla salute.
– Nello stesso anno 1948 iniziò la diffusione in Italia dell’antibiotico “penicillina” scoperto da Fleming.
Con gli antibiotici, e le nuove tecnologie di rianimazione, la sopravvivenza dei malati alle malattie mortifere aumentò sempre più; anche quelli ritenuti gravissimi iniziarono a sopravvivere per molti mesi, seppur condannati da mali incurabili. Allora cominciò a circolare una nuova espressione: “accanimento terapeutico”. Con questa espressione si intendeva indicare l’impiego illimitato di terapie, che pur efficaci e costose, non modificavano il triste destino finale del paziente.
– Nel 1957 il papa Pio XII fece uno storico discorso agli anestesisti. In esso, pur incoraggiandoli ad applicare tutti i loro sforzi rianimatori, sostenne che la Chiesa riteneva illecito l’impiego di pratiche inutili assimilabili ad un “accanimento terapeutico”. Sostenne invece la liceità della “sedazione profonda” nei pazienti con dolore intollerabile, per malattie incurabili, e destinati ad un fine vita sotto atroci sofferenze.
– Negli stessi anni, dal 1950 in poi, prese piede l’impiego esteso delle “cure palliative” per pazienti incurabili. Il termine “palliativo” viene dal latino “pallium” che tradotto è il “mantello”. Come un mantello che serve ad attenuare il freddo quelle cure non mirano alla guarigione ma alla gestione del dolore e delle altre sofferenze per portare un po’ di benessere al paziente e alla famiglia. Le cure palliative servono a migliorare la qualità della vita finale.
– Dal 1990 circa si diffusero le RSA (Residenze Sanitarie Assistite) e contemporaneamente iniziò la riduzione dei posti letto negli ospedali pubblici. I malati incurabili finirono i loro giorni nella casa di famiglia oppure come ospiti delle RSA.
Il “diritto” alla salute e alla vita dichiarati nella Costituzione sono un nobile intento, tuttavia la concreta realizzazione di quel principio inviolabile ha ancora un percorso lungo e difficile da fare. Il conflitto tra ciò che si desidera e ciò che è realmente possibile, sta facendo emergere altre esigenze che prima erano impensabili e che oggi i Governi devono affrontare.
– Il successo tecnologico della medicina, mirato all’allungamento della possibilità di sopravvivenza, sta facendo entrare in gioco l’articolo 13 della Costituzione. Esso tutela l’”autodeterminazione” del cittadino, cioè il diritto alle “libertà personali”. Tale libertà si esplica anche nella libera scelta sull’accettazione o meno dei trattamenti sanitari. La stessa “carta dei diritti fondamentali” della Comunità Europea, oltre a stabilire il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione, stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne casi particolari previsti dalla legge.
– La legge n. 219 del 2017 confermò l’importanza del “consenso informato” ai trattamenti sanitari e il diritto del paziente di imporre le proprie “Disposizioni Anticipate di Trattamento” (DAT).

In sostanza: dal 1948 ad oggi, sia le autorità morali religiose che quelle laiche hanno dichiarato che nessuno dovrebbe subire trattamenti sanitari contro la propria volontà. Ognuno è libero di decidere se sottoporsi o meno alle cure, dopo essere stato adeguatamente informato sui rischi e benefici e implicazioni sulla qualità della vita futura.
Le DAT sono le dichiarazioni del paziente che, in previsione di una futura ipotetica malattia invalidante che comporti l’incapacità di autodeterminarsi, servono ad orientare i curanti sulla loro azione terapeutica senza andare contro la volontà del paziente.
Questa legge è stata utilizzata da pazienti che non intendevano curarsi, ma preferivano accelerare i tempi del decesso tramite l’assunzione di farmaci in dosi letali. In questo nuovo scenario sono entrate nuove figure: i sanitari che hanno somministrato i farmaci letali. Quando questo è avvenuto vi è stata anche l’autodenuncia pubblica degli autori della somministrazione. Al chè l’autorità giudiziaria non ha potuto esimersi dall’intervenire contestando il reato ipotizzato dall’articolo 580 del Codice Penale; “istigazione al suicidio”.
Il processo si concluse a favore dei medici somministratori dei farmaci in dose letale.
– Nel 2019 la Corte Costituzionale, con sentenza n. 242, dichiarò l’incostituzionalità del suddetto articolo 580 del C.P. con questa motivazione: «… non è punibile chi agevola una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che essa reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli di porre fine alla propria vita, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una STRUTTURA PUBBLICA DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE previo parere del COMITATO ETICO territorialmente competente» (sentenza sul caso Cappato).
Oggi, dalle varie parti politiche in Parlamento, viene avanzata la richiesta di regolamentare con legge il “fine vita” e recentemente è stato pubblicato il testo proposto dal Governo.
Sintesi della legge sul “fine vita” da discutere in Parlamento:
– Articolo 1: sostiene che la Repubblica assicura la tutela della vita di ognuno senza distinzione.
– Articolo 2: “non è punibile chi agevola una persona, nel proposito di morire, qualora sia maggiorenne, capace di intendere e volere, sotto cure palliative, tenuta in vita da trattamenti sostitutivi delle funzioni vitali, e che sia affetta da patologie irreversibili, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili, le cui condizioni siano state accertate dal Comitato Nazionale di valutazione (legge 833/78).
– Articoli 3 e 4: indicano l’iter burocratico per accedere al Comitato di Valutazione che dichiari la validità della richiesta di autorizzazione. Inoltre, indica in AGENAS il compito di fungere da osservatorio sulle Regioni che devono approntare un piano per le cure palliative domiciliari che possa raggiungere almeno il 90 per cento dei cittadini.
– Articolo 4: alla fine di questo articolo è stata inserita una postilla che così dice: «Il Personale del Servizio Sanitario Nazionale, gli strumenti e i farmaci dello stesso NON POSSONO essere impiegati al fine della agevolazione del proposito di fine vita considerato dalla sentenza della Corte Costituzionale del 22 Novembre 2019, n. 242».
In sostanza, si sostiene che le procedure di “ fine vita” programmate non possono essere offerte dal Servizio Sanitario Nazionale. Ne consegue che il paziente che ha ottenuto l’autorizzazione dal Comitato di Valutazione deve accedere al “fine vita” attraverso canali privati. La procedura sarà, dunque, da eseguirsi in luoghi privati, con medici e infermieri privati, con strumenti e farmaci a spese del richiedente.
Da quanto elencato, si evince che questo iter è complesso e costoso. Così pure è complessa e costosa la proposta del piano di allestire un servizio per le cure palliative domiciliari. Sembrerebbe molto difficile sia per la carenza specifica di specialisti, sia per la coesistenza degli enormi problemi organizzativi ed economici in cui si dibatte il Servizio Sanitario Nazionale. Si può supporre che le difficoltà saranno esaltate sia dall’intervento sul tema delle diverse sensibilità morali, religiose e laiche, sia per l’impegno burocratico che renderà necessaria una complessa struttura “ad hoc” di nuova organizzazione.
Le “cure palliative” oggi sono prevalentemente in mano alle famiglie che, in solitudine devono sostenere spese importanti sia per i professionisti sanitari da compensare, sia per il consumo di presidi, sia per l’adattamento degli ambienti casalinghi.
Nel caso della “sedazione profonda” il tutto si complica. Essa consiste nella induzione di una sorta di “coma farmacologico” nel paziente che lo ha richiesto. Questa tecnica si avvale di farmaci ipnotici rapidi, di oppiacei analgesici e di sedativi, allo scopo di ridurre l’ansia, il dolore, e anche la memoria.

L’associazione dei tre farmaci elimina lo stato di coscienza con perdita totale del controllo del cervello.
Ciò è necessario per rimuovere la percezione del dolore, l’angoscia, e la memorizzazione della sofferenza. Lo scopo che si deve porre colui che esegue la procedura è quello di rendere incosciente il cervello, ma stando attento a non far danni al centro nervoso del respiro che sta nel cervello. Ciò rende necessario l’avere a disposizione tre strumenti:
1 – farmaci dosati accuratamente;
2 – apparecchi respiratori di soccorso in caso di apnea;
3 – personale addestrato.
In sostanza, si deve creare un ambiente simile ad una piccola “Rianimazione” ospedaliera.
Si può fare la procedura a domicilio del paziente come si fa con le cure palliative? Sì, ma sarebbe molto costoso. Gli ambienti adatti sono gli ospedali e gli hospice. In questi luoghi si porrà il problema del personale e dei posti letto. Ieri, 6 luglio 2025, l’Unione Sarda dedica le pagine 1, 2 e 3 allo enorme problema della carenza di personale e dei posti letto negli ospedali pubblici sardi. Questo è quanto si prospetta per pazienti comuni di routine.
Il problema che emergerà con i pazienti moribondi che vogliono accedere al “fine vita” è molto più grande. Vi sarà il problema della formazione e funzionamento delle Commissioni Valutative che dovranno programmare la dinamica conclusiva. Non vanno trascurati i problemi etici e psicologici che interesseranno gli operatori e i familiari. E’ bene specificare che, nonostante la terminologia contenuta nell’espressione “suicidio assistito”, questi poveri pazienti non vanno assimilati al comune suicida per motivi esistenziali, che soffre per il motivo stesso di esistere e “non vogliono” vivere. Nel nostro caso si tratta di pazienti morenti per un male incurabile, che “vogliono” vivere ma senza soffrire. La sofferenza e l’angoscia della morte, comunque imminente, fanno optare per l’assunzione di farmaci che fanno perdere la coscienza e, con essa, le attività vitali del sistema respiratorio e cardiocircolatorio.
Esiste un altro problema etico procedurale: al fine di estraniare il più possibile gli operatori dalla dinamica che indurrà il “fine vita”, una parte del mondo politico vuole che sia il paziente stesso ad auto-somministrarsi la miscela di farmaci letali. Si può immaginare che vi sarà opposizione sia su questo punto sia sulla indisponibilità del Sistema Sanitario Nazionale a queste funzioni.
Sarà una discussione incredibile che rimetterà tutto in gioco: l’accanimento terapeutico, la sedazione profonda, il Sistema Sanitario Nazionale, la morale.

Mario Marroccu

Abbiamo vissuto il tempo della sanità gratuita per tutti “dalla culla alla tomba”. Poi è venuto il tempo della Sanità a ranghi ridotti per risparmiare, e abbiamo cominciato a pagare esami e visite specialistiche. Adesso inizia il terzo tempo della “curva discendente” della Sanità pubblica: quello della nostra salute affidata alle assicurazioni. Ne esistono già i segni premonitori. Il giorno 24 giugno, la più nota emittente radiofonica italiana dedicata ai fatti economici, ha pubblicizzato la LTC (Long Term Care). Si tratta di un’assicurazione sanitaria per ottenere cure a lungo termine. Protegge dal rischio della perdita di autosufficienza in caso di malattie croniche inabilitanti. L’obiettivo della LTC è fornire un sostegno economico per coprire le spese sanitarie sia domiciliari sia in strutture specialistiche.

Durante la trasmissione ha chiamato un ascoltatore per dire quanto segue: «…io sono un lavoratore autonomo che sta andando in quiescenza con una pensione di 1.600 euro al mese. Supponiamo che riesca a destinare 100 euro mensili per l’acquisto della polizza LTC, quanto varranno quei 100 euro fra 10 anni?. Varranno tanto da pagarmi le spese di riabilitazione o di stipendiare una badante?»

I giornalisti hanno risposto: «E’ chiaro che non basteranno; infatti la polizza prevede che lei versi all’assicurazione anche tutto il suo TFR, cioè la liquidazione che riceverà andando in pensione». Si tratta di quella liquidazione che ogni pensionando attende per ripianare tanti debiti, per pagare le rate dell’auto, del mutuo della casa, dei lavori di manutenzione, eccetera. E’ evidente che il lavoratore e il pensionato medio non potranno rinunciare alla liquidazione. Potranno sottoscrivere quella polizza solo i titolari di redditi e pensioni corpose, cioè coloro che, comunque, potrebbero permettersi di pagare una badante, o il fisioterapista o la dialisi privata.

