17 July, 2024
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Oggi, 2 giugno 2024, è l’anniversario del giorno in cui si tenne il referendum per la scelta istituzionale Monarchia/Repubblica e vennero eletti i deputati che avrebbero scritto la Costituzione per ridare un’anima unica all’Italia. Oggi è il giorno adatto per iniziare la lettura del libro “di Uomini e di Diavoli” scritto dall’avv. Luigi Pateri e riflettere sui rimaneggiamenti che si stanno per fare su alcuni articoli della Costituzione.
Il libro racconta una storia di banditismo il cui “demone” fu il “Separatismo” siciliano. Esistono due personaggi di fantasia, il capitano Peralta e Rosa, che fungono da filo d’Arianna per orientare il lettore in una vicenda estremamente complessa. Il periodo storico è quello dell’Italia negli gli anni compresi fra il 1943 e il 1950: gli anni cruciali in cui si succedettero la tragedia finale della Seconda guerra Mondiale, il dramma economico e sociale, l’avanzata degli Alleati, la fine della monarchia, la guerra civile e molti governi provvisori (2 governi Badoglio, un governo Bonomi, un governo Parri, 5 governi De Gasperi). Il subbuglio, l’incertezza e l’instabilità politica di quegli anni generò in Sicilia il fenomeno criminale del banditismo separatista.
La prima parte del libro contiene il racconto fedele della vicenda del bandito Salvatore Giuliano. La seconda parte è frutto di una ricerca eseguita sui documenti riguardanti le indagini per il processo per la morte di Giuliano; in essa si adombrano molti sospetti sulla reale identità dei mandanti della strage di “Portella della Ginestra”. Questa parte del libro è estremamente inquietante e getta l’ombra del sospetto su tante vicende successive, fino a lambire il nostro tempo.
I numerosi atti criminali, ineguagliabili per numero e ferocia in tutta la storia italiana del 1900, provocarono l’assassinio di 151 carabinieri, circa 40 poliziotti e centinaia di privati cittadini, politici e sindacalisti.
Il libro esce, molto opportunamente, in un momento molto delicato in cui si sta andando ad eseguire un complesso intervento “chirurgico demolitivo e ricostruttivo”, quindi trasformativo, a carico degli articoli 116 e 117 della Costituzione: gli articoli che definirono le Regioni ad Autonoma Speciale e l’istituzione del “Fondo Perequativo” tra di esse. La strage di Portella della Ginestra avvenne proprio nel momento in cui i Padri Costituenti, nel 1947, stavano scrivendo quegli articoli della Costituzione Italiana, con il fine di mantenere integro il corpo della Stato, della Nazione e del suo territorio.
Per entrare nello spirito del libro è necessaria una premessa storica. L’oggetto del racconto è costituito dalle circostanze che portarono all’attentato che si concluse con la strage di Portella della Ginestra, il Primo Maggio 1948, festa dei lavoratori. Tale festa era stata soppressa durante il ventennio fascista e ripristinata con legge del 1946 (Alcide De Gasperi). Era la prima festa del Primo Maggio dopo l’Era Fascista. L’anno della strage, il 1947, sta in mezzo, tra i due anni più importanti per la ricostruzione dello Stato italiano: il 1946, anno del Referendum, e il 1948, anno di promulgazione della Costituzione Italiana. Il 2 giugno 1946 si celebrò il Referendum Istituzionale (Monarchia/Repubblica) e l’elezione per la nomina dell’Assemblea Costituente che aveva il compito di redarre la madre di tutte le leggi.
Nel gennaio 1948 venne promulgata la Costituzione italiana e vennero varate le prime tre leggi ritenute più urgenti: la numero 1 riguardava il funzionamento delle Corte Costituzionale; la Numero 2 dichiarava l’Autonomia Speciale della Sicilia; la numero 3 dichiarava l’Autonomia speciale della Sardegna. Nella Costituzione, agli articoli 116 e 117 (titolo V), erano state indicate le 5 Regioni con “Autonomia Speciale”: Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia-Giulia, Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta.
Il tema più divisivo, che bisognava risolvere per ricostituire l’unità della Nazione, era la gestione delle comunità regionali che, per varie ragioni, avevano nel loro seno un forte partito indipendentista. Le tre regioni del Nord erano frontaliere ed erano abitate da popolazioni di madre lingua non italiana (Francese, Tedesco, Slavo) e in ognuna esistevano pulsioni al distacco dall’Italia. La Sardegna aveva un partito indipendentista rappresentato dal movimento sardista. Il caso più difficile era rappresentato dalla Sicilia che per ben 700 anni, dal tempo del Normanno Ruggero II, fino ai Borboni, era stata un regno indipendente. Anche nel 1900 la massima aspirazione politica dei siciliani fu quella di ottenere un regno di Sicilia indipendente dall’Italia. Tale aspirazione era coltivata dai nobili proprietari del latifondo.
La nobiltà siciliana era nata con Ruggero II ( 1130) che nominò i Baroni e suddivise fra di loro tutte le terre coltivabili . I Baroni a loro volta le distribuirono ai Vassalli. Le terre potevano essere coltivate dal popolo dei contadini sotto il vincolo di un contratto di mezzadria. I Baroni garantivano ai contadini la difesa del territorio e la loro personale sicurezza; in cambio ricevevano dai contadini le somme corrispondenti all’affitto del latifondo. A tal fine, si era costituita una struttura funzionalmente intermediaria, tra nobili e contadini, rappresentata dagli “esattori”: costoro riscuotevano dai contadini il premio dovuto per la loro protezione, l’affitto spettante ai baroni, il prezzo dell’acqua per l’irrigazione e il prezzo del guardianaggio. Gli “esattori” facevano pagare ai Baroni il prezzo dei loro servigi e della loro “protezione”. La protezione e la riscossione erano compito dei “gabellieri”, i quali a loro volta utilizzavano una manovalanza, spesso selezionata tra la criminalità locale: i “campieri”. Si trattava di uomini armati a cavallo che perlustravano, controllavano e riscuotevano gli affitti, con l’uso della forza se necessario. Tale struttura intermedia dette corpo, poi, alle famiglie e alle “cosche” mafiose.
L’eccesso di potere nel fornire protezione spesso sconfinò nell’azione criminale. Ciò avvenne, soprattutto, per contrastare le richieste di riforma agraria dei contadini.
Nel 1866, sempre per ottenere la “riforma agraria”, esplose una grande rivolta a Palermo: i contadini invasero la città e qui fecero sollevare in armi la popolazione, che fu solidale, per l’assegnazione delle terre del latifondo al popolo. I contadini si erano illusi che Garibaldi fosse giunto in Sicilia per distribuire le terre, successivamente si accorsero che di fatto avevano solo cambiato padrone (dai Borboni ai Savoia). Per sedare la rivolta fu necessario l’impiego delle navi da guerra Sabaude e Inglesi che procedettero al bombardamento della città provocando mille morti. Vennero arrestati molti rivoltosi e alcuni vennero giustiziati.
Politicamente esistevano in Sicilia due tendenze opposte: quella dei Baroni che volevano mantenere lo “statu quo ante”, conservando le terre, e quella dei contadini che volevano appropriarsene per la sopravvivenza. I primi (i Baroni) non avrebbero accettato il nuovo ordinamento democratico repubblicano e, pertanto, erano conservatori e monarchici. I secondi aspettavano l’ordinamento repubblicano e democratico-riformista, pertanto, erano contro la monarchia che garantiva la conservazione dei privilegi ai nobili.
I baroni latifondisti, nel loro interesse, alimentavano il sentimento indipendentista-separatista che propendeva per una Sicilia indipendente dallo Stato italiano e libera di associarsi ad altre nazioni. In quel clima di separatismo indipendentista si era sviluppata l’idea di far diventare la Sicilia uno stato confederato agli Stati Uniti d’America: il 49° stato. Tale idea trovava terreno fertile nella propensione americana di favorire l’idea separatista e annessionista siciliana, perché gli Stati Uniti vedevano nei suoi porti un possibile punto strategico per il controllo del Mediterraneo. Un’idea simile l’avevano anche gli inglesi. L’appoggio internazionale all’idea separatista, e il sostegno interessato dei baroni latifondisti, indussero nei siciliani l’aspirazione alla rifondazione di un regno indipendente della Sicilia come ai tempi di Ruggero II.
L’idea-sogno separatista ebbe una fiammata di entusiasmo quando il 20 giugno 1943 gli Americani conquistarono Pantelleria e ne fecero una loro base per lo sbarco in Sicilia. In quei giorni, a Palermo, si iniziarono a vendere spille raffiguranti la “Trinacria” e la bandiera “a stelle e strisce” americana.
Il 10 luglio 1943 avvenne lo sbarco alleato in Sicilia. Questo fatto fu prodromico a ciò che sarebbe avvenuto 14 giorni dopo, la notte del 24 luglio, con l’ordine del giorno Grandi. Benito Mussolini, esautorato, la sera del 25 luglio venne fatto arrestare. Il Duce rimase in arresto per 57 giorni, fino al momento in cui fu liberato da Otto Skorzeny e messo a capo della Repubblica di Salò in contrasto al “Regno del Sud” con Vittorio Emanuele III a Brindisi.
Il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio aveva nominato un governo con a capo il Generale Pietro Badoglio.
Il 28 aprile 1945 Benito Mussolini venne ucciso a Dongo. Due giorni dopo si suicidò Adolf Hitler. Fu la fine della guerra.
Dal dicembre 1945 il Governo venne presieduto da Alcide De Gasperi fino alla nomina della “Commissione Costituente”; questa venne eletta il 2 giugno 1946, contemporaneamente al “referendum istituzionale Monarchia /Repubblica”.
Vinse la Repubblica e il Re venne esiliato.
In questa temperie della grande Storia si inserisce la storia criminale del bandito Salvatore Giuliano.
N.B.: il 22 giugno 1946 (20 giorni dopo il Referendum) Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia, proclamò l’amnistia generalizzata per tutte le violenze perpetrate per motivi politici.

Tra gli amnistiati rientrarono anche i adepti dell’EVIS (l’esercito separatista siciliano) di cui Salvatore Giuliano era componente. Salvatore Giuliano e la sua banda non furono ammessi all’amnistia a causa dei tanti crimini comuni commessi; essi si sentirono traditi e riavviarono la loro guerra contro lo Stato.
La passione di Salvatore Giuliano per il separatismo e il suo odio per l’Italia che percepiva come un governo straniero occupante, gli avevano dato titolo per essere affiliato alla mafia, per assumerne incarichi e per servire la causa separatista della nobiltà siciliana latifondista. Aveva fatto delle caserme e delle stazioni di polizia un suo obiettivo. I suoi nuovi datori di lavoro criminale lo apprezzavano tantissimo per le capacità organizzative, la dote naturale al comando, e lo avevano individuato come leader all’interno dell’Esercito Volontario Indipendentista Siciliano (EVIS) col grado di colonnello. La sua guerra iniziò abbracciando la causa della Sicilia indipendente dallo Stato italiano.
Il Governo italiano, dopo tanti attacchi ad opera dei separatisti avvenuti nel periodo della forte instabilità dei Governi provvisori (1943-1945) dapprima non rispose perché non era in condizioni di farlo; successivamente, con la fine della guerra e con l’avvento del primo Governo De Gasperi, il 10 dicembre 1945, lo Stato rispose: inviò tre divisioni (Sabauda, Aosta, Garibaldi) in Sicilia che dettero la caccia all’esercito EVIS battendolo in battaglia campale a “San Mauro di Caltagirone” il 29 dicembre 1945. Molti separatisti vennero arrestati. Salvatore Giuliano reagì alla sconfitta nel gennaio 1946 attaccando una casermetta di carabinieri e uccidendone 5. Dopo pochi giorni attaccò una stazione dei carabinieri, ne catturò 8 e tentò di instaurare una trattativa per scambiarli con i separatisti detenuti nel carcere di Palermo. Lo Stato non accettò di entrare in trattativa con i criminali e Salvatore Giuliano giustiziò gli 8 militari. Le uccisioni di carabinieri, poliziotti e privati cittadini continuarono. Lo scopo era aprire una trattativa per ottenere l’indipendenza della Sicilia dallo Stato italiano. Nell’anno 1946, il 2 giugno si tenne il Referendum per la scelta della nuova forma istituzionale da dare allo Stato. Seppure per poche migliaia di voti, vinse la Repubblica. Questo fatto mise in forte scompiglio i latifondisti siciliani. Si temeva che, con l’applicazione dei vari decreti del ministro dell’Agricoltura Fausto Gullo, si potessero costituire le cooperative dei contadini e che questi potessero appropriarsi delle terre incolte possedute dai Baroni.
Chi era interessato a mantenere il latifondo intatto iniziò ad esercitare tutte le pressioni possibili sui Padri Costituenti, che allora stavano scrivendo gli articoli della Costituzione, per indurli a introdurre nella legge l’Indipendenza siciliana. L’indipendenza avrebbe significato per i latifondisti la possibilità di mantenere il potere di fare le leggi future a proprio vantaggio.
Le pressioni sui Costituenti durarono per il 1946 e tutto il 1947.
Il 1947 fu l’anno della strage di “Portella della Ginestra”. Fu la più grande azione violenta contro lo Stato. Tutta la rabbia antipolitica e antisindacale si concentrò nell’agguato del Primo Maggio 1947 contro la festa del Lavoro organizzata dai partiti di sinistra e antifascisti assieme ai sindacati dei contadini. L’esecutore della strage che ne seguì fu Salvatore Giuliano, l’intermediario fu la mafia, ma il mandante è tutt’oggi ignoto.
Salvatore Giuliano ebbe l’incarico di eseguire l’agguato con la massima ferocia e venne rifornito di una mitragliatrice Breda e altri fucili mitragliatori.
Quando nel pianoro di Portella della Ginestra furono presenti almeno 2.000 festanti contadini con le famiglie, e si attendeva il comizio di un politico, le mitragliatrici presero a sparare all’impazzata.
Morirono 11 persone, fra cui 2 bambini; molte decine furono i feriti gravi; anche moltissimi animali da soma, usati come mezzo di trasporto dalle famiglie, vennero uccisi.
Si seppe poi che fra i banditi sparatori vi erano 5 confidenti dell’apparato di giustizia che avevano avvisato sulla prossimità di un grave attentato. Il fatto indusse il forte sospetto che gli organi di polizia fossero già a conoscenza della preparazione dell’agguato ma che avessero scelto di non impedirlo. Tutti quei confidenti vennero poi uccisi un mese dopo in un agguato teso dai carabinieri. Si ritenne che la strage fosse avvenuta per impedire che qualcuno di essi rivelasse il nome dei mandanti.
Il destino dei separatisti e dello stesso Salvatore Giuliano era segnato. Nonostante la politica internazionale (Stati Uniti e Inghilterra) fosse orientata per l’indipendenza della Sicilia, e quindi in linea con i desiderata di Salvatore Giuliano e dei latifondisti, la Russia era contraria: sosteneva la necessità di lasciare la Sicilia unita all’Italia. Ciò venne concordato definitivamente a Jalta, fine 1945, tra Winston Churchill, Franklin Delano Roosevelt 32° presidente degli Stati Uniti e Iosip Stalin.

Dopo la strage di Portella della Ginestra, la guerra personale di Giuliano contro lo Stato Italiano continuò con eccidi e sequestri di persona per tutto il 1949 e 1950. Molti furono i segretari politici di sezione paesani e i sindacalisti uccisi.
Questi fatti non furono indifferenti per i Padri Costituenti. Era evidente l’esistenza di un grande problema indipendentista. Da lì nacque l’idea di concedere l’”Autonomia Speciale”, ma non l’indipendenza, alla Sicilia. Ne derivò la concessione dell’autonomia anche ad altre 4 regioni in condizioni critiche. Tale decisione fu alla base degli articoli 116 e 117 della Costituzione del 1948.
Nel 1949 si erano avviate trattative tra le istituzioni e Salvatore Giuliano per fermare la violenza contro i politici.
Si giunse a concordare il trasferimento dell’intera banda Giuliano in Brasile.
Salvatore Giuliano frequentava un avvocato di Castelvetrano (avv. De Maria) con l’aiuto del quale compilò un memoriale in cui citava i nomi dei mandanti della strage di Ginestra della Portella. Questo doveva essere lo scudo che gli avrebbe garantito la salvezza.
Il piano di Giuliano non si avverò. Venne ucciso il 5 luglio 1950.
Si ritiene che ad ucciderlo fosse stato un personaggio della Mafia, Luciano Liggio, con la complicità di Gaspare Pisciotta.
A novembre 1950 la madre di Salvatore Giuliano presentò querela contro i carabinieri per l’uccisione del figlio. Il processo si tenne a Viterbo.
Il memoriale di Salvatore Giuliano entrò in possesso degli organi inquirenti ma poi sparì e non si ritrovò più.
Molti, tra le figure di autorità giudiziaria che avevano trattato con Giuliano e la sua banda, morirono d morte violenta nei mesi e negli anni successivi.
Nella storia della banda Giuliano e del movimento separatista siciliano esiste un trend interessante sull’evoluzione della tendenza al separatismo. Si iniziò col pretendere l’indipendenza della Sicilia per farne uno stato sovrano e si concluse per concedere l’Autonomia speciale con legge Costituzionale. Al contrario oggi si sta evolvendo il concetto di autonomia verso una forma cosiddetta “differenziata”. Il termine “differenziazione” significa “prendere strade diverse” e quando ci si differenzia si tende ad allontanarsi da un obiettivo comune. Appare chiaro che la differenziazione riguarda la gestione del “Fondo perequativo”. Tale fondo venne concepito per creare infrastrutture economiche e sociali nelle regioni meno avvantaggiate. Oggi, con l’attuale disegno di legge tale fondo può essere ridimensionato.
Il fondo è costituito da una percentuale sulla raccolta fiscale delle regioni. Nell’interpretazione precedente degli articolo 116 e 117 della Costituzione tale fondo era destinato quasi esclusivamente alle 5 regioni autonome. Inoltre, la legge in discussione prevede che le nuove regioni richiedenti la “Autonomia differenziata” possano costituire un loro fondo per la gestione dell’Istruzione, della Sanità e dei trasporti locali. Si creerebbe così un nuovo Stato del Nord con Scuole, Università e Sanità differenziate dal Sud.
La Storia dell’Autonomia speciale, con le sue lotte anche violente, dovrebbe far riflettere.

L’Italia conta, dal primo gennaio 2024, 58 milioni di abitanti. I nati del 2023 sono stati 379.000. Appena 8 anni fa furono 473.000 (quasi 100mila in più). Il Sulcis Iglesiente che due anni fa aveva 119.000 abitanti, ne ha perso il 2% l’anno; dovrebbe essere oggi intorno ai 117mila. Fra 15 anni la nostra popolazione provinciale scenderà a 100.000 abitanti e sarà composta prevalentemente da ultra-sessantacinquenni. Vi saranno pochissimi bambini e pochi adulti in età lavorativa e, fra 40 anni, la Sardegna sarà severamente spopolata. Un cambiamento regressivo del genere non avverrà in Germania, Francia, Spagna, Svizzera, Nord Europa, Inghilterra e Stati Uniti. Avverrà solo da noi in tutto il mondo occidentale.

La regressione avverrà in modo limitato nel Nord Italia, dove esiste un rapporto di quasi due bambini per coppia; avverrà un po’ di più nel Centro Italia e Sud, dove nascono 1,2 bambini per coppia; sarà grave in Sardegna, con la nascita di 0,9 bambini per coppia; sarà molto grave nel Sulcis Iglesiente dove nascono 0,8 bambini per coppia. Sembra incredibile che il Sulcis possa perdere tanti abitanti, eppure è un fenomeno già visto in altre specie animali familiari.

Fino al 1970 sembrava impossibile che potessero scomparire le rondini ma da allora iniziò un progressivo calo dei loro arrivi. Gli studiosi scoprirono che la riduzione del numero delle rondini era dovuto ad un calo della fertilità dei maschi. Il fatto venne attribuito all’aumento della radioattività terrestre, conseguente ai numerosi esperimenti nucleari nel deserto africano. Nonostante l’avvio degli accordi per la cessazione degli esperimenti nucleari, la fertilità delle rondini peggiorò; allora si scoprì che le rondini stavano ulteriormente perdendo fertilità anche a causa dei prodotti chimici ampiamente utilizzati in agricoltura. Oggi le rondini sono una rarità. Il fenomeno dell’inquinamento ambientale tossico per l’uomo divenne chiaro per la prima volta nel 1915, con  l’impiego del gas “Iprite” da parte dei tedeschi durante la prima guerra mondiale. Un inquinamento ambientale massivo avvenne in Sardegna nel 1950, quando fu avviata  la grande operazione Rockfeller, con l’impiego di agenti chimici per eradicare la malaria. Per estinguere la zanzara anofele, la Sardegna venne irrorata con quantità colossali dell’insetticida DDT. La malaria venne eradicata ma il DDT inquinò la terra, le acque e l’ambiente vegetale; le quantità di DDT che arrivarono al mare attraverso lo scolo delle acque piovane fu talmente grande che ne arrivò perfino al polo Nord. Si rinvenne l’insetticida anche nel grasso delle foche e degli orsi bianchi che si nutrivano di pesci che rientravano dal Mediterraneo dopo avervi deposto le uova. Contemporaneamente iniziò a diminuire la fertilità dei maschi umani. Gli scienziati scoprirono poi che il DDT ingerito con gli alimenti possiede sull’uomo un effetto antiandrogeno, cioè blocca il sistema ormonale delle ghiandole della fertilità. Successivamente, si scoprì che anche gli anticrittogamici organofosforici dell’agricoltura hanno effetti ormonali femminilizzati per il maschio. Senza saperlo, era stata attuata un’opera di depressione della fertilità maschile attraverso l’inquinamento chimico ambientale. Oltre all’infertilità nelle coppie,  negli stessi decenni del dopoguerra e del “miracolo economico” si iniziò a registrare un aumento dei tumori in generale. L’osservazione corrisponde cronologicamente allo sviluppo delle industrie chimiche, alle estrazioni minerarie e alle industrie di trasformazione metallurgiche, soprattutto dei metalli pesanti. Quei fenomeni patologici evolvettero in parallelo con l’inquinamento ambientale da causa industriale e, come si sa, le vie del passaggio degli inquinanti dalle industrie all’uomo sono infinite.  

Le persone di una certa età ricorderanno che negli anni ‘50-’60 era pericoloso fare un viaggio a Milano indossando una camicia bianca perché il colletto della camicia diventava rapidamente grigio-scuro a causa del deposito di “smog”. Questo termine indica le polveri sottili emesse dai camini delle industrie, commiste all’umidità dell’aria. Milano, la città dei camini industriali perennemente fumanti, attuò un programma di ricollocamento in altra sede delle industrie e dei relativi camini per motivi di salute pubblica. Era contemporaneamente il periodo della crisi delle miniere del Sulcis e dell’Iglesiente. L’esigenza del Nord Italia di liberarsi dall’inquinamento ambientale e l’esigenza di posti di lavoro nel Sud Sardegna imposero alla bussola della politica la direzione da prendersi. Così le industrie vennero portate in Sardegna e nacque il polo industriale più grande e più inquinante d’Italia: quello di Portovesme. L’inquinamento ambientale non era una novità per la nostra provincia, dove da secoli si coltivavano miniere di metalli pesanti e da molti decenni si coltivavano le miniere di carbone Sulcis, portatrici di malattie degenerative, silicosi, tumori, TBC.

I sanitari che hanno lavorato negli ospedali di Carbonia e Iglesias sanno che in questo territorio esistono un numero di tumori e una varietà di malignità istologiche che ha pochi paragoni in Europa. Non se ne conosce il dato statistico certo per la carenza storica di un registro dei tumori locale, pertanto, ciò di cui si tratta riguarda osservazioni dei medici e degli anatomopatologi che si sono confrontati con i tumori del Sulcis Iglesiente dal 1950 ad oggi. Ciò che viene riferito è coerente con le preoccupazioni esplicitate dal Governo nel 1990 nell’atto di dichiarazione del Sulcis come “Area ad alto rischio di crisi ambientale”. Un esempio di patologia molto nota è dato da un particolare tipo di cancro urologico. Si tratta del carcinoma uroteliale che colpisce frequentemente la vescica e raramente il rene. Diversi anni fa una rivista pubblicò che nel Nord Italia quel tipo di cancro colpiva il rene nel 3% di tutti i cancri renali. Confrontando con i dati dell’ospedale Sirai di Carbonia, si scoprì che nella nostra area invece quel tipo di tumore è percentualmente molto più frequente rasentando il 30%, cioè 10 volte tanto che a Milano. 

Considerato che il carcinoma uroteliale è in diretto rapporto con l’inquinamento da causa industriale e ambientale, si comprende quanto maggiore sia stata la nostra esposizione rispetto ai milanesi. Questa esperienza è un’ulteriore conferma del danno ambientale e alla salute che ci pervenne con il ricollocamento delle industrie inquinanti dal Nord Italia al Sud Sardegna.