Il punto è questo: i super-pensionandi agiati non sono una preoccupazione. Sono una preoccupazione i titolari di piccoli e medi redditi e pensioni, cioè la maggioranza. Morale: l’assicurazione “long term care” non mette al sicuro la quasi totalità degli italiani con finanze appena autosufficienti. Soltanto lo Stato ha ancora il potere di proteggerli dalle difficoltà che dovrà affrontare la Sanità pubblica. E’ noto che i problemi internazionali, i dazi, le guerre, il riarmo, impegnano le risorse dello Stato in altre emergenze. Ci resta allora la possibilità di chiedere un maggiore sforzo in assistenza sanitaria alle Regioni. Esse negli ultimi decenni si sono impegnate a produrre leggi sanitarie regionali dedicate alla creazione di nuove “strutture organizzative” dotate di organigrammi amministrativi complessi. Si tratta di leggi ostiche, formulate con linguaggio burocratico poco comprensibile. Nonostante nella premessa di quelle leggi venga proclamato lo scopo di dare migliori servizi sanitari alla popolazione poi, negli articoli che seguono, il “malato” non viene neppure citato. Vengono invece elencati gli incarichi da dare alle gerarchie degli organi direttivi di nuove strutture più o meno utili.

Pertanto, anche l’interlocutore “Regione” non è facile da interpellare. Ci rimangono i sindaci: gli unici, concreti, presenti e avvicinabili rappresentanti delle popolazioni territoriali.

Visto che non si possono affidare le cure dei malati cronici, soprattutto degli anziani, ad aziende private, è necessario che i sindaci prendano l’iniziativa di proteggere i cittadini dalle prospettive illustrate dalle assicurazioni. Esse, infatti, sostengono che le polizze per le “ Cure a lungo termine” non vengono proposte al malato cronico in sé, ma ai suoi conviventi e segnatamente ai figli. La motivazione è la seguente: « … nel caso in cui un parente convivente, padre o madre, avrà bisogno delle cure che lo Stato non potrà più dare, i costi dovranno essere sostenuti dai familiari che hanno un reddito: in genere i figli. Pertanto, se i figli non vogliono finire nel baratro delle spese per l’anziano genitore o dell’inabile a carico, è meglio che si convincano che devono essi stessi acquistare la polizza assicurativa LTC». Ecco: il cerchio è chiuso. Purtroppo, ciò sta avvenendo in tempi in cui la tecnologia digitale sta riducendo progressivamente i posti di lavoro dipendente nelle banche, nei supermercati, nelle attività amministrative, nelle università, nelle fabbriche, nei servizi pubblici, eccetera. La circolazione del danaro dedicato agli stipendi si sta limitando e si sta spostando in un altro circuito più ristretto; ciò avviene a causa della sostituzione digitale di molte funzioni burocratiche. Così i soldi si fermano in mano ai gestori delle grandi reti digitali. E’ previsto che tale fenomeno aumenterà con l’arrivo della Intelligenza Artificiale (A.I.) nel mondo del lavoro. In un mondo così preso nell’ingranaggio digitale, come lo stanno ipotizzando gli economisti e i sociologi, chi potrà pagarsi una badante per assistere il parente non autosufficiente?

Inoltre, considerato che i vecchi non autosufficienti aumenteranno, mentre i giovani diminuiranno, chi riuscirà a pagare l’assistenza sociale e sanitaria per tutti i richiedenti  Si prospetta un incubo. Tutti insieme potremmo contrastare i danni. «Tutti insieme», come? Attraverso il senso di appartenenza ad una comunità solidale. Tale appartenenza non può frammentarsi in divisioni correntizie. Sarebbe ideale avere una rappresentanza locale, unificante e governante, espressa dalla fiducia di tutti. Ci serve l’abolizione dalla “fede cieca” nei potentati e l’applicazione di un metodo scientifico nel momento in cui votando sceglieremo il candidato a governarci. Come diceva Galileo «credi in quello che vedi, che tocchi, che sperimenti personalmente, che critichi, che puoi rifare e migliorare». Cioè credere che la verità sia solo quella empirica (basata sull’esperienza vissuta e personale), che si presti alla revisione, al controllo e alla correzione. Bene fanno gli americani che dopo due anni dall’elezione del Presidente rinnovano il rito del voto ai parlamentari. Si chiamano “elezioni di medio termine”. I parlamentari eletti, che dopo due anni non abbiano attuato le promesse dei programmi amministrativi, vengono rimandati a casa. Fra un anno e mezzo, in America, verrà rieletto il Parlamento. Se Trump non avrà soddisfatto il contratto elettorale, i suoi elettori si libereranno dei suoi parlamentari inadempienti e li rimanderanno a casa; lui andrà in minoranza e verrà messo sotto stretto controllo da un’opposizione più vasta. Questo è il vero segreto dell’efficienza della democrazia in America: il popolo può liberasi del parlamentare inadempiente. In quel caso il potere dato ai politici governanti è controbilanciato dal potere dato al popolo di rimandare a casa dopo due anni coloro che non hanno rispettato gli impegni presi. Stessa cosa si fa con gli alti dirigenti delle agenzie di stato con lo “Spoil system”. Nessun potente è al sicuro per sempre.

In Italia invece non esiste l’istituto delle “elezioni di medio termine”. Il popolo italiano non ha i poteri per controbilanciare il potere perenne del governante eletto. Ne consegue che i parlamentari eletti possono eludere le promesse elettorali senza correre il rischio di perdere il posto, l’autorità e lo stipendio, per 5 anni.

Questa mancanza di potere impedisce ai cittadini di far sentire la forza del loro controllo sulla Sanità. Fino al 1992, le USL (Unità Sanitarie Locali) erano gestite e controllate dai Sindaci tramite il Presidente. Di fatto l’incarico al Presidente di gestire la USL, avveniva per elezione popolare indiretta e il programma amministrativo era un vero “contratto”. Se il sindaco non rispettava il contratto veniva rimandato a casa con le elezioni comunali successive. Fu il periodo migliore della sanità pubblica. Poi, dopo il 1992, con Francesco de Lorenzo, Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi vennero prodotte leggi di riforma sanitaria che abolirono la presenza democratica di rappresentanti politici eletti dalle amministrazioni sanitarie territoriali. Lo fecero con un semplice marchingegno: abolirono le USL e le trasformarono in ASL (Aziende Sanitarie Locali). In tal modo poterono creare i “Manager”, figure non elette, messe a capo delle Sanità territoriali, e le svincolarono dal controllo della politica locale. Cioè le svincolarono dai sindaci. Questo fu l’inizio della fine. Dal 2000 i governi successivi produssero leggi ancora più rigide. Per il controllo della spesa pubblica si procedette alla riduzione del personale sanitario, dei servizi ospedalieri e iniziò il tempo degli accorpamenti di ASL e ospedali. Si raggiunse l’acme del rigore dopo la crisi di Goldman-Sachs nel 2008, la crisi economica internazionale che ne conseguì e l’aumento vertiginoso dello spread in Italia. I governi caddero e si dovette affidare l’Italia al rigorosissimo governo Monti, il quale avviò ulteriori restrizioni sanitarie. La sanità pubblica divenne un’esclusiva organizzazione burocratica, e i sindaci e le gerarchie sanitarie ospedaliere vennero estraniate definitivamente dalla gestione della Sanità. I “Manager” non stabilirono canali di comunicazione con le popolazioni e iniziarono a prendere direttive soltanto dalla burocrazia regionale. Tali strutture avevano un chiara “mission”: spendere il meno possibile.

Il nuovo modo di gestire la Sanità pubblica portò alla riduzione progressiva di Unità Operative Specialistiche ospedaliere, e alla scomparsa di molte migliaia di posti letto. Fino a quel periodo, tra i 1992 e 2000, all’ospedale Sirai di Carbonia avevamo 384 posti letto. Oggi, per effetto di quei fatti storici, i posti letto sono ridotti a un centinaio.

Il “Consiglio dei sanitari” che supportava il presidente della USL, fino a tutto il 1992, era formato da tutti i primari, da un rappresentante degli Aiuti medici e da uno dei tecnici. Esso era un istituto fondamentale per dare al Presidente della USL tutte le informazioni corrette sullo stato della Sanità pubblica, reparto per reparto. Dopo la eliminazione di quel Consiglio, il controllo di tutto il sistema dei reparti ospedalieri passò nelle mani della sola burocrazia Regionale che sapeva tutto sulla contabilità ma nulla sui malati. Era avvenuto un cambiamento importante: il “contratto” fra i cittadini e i politici eletti al governo della Regione finì: si passò dal “contratto” di atti concreti, richiesti dalla base elettorale, a semplici “promesse elettorali”. Le “promesse” sono generiche dichiarazioni sull’intenzione di fare “il bene di tutti” senza la garanzia di un sistema di controllo. Il potere di controbilanciamento al potere dei politici eletti, come nel caso dell’elettorato americano, in Italia non esiste. Così i politici, dissociatisi dal controllo dei cittadini elettori, passarono ad un rapporto diretto con i soli apparati amministrativi.

Per capire il cambiamento di mentalità avvenuto, basta leggere i testi delle leggi sanitarie varate da allora in poi: sono in linguaggio molto tecnico, riservato agli addetti, fatto di richiami ad altre leggi: sostanzialmente incomprensibili. Tanto incomprensibili che probabilmente quei testi non vennero totalmente capiti neppure dagli stessi consiglieri che poi li avrebbero votati.

Oggi, con l’incubo del futuro che arriva, è facile immaginare il fallimento sanitario che porterà povertà alle famiglie. Povertà dovuta alle spese che ogni cittadino dovrà sobbarcarsi per assistere i familiari non autosufficienti. Lo hanno capito con grande anticipo le assicurazioni private che stanno propagandando le polizze LTC (“cure a lungo termine”).

Che fare? Da queste premesse sembrerebbe necessario:

– Nominare, come Presidente della ASL, un sindaco con funzioni di controllo e verifica sulla gestione.

– Pretendere un “contratto elettorale”, per i candidati al Consiglio regionale, che contenga delle penalità, e decadenza, per chi non lo rispetta;

– Restituire autonomia gestionale al Consiglio dei sanitari.

– Associare il “Consiglio dei sanitari” alla “Commissione sanitaria provinciale” formata dai sindaci del territorio, con funzioni di controllo, verifica e proposta.

L’alternativa è: rassegnarsi e cedere alle assicurazioni private il controllo della Sanità.

Mario Marroccu

Le assicurazioni americane stanno piazzando nel mercato un nuovo prodotto di successo: una copertura assicurativa per proteggersi dal “rischio di vivere a lungo” Non si era mai sentita nella Storia una frase del genere: è un’“americanata”? Purtroppo, no. In realtà i promotori di quella iniziativa mettono in guardia gli anziani che stanno troppo bene, e che hanno prospettiva di raggiungere età più avanzate, sul pericolo che la somma accantonata per la loro assicurazione sanitaria sia appena sufficiente per coprirli fini all’età di 75-80 anni. Se dovessero vivere più a lungo non ci saranno più i fondi per essere assicurati in caso di malattia o l’invalidità. L’attuale ministro delle Finanze ne ha appena accennato ma mi pare che non sia stato ben compreso. Gli Americani invece hanno preso molto sul serio la proposta di acquisto di quel pacchetto assicurativo. Quelli che possono pagarlo lo stanno comprando. è molto inquietante ma, intendiamoci, tra Italia e America il Sistema Sanitario e sociale (Welfare) è diversissimo. Noi abbiamo la garanzia che lo Stato ci salverà e ci assisterà fino all’ultimo giorno di vita. Questa sicurezza sociale fu una conquista della legge 833/78 di Tina Anselmi. Purtroppo, oggi la sicurezza che avremo l’assistenza socio-sanitaria per tutti e per sempre è meno “granitica”; si può sgretolare da un momento all’altro.