Il trasferimento di materiali inquinanti da altri luoghi verso il Sulcis non è mai finito. Pochi giorni fa una nave ha scaricato, destinati a Portovesme, 8 containers pieni di “fumi d’acciaieria” con livelli radioattivi oltre i limiti consentiti, fermati ai controlli. Si tratta di materiali di risulta provenienti da fonderie o industrie a noi sconosciute contenenti: mercurio, vanadio, arsenico, berillio, rame, cobalto, cesio, e chissà che altro. In genere la provenienza è dall’Est Europeo. Circa 30 anni fa ad una nave simile venne impedito di scaricare un carico radioattivo formato da “fumi d’acciaieria” che pare provenissero dalla centrale nucleare ucraina di Chernobyl. 

Nella delibera sulla dichiarazione di “ Zona ad alto rischio di crisi ambientale” pubblicata dal ministro dell’Ambiente il 30 novembre 1990, sta scritto che dai camini del polo industriale di Portovesme allora venivano eruttati nei nostri cieli tre tonnellate di polveri ogni ora. Un’enorme quantità di polveri, provenienti dalla lavorazione di materiali inquinanti, pari a 70 tonnellate emesse ogni giorno poi ricadeva sulle case, sulle piante, sui suoli, sulle colture, sui prati dei pascoli, sui corsi d’acqua e in mare. L’erba assorbiva le sostanze tossiche, gli animali al pascolo se ne nutrivano, noi mangiavamo carni e latte di tali animali assumendone le sostanze chimiche incluse. Similmente avveniva con frutta, ortaggi e cereali. Ciò avvenne per 20 anni. Nel mare della laguna di Santa Caterina i mitili oggi sono scomparsi; i piccoli crostacei, i muscoli e i pesci si sono rarefatti. Esiste un’ordinanza che vieta la pesca di arselle e muscoli della laguna a causa dell’alto tasso di metalli pesanti nelle loro polpe. Nonostante la solenne promessa di grandi finanziamenti da parte dallo Stato per disinquinare il nostro ambiente, il danno è ormai perenne e irrisolvibile. L’unico provvedimento assumibile da parte dello Stato è l’impegno alla sorveglianza sanitaria continua della popolazione e alla cura immediata in loco. Purtroppo, però, nonostante l’impegno di salvaguardia della salute preso con noi dal ministero dell’Ambiente nel 1990, oggi sta avvenendo il contrario.

In contrasto con l’evidenza dell’alto rischio patologico che corriamo, stiamo tutti assistendo alla chiusura progressiva dei nostri ospedali, alla sottrazione di personale sanitario, alle lunghe liste d’attesa. Per curarci dobbiamo migrare verso altri territori, spesso, a nostre spese. 

Tale condizione è diventata obbligata  dopo l’avvenuto depotenziamento degli 8 ospedali provinciali delle 8 province sarde (Olbia/Tempio, Sassari, Nuoro, Oristano, Ogliastra, Medio Campidano, Sulcis, Cagliari). Il depotenziamento di 6 Asl è avvenuto per sottrarne le funzioni e accentrarle nell’unica super-ASL di Cagliari. Ciò fu attuato per ridurre le spese di tutta la Sanità sarda e per farlo si creò un’unica ASL sovrana, a Cagliari. Ci eravamo illusi che la democrazia sanitaria realizzata dalla legge 833/78 sarebbe durata nel tempo.

Oggi, dopo aver vissuto l’inefficacia della “Dichiarazione di zona ad alto rischio di crisi ambientale” che avrebbe dovuto garantire la sorveglianza della salute nell’area comprendente i territori di Carbonia, Portoscuso, Gonnesa, San Giovanni Suergiu, Sant’Antioco, stiamo per vedere di peggio: sta avvenendo che tre regioni del Nord Italia ci vogliono tagliare fuori dalle garanzie dell’articolo 116 e 117 della Costituzione che dettero alla Sardegna lo status di “Regione Autonoma Speciale” con il diritto alla protezione economica garantita dal “Fondo Perequativo”. Tale fondo nacque per equipararci, dal punto di vista “strutturale”, alle regioni più dotate nei seguenti campi: Sanità, Istruzione, Trasporti pubblici locali. Quel dettato costituzionale non venne mai realizzato e non risulta a tutt’oggi rispettato. Per quanto riguarda la Sanità del Sulcis Iglesiente, non abbiamo avuto reali miglioramenti rispetto alle strutture ospedaliere del dopoguerra (nel dopoguerra avevamo 750 posti letto ospedalieri tra Carbonia e Iglesias, oggi ne abbiamo molto meno di 300). I trasporti pubblici oggi sono costituiti da una poverissima rete ferroviaria e da trasporti aerei e navali costosi e insufficienti, e con la sostanziale assenza del rispetto del diritto alla “continuità territoriale col continente”. Con la proposta di legge di “Autonomia regionale differenziata” in discussione in Parlamento. potrebbe avvenire il declassamento delle scuole e, soprattutto, delle Università sarde. Se avvenisse un inferiore finanziamento delle nostre Università, i titoli di laurea sardi potrebbero valere molto meno di quelli acquisiti nelle università del Nord Italia. Si capisce cosa avverrebbe ai concorsi tra i candidati sardi e quelli del Nord Italia. Questa legge sull’Autonomia differenziata sta inventando un’anomalia dell’amministrazione dello Stato non prevista dalla Costituzione: sta inventando le “Regioni sovrane” del Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) che non avranno bisogno né del Parlamento per varare leggi né dell’Italia unita per formare un’unica Nazione.

Così va la Storia. Noi sardi nel 1854-56 facemmo la guerra di Crimea per ingraziarci i francesi e ottenere il loro appoggio per liberare il Lombardo Veneto quando era l’estrema periferia del dominio Austroungarico. Poi ci prendemmo le industrie inquinanti del Nord per salvarle dall’inquinamento e cedemmo a quelle industrie la nostra salute in cambio di lavoro. Da quella nostra disponibilità sono poi derivati l’inquinamento, i tumori, lo spopolamento, il mancato rispetto del nostro Statuto e oggi il mancato diritto al “Fondo Perequativo” costituzionale. 

Nel 2024 non abbiamo più i nostri ospedali provinciali, i nostri tribunali, la nostra rete ferroviaria e i porti ad essa afferenti. Fra 40 anni non avremo più la nostra popolazione, estinta a causa di una politica che sta ignorando le regole democratiche della partecipazione popolare e che sta consentendo progetti di sfruttamento delle risorse naturali di questa terra e delle persone che la abitano.

Mario Marroccu

Immaginare i “buchi neri” è piuttosto impegnativo. Li ipotizzarono i Professori Fisici nucleari che posero le basi della “meccanica quantistica” e della “teoria della relatività”. Quando immaginiamo un buco nero, tutti pensiamo ad un nero abisso in cui si può essere inghiottiti senza ritorno. 

Invece i “ buchi neri stellari” sono quelli descritti dai fisici teorici. Da quelle basi scientifiche nel 1945 emerse il progetto delle prime bombe atomiche che distrussero Hiroshima e Nagasaki. 

Il professor Robert Oppenheimer spiega in una sua lezione che il buco nero è il fenomeno fisico più terrificante dell’Universo. Esso è capace di risucchiare i pianeti, le stelle e anche le intere galassie, facendoli scomparire in un “nulla” inconcepibile per la mente umana. È il fenomeno astrofisico più vicino alla morte biologica. Secondo Oppenheimer i buchi neri stellari si formano quando le stelle di massa superiore a 8 volte il Sole esplodono come “Supernovae”. Il materiale dell’esplosione forma una coltre pesantissima che circonda il nucleo della stella, generando sopra di essa una “forza gravitazionale “immane”. Ad un certo punto il nucleo non regge più quel sovraccarico e “implode”. È molto difficile immaginare il nucleo che si collassa su se stesso, soprattutto, se si considera che il nucleo delle stelle è fatto della stessa materia densissima e durissima che dette origine all’Universo. Eppure può esistere un peso eccessivo ancora più grande che, circondando la stella, la comprime fino a far crollare la struttura atomica del suo nucleo e annientarlo. Al suo posto si forma un “buco nero” che ha un potere di risucchio immane su tutto ciò che lo circonda. Niente gli può resistere, neppure la luce. Anche i “fotoni” della luce e la loro onda elettromagnetica vengono risucchiati nel buco nero, schiacciati e azzerati. La luce che vi entra non può più tornare indietro. 

Gli scienziati affermano che il nostro Sole non dovrebbe diventare mai un buco nero perché non è gravato da onde gravitazionali tanto grandi da farlo implodere. Pare che le esplosioni termonucleari, con cui ci irradia di luce e calore, gli facciano da scudo. 

Tutti dovrebbero sentire la lezione di Oppenheimer per entrare nel mondo della fisica e, soprattutto, dovrebbero ascoltarlo i responsabili della Sanità Regionale Sarda. Avrebbe-ro la prova che accentrando i Servizi sanitari in un’unica “stella-ospedale” della sanità, e aumentando la for-za di attrazione gravitazionale a cui verrà sottoposta, è possibile creare un “buco nero”. 

Quel buco nero, al pari di quello dei Fisici, ha la capacità di risucchiare il Sistema degli ospedali provinciali che ruotano intorno ad esso e di distruggerli. Questo si sapeva già da tempo, tuttavia coloro che progettarono di accentrare tutta la Sanità a Cagliari non sapevano che una volta formato il “buco nero della Sanità”, esso genera problemi da cui è difficile tornare indietro. Adesso l’involuzione del nostro intero Sistema appare inarrestabile; per salvarsi si dovrebbe emigrare in un altro Sistema sanitario, oppure si potrebbe farne uno con i pesi sanitari equamente distribuiti su ognuna delle 8 province. 

Le disposizioni politiche che hanno portato al disastro sanitario a cui stiamo assistendo, iniziarono quando lo Stato nel 1992 iniziò a liberarsi delle sue pregiate proprietà come le Partecipazioni Statali e la Sanità Pubblica. Con le prime perdemmo il più grande polo minerario e industriale d’Italia che era nel Sulcis Iglesiente. Con la trasformazione della Sanità pubblica in una Sanità parzialmente privatizzata, iniziammo a perdere gli ospedali. 

Una quindicina d’anni fa nelle Regione Sardegna fu formulata la teoria dell’accentramento sanitario nell’Isola allo scopo di ridurre le spese. Per questo si pensò di sviluppare due poli sanitari: Cagliari e Sassari. Il polo più grosso doveva essere Cagliari. Poi con la teoria che fosse utile unificare la Amministrazioni delle 8 ASL sarde in una soltanto, si procedette a svuotare di poteri e di disponibilità economica le altre 7 ASL provinciali ,concentrando tutte le funzioni in “1” ASL regionale. Venne sostenuta l’idea che centralizzando gli acquisti e le assunzioni avremmo speso di meno. In realtà la spesa sanitaria aumentò mentre, al contrario, il servizio sanitario continuò a diminuire. Si teorizzò anche l’utilità di concentrare tutti gli investimenti per le nuove tecnologie in un unico centro sanitario regionale. Ciò venne fatto ma naturalmente questo comportò lo spostamento di finanziamenti dagli ospedali provinciali e quelli centrali (HUB). Ne derivò anche lo spostamento del personale sanitario dalla Provincia al Centro. Tale operazione non fu ostacolata perché nessuna delle altre 7 ASL poteva più assumere personale né fare acquisti, e ciò avvantaggiò l’unica ASL centralizzata. Era nato, per la Sanità, il più grande centro gravitazionale ospedaliero della Sardegna. 

Tale concentrazione di potere politico, di finanziamenti, di personale, di attrezzature, e di strutture tutte su Cagliari avviò un fenomeno che Oppenheimer avrebbe previsto, ma i politici e i teorici di stampo bocconiano non capirono. 

Così è stato fabbricato un “buco nero” sanitario che oggi Cagliari non può più sostenere. Il Brotzu non riesce più a proteggersi dalla forza di attrazione gravitazionale con cui ha attirato pazienti provenienti da tutta la Sardegna e, teoricamente, dovrebbe implodere. Non è un’esagerazione. L’ha fatto capire chiaramente l’allarme che abbiamo letto pochi giorni fa sui quotidiani lanciato dalla dottoressa Agnese Foddis, D.G. dell’Azienda Brotzu di Cagliari. 

Chi ha avuto l’esperienza di passare negli ospedali cagliaritani ha visto, toccato, udito il disagio provocato dalle barelle in “fila d’attesa” negli anditi dei reparti di degenza. 

I pazienti provenienti dalle province vogliono essere curati per quelle patologie gravi e urgenti che nessuno degli ospedali provinciali può più accettare e che il Brotzu ormai non può più assistere. 

Nelle Province molti stanno subendo l’umiliazione delle “liste di attesa” per ottenere una TAC, una Risonanza magnetica o visite specialistiche. 

Questo avviene nella più grande “Stella ospedaliera” in Sardegna, Cagliari, che sta implodendo nel suo buco nero. Purtroppo, quel buco nero, fabbricato da politici improvvidi, sta risucchiando e annientando il personale, le attrezzature e i finanziamenti spettanti agli altri ospedali provinciali. 

Questo buco nero adesso è incontrollabile e non si fermerà spendendo 12 milioni di euro per le “liste d’attesa”. 

Dopo il film “Oppenheimer” è fortemente consigliato leggere i quotidiani sardi e seguire le cronache della paralisi progressiva degli ospedali (Nuoro, Oristano, San Gavino, Iglesias, Carbonia). 

Che fare? I fisici nucleari ci risponderebbero che il Sole si difende dalle forze gravitazionali con proprie esplosioni termonucleari continue. Questo dovrebbero fare gli ospedali provinciali. Far riesplodere la loro vita con l’autonomia gestionale e la politica locale. Salverebbero se stessi e Cagliari. 

I Sindaci e i Politici forniti di coscienza propria ci assistano! 

Mario Marroccu

Enzo Jannacci era un medico ospedaliero specializzato in Cardiochirurgia che operava a Milano e qualche vola a Città del Capo con Christian Barnard. Fuori dall’ospedale suonava e cantava in un una band le sue canzoni comico-demenziali. Nel 1968 lanciò l’immortale canzone:
«Vengo anch’io?…no, tu no!». A dispetto del titolo un po’ fesso egli descriveva che razza di gente siamo noi italiani: bravi a curare l’apparenza in pubblico e a vivere come se la tragedia della morte riguardasse sempre gli altri e noi ne fossimo i disinteressati spettatori. Il verso principale della canzone descriveva un quadro fedele del nostro modo di partecipare alla disgrazia comune: «Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale… per vedere se la gente poi piange davvero…e sentire che per tutti è una cosa normale (la morte degli altri) …per vedere di nascosto l’effetto che fa…». E’ del tutto vero.

Ci basta presenziare al rito funebre e siamo assolti per la nostra indifferenza alla morte dell’interessato. Enzo Jannacci, dal suo osservatorio privilegiato di un reparto di cardiochirurgia ospedaliera, vedeva questo ossimoro: l’estraniazione-solidale alle disgrazie degli altri.
Oggi la situazione in Sardegna è identica. Siamo in uno stato di grave emergenza sanitaria dove la gente muore davvero ma non succede niente. Eppure servono decisioni rapide, efficaci e anche molto difficili, perché dopo il Covid-19 e la guerra Russo-Ucraina, il mondo è cambiato.
Lo stato di economia da guerra in cui ci troviamo da alcuni anni, indebolirà ulteriormente le nostre finanze e non siamo pronti al peggio. Oltre alla minaccia atomica proveniente dal fronte ucraino, e una simile minaccia dal vicino-medio Oriente, esiste un’altra minaccia: forse si sta preparando una nuova pericolosa epidemia di influenza aviaria. Alle guerre e alle epidemie seguono sempre gravi deterioramenti del sistema economico mondiale: carenza di carburanti, distruzione di fonti alimentari, emergenza energetica e dei trasporti, arresto della produzione industriale e manufatturiera, difficoltà nelle comunicazioni, perdita di valore della moneta, crollo della natalità e, soprattutto, povertà.
Si può immaginare cosa avverrà del nostro Sistema Sanitario già in crisi. Appare incredibile la mancanza di percezione dell’emergenza. I vincitori della recente battaglia elettorale sono schierati davanti al capo in attesa delle medaglie al valore da appuntare sul petto in un rituale obbligato ma l’esultazione è anzi tempo: la vera guerra è ancora all’inizio e ci sono provvedimenti importanti da prendere con urgenza.
Un ultimo articolo comparso recentemente sui quotidiani sardi, ha raccontato il dramma di una donna deceduta in un ospedale senza aver avuto il massimo delle cure a causa della carenza di personale.
E’ un fatto gravissimo. E’ un segno della compromissione della sicurezza sanitaria pubblica e i politici dovrebbero sobbalzare sulla sedia e concentrarsi su questa pista.
Attualmente, nei nostri ospedali, il pericolo per cui urgono provvedimenti si chiama: “Carenza di personale”. Il personale sanitario sottratto ai nostri ospedali dovrebbe essere urgentemente riportato indietro.
Questo provvedimento non verrà mai preso se il potere politico non lo imporrà. La concentrazione del personale sanitario nelle ricche strutture sanitarie delle città capoluogo ha impoverito drasticamente gli ospedali provinciali e nessuno adesso sa come compensare quelle perdite di specialisti. Questa situazione viene dal passato e venne generata da leggi scritte alla fine degli anni’90. Per effetto di quelle leggi si dette avvio alla costruzione di un nuovo Sistema logistico dell’apparato sanitario in cui i tecnici dominano assoluti e in cui politici sono esclusi. Ne consegue che manca, alla cinghia di trasmissione tra popolo e Burocrazia sanitaria, l’anello più importante: la “mediazione” del “politico eletto”.
Cosa è l’apparato logistico? E’ la struttura burocratica il cui compito è quello di mettere l’apparato operativo in condizioni di poter lavorare. Cos’è l’apparato operativo? È l’insieme dei medici e degli infermieri che operano negli ospedali e nel territorio. Cos’è l’apparto strategico? È l’apparato politico che ha il dovere di legiferare e di programmare il futuro del sistema sanitario. La funzione politica è delicatissima; essa si basa sulla capacità di “mediare” tra le richieste di servizi e la possibilità di fornirli attraverso la redistribuzione dei fondi raccolti col fisco. Da ciò deriva l’enorme responsabilità del politico nei risultati che ne conseguiranno. Se le parti tra politica e burocrazia vengono invertite, il sistema sanitario crolla. L’anomalia del “travaso di potere” dalla Politica all’apparato logistico si verificò in un momento di carenza di iniziativa politica e di capacità di programmazione. Fummo tutti distratti: mancò il controllo sulle conseguenze che sarebbero venute con certe leggi di uscita dello Stato dalla gestione dei Servizi essenziali. Chi è il controllore che può rimettere ordine? E’ il cittadino nel momento in cui vota. Col voto il cittadino nomina il suo rappresentante: il politico eletto. Per esempio, nei comuni il rappresentante popolare che controlla e programma l’apparato amministrativo è il sindaco. Nelle Regioni è il presidente della Giunta che delega gli assessori. Da queste premesse si capisce l’importanza che la Politica-governante mantenga fermo il suo controllo nel mondo della Politica-praticante: quella che fornisce il servizio pubblico.
Nell’ultima decina d’anni è stata architettata una nuova macchina logistico-burocratica che sta detenendo il monopolio della sanità regionale sia nella fase di “Programmazione “ sia nella fase “Esecutiva” ed è stato messo a capo di essa un esperto in campo amministrativo. Nessuno contesta il potenziale di efficacia che può esprimere un consesso di ottimi burocrati nel gestire la logistica del sistema sanitario.
Purtroppo però, attualmente la direzione politica sul Sistema logistico risulta debole. Manca l’equilibrio dei poteri di feed-back negativo (autoregolazione) tra politici e gestori della Sanità pubblica.
Le Giunte regionali precedenti misero, a capo della gerarchia burocratica, un tecnico in qualità di assessore non eletto. Così venne realizzato un quadro amministrativo della Sanità veramente singolare:
il Sistema Sanitario Regionale finì totalmente in mano all’apparato logistico. In un sistema come questo, il popolo ha di fatto perso la sua prerogativa di esercitare il “controllo” col voto.
Da anni persiste questa dinamica anomala:
– il popolo vota per nominare il controllore politico dei suoi interessi;
– il politico che è stato votato non può controllare, perché viene lasciato senza poteri;
– l’apparato logistico-burocratico occupa i posti del potere, ed è senza controllo popolare.
– le misure burocratiche sono basate su calcoli perfetti ma il popolo è scontento dei risultati.
Il caso sanitario riferito all’inizio ci dice che la malattia del Sistema è grave. Ancora più grave è la sensazione diffusa che manchi nei capi la percezione del pericolo.
La situazione sanitaria in cui ci troviamo è difficilissima e si sintetizza in un’espressione: emergenza.
Quando l’emergenza viene affrontata da nazioni ricche tutto si risolve con la messa in campo di immense riserve di capitali.
Quando l’emergenza deve essere affrontata da nazioni già molto indebitate e dipendenti da altre nazioni per le fonti energetiche, alimentari e per la sicurezza, bisogna ricorrere a mezzi più modesti. Noi siamo fra questi.
Davanti all’emergenza e in assenza di grandi fondi disponibili, si potrebbero prendere decisioni che non comportano un aumento di spesa ma che servirebbero a migliorare la funzionalità del sistema come:
1 – Obbligare i Politici eletti a rioccupare il centro della Sanità;
2 – Limitare l’utilizzo dei tecnici alle consulenze;
3 – Riportare i Sindaci al vertice delle ASL con funzioni di programmazione e controllo.

Una volta restituito il vertice gerarchico della Sanità alla Politica sarebbe necessario mettere ordine alla gerarchia delle funzioni ospedaliere.
Già in passato, nella legge sulla “rete regionale ospedaliera del 2017” vennero istituiti gli ospedali con funzioni di “HUB”, cioè di centro in cui convogliare tutte la patologie più impegnative, e vennero identificati gli ospedali “SPOKE”, cioè quelli che dovrebbero selezionare i pazienti più complessi e inviarli agli “HUB”; infine, furono individuati gli “ospedali di base” che di norma non si dedicano all’emergenza. Questa distinzione è importantissima, perché da essa dipende la dotazione organica del personale. Dato che il problema è proprio la “carenza di Personale”, tale distinzione è cruciale. Da questa distinzione dipende quanto personale spetta ad ogni tipologia di ospedale. Una volta stabilita la dotazione organica dovuta ad ogni tipo di ospedale, è facile calcolare la spesa futura e procedere alle assunzioni. Ciò deve essere chiarito da una specifica “legge sugli organici”. Tale legge per ora non c’è.
Questa carenza è causa del caos del Personale.
Le uniche strutture ospedaliere che possono sapere di quanto personale abbisognino sono le Case di cura private, che infatti non hanno problemi. Ciò è possibile perché il loro lavoro è facilmente prevedibile e programmabile in quanto esse non erogano prestazioni sanitarie in urgenza ed emergenza. Mancando l’“urgenza” esse possono concentrare il lavoro nelle sei ore del mattino, dalle ore 8 alle 14. In quel turno gli organici sono presenti al completo. Invece nei turni della sera, della notte e dei giorni festivi l’organico è ridottissimo. Basta un medico di guardia per tutta la Casa di Cura e pochi infermieri per l’assistenza corrente ai degenti.
Negli Ospedali “HUB” dello Stato è tutto diverso. In essi il lavoro è perennemente intenso, 24 ore su 24.
Significa che per ogni turno devono essere presenti gli organici completi di medici, infermieri, tecnici e consulenti specialisti, che sono necessari in emergenza. Il dispendio di Personale, materiale e ore lavorate è enorme.
Gli ospedali di Base non trattano emergenze e pertanto hanno necessità di poco personale, che è facilmente programmabile.
Il problema si pone per gli attuali 8 ospedali provinciali delle ASL sarde .
Questi 8 ospedali, in teoria, dovrebbero inviare le grandi emergenze all’ospedale “HUB” (es. Brotzu); in realtà prima di farlo devono dirimere il dubbio se si tratti di pazienti complessi o meno. Questa distinzione, tranne i casi di ictus o di aneurisma dell’aorta o di trauma cranio-encefalico-midollare, è impossibile da farsi in breve tempo. Per capirlo bisogna eseguire tutti gli esami ematochimici, radiologici, TAC, RMN e tutte le consulenze specialistiche nell’ospedale provinciale di primo arrivo. Ciò comporta la necessità di avere personale specialistico immediatamente disponibile e, se il caso, procedere a interventi chirurgici in estrema urgenza.
Ne consegue che per tutti i turni, 24 ore su 24, in qualunque giorno della settimana, anche in questi ospedali è necessaria una dotazione di personale piena.
Lo stato delle cose a cui stiamo assistendo ci dice che nel sistema ospedaliero “Provinciale”, come il nostro, la dotazione organica è estremamente carente. Per non incorrere in gravi rischi si è pensato di risolvere il problema della responsabilità medico-legale ricadente sui gestori con un metodo drastico: la chiusura dei reparti specialistici dedicati all’urgenza. E’ la logica della “tecnica difensiva a scanso di responsabilità”. Questa è la tipica e legittima soluzione “tecnicamente perfetta”.
La soluzione politica sarebbe stata molto diversa: il Politico avrebbe impedito la chiusura del reparto e cercato Personale di supporto. L’avrebbe fatto per non perdere il favore dell’elettorato. La differenza tra tecnico e politico, infatti, sta nel fatto che il politico è sotto esame continuo dei cittadini, e può essere duramente punito col voto. Il tecnico “no”: non perde voti e neppure il posto. Non c’è equilibrio né deterrenza.
Di questo passo, si potrebbe arrivare alla chiusura totale dell’ospedale.
Prima di arrivare al punto “zero” della curva del fallimento è necessario che qualcuno faccia richieste simili a queste:
1 – E’ necessario che si classifichino ufficialmente e realisticamente gli ospedali per sapere quali siano quelli ad alta intensità di cure, quelli a media e a bassa intensità.
2 – Si deve chiarire se “tutte” le urgenze vadano trasferite al centro “HUB” di Cagliari o trattate al DEA di I livello.
3 – Si deve chiarire, con una legge, quale debba essere la dotazione organica che spetta ad un ospedale DEA di I livello (di emergenza), come è il Sirai. E’ la decisione più urgente. Senza questa legge chiunque continuerà a sottrarci personale medico e infermieristico.