Molto dipende dalla rivoluzione che si è abbattuta sul libero interscambio del mercato internazionale a causa dei dazi, delle guerre, delle sanzioni e della necessità di spostare al “riarmo” i fondi destinati al Wellfare. Tutto questo è aggravato da un altro evento storico che accade per la prima volta : l’andamento della “curva” demografica è cambiata a causa del forte aumento degli anziani e della forte diminuzione delle nascite. In cosa consiste? È molto semplice. la “curva” statistica della popolazione era fatta come un grande “triangolo”: il lato largo in basso del triangolo rappresentava il numero di giovani (da “zero” a “18 anni”); il vertice stretto del triangolo rappresentava il numero degli anziani non più attivi (dai 60 agli 80 anni circa). La parte del triangolo compresa tra la “base” e il “vertice “rappresentava il numero delle persone di età adulta ancora in età lavorativa tra i 18 e i 60 anni. Questa parte intermedia del triangolo era la più importante fonte di finanziamento delle spese dello Stato: si tratta, infatti, della parte della popolazione che lavora e produce reddito, cioè ricchezza e tasse da versare alle casse gestite dal Ministro delle Finanze. I fondi raccolti con le tasse servono allo Stato per mandare a scuola, assistere e curare i giovani dai “zero anni” ai “18”. Servono poi a dare l’assistenza sanitaria a “tutti” e per dare la pensione, sanità ed assistenza sociale agli anziani usciti dalla catena del lavoro produttivo. In America il sistema di finanziamento della assistenza sanitaria per le classi più agiate è rappresentato da un’assicurazione “personale”. Quell’assicurazione ha il difetto che quando i soldi versati sono stati esauriti cessa l’assistenza. I poveri hanno “Medicaid”, che è un’assistenza statale piuttosto modesta. In Italia il sistema di assistenza sanitaria invece è “solidale” ed è totale: i soldi raccolti con le tasse di chi produce reddito vanno a formare un’unica cassa che finanzia la Sanità Universale. Pertanto, è fondamentale che esista un alto numero di soggetti produttori di reddito e di tasse. Questi produttori di ricchezza e di tasse sono compresi fra i 18 e i 60 anni. Nel caso in cui gli appartenenti a queste classi di età diminuissero il Fondo Sanitario diminuirebbe. In tal caso, dato il forte numero di anziani usciti dal mondo del lavoro, e che necessitano di cure, i soldi non sarebbero più sufficienti per curarli. Potrebbe accadere che perdano il diritto ad essere curati come è avvenuto fino ad oggi.

Il ministro alle Finanze pochi giorni fa ci ha comunicato che che la “curva demografica” italiana è cambiata: adesso la base del “triangolo” demografico si è molto ristretta. Ciò significa che abbiamo meno giovani da avviare al mondo del lavoro e quindi avremo meno redditi da tassare. Per di più ci si è accorti che la parte intermedia della curva demografica (gli adulti) si è ristretta perché è fortemente diminuito il numero di coloro che lavorano producendo reddito. Oggi l’apporto di danaro verso il Ministero delle Finanze è diminuito e lo Stato comincia ad arrancare per garantire tutti i servizi sociali: dalla scuola alla giustizia, alla Sanità.

Il Sistema Pensionistico italiano si basa sul principio del sistema pensionistico “a ripartizione”. Si tratta di un modello in cui le pensioni vengono pagate a pensionati con i contributi versati all’INPS dai lavoratori attivi, creando un legame diretto tra le generazioni. Pertanto, le generazioni più giovani sostengono le generazioni più anziane sia per pagare le pensioni che vengono erogate ogni mese, sia per le spese sanitarie e assistenziali. Intendiamoci: l’anziano ha già pagato versando tasse e contributi tutto il suo periodo lavorativo; in cambio ha avuto la promessa che tutto il versato gli verrà restituito quando sarà in pensione, pertanto non è in debito con nessuno. Questo sistema “a ripartizione” è geniale ed è stato inventato quando esisteva un equilibrio numerico costante nella composizione tra le generazioni. Esiste un compenso tra i pensionati dato dal fatto che un certo numero di pensionati muoiono anticipatamente senza avere la fortuna di invecchiare. In tal caso i fondi versati e non goduti vanno a coloro che vivono più a lungo. Qui sta il punto dove il meccanismo si inceppa: mentre prima l’aspettativa di vita si fermava tra i 65 e 75 anni, oggi l’aspettativa di vita va dagli 83 agli 85 anni. Ne consegue che si sta vivendo in media 12 anni in più dei nostri predecessori vissuti nella prima metà del 1900. Pertanto, ne consegue che è possibile che coloro che oggi vivono molto più a lungo consumino precocemente i fondi lasciati a disposizione da chi ha versato tutto ma è deceduto in anticipo.

A questo si aggiungono 4 aggravanti.

Prima: è calcolato che l’85% dei fondi che ognuno di noi ha versato in tutta la sua vita lavorativa vengano consumati per spese di assistenza sanitaria nell’ultimo anno di vita.

Seconda: il numero di italiani in età lavorativa, che versano parte del loro reddito al Ministero delle Finanze, sta diminuendo velocemente.

Terza: dei 16 milioni di italiani che percepiscono la pensione, 8 milioni hanno versato in tasse una parte del loro reddito. Gli altri 8 milioni no (vedove, inabili al lavoro, redditi troppo bassi a livello di povertà).

Quarta: oggi in Italia stanno nascendo pochissimi bambini. Ne consegue che fra 18 anni ci saranno pochissimi cittadini in età di lavoro capaci di produrre reddito e tasse. In sostanza fra 18 anni non ci saranno i fondi per sostenere il pagamento delle pensioni e la spesa sanitaria e sociale.

Gli americani statunitensi, che hanno un pessimo sistema sanitario pubblico, sono già arrivati al problema della mancanza di fondi per garantire una serena vecchiaia agli anziani. La soluzione adottata per ora è l’invito ad acquistare un pacchetto assicurativo sanitario che protegga dal rischio di vivere troppo a lungo (“long life risk”). è evidente che tale soluzione vale solo per chi ha una forte disponibilità di danaro.

Anche da noi in Italia fioriranno proposte assicurative per «chi rischia di vivere troppo a lungo». Basare la nostra serenità sanitaria sulle Compagnie assicurative private non può essere considerata alla stregua di una soluzione sociale.

Guardando al dato demografico italiano emerge una conclusione inevitabile: bisogna agire subito per salvare questa e la prossima generazione dal fallimento del Sistema Sanitario e del Welfare. Il dato più vistoso fornito recentemente dall’INPS riguarda il capovolgimento del rapporto numerico fra giovani e anziani. In esso è evidente il crollo del numero di italiani in età lavorativa che producono reddito e gettito fiscale. Gettito che serve ai pensionati.

Orbene, il numero di italiani in età di lavoro redditizio, oggi è diminuito ma ancora sopportabile; purtroppo però è destinato a diminuire ulteriormente perché nascono sempre meno bambini, che sono i futuri lavoratori e contribuenti.

Il dato che illumina sul cosa fare sta nello studio analitico della demografia femminile. La componente femminile in età feconda si rivela in assoluto la componente più preziosa di una Società che vuole continuare ad esistere.

Nota bene: la popolazione femminile deve essere valutata con parametri assolutamente diversi da quelli usati per i maschi. I demografi ne classificano le coorti su un dato: la fecondità. Vengono considerate feconde le femmine tra i 15 e 49 anni. Sono considerate “non feconde” quelle in età precedenti i 15 anni e le età successive ai 49 anni. Questa classe della fecondità viene, a sua volta, distinta in una classe di “fecondità crescente” dai 15 ai 32 anni, e in una classe di “fecondità decrescente” dai 32 ai 49 anni.

– Secondo l’ISTAT le donne feconde in Italia 25 anni fa erano 13 milioni e 700.

– Invece le donne in età feconda dal 2024 (dati ISTAT) sono 11 milioni. Significa che in 25 anni abbiamo perduto in Italia ben “2 milioni e 700mila” donne feconde, cioè circa un quinto. Fra altri 25 anni (nel 2050) il numero delle donne feconde calerà di molti milioni ancora e sarà talmente basso da non garantire più la sopravvivenza della nazione italiana.

Il calo della natalità è dovuto a due fattori:

– la diminuzione dei nati per donna fertile;

– la diminuzione crescente del numero assoluto di donne fertili.

Questi due fenomeni vanno arrestati. Solo lo Stato può farlo. Il crollo progressivo della natalità per carenza di donne feconde iniziò nel 1992. Da allora il peggioramento non si è più arrestato. Dai nuovi nati di questi anni proverrà un numero ancora inferiore di femmine feconde e un ulteriore crollo della natalità. Ciò invertirà ulteriormente il rapporto fra giovani coorti attive nel lavoro e anziani non più produttivi.

I demografi sostengono che la natalità può essere considerata in buon equilibrio quando il rapporto di nuovi nati per donna (o coppia) fertile è pari a 2,1 per donna feconda. Questo felice rapporto numerico è stato mantenuto solo dai Paesi più evoluti del Nord-Europa e la Francia. Essi hanno attuato politiche di protezione della componente femminile feconda, sia assegnando adeguati sussidi di maternità, si garantendo asili nido e soprattutto la possibilità di continuare gli studi a spese dello Stato ed ottenere i diplomi e i lavori desiderati. Tutto ciò senza gravare sulle finanze familiari. Purtroppo, a causa del crollo della coorte di donne feconde oggi, in Italia, abbiamo una natalità di 1,2 bambini nati per donna. Questo valore dice che la popolazione Italiana sta viaggiando verso la sua estinzione.

In Sardegna, e in particolare nel Sulcis Iglesiente, il rapporto è crollato da 2,1 bambini per donna a 0,8 bambini per donna fertile. Significa che stiamo scomparendo, ma soprattutto significa che siamo già in una situazione di criticità di bilancio pensionistico a causa dell’assenza di una prossima generazione di giovani che dovranno sostituire coloro che oggi sono al lavoro. Mancheranno nuovi soggetti capaci di produrre un reddito per se stessi e per il finanziamento dello Stato sociale (pensioni e Sanità). A questo punto è chiaro il perché i cittadini americani stiano stipulando le convenzioni di assicurazione per il rischio che corrono i pensionati d’essere abbandonati a se stessi nel caso vivano più a lungo.

 

Questo è il dato concreto di cui non abbiamo mai parlato finché non lo ha pubblicamente dichiarato il Governo Italiano attraverso il Ministro delle Finanze.

A questo punto, il problema delle donne feconde che non danno alla luce nuovi bambini italiani è molto più grave persino delle guerre nel mondo. Abbiamo necessità di governanti che si mettano a studiare per trovare il modo corretto di restituire, alla parte femminile della società, la tranquillità e la sicurezza sociale per poter mettere al mondo i figli. C’è poco da fare: le assicurazioni non ci salveranno; ci salveranno le donne che sono in assoluto la parte più pregiata della società.

Mario Marroccu

Pensavamo in tanti che il sistema e l’organizzazione della sanità nel territorio della nostra Asl del Sulcis, in questi ulti anni, avesse toccato il fondo. Pensavamo, nel merito, con l’avvento della nuova giunta regionale della Todde, che fosse urgente e opportuno assumere provvedimenti per assicurare alla popolazione quei servizi ospedalieri e territoriali previsti e nell’ambito della normativa regionale tutt’ora in vigore.
In tanti, allo stato dei fatti, siamo costretti a prendere atto, viste le recenti affermazioni sulla stampa dell’assessore regionale alla sanità, che per la Asl del Sulcis, si aprono scenari e percorsi non solo inediti e inaspettati, che però non incidono minimamente sui gravi problemi che tutti i giorni vive il nostro sistema ospedaliero e territoriale e quindi la popolazione che ne subisce le preoccupanti e continue carenze.
L’assessore regionale della Sanità, infatti, con assoluta semplicità, nell’avanzare la possibile vocazione di un presidio ospedaliero, prende ad esempio il Sulcis e la popolazione molto anziana, per definire la missione del CTO e del Sirai per cui:
a. uno concentra la propria attività nella chirurgia con numeri da richiamare medici da Cagliari e oltre;
b. l’altro potrà svolgere l’attività soprattutto nella riabilitazione, anche con un reparto di ortopedia e geriatria.
L’assessore, su come affrontare e superare i problemi che tutti i giorni vive la nostra popolazione, non dice assolutamente nulla.
Tutto sembrerebbe rinviato a un ipotetico nuovo assetto prefigurato per il CTO e Sirai.
Si ha l’impressione, purtroppo, che l’assessore regionale non abbia quella necessaria consapevolezza di come è caratterizzato il nostro territorio e dei bisogni che concretamente vive la popolazione: non solo quella anziana.
Inoltre, l’assessore, trascura e forse ignora totalmente, che in Sardegna e quindi nel Sulcis, è in vigore la “Rete ospedaliera”, approvata dal Consiglio regionale il 25.10.2017, di cui molte parti nella nostra Asl restano ancora incompiute.
È in questo ambito che l’assessore dovrebbe prendere conoscenza che nella Asl del Sulcis l’assistenza ospedaliera dovrebbe essere garantita:
a) dal P.O. Sirai, a Carbonia, quale stabilimento DEA di I livello, multi-specialistico e punto di riferimento per le attività di Emergenza-Urgenza;
b) dal P.O. CTO a Iglesias, quale stabilimento DEA di I livello, per le attività programmate e polo materno infantile, con le funzioni di assistenza programmate previste per il pronto soccorso semplice.
c) dal P.O. Santa Barbara a Iglesias, quale stabilimento e nodo della rete territoriale regionale, Ospedale di comunità, Casa della Salute con servizi specialistici, polo riabilitativo (di cui 22 posti letto per lungodegenti e 31 posti letto di riabilitazione funzionale) e Hospice.
La rete ospedaliera in questione, trova le disposizioni contenute nel Documento del 25 ottobre 2017, con il quale il Consiglio regionale della Sardegna ha approvato la rete attualmente vigente, con una dotazione complessivi di 313 posti letto.
Per quanto riguarda invece l’assistenza territoriale, nella ASL Sulcis Iglesiente sono attualmente presenti 4 Case della Salute nei seguenti comuni: Carloforte, Sant’Antioco, Giba e Fluminimaggiore.
Infine, con il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), si prevede la realizzazione di due nuove Case della comunità:
– Una a Carbonia, presso il poliambulatorio di San Ponziano;
– Una nel P.O.S. Barbara di Iglesias.