La risposta a tali richieste è difficilissima e ha molte implicazioni soprattutto di tipo economico.
In attesa di un’improbabile risposta, si potrebbe prendere la decisione di riorganizzare il lavoro dei sanitari e prendersi cura almeno dell’essenziale per mantenere in vita il nostro ospedale DEA di I livello.
In una situazione così difficile il Politico potrebbe anche solo dedicarsi alla ristrutturazione della gerarchia del Personale tenendo conto del fatto che la scarsità dei medici e infermieri laureati persisterà per altri 10 anni almeno.
Si dovrebbero necessariamente ristrutturare i contratti di dipendenza prevedendo altre forme più libere per rendere più attraente il lavoro in ospedale.
Il miglioramento delle retribuzioni soprattutto ai primari, ai reperibili, ai medici di primo intervento, e agli infermieri laureati e tecnici ospedalieri potrebbe essere un incentivo per attirare i libero-professionisti nell’area della dipendenza pubblica.

Un passo importantissimo sarebbe la rivitalizzazione del Consiglio dei sanitari attraverso una nuova forma di indipendenza, autorevolezza, e autonomia con una posizione stabile e determinante come componente degli organi della ASL.

A condizioni di lavoro, prestigio e retribuzione migliorate il medici specialisti non desidererebbero più abbandonare gli ospedali ma, al contrario, gli specialisti che oggi lavorano esclusivamente in libera professione troverebbero più gratificante l’ospedale e potrebbero convertirsi ad ottenere un contratto come strutturati.
Questo ragionamento, con soluzioni concrete, può essere fatto solo in un ambiente politico, cioè con quella parte dello Stato che formula proposte di legge, o cambia le leggi.
Il ritorno dei politici alla assunzione delle responsabilità in campo sanitario, al merito per i risultati ottenuti e all’esame dell’elettorato, è essenziale.
A questo punto, se l’evoluzione geopolitica assumesse aspetti più inquietanti, saremmo un po’ più pronti ad affrontarli e si dovrebbe cambiare il testo della canzone del nostro cardiochirurgo-cantante-comico-demenziale Enzo Jannacci.

Mario Marroccu

Per capire quale fosse la condizione femminile fino al Referendum Istituzionale del 1946 bisogna andare a vedere il film “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi. E’ un’opera d’arte fantastica, da Oscar. Non si può raccontare la trama del film, perché è fortemente raccomandato andare a vederlo senza compromettere la sorpresa allo spettatore.
La storia raccontata nel film ha un preciso rapporto con l’Articolo 3 della Costituzione in cui si afferma che: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
Quell’articolo indusse una profonda trasformazione nella struttura sociale italiana e nel costume, perché riconobbe che Uomini e Donne sono uguali senza distinzione di genere, qualunque sia l’etnia di appartenenza, la religione professata (vedi leggi razziali), l’opinione politica (vedi la messa al bando dei partiti), il censo, la cultura, la condizione fisica ed economica. Fino ad un attimo prima della promulgazione della Costituzione, la società italiana era ancora regolamentata dallo Statuto Albertino del 1848. In quello statuto la Donna era posta “sotto la tutela del marito”. Con tale espressione si disponeva che le donne dovessero vivere sempre, sia da nubili che da coniugate, sotto la “tutela” di un uomo. Ciò comportava quella soggezione economica, culturale, sociale, politica che oggi Amnesty International definisce “sistema di sorveglianza”. La Costituzione Repubblicana liberò le donne da quella soggezione e, dal giorno in cui venne promulgato l’articolo 3, esse ebbero per la prima volta il diritto di programmare la propria vita. Quella legge nacque a conclusione di una Guerra mondiale e di una sanguinosa guerra civile combattuta tra fascisti-repubblichini e partigiani dal 1943 al 1945.
Chi non ha conosciuto quei tempi, dovrebbe vedere il film di Paola Cortellesi per capire cosa vuol dire non avere diritto a una propria identità e vivere sotto tutela a causa del genere di appartenenza.
Contemporaneamente all’articolo 3, i Costituenti dettero forma alla Sanità futura con l’articolo 32.
Anch’esso, come raccontò Tina Anselmi, era nato dalle utopie libertarie e ugualitarie disegnate nel periodo della guerra civile 1943-45. I legislatori che produssero la grande Riforma sanitaria con la legge 833/78 erano riusciti a liberare gli ospedali e la sanità territoriale dalla tutela delle Casse mutue, ma purtroppo nel 1992, per sfuggire alla grave crisi economica, si cadde nella tentazione di prendere una scorciatoia verso il risanamento economico adottando provvedimenti legislativi d’emergenza che rimisero il Sistema Sanitario Nazionale sotto la tutela di strutture formalmente pubbliche ma oggettivamente di tipo privatistico. Fu fatta una scelta che oggi equivarrebbe all’idea di rimettere le donne “sotto tutela” degli uomini per mettere sotto controllo un bilancio familiare critico. Oggi è accertato che l’ impostazione data alla gestione della Sanità italiana dal 1992 in poi è fallita. L’ha dimostrato scientificamente pochi giorni fa il più autorevole istituto nazionale che si occupa di Economia sanitaria, l’Istituto Gimbe (gruppo italiano per la medicina basato sull’evidenza) che ha reso pubblico uno studio in cui si sostiene che la Sardegna è al 19° posto fra le province e regioni autonome per inefficienza sanitaria. Le gravi condizioni in cui ci troviamo sono attestate dalla documentata insufficienza delle cure, dalla ridotta aspettativa di vita messa in rapporto alla spendita sbagliata dei fondi, dal forte aumento dei viaggi in continente per curarsi, dallo scarseggiare di medici e infermieri, dal fatto che il 45 % delle spese sanitarie in Sardegna è a pagamento mentre nelle altre regioni d’Italia lo è solo il 25%, dal fatto che circa la metà delle risorse assegnate ai cittadini non ha prodotto alcun servizio e che il Nsg (Nuovo sistema di garanzia) ha registrato un punteggio insufficiente nell’area ospedaliera. Si è calcolato che gli obiettivi di assistenza agli anziani over 65, fissati dal PNRR, sono irraggiungibili. In questo contesto di dati, si resta frastornati davanti all’evidenza che il disagio sanitario patito non è esattamente compreso dai responsabili della Sanità pubblica. Quando la popolazione lamenta le carenze ospedaliere, immediatamente le viene offerta la costruzione di nuovi edifici ospedalieri. In realtà chi lamenta la carenza ospedaliera intende riferirsi al bisogno di ottenere una maggiore disponibilità di offerta sanitaria intesa come maggiore disponibilità di attrezzature mediche e di “Personale dedicato alla cura del malato”.
Il problema del “Personale” va analizzato secondo due aspetti:
– l’aspetto numerico: cioè l’adeguatezza numerica al bisogno contrattuale di cure.
– l’ aspetto etico: cioè l’elemento valoriale che lega il prestatore al fruitore di cure tramite il vicendevole rispetto e la compassionevole solidarietà.

La prima riforma sanitaria della storia fu propriamente una “Riforma etica”. Nacque tra quarto, quinto e sesto secolo d.C. dall’idea, di San Basilio di Cappadocia e San Benedetto da Norcia, di interpretare concretamente il significato della parabola del Buon samaritano. Il viandante ferito dai briganti rappresentava il malato, che era sacro in quanto rappresentazione del corpo sofferente del Cristo, l’oste e il suo albergo erano la rappresentazione dei curanti e del luogo fisico del ricovero, il Buon samaritano rappresentava la comunità solidale che si autotassa e fornisce le cure gratuite al bisognoso. Quello etico-caritativo fu il primo sistema sanitario nel mondo e durò fino al 1900.

Nella prima metà del 1900 nacque la Sanità basata sulle Casse mutue che erano enti assicurativi che affondavano le loro radici nelle società operaie.
La prima “Riforma ospedaliera” fu quella varata dal ministro della Sanità Mariotti nel 1968. Fu una vera rivoluzione perché istituì la prima “Rete degli ospedali pubblici” e, per la prima volta, la legge estese il diritto all’assistenza ospedaliera a tutti i cittadini a spese dello Stato. Quella riforma introdusse il concetto che gli ospedali devono essere pubblici e devono essere finanziati con la fiscalità generale. Con questo atto l’“Etica laica” entrò nel sistema sanitario italiano.
La “Prima Riforma sanitaria”, legge 833/78, introdusse il “Sistema sanitario nazionale” finanziato dalla fiscalità generale. Quella riforma abolì le Casse mutue e realizzò il dettato dell’articolo 32 della Costituzione.
Poi dopo il 1992 noi italiani, con la nostra esperienza millenaria di civiltà ospedaliera, riuscimmo a invertirne la rotta verso la sua autodistruzione.
La “Seconda Riforma sanitaria” fu la 502/92, chiamata anche Riforma italiana alla Tatcher, perché fu improntata al rigore amministrativo per ridurne i costi, e introdusse il principio della gestione manageriale della Sanità.
La “Terza Riforma sanitaria” fu quella del 1999 della ministra Rosy Bindi; fu improntata a metodi gestionali di spiccata privatizzazione con l’obiettivo della efficienza-efficacia, cioè della maggior produzione con la minor spesa possibile. Con la nuova riforma le ASL divennero aziende produttrici di servizi sanitari che venivano pagati dalle regioni secondo i DRG. I DRG sono codici di identificazione delle diverse prestazioni sanitarie; ad ogni codice viene attribuito un valore in euro (si immagini il cartellino del prezzo su un prodotto in vendita). Quanti più DRG sanitari vengono erogati tanto più l’azienda incassa.
Con i fondi incassati, ogni reparto ospedaliero si finanzia per pagare gli stipendi, i farmaci, i presìdi e le spese alberghiere. I reparti specialistici che non hanno raggiunto gli obiettivi sono stati chiusi. La ministra Rosy Bindi allargò la platea delle prestazioni che potevano essere fornite anche da Società di servizi sanitari privati e accettò che il privato accreditato potesse fornire le prestazioni dei LEA socio-sanitari a nome e per conto dello Stato. Così dal 1999 il privato iniziò a sostituire il pubblico competendo per economicità nell’impiego delle risorse e diventando più conveniente tanto da farlo preferire alle strutture ospedaliere pubbliche. Incredibilmente sfuggì che il sistema sanitario pubblico, che si occupa di patologie non assistibili dai privati (ad esempio: rianimazioni, tumori, demenze, urgenze ed emergenze “h24” nei Pronto Soccorso), era più costoso perché si doveva sobbarcare un impegno professionale infinitamente più difficile di quello che poteva fornire il privato. Ne conseguì che il diritto alla salute nel sistema pubblico, subordinato al limite delle risorse messe a disposizione dallo Stato, entrò in crisi. Sembrava che il privato accreditato, meno oneroso, potesse addirittura sostituirsi al sistema sanitario pubblico.
Qui non si tratta di capire se le intuizioni dei ministri Di Lorenzo, Garavaglia, Bindi e di tutti quelli che seguirono fossero state giuste o sbagliate, ma si tratta di ricostruire il nesso causale tra quegli eventi e l’attuale stato di disagio sanitario della nazione. Si tratta di capire perché il sistema sanitario pubblico sia arrivato impreparato davanti all’epidemia del 2020 e abbia dovuto sopportare, con poche attrezzature e poco personale, la potente spallata del Covid, soffrendone profondamente. Nello stesso periodo il sistema sanitario privato fu esentato dall’affrontare direttamente l’epidemia e resse molto bene. Le funzioni dei due sistemi sono distinte e complementari, com’è il caso delle specialistiche oculistiche e ortopediche delle Case di cura private che sono di supporto agli ospedali pubblici i quali non riuscirebbero a contenere le file d’attesa colossali che si sono formate. Si deve prendere atto, dopo l’esperienza di questi ultimi anni, che il privato non è in condizioni di garantire l’organizzazione dell’Igiene pubblica e della Prevenzione o di sobbarcarsi l’impegno a curare tutte le grandi patologie, dai tumori alle demenze, alle epidemie e alle urgenze ed emergenze. E’ ormai accertato dai più autorevoli osservatori economici che il sistema sanitario privato è del tutto incapace di sostituirsi al Sistema sanitario nazionale e la lezione che abbiamo avuto dall’epidemia di Covid ha dimostrato che solo lo Stato può garantire un Sistema sanitario nazionale efficiente. Oggi davanti al problema demografico, e con i problemi geopolitici incombenti come il rischio di guerra, l’urgenza di ricostituire un Sistema sanitario nazionale secondo i principi della legge 833/78 è ineludibile.
Un nesso causale evidente che collega le buone riforme sanitarie iniziali al decadimento attuale è rappresentato dall’estromissione dei Sindaci dalle ASL; con quell’atto venne impedito alle Amministrazioni locali il “controllo” sulla Sanità. Di fatto da allora le autorità territoriali e le Usl vennero messe “sotto tutela” e affidate a entità esclusivamente burocratiche, interrompendo la “cinghia di trasmissione” che mette in comunicazione le popolazioni e le Amministrazioni centrali.
Per liberare le donne dalla tutela del “sistema di sorveglianza” a cui le condannava lo Statuto Albertino, fu necessario superare una guerra mondiale e un’atroce guerra civile. Così si addivenne al Referendum del 1946 per la scelta della forma istituzionale da dare allo Stato. Per la prima volta votarono le donne che avessero almeno 21 anni d’età. Con quel referendum vennero eletti i deputati all’Assemblea Costituente cui spettò il compito di redigere la nuova Carta Costituzionale. Quei deputati, eletti da 12 milioni e 700mila donne e da 10 milioni e 700mila uomini, scrissero sia l’articolo 3 (uguaglianza di genere) sia l’articolo 32 (Sanità) della Costituzione. Mentre l’articolo 3 ha dato i risultati cercati, l’articolo 32 ha ancora forti difficoltà a raggiungere gli scopi immaginati dai padri Costituenti.
Per rappresentare cosa sta avvenendo in questo stato di “tutela sanitaria” in cui siamo stati posti, ci vorrebbe una Paola Cortellesi sanitaria. Per adesso non ci resta che andare a vedere il suo film “C’è ancora domani”.