Sempre con il PNRR, si prevede di realizzare ne P.O. Santa Barbara, l’Ospedale di comunità, con 20 posti letto.
In questo contesto, l’assessore regionale, fatta un’attenta disamina della situazione, dovrebbe porsi delle semplici domande:
a. perché, la Asl del Sulcis, da diversi anni patisce indubbie sofferenze organizzative nell’assistenza ospedaliera e territoriale?
b. quali sono i motivi per cui gli unici incarichi di struttura complessa sono di Chirurgia generale del Sirai, nel Pronto soccorso, di Ortopedia, Anestesia e Rianimazione?
c. come si spiega che i reparti di Neurologia, Urologia, Radiologia, Medicina del CTO, Centro trasfusionale, il Laboratorio analisi, la Psichiatria, l’Oculistica, l’Ortopedia CTO, l’Otorinolaringoiatria, la Dialisi e la Diabetologia sono strutture complesse senza direttori da tantissimo tempo?
d. per quale ragione la Asl sconta una forte carenza di personale con oltre 88 medici? E che dei 153 attualmente in organico oltre il 50 per cento è in età avanzata.

e. quali sono i motivi che nel PO Santa Barbara non si sono ancora determinate le condizioni per realizzare compiutamente l’Ospedale di Comunità, la Casa della Salute con i servizi specialistici, il polo riabilitativo e l’Hospice.

In questi mesi abbiamo preso atto che nonostante le diverse deliberazioni adottate dal Direttore generale della Asl del Sulcis di programmazione e organizzazione, nei presidi ospedalieri e nel territorio la situazione è notevolmente peggiorata. Siamo in alcune realtà al disfacimento. Troppi reparti degli ospedali sono in grave sofferenza perché manca di personale medico e di infermieri, la situazione di crisi non sembra avviata a soluzioni. Anzi.
Ora, se queste osservazioni corrispondono a semplice verità, si tratta di definire, con una certa urgenza, quali iniziative assumere nel nostro territorio.
Considerato in particolare che la Giunta regionale ha previsto di commissariare le Asl, e che quindi si avrà una gestione ordinaria, con tempi oggi imprevedibili per avere la nomina dei nuovi direttori generali e quindi di governo pieno per affrontare il presente e il futuro.
Insomma una fase transitoria con tempi oggi imprevedibili.
La situazione di crisi della nostra sanità è comunque presente, la sofferenza di assistenza della popolazione non entra certamente in pausa, anzi.
Riprendendo in questo contesto alcune recenti considerazioni di Mario Marroccu.
Che cosa si può fare nel nostro territorio?
Certo la politica può fare la sua parte. Così come le organizzazioni sindacali confederali e di categoria.
Certamente un ruolo determinante è oggi in carico ai 23 Comuni, dei Sindaci e della Conferenza socio sanitaria.
I nostri 23 sindaci, nella piena consapevolezza della situazione che attraversa la Asl, “unitariamente”, possono rispondere a pieno titolo all’assessore regionale che non siamo un territorio da colonizzare con proposte senza fondamento e, soprattutto, avere la forza per rivendicare un cambio di gestione della Asl, recuperare subito quanto stabilito dagli atti aziendali, per il ripristino dei servizi ospedalieri e del fabbisogno del personale.
Se non ora quando?
Tore Arca
Cittadino della provincia del Sulcis Iglesiente

Va detto subito: il vero salto quantico” è un concetto della fisica atomica; invece il “salto quantico” della lingua parlata è sinonimo di “illogico”. Questo secondo genere di “salto quantico” è quello che si attaglia di più alle dichiarazioni rilasciate ieri dall’assessore della Sanità Armando Bartolazzi. Da ciò che dichiara si desume che in modo indipendente sta procedendo al sovvertimento della legge sulla “rete ospedaliera” sarda, approvata dal Consiglio regionale della Sardegna il 25 ottobre 2017. Egli sta trasformando la destinazione dei nostri ospedali da una struttura generalista con tutti servizi a strutture con un solo servizio specialistico. Cioè, a suo vedere, ci sarà un’ospedale per i bambini, uno per i tumori, uno per gli occhi, uno per l’addome, uno per il cuore, uno per i vecchi, uno per i depressi, uno per il cervello, uno per la pelle e così via. A parte l’illogicità del metodo per le complicazioni organizzative che comporterebbe, una cosa del genere non si può fare. Qualunque sia il fine di questa azione personale, deve essere precisato che nessun assessore regionale può modificare una legge. Lo possono fare solo i consiglieri regionali in Assemblea. Il “salto quantico” dell’assessore, che non è assimilabile a quello della fisica, in realtà e un “volo pindarico”. Pindaro era un poeta greco del sesto secolo avanti Cristo che scriveva opere con ragionamenti belli ma senza capo né coda.
Il vero “salto quantico” della fisica quantistica è dato del salto di un elettrone di un atomo da uno stato di energia ad un altro con emissione di radiazione elettromagnetica sotto forma di “fotoni”. Dietro questo concetto esistono gli studi dei più grandi scienziati del 19° e 20° secolo: Max Plank, Niels Bohr, Rutherford, Heisenberger, Broglie, Einstein, Fermi, eccetera, tutti premi Nobel. Essi fondendo la “teoria particellare” e la “teoria ondulatoria” della fisica quantistica gettarono luce sulla natura stessa della materia dando all’Umanità la “consapevolezza” di cosa sia l’”esistente”.
Presto l’”Intelligenza artificiale” occuperà molti spazi riservati oggi agli umani. Essa sostituirà tutti: anche i medici e i chirurghi verranno sostituiti dalla I.A. Tuttavia, a detta degli scienziati i nuovi computer, nonostante la loro super-intelligenza, hanno un difetto che non verrà risolto in futuro: non hanno “coscienza di sé”. Cioè non hanno la “consapevolezza” del proprio “Io” perché non lo possiedono.
L’Uomo, che vive nel mondo reale e ne ha “consapevolezza”, manterrà la sua superiorità nel processo di programmazione del proprio futuro. E’ esattamente ciò che vogliamo.
Il programma di riforma sanitaria esposto ieri pare non avere “consapevolezza” né di come è fatto il mondo dei sardi né di quanto sta avvenendo nel mondo globale.
Il mondo concreto di cui bisogna avere “consapevolezza” è davanti a noi.
In questi due mesi tutto è cambiato. Nessuno prevedeva il ritorno indietro della storia del mondo Occidentale fino a rivivere le guerre di conquista. Dopo la Seconda Guerra Mondiale si costituì la Società delle Nazioni e poi l’ONU, alla ricerca di un garante del vicendevole rispetto fra le Nazioni. In un attimo, con un “salto quantico” illogico è avvenuto il regresso della civiltà occidentale delle Democrazie e delle Costituzioni verso le conquiste territoriali per puro interesse economico. Un fatto grande come questo, nel momento in cui si decide la revisione dell’apparato sanitario pubblico regionale, non può essere ignorato e tutti i programmi devono essere rivisti e adeguati alla nuova realtà storica.
Un’altra notizia proveniente dal mondo reale, molto istruttiva per chi vuole essere “consapevole”, è quella riguardante la scomparsa di Gene Hackman, di sua moglie e del suo cane. Novantenne, ex famoso attore, titolare di vari premi Oscar, e affetto da Alzheimer, Gene Hackman viveva con la moglie di 63 anni, in solitudine. Visse ricco ed amato dal pubblico americano finché si ritirò dalle scene. Invecchiando venne la malattia e con questa l’eclissi di amici e figli. Le figlie si informavano della sua salute con una telefonata ogni 6 mesi. In un sistema sanitario e di Welfare come quello statunitense chi è senza figli, e non lavora, se si ammala è perduto. E’ avvenuto che sua moglie, sua unica fonte di assistenza, contraesse un’infezione polmonare da Hantavirus. Si tratta di un virus dei roditori americani (topi). L’essere umano contagiato manifesta sintomi di tipo influenzale (febbre, dolori muscolari, tosse). L’infiammazione polmonare può provocare stravaso di liquido essudatizio negli alveoli respiratori; questi, allagati dal liquido, non scambiano più ossigeno con l’aria respirata. Tale infiammazione può portare al peggioramento del respiro, a compromissione del cuore e del cervello, fino alla morte. La moglie, non curata, si aggravò e morì lasciandolo solo. Cosa può fare un paziente con Alzheimer, solo, per sopravvivere? In questi pazienti oltre al danno motorio e cognitivo esplode il danno della memoria. La “memoria episodica” comporta la cancellazione dei ricordi di eventi passati. Tuttavia il danno peggiore è la perdita della “memoria procedurale”. Cioè il malato non sa come si deve procedere per raggiungere un determinato scopo. Se, per esempio, ha sete e vuole bere, egli non ricorda quale è la sequenza di azioni da mettere in atto: non sa che deve allungare il braccio per afferrare con la mano il bicchiere; non sa che per riempire il bicchiere bisogna versare acqua dalla bottiglia; non sa neppure che deve avvicinare il bicchiere alle labbra, riempire la bocca e deglutire. Similmente non sa cosa fare per nutrirsi, per lavarsi, per proteggersi dal freddo, per aprire la porta di casa, eccetera. In sostanza rimane inerte nel luogo in cui si trova e non prende iniziative. Morirà per mancata assistenza alimentare e termica.
Nel caso di Gene Hackman, una volta morta la moglie, egli morì dopo 7 giorni. Così pure il cane.
Ora, applichiamo a questo evento le regole del fondatore della medicina clinica: Ippocrate di Coo del V secolo avanti Cristo. Egli osservava il malato sia nel suo letto, sia nell’ambiente di vita; ne seguiva l’evoluzione patologica e, dopo osservazione prolungata, emetteva la diagnosi.
Seguiamo lo stesso metodo di osservazione col caso del malato Gene Hackman; caso che ci interessa molto perché attuale, e perché è lo specchio di questi tempi; potrebbe riguardarci. Caratteristiche:
– era un grande anziano;
– era malato di Alzheimer;
– aveva la sola compagnia della moglie;
– era senza figli in prossimità;
– mancava la frequentazione di un vicinato;
– era senza badante;
– non aveva la visita abituale di un medico di famiglia;
– non aveva una cerchia di amici a cui rivolgersi;
– non aveva un amministratore delle proprie risorse finanziarie.
Questo elenco riguarda molti.
Oggi stiamo tutti vivendo la vera epidemia del 21° secolo nel mondo occidentale. Si tratta della crisi demografica con scarsità di nuovi nati e con un eccesso di anziani candidato alla vecchiaia in solitudine.
Si può fare un programma di riforma sanitaria senza tener conto del dato demografico? No.
Ora facciamo un “salto quantico – volo pindarico” nella storia della Sanità.
Iniziamo col fare una distinzione fra “Sanità” e “Medicina”.
La “Sanità” riguarda lo stato di salute di una persona, di un popolo, o di una Nazione. Essa rappresenta  uno degli aspetti della “sicurezza” pubblica. E’ un compito dello Stato.
La “Medicina” è un branca della scienza e dell’attività professionale che ha lo scopo di modificare, con artifizi, l’evoluzione di un malattia. Di questo si curano i medici.
La Sanità pubblica nacque per un fatto storico drammatico: la peste del 1347-48. In quei 12 mesi in Italia, che aveva circa 10 milioni di abitanti, morirono 2 milioni di persone. E’ come se in 12 mesi del nostro anno 2025 in Italia, che ha 56 milioni di abitanti, morissero 12milioni di persone, e ne sopravvivessero 44 milioni. Nelle grandi città ( Milano, Venezia, Firenze) morirono più della metà degli abitanti.
Morirono gli operai, i contadini, gli artigiani, i professionisti; l’economia crollò. La povertà e la penuria di alimenti negli anni successivi provocarono una mortalità anche maggiore.
Le autorità politiche dei vari Stati e staterelli capirono l’importanza di contenere i contagi. Allora vennero costituiti i primi “Uffici di sanità” pubblici. Erano dotati di personale che aveva il compito di controllare i traffici di uomini e merci alle frontiere e nei porti. Furono i primi Sistemi sanitari nazionali della storia.
Fino ad allora gli ospedali caritativi religiosi ricoveravano poveri, vecchi, idioti, orfani, e li assistevano procurando loro un letto, alimenti e vestiario. Erano ospizi. Dopo il 1348 fu chiara la necessità di convertire gli “hospitalia” religiosi in veri ospedali per malati. Così nacquero gli ospedali moderni che si avvalevano di medici professionisti e infermieri pagati dallo Stato.
A Milano, nell’Ospedale Maggiore del 15° secolo, si pensò di distinguere gli ospedali destinati alle malattie che iniziano e finiscono rapidamente colla guarigione o colla morte del paziente. Si individuarono poi gli ospedali per quei malati che non guariscono, non muoiono e restano invalidi. Un questo caso il problema assistenziale, a carico dello Stato, si cronicizzava.
Il Sistema sanitario pubblico si adattò alle esigenze della popolazione del tempo.
Nei secoli successivi, fino al 1900, la situazione sanitaria si mantenne quasi immodificata. Poi, con l’arrivo dei vaccini (fine 1800) e degli antibiotici (1950) i malati acuti iniziarono a sopravvivere. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, col miglioramento delle condizioni economiche, la pace garantita dall’ONU, l’industrializzazione e la liberalizzazione dei mercati internazionali, la salute nazionale migliorò ulteriormente fino a generare un “boom” demografico tra il 1946 e il 1966. Al Sirai di Carbonia nascevano 2.000 bambini all’anno. Al Santa Barbara di Iglesias ne nascevano 1.000. Oggigiorno ne nascono in tutto circa 300 all’anno.
I nati di quegli anni vengono denominati “baby boomers”. I bambini del “boom” oggi (anno 2025) hanno un’età fra i 59 e 79 anni. A causa di questi fatti abbiamo, tra gli abitanti della Sardegna, il 45% di ultra-55enni. Si tratta di un numero pari a 700mila anziani su un milione e mezzo di abitanti. Nel Sulcis Iglesiente gli anziani sono il 50%. della popolazione.
A questo punto mettiamo in rapporto questi dati col triste fatto di Gene Hackman e chiediamoci: “quanti di questi 700mila diventeranno invalidi? Rivediamo anche l’elenco dei motivi della fragilità e
della solitudine di Hackman:
1 – problemi amministrativi-economici;
2 – figli distanti, assenti, o impegnati;
3 – assenza di famiglia stabile e convivente;
4 – assenza di un compagno o una compagna di vita;
5 – assenza di rapporti sociali;
6 – assenza di badante;
7 – incapacità motorie;
8 – deficit cognitivo:
– eccetera.
Questi soggetti, tra l’altro, sono bersaglio, praticamente obbligato, di altre malattie come: infarto, ictus, tumori, artrosi, dolori articolari e muscolari, diabete, ipertensione arteriosa, insufficienza renale, ipertrofia prostatica (catetere), tumori ginecologici, problemi intestinali, fibrillazione atriale e uso di farmaci da monitorare come gli anticoagulanti. Questo è un quadro realistico ed è con questo quadro, tipico di questo secolo, che si devono fare i conti. Una riforma si può fare solo se si ha la “consapevolezza” di questo mondo reale. Altrimenti è solo una soddisfazione teorica.
In questo scorcio di secolo, e con questa umanità sofferente, abbiamo bisogno di:
– Ospedali dotati di tutti i servizi chirurgici e internistici per le malattie che agiscono concorrenti.
– Vicinanza dell’ospedale alle residenze degli utenti.
– Medicina territoriale collegata all’ospedale provinciale competente.
– Tutto il Sistema sanitario della provincia finanziato dallo Stato, ricordando che il malato di oggi è per definizione: solo, povero, invalido, senza disponibilità di autonomia nei mezzi di trasporto.
Per questo ogni città ha bisogno di un suo ospedale completo di tutti servizi.
Per giunta: gli ospedali provinciali non hanno bisogno di finanziamenti per un Centro Trapianti, o per la cura delle leucemie, o per la neurochirurgia, o per la chirurgia pediatrica. Hanno bisogno di essere attrezzati per assistere le patologie quotidiane, le più frequenti e più diffuse.
Io oggi ho bisogno di un chirurgo che sappia fare una ureterocutaneostomia per trattare un cancro di vescica inoperabile in vecchio, e non lo trovo. Intervento facile, semplice e poco costoso. Prima era disponibile.
Cosa fare nel nostro territorio? Cosa può fare la Politica? Abbiamo un esempio davanti agli occhi: c’è un Sindaco che ha la concreta “consapevolezza” di cosa si deve fare. E’ il sindaco di Iglesias. Sta riuscendo a restituire all’ospedale della sua città tutti quei Servizi specialistici di cui ogni città necessita. Sembra l’unico ad aver capito per tempo che il mondo è cambiato mentre noi corriamo il rischio di rimanere ai margini del programma sanitario regionale. I sindaci del Sulcis Iglesiente in tutto sono 23. Aspettiamo che si rivolti l’animo degli altri 22.
Questo non è un “discorso quantico”, è semplicemente logico. Ci serve gente che usi la logica umana.
Che sia come noi.