Mario Marroccu

Il disastro sanitario ed economico del Sulcis Iglesiente non è nato dal nulla. Ha radici nei fatti politici del 1992. E’ utile fare un viaggio nella storia di quegli eventi sia per capire e, forse, per porre qualche riparo.
Lo stato di salute della sanità pubblica è oggi talmente grave e la sua gravità è talmente complessa che, a questo punto, è difficile anche il solo sospettare che veramente esista fisicamente qualcuno che abbia programmato tanto degrado. Dovrebbe essere un genio fornito di una maligna intelligenza superiore.
Ammesso che esista un soggetto del genere, a che scopo lo avrebbe fatto? C’è chi sostiene che il danno al servizio sanitario nazionale sia stato progettato da un’ignota organizzazione al fine di favorire la sanità privata. Sarebbe un’organizzazione di matti veramente sciocchi perché sostituirsi del tutto alla Sanità pubblica non conviene a nessuno. Per esempio: a chi converrebbe accollarsi i malanni di tutti i vecchi d’Italia, soli, inguaribili e con in tasca i pochi soldi per la sopravvivenza? A chi converrebbe l’onere di assistere tutti i malati di cancro, debilitati nel fisico, nella famiglia e, soprattutto, nel conto in banca? Chi glielo farebbe fare ad assumersi l’impegno di prendersi in cura i pazienti in Rianimazione in uno stato di coma più o meno profondo? Perché dovrebbero pagare le ingenti spese dei trapianti d’organo a pazienti senza speranza e non solvibili? E gli infarti del miocardio? E tutti i casi di diabete ai limiti della invalidità? E i tossicodipendenti? E le malattie rare? I morti sul lavoro? E gli psichiatrici? E gli incidenti stradali? Chi glielo farebbe fare ad assumersi il compito costosissimo di affrontare le epidemie tipo Covid-19 o le campagne vaccinali, o le spese dell’Inail e dei Pronto soccorso?
Gli imprenditori privati non sono matti. A sé riservano le cliniche dove si curano le malattie, tutto sommato, più semplici, facili, guaribili e, soprattutto, di pazienti solventi. Ciò che compete alla Sanità pubblica è diversissimo da ciò di cui si occupa la sanità privata.
E’ assolutamente vero che negli Stati Uniti d’America esistono le assicurazioni private costosissime che si limitano a poche malattie e per tempi di cura molto limitati; in genere non pagano le spese del pronto soccorso o fanno dimettere i malati dopo tre giorni da un intervento a cuore aperto, per risparmiare sulla degenza in ospedale. Bisogna sapere che in America esiste anche una Sanità pubblica, che si chiama “Medicare”, a beneficio di chi non può pagarsi l’assicurazione privata e che, oltre ad essere molto carente, costa allo Stato il doppio di quanto costa il Sistema sanitario italiano. A questo punto, oltre al sospetto che dietro ci sia l’interesse di qualcuno, potremmo anche considerare il sospetto che dietro il nostro disastro sanitario ci sia in realtà qualche grosso errore commesso da politici poco accorti. Può anche essere accaduto che la grande Riforma sanitaria varata col DPR 833 del 1978 si sia inceppata a causa di leggi successive fatte male; può anche darsi che quelle nuove leggi non siano state lette con attenzione e che i votanti abbiano votato senza vedere gli errori che hanno prodotto queste conseguenze.
Anche questo sospetto, paradossalmente, è sommamente ingiusto, perché è anche vero che i politici italiani furono i primi al mondo a riconoscere nella Costituzione del 1948, all’articolo 32, il diritto di tutti alla salute. Quell’articolo, nella sua semplicità e completezza, fu uno degli elaborati intellettuali più geniali che un Costituente potesse generare: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti». Fu una frase rivoluzionaria contenente due principi: l’inviolabilità assoluta del diritto alla salute e la certificazione che tale bene è di rilevanza collettiva. Così fu sancita la solidarietà nazionale. Altro che privatizzazione! Altro che svantaggio a danno dei molti che non possono permettersela! Tutte le leggi che vanno contro questo principio sono incostituzionali e, se qualcuno avesse votato nuove norme contrarie a questo principio per disattenzione, sarebbe gravemente colpevole.
Esaminiamo cosa è avvenuto nella storia delle Riforme sanitarie italiane. Nell’anno 1968 la legge Mariotti istituì gli “Enti ospedalieri” che sostituirono gli ospedali caritativi provenienti dalla tradizione ospedaliera medioevale. La stessa legge istituì il “Fondo ospedaliero nazionale” e attribuì la competenza di gestione degli ospedali alle Regioni. Quel Fondo e quella legge ospedaliera furono la base su cui si costruì la Grande Riforma sanitaria con la legge 833 del 1978, concepita dalla Commissione parlamentare di Tina Anselmi. Ella raccontò in quei giorni che quell’idea era nata da discussioni e progetti formulati da gruppi partigiani riuniti intorno ai fuochi dei bivacchi di montagna. La legge 833/78 rappresentò un’utopia che si concretizzava in un documento scritto. Il sogno prese forma nella premessa della legge nel cui testo sta scritta la frase: «…Il Sistema sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture (ospedali), dei servizi e delle attività destinate alla promozione, al mantenimento, e al recupero della salute fisica e della salute psichica di tutta la popolazione». In nessuna legge del mondo era mai stata scritta questa premessa.
Mentre gli ospedali, dal medioevo al ‘900, erano stati sempre amministrati da comitati caritativi religiosi o filantropici, nella nuova legge si volle che gli ospedali fossero amministrati da rappresentanti popolari democraticamente eletti. Fu una rivoluzione. I cittadini, dopo 1.500 anni dall’istituzione degli ospedali dai tempi di San Benedetto e San Basilio, divennero per la prima volta i proprietari e gestori diretti degli ospedali. La comunicazione fra cittadino e gestore divenne immediata perché il Sistema venne dato in mano ai sindaci e ai consiglieri comunali. Essi avevano il compito di eleggere l’”Assemblea generale” che era formata da consiglieri comunali e l’Assemblea eleggeva il presidente della Usl (Unità sanitaria locale). Furono gli anni più produttivi della storia sanitaria italiana.
Scomparvero le Casse mutue e comparve il Ssn (Sistema sanitario nazionale), finanziato dal sistema fiscale universale. Ne conseguì anche che ai grandi miglioramenti si associò il crescere della spesa pubblica dello Stato. Per contenerla il ministro Carlo Donat Cattin nel 1987 abolì l’Assemblea generale ma mantenne il presidente della Asl e il Comitato di gestione, eletto dai sindaci dei Comuni del territorio.
Secondo gli indicatori economici internazionali, l’Italia godeva di un generale benessere economico tanto che nell’anno 1991 venne dichiarata quarta potenza industriale del mondo e il PIL pro capite risultava superiore a quello dell’Inghilterra.
Appena un anno dopo, la Repubblica entrò nel suo “annus horribilis”: il 1992. La commissione governativa presieduta dall’economista Piero Barucci rivelò che l’economia era al collasso a causa di un imponente debito pubblico causato dalle Partecipazioni statali. Eni, Enel, Iri, Ina, Efim, stavano portando al tracollo lo Stato. L’indebitamento aveva messo in crisi il Governo espresso dal CAF (Craxi-Andreotti-Forlani). Caduto il Governo Andreotti II e dimessosi Francesco Cossiga, si andò a nuove elezioni sotto l’effetto dell’esplodere dello scandalo di Tangentopoli. A febbraio era iniziata l’indagine della procura di Milano diretta da Francesco Saverio Borrelli e condotta da Antonio di Pietro, in seguito alle rivelazioni di Mario Chiesa, il direttore del Pio Albergo Trivulzio. Oscar Luigi Scalfaro, sostenuto dalla corrente dei “moralizzatori”, venne eletto presidente della Repubblica e immediatamente indisse le nuove elezioni; queste avvennero ad aprile contemporaneamente all’esplosione della sfiducia popolare nei partiti storici, in un clima di forte instabilità politica. I partiti tradizionali crollarono ed emerse la Lega Nord che passò da 2 a 80 parlamentari. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiutò di concedere incarichi di Governo a Bettino Craxi e nominò presidente del Consiglio il deputato Giuliano Amato. La Prima Repubblica era finita con un’ondata di arresti e di avvisi di garanzia. A maggio, ad opera della mafia, avvenne la strage di Capaci, seguita due mesi dopo da quella di via d’Amelio. Lo Stato era preso fra molti fuochi. Giuliano Amato si trovò ad affrontare una condizione di dissesto economico più grave dal dopoguerra ad allora. Si correva il rischio di non poter pagare gli stipendi pubblici. La Nazione si sarebbe fermata.
La Banca d’Italia fu costretta a vendere 48 miliardi di dollari per difendere il cambio e la lira fu svalutata del 30%. La lira uscì dallo Sme (Sistema monetario europeo); era il 16 settembre 1992, il “mercoledì nero”. Giuliano Amato per sostenere le casse dello Stato procedette al “prelievo forzoso” retroattivo del 6 per mille dai conti correnti degli italiani e, in base alle indicazioni del ministro del Tesoro Piero Barucci, dette avvio ad una grande operazione di privatizzazione delle Partecipazioni statali (banche, energia elettrica, trasporti pubblici, Alitalia, industrie manifatturiere, industrie dell’acciaio, comunicazioni, poste, idrocarburi, assicurazioni, agroalimentare, etc.). Lo Stato si spogliava di tutte le sue pregiate proprietà, nell’intento di allontanare la politica dalla gestione delle imprese statali. Su tutta la gestione pubblica, sotto l’effetto delle indagini di Tangentopoli, cadde il sospetto di possibile collusione con la corruzione e vennero varate leggi e norme fortemente restrittive nell’intento di arginare l‘idea che il malaffare fosse in agguato ovunque ci fosse la gestione del politico. In questo crollo finirono anche le miniere del Sulcis Iglesiente e le industrie di Portovesme espressione dell’Eni. Gli operai di Portovesme, per fermare i licenziamenti in massa di oltre 20mila operai promossero la famosa “Marcia per lo sviluppo”. Gli operai iniziarono a marciare il 19 ottobre e, al suono di tamburi di latta, saltarono il mare. Raggiunta Civitavecchia, percorsero a piedi le vie del Lazio fino a Roma, dove vennero accolti da Papa Woytila ma non da Giuliano Amato.
A fine anno, il vortice autodistruttivo coinvolse anche il Sistema sanitario nazionale quando il ministro della Sanità Francesco di Lorenzo il 31 dicembre varò il decreto che iniziò la “privatizzazione” del Sistema sanitario pubblico col DPR 502/1992. Le Unità sanitarie locali (Usl), rette dai sindaci, vennero trasformate in entità rette dai “Direttori generali con autonomia gestionale di diritto privato” nominati dalla Regione all’interno di un elenco di idonei. La “mission” del Sistema sanitario cambiò in modo radicale per due motivi. Primo, i sindaci, che rappresentavano la parte politica, vennero espulsi dalla gestione del sistema sanitario locale; secondo, l’obiettivo dei nuovi amministratori non fu più quello di soddisfare le richieste della popolazione locale ma venne sostituito dall’“equilibrio di bilancio”.
Questo dava ai direttori generali l’opportunità di poter modificare la risposta alle richieste provenienti dal territorio, ignorandone la soddisfazione globale e mettendo al centro il calcolo ragionieristico della salute che doveva ora attenersi a un nuovo criterio: i Livelli essenziali di assistenza (Lea). Oggi, a distanza di 32 anni, sappiamo che tutte le premesse alla legge, che promettevano Uguaglianza, Equità e Prossimità dell’assistenza sanitaria in tutto il territorio nazionale non sono state rispettate. Ciò avvenne a causa della mancanza del “controllore”, cioè la parte politica elettiva rappresentata dai sindaci. Al ministro Francesco di Lorenzo, seguirono le ministre Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi che perfezionarono l’“aziendalizzazione delle Asl”.
Nell’anno 2003 il Governo Berlusconi dettò regole per ridurre la spesa sanitaria dello 0,5% l’anno; ciò comportò il blocco del turn-over del personale andato in pensione e portò all’assottigliamento e disgregazione dei reparti ospedalieri. Col Governo Monti, il ministro Balduzzi emanò norme restrittive per i reparti ospedalieri che, ridotti in povertà di personale dalle norme precedenti, non potevano più funzionare. Ne conseguì la chiusura di ospedali.
Nel 2015 il DM 70 del Governo Renzi pose regole stringenti, basate anch’esse sul risparmio; ne conseguì un peggioramento ulteriore degli ospedali provinciali che portò alla desertificazione del sistema sanitario territoriale a vantaggio della centralizzazione della Sanità. In Sardegna la Sanità pubblica venne centralizzata a Cagliari e Sassari.
Nel 2017 la regione Sardegna, presidente Francesco Pigliaru e assessore della Sanità Luigi Arru, istituì la Ats (Azienda tutela salute). Con tale legge le 8 Asl sarde vennero ridotte a 1 soltanto, che assunse tutte le funzioni delle altre 7. Sopravvissero:
– l’Ats (a Cagliari e Sassari)
– il Brotzu di Cagliari
– il Policlinico Universitario di Cagliari
– il Policlinico Universitario di Sassari
Alle altre 7 Asl venne tolto il nome di “Azienda” e divennero “Aree sanitarie locali”. Erano diventate periferie sanitarie e persero l’autonomia programmatoria e amministrativa precedente. Ne conseguì l’esplosione delle “liste d’attesa” e l’insoddisfazione popolare. Alle elezioni del 2019 la popolazione sarda mandò a casa la Giunta Pigliaru e promosse una nuova maggioranza guidata dalla “Lega” di Matteo Salvini che, capeggiata da Christian Solinas, prometteva di restituire le vecchie ASL alle 8 province sarde. In effetti, la Giunta Solinas produsse rapidamente una sua riforma sanitaria regionale e l’assessore Mario Nieddu varò la legge regionale 24/2020 con cui istituì la Ares (Azienda regionale salute). In realtà però le vecchie Asl non vennero integralmente ricostituite; al posto delle “Aree territoriali sanitarie” vennero identificate le Asl 1-2-3-4-5-6-7-8 che, a parte il nome, non hanno nulla delle precedenti Asl; infatti, non hanno il diritto né di assumere personale, né di far acquisti e programmare. In sostanza non esistono; l’unica vera Azienda capace di programmare e gestire, centralizzando tutti i poteri gestionali, è la Ares di Cagliari e Sassari. Oggi lo stato di degrado direzionale e amministrativo nelle Province è ulteriormente peggiorato e l’insoddisfazione e infelicità dei cittadini sono esplose nelle elezioni regionali del 25 febbraio 2024 con la bocciatura del Governo regionale sardo.
Recentemente un politico esperto ha suggerito di cercare nella legge 833/78 gli strumenti per uscire dalla crisi sanitaria. Quale può essere lo strumento?
Lo strumento che si deve utilizzare nella pubblica amministrazione è sempre lo stesso: il rispetto delle regole democratiche. Queste regole prescrivono che la volontà popolare sia affidata ai propri rappresentanti eletti e, nel territorio, i rappresentati ufficiali dello Stato sono i sindaci. E’ certo che i sindaci non possono entrare nel merito di tutto, ma possono essere i “custodi” degli interessi della gente. Fra questi, oggi, l’interesse più sentito è la Sanità. Dare un nuovo ruolo ai sindaci nelle Asl è fortemente indicato.