Mario Marroccu

Il professor Nicola Perra, docente di Fisica teorica e Statistica in un’Università di Londra, ci ha inviato un articolo pubblicato il 27 gennaio (3 giorni fa) sulla rivista scientifica “Nature” in cui un gruppo di famosi studiosi comunica al mondo intero che è deceduto un uomo in Inghilterra a causa di un’infezione da “virus influenzale aviario H5N1”.
Attenzione! Non si tratta della comune “influenza umana H1N1” come quella che provocò 60-100 milioni di decessi nel 1919. Questo nuovo virus è specifico degli uccelli. Il focolaio iniziale proviene dagli uccelli selvatici. I focolai diffusi negli allevamenti intensivi di pollami sono arrivati da essi. Il virus, classificato con la sigla H5N1, venne scoperto a Hong Kong nel 1993. Nel 1997 esplose un’epidemia negli allevamenti aviari di quell’area e per fermarla vennero sacrificati 15 milioni di volatili. Vi furono altre 6 epidemie tra il 1997 e il 2006 ma riguardarono solo animali da allevamento (polli, tacchini, anatre, oche). Oltre all’eliminazione radicale di quegli allevamenti si procedette a vaccinazioni veterinarie estesissime. Da allora gli scienziati temono l’adattamento del virus aviario all’uomo, in quanto si tratta di un agente ad altissima letalità, molto più alta del Covid 19 e della Spagnola del 1919.
Il 25 marzo 2024 (10 mesi fa) si è scoperto che gli uccelli selvatici portatori del virus hanno acquisito la capacità di contagiare le mucche. In quel giorno si registrò il primo caso nella storia di passaggio del virus aviario ai mammiferi.
Il 22 maggio 2024 (8 mesi fa) il ministro della Salute australiano ha comunicato d’aver registrato il primo caso di infezione di H5N1 nei loro allevamenti di bovini.
Nello stesso periodo (pochi mesi fa) negli Stati Uniti di trovò il DNA del virus aviario nel latte distribuito dai centri commerciali. Questo fece capire l’estrema diffusione del virus negli allevamenti di mucche da latte in America. Si scoprì, dalle segnalazioni dei veterinari, che il contagio si era diffuso a 16 Stati dell’Unione e a 900 grandi allevamenti di bovini. Si ebbero 64 infezioni negli allevatori e solo un decesso. Questi addetti avevano inspirato massivamente i virus nei loro polmoni.
Quegli episodi a loro volta erano stati preceduti da un’epidemia da virus aviario in allevamenti di polli.
La mortalità in quegli allevamenti fu altissima; per fermarne la diffusione si procedette ad uccidere tutti gli animali.
Nel settembre 2024 (4 mesi fa) nel Missouri il CDC (Centre for Disease Control) ha segnalato un caso di contagio in una persona che non aveva avuto contatti con animali infetti. Ciò fece porre il sospetto, per la prima volta, che il paziente fosse stato contagiato da un uomo. Fu allarme severo perché quel virus è contagioso solo fra uccelli. E’ ammesso che possano contrarre la malattia gli animali che mangiano carne cruda di uccello infetto o ne respirano le feci secche polverizzate così come è accaduto agli umani che lavoravano a contatto stretto con i pennuti.
Il fatto della diffusione massiva a mandrie di vacche che non hanno avuto contatti con pennuti è nuovo.
Significa che le prime vacche che si sono ammalate contraendo l’influenza aviaria dovrebbero aver mangiato o inspirato feci di gallina. Dato che le galline non esistono dentro gli allevamenti di mucche, come è successo che il virus si sia diffuso a tutta la mandria e poi abbia raggiunto molte mandrie che sono allevate a distanza? Questa volta le galline non c’entrano nulla. Il nesso causale sta nella vicinanza di mucche influenzate a mucche sane. Perché questo fatto è gravissimo? Perché non è possibile il contagio da mucca a mucca di virus H5N1; per ragioni di specificità dell’ospite è possibile solo il contagio da uccelli infetti a mucca sana o ad altri mammiferi sovraesposti (come gli operai). Per motivi biologici i mammiferi non possono contagiarsi a vicenda in quanto il virus aviario originale (per intenderci quello di HongKong) non ha i “rampini” per aggrapparsi alle cellule dei mammiferi. Pertanto, l’unica spiegazione possibile è che adesso quei virus abbiano imparato a fabbricarsi i “rampini” per saltare da una mucca all’altra. E’ avvenuta una mutazione che si è iscritta nel loro DNA; pertanto, possiamo ben dire che questi ora sono “nuovi virus” capaci di attaccare anche i mammiferi. Cioè è avvenuto quello che gli scienziati chiamano “salto di specie”. Questa mutazione di DNA virale non era mai esistita prima.
Il fatto che un virus, nato per vivere solo dentro gli uccelli, abbia acquisito la capacità di viaggiare dentro i mammiferi, come se fossero dei taxi, per andare da un posto ad un altro liberamente, significa che adesso, per la prima volta, il virus aviario non è più riservato solo agli uccelli, ma è diventato specifico anche per le mucche.