Mario Marroccu

Rodolfo Valentino fu il massimo attore di film muto degli anni ‘20. Fu tanto amato da suscitare, nei suoi fans, il primo fenomeno di massa mai visto: la “divinizzazione”, essendo ancora in vita. Da quel fatto, ancora oggi deriva l’espressione “divo del cinema”.
La sua fama mondiale era esplosa col film “I quattro cavalieri dell’Apocalisse”, per effetto di una famosa scena in cui egli ballava il “tango argentino”. Morì a 31 anni nel più importante ospedale di New York, dopo un’operazione per appendicite acuta complicata da peritonite. In tutto il mondo, i suoi ammiratori dettero luogo a scene di disperazione isterica.
Nel 1977 si ricoverò nel reparto Chirurgia dell’ospedale Sirai di Carbonia il suo sparring partner. Anche costui era un pugliese che era emigrato in America da ragazzino. Aveva conosciuto Rodolfo Valentino a San Francisco e con lui aveva fatto squadra nelle gare di tango organizzate dalle balere americane. Erano gare pazzesche che duravano ininterrottamente per più giorni, senza dormire e senza fermarsi mai. Chi sopravviveva alla fatica vinceva cospicue somme di denaro. Quando costui si ricoverò al Sirai, a causa di una gangrena alla gamba destra, raccontò che talvolta in quelle gare vinceva Rodolfo Valentino e talvolta lui stesso. In valigia aveva articoli e fotografie di rotocalchi americani dell’epoca che lo ritraevano col “divino” e le mostrò con fierezza. Era tutto vero: era proprio il compagno di gare di Rodolfo Valentino. Invecchiando si ritrovò in solitudine e decise di tornare in Italia ma, non avendo più parenti in Puglie, decise di venire ad invecchiare a Carloforte.
Trascorreva le giornate fumando come aveva sempre fatto. In valigia, oltre ai rotocalchi americani degli anni ‘20, aveva stecche di sigarette americane. Il primario, professor Lionello Orrù, lo avvisò che per tentare di fermare la gangrena era necessario smettere di fumare lui, magrissimo, sempre sorridente e molto cortese, continuò a fumare nascondendosi in bagno o nei balconi. La suora ogni giorno gli sequestrava le stecche di sigarette ma l’indomani, sotto il materasso, si materializzavano altre stecche di Chesterfield e Pall Mall.
La gangrena peggiorò. I farmaci vasodilatatori erano chiaramente inutili e lui concordò: «Professore, non posso smettere di fumare e non posso più tollerare i dolori alla gamba. Me la tagli». Fu una scena incredibile. Lui, che aveva vissuto in virtù delle doti atletiche delle sue gambe nelle esibizioni di ballo col “divino”, preferiva rinunciare alla gamba destra piuttosto che alle sigarette. Il professore lo accontentò e dette disposizione ai suoi “aiuti” di eseguire l’amputazione a livello della coscia destra. Egli avrebbe seguito l’intervento. L’indomani il ballerino era sereno e sorridente. Continuò a fumare.
Non si capì mai chi gli portasse le sigarette: si trattava di un miracolo derivato dalla sua pensione in dollari americani. Dopo una settimana comparvero i segni della gangrena anche alla gamba sinistra. Il professor Lionello Orrù lo mise in guardia: «Se continua a fumare perderà anche l’altra gamba». Nei giorni successivi i dolori alla gamba sinistra peggiorarono e la gangrena salì dal piede alla caviglia. Nonostante tutto continuò a fumare e nessun discorso del Primario lo fece desistere. Fu lui stesso a risolvere il problema con questa proposta: «Professore mi tagli anche l’altra gamba perché io voglio continuare a fumare ma non tollero più i dolori che mi dà». Il professore lo accontentò e dette disposizione agli “assistenti” di eseguire l’intervento di amputazione, lui avrebbe seguito l’operazione. Il primario desiderava che tutti i chirurghi eseguissero correntemente quel tipo di intervento così come le operazioni per peritonite, per occlusione intestinale e per rottura traumatica di milza. Voleva che chiunque fosse presente in servizio, in sua assenza o in assenza degli “aiuti” più esperti, fosse in grado di eseguire con urgenza quel genere di operazioni salva-vita.
Era l’anno 1977 e l’ordinamento degli ospedali era ancora sotto le leggi Mariotti 132/ ‘68 e 128/ ‘69 ed esisteva nei reparti ospedalieri una struttura gerarchica dei medici ben definita; essa era formata dal primario, dagli “aiuti” e dagli “assistenti”. Tale struttura aveva un duplice fine. Primo creare una scala di responsabilità e di autorevolezza. Secondo: addestrare i medici e formarli alla professione.
La legge 128/’69 definiva esattamente, all’articolo 7, che il Primario aveva tutti i poteri, le responsabilità e tutti i doveri: doveva vigilare sul lavoro di medici ed infermieri e aveva la responsabilità di tutti i malati; era il giudice unico sui criteri diagnostici e terapeutici a cui dovevano attenersi gli “aiuti” e gli “assistenti”; formulava la diagnosi definitiva; doveva inoltre indicare la terapia medica o la tecnica chirurgica da adottarsi nel caso fosse necessaria un’operazione. Doveva eseguire personalmente sui malati gli interventi diagnostici e le operazioni chirurgiche curative che riteneva di non dover affidare ai suoi collaboratori; era l’unico che poteva autorizzare le dimissioni. Ne derivava che sui primari, con la loro responsabilità assoluta su tutto, ricadessero oneri ed onori; per tale ragione, i detrattori li definivano “baroni”. Un articolo successivo della legge 128 disponeva che il primario si impegnasse a mantenere elevato il livello culturale dei medici con una formazione continua sul campo. Egli era il caposcuola e la sua missione di insegnamento conferiva all’ospedale le funzioni di “ospedale di specializzazione”.
Insomma, per i medici il primario era il maestro e il parafulmine da tutti i guai. Gli “aiuti” venivano dopo il primario. Essi erano i medici più titolati, dotati di una certificazione di idoneità rilasciata da una commissione d’esame nazionale con sede a Roma. La legge disponeva che essi sostituissero il primario, in tutte le sue funzioni, ogni qualvolta fosse assente. Era come se la figura del “primario” fosse sempre presente e non se ne sentiva mai la mancanza. Al terzo livello erano classificati gli “assistenti”; si trattava dei medici più giovani, meno esperti, usciti da poco dall’Università, ma ancora da formare come professionisti specialisti.
Ogni Ospedale era una vera e propria scuola di formazione continua nella pratica medica. L’Università aveva fornito la cultura basilare portando gli studenti alla laurea in Medicina, e l’esame di Stato aveva garantito che il neonato medico fosse idoneo ad esercitare la professione come medico generico.
La costruzione professionale dei medici ospedalieri avveniva in ospedale ed era affidata al primario e agli “aiuti”. Mentre il primario era la figura carismatica autorevole che presiedeva la “scuola”, gli “aiuti” erano gli “istruttori” sempre disponibili e pronti a familiarizzare mentre addestravano gli “assistenti” alla professione.
La “scuola ospedaliera” di formazione alla professione di medico specialista (chirurgo, internista, ostetrico , traumatologo, pediatra, etc.) garantiva la costituzione di un perenne capitale culturale e umano all’interno dell’ospedale. Questo rapporto formativo continuo fra primario, “aiuti” e “assistenti” generava un rapporto di fidelizzazione tra medici, ospedali e territorio, e spesso induceva i medici venuti da lontano a trasferirsi nella città sede dell’ospedale, viverci tutta la vita e perfino formarvi le proprie famiglie. Le Amministrazioni ospedaliere favorivano e proteggevano questa funzione docente all’interno dell’ospedale perché così si garantiva la reputazione, la fiducia e il mantenimento di una sicura forza professionale che si sarebbe replicata, da una generazione all’altra di nuovi arrivati, senza temere mai l’abbandono degli ospedali da parte dei medici. Fin dall’inizio fu tale l’interesse che aveva l’Amministrazione ospedaliera a fidelizzare i medici e, soprattutto, i primari venuti da lontano, da costruire per essi, in prossimità dell’ospedale, degli appartamenti per la residenza loro e delle loro famiglie. Oggi non è più così.
Anche nella Medicina territoriale avveniva lo stesso fenomeno: i medici più anziani e più esperti contribuivano alla formazione professionale di altri medici, e anche lì si realizzava una catena solidale che assicurava la continuità.
Nell’ultimo decennio del secolo scorso, in conseguenza della grave crisi economica dello Stato, esplosa nel 1992, il Governo Amato tentò di arginarla con la privatizzazione delle Partecipazioni statali, ed avviò il processo di privatizzazione anche della Sanità pubblica. Le USL divennero ASL; i presidenti delle USL, che in genere erano sindaci del territorio, vennero sostituiti dai manager e tutto cambiò. Il ministro Francesco di Lorenzo fu l’artefice della legge 502 di controriforma; le ministre Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi modificarono l’assetto degli ospedali e abolirono le diversificate figure dei medici: gli “aiuti” e gli “assistenti” vennero posti ad uno stesso livello, dichiarati “dirigenti medici” e messi, praticamente, alle dipendenze del sistema burocratico. I primari vennero declassati a livello di precari, e ridefiniti col titolo di “direttori di Struttura complessa”, con incarico a termine della durata di 5 anni.
L’incarico poteva essere rinnovato previa valutazione dell’Amministrazione della ASL. Se non confermati venivano riclassificati ad un livello inferiore. Lo stipendio era uguale fra tutti i medici, corretto per anzianità, e con l’aggiunta di un’“indennità” di dirigenza per il direttore del reparto. I reparti e le Divisioni ospedaliere cessarono di esistere e furono sostituite dalla dizione “Unità operative complesse”. Terminologia usata anche per gli Uffici amministrativi. Era finita un’epoca. Del periodo che precedeva il 1992 ai medici era rimasta soltanto la “responsabilità medico-legale”. L’instabilità e l’incertezza, che ricaddero come una spada di Damocle sul loro futuro, ebbero conseguenze.
Il nuovo tipo di “direttore” non aveva più gli “aiuti” che lo coadiuvassero o lo sostituissero. Non aveva più le funzioni di “addestratore” delle nuove generazioni di medici e, in quanto sostituibile da chiunque ogni 5 anni, non aveva alcun interesse a crearsi un “competitor”.
Oggi l’improvvisa assenza del “direttore” per pensionamento o per trasferimento crea uno scompenso organizzativo, non esistendo più gli “aiuti”. Tale vuoto gerarchico e l’instabilità del primario “a tempo”, comportano un vuoto di autorevolezza e operativo.