Questa mutazione è un evento pericolosissimo. Significa che la potenzialità di mutazione del virus è talmente evoluta e rapida che in breve tempo può mutare per vivere stabilmente nell’uomo, usarlo come ospite definitivo, e utilizzarlo come ponte per passare ad altri esseri umani, sia attraverso le goccioline dell’alito, sia attraverso secrezioni e sangue. Si può immaginare cosa avverrebbe negli assembramenti in luoghi chiusi come scuole, fabbriche, edifici pubblici, mezzi di trasporto di massa.
Fino ad oggi le epidemie di virus H5N1 degli uccelli sono state contenute abbattendo interi allevamenti ed eliminandone le carcasse col fuoco. Metodo adatto solo agli animali. Se l’uomo diventasse vettore il contagio potrebbe diffondersi a tutto il mondo in un lampo.
Ciò che ci vuole riferire l’articolo di “Nature” è che la mutazione del DNA virale per adattare il virus ad essere contagioso per il mammifero “mucca” è avvenuta in un paio di mesi. Se questa è la velocità che ha acquisito a mutarsi, dovremmo aspettarci che i salto di specie al “mammifero” Uomo sia imminente. Il futuro potrebbe essere molto impegnativo per l’Umanità.
Come si vede il virus H5N1 lavora in tempi rapidi. Il nostro problema sta nel fatto che l’Uomo, per prendere decisioni, ha tempi troppo lunghi e potrebbe farsi trovare impreparato. Basta vedere l’enorme “indecisionismo” sanitario che affligge la Sanità nazionale da anni.
Ciò detto sarebbe prudente prepararsi ai ripari con quel che si ha:
– informazione corretta e tempestiva,
– educazione sanitaria,
– metodi di isolamento individuale,
– mascherine,
– lavaggio delle mani,
– disinfezione degli ambienti.
Seguiamo l’evoluzione.

Mario Marroccu

La costruzione della “ Torre di Babele” venne fatta fallire con un metodo semplice: la confusione dalle lingue. Nessuno capiva più l’altro e, mancando la “comunicazione” tra i costruttori, l’edificazione fallì. Lo stesso metodo confusionario venne applicato contro la legge 833/78, confondendo le idee degli italiani tramite una comunicazione in cui vennero adottate terminologie ingannevoli che gettarono il marasma nella mischia del politica del tempo. La storia sanitaria che ne seguì andò avanti a colpi di sorprese, e non si capì mai chi ne fosse l’autore.
All’inizio (1978) il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) era costituito dalle USL (Unità Sanitarie Locali); nel 1992 vennero trasformate in ASL (Aziende Sanitarie Locali). Sembrava solo un cambio di nome, da “Unità” ad “Azienda”, invece stava crollando il mondo. In Sardegna, nel 2017 le ASL vennero unificate in un’altra sigla ancora: ASUR (Azienda Sanitaria Unica Regionale). Con questo atto vennero fatte sparire le ASL che conoscevamo, e comparve una nuova sigla: ASSL (Aree Socio Sanitarie Locali); queste nuove strutture organizzative non erano più “aziende”: di fatto, con la perdita di connotazione di “azienda” le ASL persero la loro autonomia programmatoria e gestionale. L’autonomia nella gestione degli acquisti e delle assunzioni finì nelle mani di una nuova unica entità: ASUR (Azienda Sanitaria Unica Regionale). ASUR , a sua volta, istituì un’altra azienda autonoma chiamata ARES (Azienda Regionale Sanità). In questo modo la parte politica regionale, delegando i suoi poteri ad una nuova struttura di tipo privatistico, ma di natura giuridica pubblica, rinunciò a gestire direttamente la Sanità Regionale. Ecco perché, da allora, i concorsi e le assunzioni furono “regionali”, con un contratto di dipendenza da ARES, e i neo-assunti potevano scegliersi la sede ospedaliera che preferivano, cioè quella più prestigiosa. Ne conseguì che il nuovo personale sanitario specialistico si accentrò negli ospedali di Cagliari e Sassari, mentre si impoverivano gli ospedali delle Province. Quanti si resero conto di cosa stesse succedendo in quel periodo? Quasi nessuno. Una cosa è certa: la distruzione della catena di comando della Sanità Ospedaliera delle USL precedenti ebbe la conseguenza di distruggere anche del capitale medico specialistico provinciale. Da allora non si capisce bene dove sia la testa e il corpo degli ospedali. Sono come navi alla deriva a cui manca sia il personale per governare i motori sia il Comandante e gli Ufficiali. Chi si fiderebbe a salirci?
Questa decapitazione della “catena di comando” delle strutture sanitarie delle province iniziò con l’opera di moralizzazione avviata nel 1992, l’anno dello scandalo della corruzione politica. Il 30 dicembre di quell’anno il ministro alla Sanità Francesco di Lorenzo eliminò la figura del “Presidente” delle USL e, con lui, il suo Consiglio di Amministrazione per il semplice fatto che allora i “Presidenti” USL erano Sindaci o Consiglieri comunali. In quel momento storico, i politici avevano lo stigma della corruzione e della condanna dell’opinione pubblica. Con lo stesso metodo vennero distrutte le “Partecipazioni statali”, considerate corrotte, e la conseguenza fu che ancora oggi, come si vede nei tristissimi fatti del polo industriale di Portovesme, stiamo pagando quella politica autolesionistica. In quell’opera moralizzatrice si dettarono le regole sul controllo delle spese dei candidati in campagna elettorale, con strascichi fino ad oggi. Per paura dei Sindaci, che erano di estrazione politica-partitica, e quindi potenzialmente corrotti, ma che in realtà nella gestione della Sanità erano stati eccellenti, essi vennero estromessi dal Sistema sanitario nazionale e al loro posto, e dei loro consiglieri, venne creata la figura del “Manager” derivandolo dalle aziende private. Si pensava che il “privato” fosse eticamente più sano del pubblico e per questo le USL (Unità Sanitarie Locali) divennero “Aziende Sanitarie Locali” (ASL).

Il Manager privato ha, per definizione, ampie libertà di “scelta” nella gestione dell’azienda; il suo potere nelle scelte decisionali è assoluto, ed agisce nell’interesse economico dell’azienda (lucro). I Manager vennero presentati ai cittadini come garanzia dell’indipendenza dalla politica. Questo fu l’unico motivo che ne giustificò l’esistenza. Dopo 32 anni di gestione manageriale e, dopo averne verificato il fallimento, è più che accertato che i Manager, inventati in un momento di grande confusione, in realtà non sono per nulla indipendenti dalla politica. Sono sempre legati al carro di un potente politico o di un partito. Allora, quale differenza c’è tra i Presidenti delle USL che governarono la Sanità tra il 1982 e il 1992, dai Manager che la governano dal 1992 ai giorni nostri? La differenza sta nel fatto che i Presidenti erano Sindaci del territorio o loro delegati e i cittadini avevano il vantaggio che essi erano in contatto continuo con i Consigli dei vari Comuni attraverso una cinghia di trasmissione rappresentata dal Consiglio di Amministrazione della ASL, che era formato da vari consiglieri comunali della zona; invece i Manager, scelti rigorosamente da un “elenco di idonei”, di fatto sono sempre provenienti da nomine politiche, ma non dipendono dalla politica degli enti locali. Costoro, al contrario dei Sindaci, sono figure estranee ai Comuni e, pertanto, inavvicinabili, impermeabili alle loro istanze e  come Achille, invulnerabili alle minacce di non essere votati alle future elezioni. Con questo metodo i cittadini, sottoposti alla gestione del Manager, non vincitore di tornate elettorali, non possono né controllare, né aggiustare, e neppure influire sulle scelte della politica sanitaria.
Oggi il problema immediato è: come fare a ricostituire le “catene di comando” degli apparati sanitari ridando il potere di scelta ai cittadini a nominare i propri rappresentanti deputati al controllo del funzionamento dei servizi pubblici? Tale potere-diritto dei cittadini venne sancito dallo articolo 114 della Costituzione. In quell’articolo gli enti territoriali autonomi sono collocati a fianco dello Stato come elementi costitutivi della Repubblica, secondo il principio democratico della sovranità popolare (la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato).
Quando Tina Anselmi presentò la sua bozza della legge di Riforma Sanitaria si premurò di rispettare quell’articolo e dichiarò che le USL (Unità sanitarie Locali) erano “…articolazioni dello Stato…” esattamente come lo sono i Comuni, le Province e le Regioni. Per questo motivo mise le USL sotto il diretto controllo politico dei Comuni. Quando il 30 dicembre 1992 venne fatta la riforma sanitaria n. 502/92 di Di Lorenzo, che aboliva la precedente riforma 833/78, le USL vennero degradate dal ruolo di “articolazioni dello Stato” a quello di “Aziende”. Sembrava un semplice cambiamento della terminologia, invece con quel nuovo termine si toglieva la Sanità dal controllo popolare per metterla sotto il controllo dei Manager. Quella dei Manager fu da subito una gestione fallimentare a causa della contraddizione tra la “mission” dell’azienda, che deve produrre “lucro”, e la “mission” di un servizio pubblico che invece deve produrre “profitto sociale solidale”, così come avviene per l’Istruzione e la Difesa; per tale motivo, non deve produrre “incasso” ma solo spese a carico della comunità solidale.
Questa contraddizione nacque dall’utopia del 1992 che predicava la moralizzazione dello Stato attraverso l’introduzione de principi aziendalistici (simili a quelli del privato) nel servizio pubblico. Oggi questa contraddizione sta continuando a vivere dentro le “Aree Socio Sanitarie Locali” (ASSL) , ex Aziende Sanitarie Locali (ASL), ex Unità Sanitarie Locali (USL), facendo molti danni.
La storia ci racconta che le USL avevano una Dirigenza strutturata come i Comuni. Come i Comuni avevano un Sindaco (Presidente) e un Consiglio politico di gestione (Comitato di Gestione); avevano inoltre un direttore generale per il funzionamento dell’apparato amministrativo. Tale composizione conferiva alle USL una notevole efficienza. E’ ragionevole credere che il ritorno ad una struttura amministrativa dotata di autonomia e una “catena di comandor” simile a quella delle USL e dei Comuni restituirebbe alle “Aziende socio sanitarie locali” l’efficienza che vorremmo.
Rimane da affrontare il problema della organizzazione da dare a tutta la rete sanitaria regionale attuale.
Se si desse ascolto a tutti i pareri e ai suggerimenti che provengono quotidianamente dai giornali e dai convegni sulla crisi sanitaria, anche i più esperti entrerebbero in confusione. E’ una Babele. La “confusione delle lingue” dei mille pareri continua a gettare disordine e immobilismo. Il 99% degli interventi riguarda la descrizione di varie sofferenze patite dai malati; 1% (l’un per cento) riguarda l’esame delle cause.
Nelle pagine dei giornali di questi giorni risalta la dichiarazione di un chirurgo del Brotzu il quale, con la concretezza e la concisione che solo un chirurgo possiede, in sostanza dice «… la causa del disagio dell’ospedale Brotzu sta nella destrutturazione degli ospedali delle Province…». A causa di ciò è conseguita l’alluvione continua di pazienti dal Campidano e dal Sulcis verso Cagliari. Fra tutte le cose dette, questa ha lo stesso valore di un “filo d’Arianna” utile a districarsi nella Babele; ad esso converrebbe aggrapparsi per trovare una via d’uscita.

Come porre riparo alla destrutturazione della rete ospedaliera provinciale? La risposta esiste già nelle leggi nazionali e nelle delibere regionali. E’ già tutto scritto. Non c’è bisogno di inventare nulla. Le leggi nazionali sono: la Costituzione, il DM 70/2015, il DM 77 / aggiornato al 2023, la legge sulla “rete ospedaliera sarda” del 2017.
La legge DM 70/2015 stabilisce:
a) come devono essere strutturati gli ospedali,
b) definisce gli ospedali sede di DEA di I e di II livello. Intendendo con DEA i Dipartimenti di Urgenza e Accettazione. La legge identifica con esattezza gli ospedali che sono destinati alle urgenze. Questi sono il centro motore della Sanità. Se noi oggi andassimo a visitare gli ospedali, scopriremmo che soltanto davanti agli ospedali pubblici (e mai davanti a quelli privati) esistono le lunghe file d’attesa di pazienti che aspettano d’essere visitati, e le file di ambulanze in attesa del ricovero dei loro trasportati.
Davanti alla visione delle file di pazienti che si presentano per patologie urgenti risulta chiaro come sia assurdo pensare di negare a tali richiedenti l’assistenza sanitaria gratuita universalistica.

Il problema grave a cui stiamo assistendo sta negli ospedali d’urgenza DEA e nel fatto che i DEA di I livello delle Province sono stati immiseriti in personale e deprivati di attrezzature.
Se la legge DM70/2015 fosse stata rispettata ciò non sarebbe successo.
La legge DM 77 / aggiornata al 2023:
Questa legge riporta tutte le indicazioni del Decreto Draghi sul PNRR nel capitolo della Mission 6.
Essa riguarda :
– Case della salute
– Case della Comunità
– Medici di base
-Personale
– Attrezzature
– Finanziamenti.
Il rispetto di questa legge avrebbe evitato il blocco della sanità territoriale e la crisi degli ospedali.
La legge regionale sarda sulla “rete ospedaliera” del 2017 indica la distribuzione degli ospedali nel territorio sardo e chiarisce con esattezza quali sono gli ospedali DEA di I livello e i DEA di II livello.
Va precisato che in Sardegna sono attivi 29 ospedali. Due (2) di essi sono sede di DEA di II livello (Brotzu e Santissima Annunziata di Sassari).
8 (otto) sono ospedali DEA di I livello, e sono distribuiti uno per provincia. Essi sono:
1 – Sassari (Santissima Annunziata)
2 – Olbia (San Giovanni Paolo II)
3 – Nuoro (San Francesco)
4 – Lanusei (Ogliastra)
5 – Oristano (San Martino)
6 – San Gavino Monreale (Medio Campidano)
7 – Carbonia (Sirai)
8 – Cagliari (Santissima Trinità – Is Mirrionis).
La differenza tra DEA di I e di II livello sta nel fatto che i DEA di II livello trattano le patologie più rare e impegnative come: Neurochirurgia; Cardiochirurgia; Radioterapia; Chirurgia toracica; Trapianti d’organo. Le altre patologie devono essere curate a dagli Ospedali DEA di I livello, alla pari con quelli di II livello.
I 19 ospedali restanti possono essere inquadrati come ospedali zonali di base oppure come ospedali di Comunità per cronici.
La riattivazione immediata degli 8 ospedali di I livello salverebbe l’intera sanità regionale.
Inoltre, è necessaria l’eliminazione dell’Azienda Unica Regionale e la ricostituzione delle Aziende Sanitarie Locali. Queste dovrebbero essere dirette da un Direttore Generale per la parte amministrativa e presiedute da un Presidente, per la parte politica. Il Presidente della ASL sarebbe coadiuvato dal Consiglio dei sanitari (Medici, Infermieri e Tecnici) e dalla Commissione Sanitaria provinciale (formata dai Sindaci della Provincia).

Mario Marroccu

Il naufragio della Sanità italiana e, soprattutto, di quella sarda, è noto e lo vediamo certificato in un documento che circola in Europa. C’è scritto che la Sanità italiana è al 22° posto tra le 27 Sanità degli Stati dell’Unione. Nel 2006 eravamo all’11° posto. Dato che i 5 Stati che vengono dopo l’Italia sono press’a poco nelle stesse pessime condizioni, potremmo dire che noi italiani siamo all’ultimo posto.
L’istituto di statistica che ha pubblicato il rapporto si chiama EHCI (Euro Health Consumer Index). Se si considera che la Sardegna, in Sanità, è all’ultimo posto fra le regioni italiane, e che il Sulcis Iglesiente è all’ultimo posto nelle province sarde, potremmo anche pensare che il CTO e il Sirai siano gli ospedali più poveri in Europa.

Il degrado sanitario va di pari passo con il degrado demografico e ci stiamo abituando a questo lento peggioramento senza reagire. Anche questo secondo fenomeno sociale è certificato da un rapporto ufficiale, quello della SviMez (Sviluppo Mezzogiorno) redatto su dati governativi. Sanità e spopolamento sono tristemente collegati. Si pensi che oggi, alle scuole medie ed elementari, abbiamo 120.000 tra bambini e ragazzi; è previsto che fra 10 anni saranno meno di 77mila. In conseguenza di questo andamento demografico sono state applicate, anche per le scuole così come è avvenuto per gli ospedali, le logiche ingegneristiche e contabili dei relativi ministeri per cui, dal 2018 ad oggi, sono state cancellate 1.000 classi e sono stati chiusi 29 istituti scolastici.

«Con i ragionamenti derivati dalle logiche contabili della burocrazia ministeriale vengono eliminati servizi essenziali la cui qualità e diffusione capillare sono condizioni socialmente e territorialmente inclusive, soprattutto nelle aree più deboli e distanti dai centri maggiori» (Istituto di statistica dell’Università di Cagliari).
In questi giorni si sta discutendo la nuova Riforma sanitaria della Regione Sardegna. Nessuno ha la più pallida idea dell’indirizzo che darà alla Sanità sarda e, soprattutto, a quella delle Province. Visto che i tempi di presentazione si stanno allungando, forse c’è ancora speranza che il progetto contempli la partecipazione popolare all’identificazione di norme di salvataggio condivise.
I sardi, con i soldi dei loro contributi, vogliono essere curati subito, bene, gratuitamente e vicino a casa. Tanto più lo vogliono ora che l’età media è molto avanzata, con il 25% di ultrasessantacinquenni, e un calo demografico pari allo 0,8 bambini per coppia. E’ evidente che per mantenere lo stesso numero di abitanti dovremmo mettere al mondo 2 bambini per coppia. Ciò significa che la popolazione sta lentamente scomparendo per due motivi:
1 – perché il 25% di anziani ha già percorso oltre i due terzi del proprio arco vitale;
2 – perché il numero di nascite (0,8) è insufficiente a sostituire il numero (2) dei genitori.
Preso atto che esiste una progressiva riduzione del “Welfare” non si può fare a meno di notare che tale la curva di riduzione è sincrona e simmetrica al calo della partecipazione popolare alle consultazioni elettorali, che sono la massima espressione dell’esercizio di “Democrazia”. Per effetto della rinuncia massiva all’esercizio democratico del diritto di voto stiamo vivendo gli effetti surreali di uno stato di “democrazia con carenza di popolo”.
Alle ultime consultazioni regionali sarde hanno espresso la loro volontà di avere un proprio rappresentante solo il 52% degli aventi diritto al voto. Questo dato certifica che il 48% dei sardi non ha voluto nominare un suo rappresentante al Consiglio regionale. Questo problema di “democrazia senza il popolo” è molto grosso e difficile da risolvere. Invece alle ultime consultazioni per le elezioni dei sindaci ha partecipato il 60% degli aventi diritto mentre alle consultazioni nazionali ha partecipato il 64% degli aventi diritto. Questi dati suggeriscono l’idea che esista una diversa propensione popolare a nominare i propri rappresentanti. In Sardegna prevale la propensione a votare i sindaci.

Probabilmente la conoscenza diretta è uno stimolo che induce l’elettore a concedere la propria fiducia ad una persona nota e più prossima.
Probabilmente i fenomeni dell’astensionismo, della riduzione delle strutture scolastiche, dell’assistenza sanitaria e il calo demografico hanno un comune nesso causale. Gli esperti di statistica suppongono che l’effetto negativo sull’aggregazione sociale peggiorerà coll’ulteriore destrutturazione del sistema ospedaliero e scolastico provinciale oggi esistenti nei territori lontani dai centri maggiori. Ciò avrà un costo per le famiglie: nuove spese per raggiungere i luoghi lontani dove si genera istruzione e sanità. Solo chi avrà solide possibilità economiche potrà affrontare le spese per istruire i figli e curare i propri familiari.

E’ evidente che la nave della spesa sociale ha perso la rotta e che dovrebbe rientrare in un percorso virtuoso prima che si instauri una deriva della “democrazia” dei servizi. Tale evento è possibile quando il bilancio economico delle famiglie porta alla differenziazione sociale tra i cittadini che possono e quelli che non possono studiare e curarsi. Si realizzerebbe un ossimoro: un governo democratico che induce una differenza sociale per ottenere il godimento al diritto basilare di istruzione e salute. Sarebbe un fallimento della Costituzione stessa.
Pertanto la risposta alla domanda: «Quando salvare la Sanità?» E’: subito.
La risposta alla seconda domanda: «Da chi salvarla?» E’: da tutti noi che abbiamo rinunciato alla partecipazione democratica alle scelte della politica.
La risposta alla terza domanda: «Come salvarla?» E’: rispettare le rappresentanze democratiche.
Oggi la maggiore rappresentanza democratica risiede nei sindaci, sia per il maggior consenso popolare di cui sono dotati, sia per diritto costituzionale al riconoscimento (art. 114) dei Comuni al coinvolgimento nella amministrazione dei servizi di base dello Stato come sanità e istruzione, in cooperazione con province e regioni.
Pertanto, ad essi sindaci dovrebbe essere conferito la possibilità di fare proprie proposte vincolanti sul come produrre una “Riforma sanitaria regionale” aderente al bisogno popolare e di controllarne i risultati.
La precedente legge di Riforma sanitaria regionale era perfetta nella sua struttura giuridica. Era talmente perfetta che probabilmente non era stata concepita dai consiglieri regionali ma da un apparato burocratico aduso a confezionare leggi. Il risultato di quella legge fu il trasferimento del potere amministrativo dalle ASL ad una struttura regionale centrale. Le ASL di fatto non ebbero più potere di assumere il personale e di indire gare d’appalto per l’acquisto del materiale sanitario, e di quant’altro serve a far funzionare gli ospedali.
I medici venivano selezionati tramite un concorso regionale globale cosicché, appena assunti sceglievano le sedi più prestigiose situate nelle città capoluogo. Gli ospedali delle province vedevano assegnarsi medici che subito dopo chiedevano e ottenevano il trasferimento a Cagliari o Sassari. Con questo metodo perdemmo anestesisti, chirurghi, cardiologi e specialisti essenziali. Le Unità operative si svuotarono di specialisti e caddero in disuso. Simile destino subirono le spese per strumenti e innovazione tecnologica. Inoltre, quella legge non prevedeva alcun piano per gestire la medicina di base.
Non si previde di instaurare un rapporto di collaborazione con l’Università per la formazione continua e la specializzazione dei medici ospedalieri nello stesso ospedale in cui venivano assunti. Non si regolamentò alcun rapporto tra medici di base e medici ospedalieri per instaurare un rapporto di osmosi professionale continua. Non si regolamentò quali compiti dare agli ospedali DEA di I livello (provinciali) e quali dare ai DEA di II livello regionali. Ne conseguì che i DEA II livello (Brotzu di Cagliari e Santissima Annunziata di Sassari) si misero a curare patologie frequenti (calcoli, prostate, tumori intestinali, ernie, fratture, infarti, ictus, etc.) dimenticando che queste erano destinate agli ospedali DEA di I livello messi al centro delle loro Province. Ciò provocò la defunzionalizzazione degli ospedali provinciali e l’accumulo di pazienti in fila alle porte del Brotzu fino a mandarlo in crisi.
Fu uno squilibrio letale per gli ospedali provinciali e per gli stessi ospedali regionali.
Quella legge, inoltre, rese inefficace la funzione di controllo e proposta a cui hanno diritto i sindaci e i presidenti di Provincia.
Per fortuna, visto che i tempi per la presentazione della nuova Riforma sono ancora lunghi, esiste tutto il tempo per consultare i sindaci e far formulare a loro la proposta di nuova Riforma sanitaria adattata alle esigenze dei territori provinciali.

Mario Marroccu

La società civile e quella politica italiana sul tema della Sanità si stanno dividendo in due come in America. Anche qui da noi probabilmente in futuro i tanti partiti confluiranno in due fronti. Ci sarà un fronte di conservatori e uno di progressisti, e ognuno avrà un diverso parere sul come risolvere i problemi.
La differenza di opinioni a cui stiamo assistendo in campo sanitario oppone quelli che propendono per una Sanità pubblica, integrata da una sanità privata e concentrata in pochi centri di riferimento, a quelli che propendono per una sanità prevalentemente pubblica e omogeneamente distribuita nel territorio.
Un manifestazione chiara di questa tendenza si è vista nella proposta di “Autonomia Differenziata” in cui le regioni del Nord vorrebbero una propria Sanità finanziata da fondi ricchissimi e una Sanità del Sud finanziata da un modesto Fondo Sanitario Nazionale.
Ciò porta alla situazione di stallo decisionale attuale in cui i politici, che hanno in mano una Sanità fallita, dovranno infine decidersi: o Sanità pubblica o Sanità privatizzata.
Onestamente non è chiaro quale via vogliano prendere, né se abbiano previsto quali conseguenze contrapposte ne deriveranno.
Non dobbiamo condannarli: la decisione , in realtà, è estremamente difficile. La storia, la Grande Storia sanitaria, ha da sempre due facce: una pubblica e una privata, ed è così da secoli e millenni.
Anticamente la Sanità, già da prima di Ippocrate, era sostanzialmente privata. Poi venne quel “tale” che raccontò la parabola del “Buon Samaritano”, e lì iniziarono i problemi di coscienza per l’umanità. La “coscienza” ribollì fino al quarto secolo dopo Cristo quando Benedetto da Norcia in Italia, e Basilio in Cappadocia idearono la “sanità ospitaliera” gratuita per tutti. Per aver preso quella decisione vennero fatti Santi. Quella sanità, totalmente caritativa, generò poi nella chiesa cattolica e in quella ortodossa il fulcro della loro missione assistenziale. Le città medioevali si riempirono di tanti ospedali caritativi retti da fratres” e “sorores” che erano finanziati da benefattori. Nell’anno 1456, un certo cardinal Rampini, a Milano, decise di chiudere i 16 ospedali caritativi della città e di costruirne solo uno, grandissimo, dotato di letti con comodini e bagni che scaricavano nei “Navigli”, con criteri di igiene e di amministrazione modernissimi. Venne chiamato “Ospedale Maggiore”. Era destinato agli acuti, cioè a quei pazienti che entrano febbricitanti o traumatizzati e ne escono, dopo poco tempo, vivi e sani, o morti. Poi costruì un ospedale fuori Milano, destinato ai “cronici”. Qui coloro che vi entravano, fossero essi storpi, lebbrosi, tubercolotici, folli, idioti, o semplicemente vecchi e poveri, vi restavano per sempre. Come si vede nella Storia, con l’invenzione degli ospedali civili e delle Rsa, noi del terzo millennio siamo arrivati secondi.
Quella di Rampini fu la rivoluzione che suggerì a tutta l’Europa come costruire gli ospedali moderni. Era il quindicesimo secolo e, se ci si pensa, oggi siamo ancora fermi lì a quella riforma ospedaliera. Invece, la medicina territoriale rimase in mano agli specialisti nei loro ambulatori privati finché, nel corso della Rivoluzione francese del diciottesimo secolo, si decise un piano anche per essa: tutto il territorio nazionale della nuova Repubblica venne suddiviso in “distretti sanitari” dotati di ospedali e di ambulatori pubblici, finanziati dallo Stato (esattamente come la ASL attuali). A quel piano, dette il suo apporto un tal “Marat”, socio di Danton e Robespierre. “Marat” è la pronuncia francese di “Marras”, un cagliaritano. A Cagliari, nella seconda metà del diciannovesimo secolo venne fondato l’ospedale “San Giovanni di Dio” finanziato da donazioni di cittadini facoltosi. Gli stessi benefattori pagavano la retta giornaliera dei ricoverati. Ogni cittadino era libero di salvaguardarsi come poteva, ma, come si sa nessuno era in condizione di farlo. Tanto meno si salvaguardavano le donne che non avevano alcuna autonomia finanziaria. Per capire quanto estrema fosse la miseria sociale ricordiamo che in quei tempi, in Italia, vi erano 286 nati morti ogni mille parti. Allora lo Stato riteneva che non fosse opportuno entrare nelle cose private di sanità. Qualche cambiamento comparve con le leggi Crispine del 1887 quando, dopo un gravissima epidemia di colera, per la prima volta il Governo dichiarò che l’igiene pubblica deve essere gestita e tutelata dallo Stato. Così nacque il primo embrione di Sanità pubblica e furono regolamentate le Opere pie. A fine 1800 vennero poste le radici delle Casse mutue. Esse erano Enti assicurativi nati nelle società operaie quando i lavoratori salariati iniziarono ad associarsi e mettere in comune proprie risorse per assicurarsi il rischio di vita. Le casse Mutue iniziarono a strutturasi meglio alla fine della Prima Guerra Mondiale e negli ultimi anni del Fascismo. In quel tempo le Casse mutue garantivano la salute solo ai lavoratori dipendenti dallo Stato e ai lavoratori di Aziende che lavoravano per lo Stato. La protezione tuttavia non era totale: se un minatore restava schiacciato sotto una frana poteva contare su cure gratuite limitate a 6 mesi in un anno mentre la famiglia poteva essere curata per soli 30 giorni in un anno.
L’assistenza per i mutuati, fuori dagli ospedali, era limitata soltanto alla visita del medico generico. Il mutuato doveva pagarsi i farmaci e gli Specialisti. I lavoratori privati invece non avevano nessuna assistenza. Quando un componente della famiglia di questi si ammalava tutta la famiglia correva il serio rischio di finire in povertà per pagare le spese di cura. Chi aveva case, terreni, bestiame li vendeva per pagare i ricoveri, i farmaci e gli specialisti. Per i lavoratori dipendenti tra il 1927 e il 1943 nacquero l’INAIL e l’INAM, finanziate obbligatoriamente con parte del salario, ma avevano molti limiti. Per altre categorie di lavoratori nacquero molte piccole mutue private che davano prestazioni modeste. Tutte le Mutue si differenziavano fra di loro in base all’entità della contribuzione dell’associato. Solo i poveri erano curati con fondi comunali. La carità era la forma di assistenza più diffusa.
La medicina caritativa sopravvisse in Italia fino al ventesimo secolo quando venne supportata anche dallo Stato che costruì i tubercolosari e i centri ospedalieri di assistenza ai lavoratori delle miniere e delle industrie pesanti (vedi CTO e Sirai), destinati sia agli operai vittime di incidente sul lavoro, sia alle loro famiglie (ostetricie e pediatrie).
La modestissima Sanità pubblica veniva controllata dal ministro dell’Interno, o da quello del Lavoro.
Fino al 1956 nessuna parte politica volle mai istituire il ministero della Sanità per evitare l’onere delle spese. Spese che sarebbero state intollerabili per lo Stato a causa della forte incidenza e mortalità da TBC, malaria e tifo. Negli anni ‘50 del 1900 vennero portate in Italia la Penicillina, la Streptomicina e il DDT, acquistati con fondi del Piano Marshall e della Fondazione Rockfeller; questo ridusse moltissimo l’incidenza di malattie da infezione.
Allora facevano paura allo Stato le spese per le malattie da microbi così come oggi fanno paura le spese per malattie da invecchiamento. Si sta ponendo oggi un dilemma di spesa simile.
In America nel 1945, quando ancora in Italia si vivevano gli strascichi delle lotte partigiane, divenne presidente Harry Truman. Fu un presidente determinato in ogni azione politica: decise la fine dello isolazionismo americano, occupò Berlino per non lasciarla ai russi e stabilì un ponte aereo per nutrirla, iniziò la guerra in Corea e finanziò il “Piano Marshall” che salvò l’Italia dallo sprofondare nella fame del dopoguerra, fermò definitivamente la Seconda Guerra Mondiale con le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki e, per quanto riguarda la politica interna americana, propose una modernissima “Riforma sanitaria”, nel contesto del “fair deal” (l’affare giusto per i diritti civili). Quella sua proposta di riforma influenzò la storia sanitaria italiana. La proposta iniziava con questa dichiarazione: «La Nazione ha bisogno che siano rimosse le barriere economiche per ottenere l’assistenza sanitaria. La salute di tutti i cittadini merita l’aiuto di tutta la Nazione». Egli propugnava l’assistenza sanitaria gratuita per tutti. Tuttavia, la proposta di riforma venne bocciata a causa della forte opposizione del partito Repubblicano.
Ai repubblicani si era associato, nel voto contrario, anche un gruppo di senatori democratici. La lobby delle assicurazioni private aveva vinto.
La riforma non si fece e ne conseguì la persistenza di un sistema sanitario nazionale basato sulle assicurazioni private, in cui i facoltosi si potevano curare in modo accettabile. I poveri e i vecchi potevano contare sul sistema assistenziale pubblico di “Medicaid” e “Medicare”. Circa il 60% della popolazione, se voleva assistenza, doveva stipulare una assicurazione privata. L’occasione perduta della proposta Truman fu parzialmente recuperata sessantasette anni dopo con Barak Obama. La riforma nota col nome di “Obamacare” venne approvata nel 2008 e con essa l’assistenza gratuita si estese ad altri 32 milioni di americani. Questa riforma contiene anche due novità: il divieto alle assicurazioni private di rescindere il contratto nel caso in cui il cliente contraesse il diabete o un tumore, e il divieto alle assicurazioni di mettere un tetto ai risarcimenti. Questo salvò gli assicurati dal calvario del dover ricorrere in giudizio, contro le assicurazioni, per ottenere l’intera somma spesa anticipatamente per le cure.
In America il presidente Harry Truman fallì ma ebbe successo in Italia. In una intervista il ministro della Sanità Tina Anselmi raccontò che già in Italia si discuteva sulla proposta di Truman nei primi anni ‘50. I princìpi in essa contenuti vennero da lei utilizzati per produrre la più grande legge del ventesimo secolo: laì Riforma sanitaria 833/78. Con essa si realizzò concretamente l’articolo 32 della Costituzione garantendo a tutti gli italiani l’assistenza sanitaria gratuita “dalla culla alla tomba”. La Riforma venne poi applicata successivamente dal ministro Aldo Aniasi nel 1980; venne poi applicata in Sardegna nel 1982. Da noi vi fu un immediato miglioramento della sanità pubblica. Gli anni dal 1982 al 1992 furono di grande creatività assistenziale sia negli ospedali che nei territori. Nel 1992 il mondo cambiò. Avvenne la più grave crisi politica ed economica del Dopoguerra. Con gli scandali della corruzione (“Mani pulite”) e col crollo delle “Partecipazioni statali” l’Italia stava andando in fallimento. Fu necessaria una cura da cavallo: bisognava risparmiare  e la sanità pubblica venne duramente colpita. Le Usl (Unità sanitarie locali), con gestione esclusivamente pubblica e territoriale, vennero trasformate in ASL, cioè in
“Aziende” a gestione di tipo privatistico con l’esclusione dei Sindaci dal controllo della gestione.
Vennero approvate leggi di riforma con lo scopo di ridurre ulteriormente la componente pubblica contenuta nella legge 833/78. Furono la legge 502/1992 e la legge 229/1999.
Così nacquero le “Aziende” gestite da manager. Con l’ingresso dei manager prese piede lo slogan “gestire con efficienza e efficacia” che banalmente vuol dire “spendere meno e ottenere lo stesso di prima”. In quegli anni si facevano corsi di “management” che insegnavano come farlo. Fu allora che si iniziò a “spendere meno” riducendo il personale ospedaliero e gli acquisti, gli emolumenti e le manutenzioni. I Sindaci, che prima erano i controllori, non potevano farci più niente. Nel 2011 il sistema di controllo sulla gestione economica delle ASL si fece più severo e vennero prodotte leggi che inducevano a chiudere intere Unità operative specialistiche e interi ospedali. Da allora l’efficienza degli ospedali ha preso la china fino alla condizione attuale. Oggi tutti, facoltosi e meno facoltosi, affollano i Pronto soccorso degli ospedali disponendosi in lunghe file d’attesa per farsi trattare una frattura, una febbre, una colica, o una crisi cardiaca o neurologica. Alcuni finiscono per prendere l’aereo verso regioni del Nord per ottenere cure.
Ecco, questo è il contesto in cui si trovano quei politici che devono prendere una decisione veramente difficile. Il dilemma, come si è voluto dimostrare, è storico ed essi legislatori non sono i primi che si apprestano ad affrontarlo. In passato si arrivò a non volere istituire il ministero della Salute per non aggravare il Bilancio dello Stato. Il dilemma è sempre lo stesso: diminuire le spese per la Sanità pubblica, limitandola a pochi centri, per salvare il Bilancio dello Stato? Oppure: salvare la Sanità pubblica, su tutto il territorio, mettendo a dura prova il Bilancio dello Stato?
Ci vogliono doti di saggezza, mediazione e determinazione veramente notevoli.

Mario Marroccu