Adesso stiamo assistendo alla crisi degli ospedali per mancanza di medici specialisti. Tale fenomeno non è dovuto solo alla “scarsità” di nuovi laureati; dipende anche dal fatto che nessun giovane medico si sente sicuro a lavorare in un reparto in cui manca il primario-direttore perché i rischi medico-legali che comporta ogni decisione, soprattutto, se presa in solitudine, sono molto, molto, molto pericolosi; meglio starsene nel territorio o nelle cliniche private. In passato la funzione del Primario era principalmente quella di prendere decisioni ad ogni momento della giornata; da essa derivava la salvezza o no del malato.
L’urgenza-emergenza era sempre in agguato. Il processo clinico che portava alla formulazione della diagnosi e del programma terapeutico costituiva di per sé lo strumento di addestramento dei nuovi medici alla professione ed era la base dalla “scuola-ospedale”. L’addestramento alle responsabilità medico-legali era una formazione imprescindibile: era l’esercizio che faceva la differenza tra il periodo dell’apprendimento universitario e il periodo della formazione professionale in ospedale.
Gli studiosi di “psicologia delle decisioni” nei dipendenti pubblici, hanno concluso ricerche che dimostrano come il sospetto che in tutto ci sia del “marcio”, dal 1992 in poi, ha indotto il ceto politico a produrre leggi che hanno generato un atteggiamento di alta avversione al rischio. Erano gli stessi anni in cui vennero soppresse e sostituite le figure gerarchiche dei primari e degli “aiuti” negli ospedali. Il timore dei dipendenti pubblici a prendere decisioni portò dapprima al rallentamento, poi alla quasi paralisi operativa. Questo è ciò che stiamo sperimentando. Gli illustri studiosi sostengono che l’alta percezione del rischio e delle conseguenze professionali genera il tipico comportamento di astensione prudenziale e il blocco decisionale.
Non è vero che la crisi sanitaria che stiamo vivendo sia da attribuirsi solo alla diminuzione dei nuovi laureati in medicina o ai pensionamenti. Questo fenomeno di decadenza dell’assistenza ospedaliera non ha solo motivazioni contabili.
Fra le cause assumono molta importanza il sovvertimento della politica sanitaria territoriale, sostituita dalla burocrazia e l’ inconsistenza delle gerarchie mediche negli ospedali, dominate anch’esse dalla burocrazia.
Prima o poi si prenderà atto che oltre al valore della contabilità esistono anche i professionisti e i loro principi etici. E’ auspicabile che venga agevolato il libero ritorno ai valori non contabili come: lo spirito critico, l’indipendenza dall’egocentrismo dei poteri centralizzati, lo spirito civico, la coscienziosità, l’altruismo, l’impegno e il sentimento di identità col territorio in cui si opera.
Adesso è urgente, per gli ospedali, ricostituire le figure dei “primari-guida” mancanti nelle Unità operative in crisi. Poi saranno loro ad attirare, con il loro prestigio, i nuovi medici.

Mario Marroccu

Nonostante l’incredibile impatto del disagio sanitario che tutti viviamo è difficile trovare un vero progetto per il ripristino del sistema assistenziale nei discorsi di chiamata al voto. Nei programmi sulla salute descritti da tutte le parti in causa si trova una flebile elencazione di lamenti, di desideri per il bene comune, con sentimenti moderati, paciosi e anche irenici.
Il tutto si riduce a ciò che dice i PNRR dei tempi di Mario Draghi:
– digitalizzazione della Sanità territoriale,
– evitare l’aumento della spesa corrente,
– interventi su attrezzature e miglioramento delle strutture murarie degli ospedali.
– vi è poi una sequenza di pii desideri per garantire la felicità dei malati, dei vecchi e dei bambini.
Ma nulla di concreto per imporre la marcia indietro ai fallimenti della politica passata in sanità.
Nella terminologia corrente, sia giornalistica che politica, si dà per acquisito che esista un apparato sanitario “centrale” e uno “periferico”. Nessuno protesta se si definisce un ospedale come “ospedale di periferia”. Questa catalogazione terminologica non esiste in nessuna legge dello Stato. L’acquisizione di tale linguaggio deriva dal fatto che nell’ultimo decennio è stata creata una sorta di catena di dominio sanitario che tiene correlate fra di loro strutture sanitarie predominanti (hub) e strutture sanitarie periferiche (spoke); quest’ultime sono in uno stato di sottomissione funzionale. Si è arrivati ad attribuire una sorta di scala sociale diversa agli ospedali a seconda della loro localizzazione territoriale.
Si parla, infatti, di ospedali centrali a Cagliari e Sassari e di ospedali periferici in tutte le altre province.
Alcuni ospedali sono altamente visibili mentre altri sono esclusi fino all’invisibilità. L’opera di marginalizzazione degli ospedali provinciali, inferiorizzati fino alle condizioni attuali, è ben descritta nelle cronache sanitarie quotidiane.
In passato non era così. Le USL (Unità Sanitarie Locali) erano, per legge, “articolazioni” del Sistema Sanitario Nazionale (SSN); ognuna aveva autonomia programmatoria, economica e amministrativa.
Quando si decise di passare dalle USL alle ASL (Aziende Sanitarie Locali) e quando si votò il referendum per l’abolizione di alcune Province sarde, ebbe inizio la emarginazione che comportò l’abolizione o la riduzione di servizi pubblici come la Giustizia e la Sanità provinciale che furono progressivamente concentrati a Cagliari e Sassari.
Si arrivò al massimo della emarginazione sanitaria quando si attuò la centralizzazione sanitaria in un’unica azienda regionale chiamata dapprima ATS e poi ARES. Per far nascere questo nuovo Ente si procedette allo svuotamento del cuore amministrativo delle ASL provinciali, dei loro fondi, del loro personale e delle loro competenze.
Dopo questa operazione iniziò la discesa delle ASL provinciali dalla posizione di Enti dotati di autonomia finanziaria e programmatoria a strutture marginali.
Un “antropologo del lavoro” saprebbe spiegarlo meglio: la “marginalità” in cui si trovano oggi le ASL di provincia corrisponde ad una volontà di “non integrazione” e di “non partecipazione” di questi enti, alle decisioni che sono oggi riservate a sedi lontane ed estranianti. E’ un meccanismo che ha trasformato i sistemi sanitari provinciali in sobborghi della Sanità. Eppure le leggi dello Stato non prevedevano questa involuzione ma tutt’altro.
La prima legge-madre che parlò di “autonomia” per i Comuni, le Province e le Regioni fu la Costituzione del 1948 agli articoli 116 e 119. Quegli articoli ci dettero l’autonomia organizzativa e finanziaria che vennero confermate 20 anni dopo dalle leggi 128 e 132 del 1968. Quelle leggi dettarono norme sull’ordinamento degli ospedali.
Gli ospedali pubblici vennero distinti in tre livelli:
– ospedale zonale,
– ospedale provinciale,
– ospedale regionale.
– L’ospedale zonale doveva fornire tutti i servizi di base come: Medicina Interna, Chirurgia Generale, Anestesia, Ostetricia, Pediatria, Traumatologia, Pronto Soccorso, Radiologia e Laboratorio.
– L’ospedale provinciale doveva fornire gli stessi servizi dell’ospedale zonale, in più era dotato di qualche altra specialità per garantire 24 ore su 24 l’urgenza ed emergenza.

– L’ospedale regionale aveva le stesse specialità dell’ospedale provinciale ma in più era dotato di altri reparti per patologie rare o poco comuni che necessitavano di personale e di attrezzature speciali. Il fattore “rarità patologica” comportava la necessità di “concentrare” in un’unica sede regionale tutti i casi. Si trattava di: neurochirurgia, trapianti d’organo, cardiochirurgia, chirurgia toracica, chirurgia vascolare, grandi ustionati, chirurgia plastica, chirurgia pediatrica, chirurgia ginecologica-oncologia, onco-ematologia, chemioterapia, radioterapia e altre strutture organizzative ultra-specialistiche assimilabili alle attuali “brest unity”, “prostate unity”, “pancreas unity”, etc. Erano gli unici casi in cui era ammessa la “centralizzazione”.
Negli ospedali zonali e Provinciali erano presenti tutti i servizi specialistici ospedalieri che curavano le condizioni patologiche più frequenti e comuni ed erano: Medicina generale, Chirurgia generale, Urologia, Pediatria generale, Ortopedia e Traumatologia, Neurologia, Ostetricia e Ginecologia,
Psichiatria, Neurologia, Nefrologia e dialisi, Geriatria, Pneumologia, Pronto Soccorso e Chirurgia d’Urgenza, Anestesia e Rianimazione; erano inoltre attivi i servizi di: Laboratorio, Anatomia patologica, Radiologia, etc.
La comune Traumatologia domestica ,della strada e del lavoro doveva essere immediatamente assistita dagli ospedali provinciali d’urgenza mentre i traumi del cranio, del torace, dei grandi vasi, venivano riservati agli ospedali regionali.
Anche le città capoluogo possedevano i loro ospedali zonali e gli ospedali provinciali. In tali città erano e sono tutt’oggi presenti le strutture ospedaliere universitarie che hanno lo scopo di fare ricerca e insegnare. Gli ospedali universitari sono in genere in prossimità o all’interno delle città capoluogo e sono a servizio di tutta la Sardegna. Così come gli ospedali universitari, anche gli ospedali regionali, che si trovano a Cagliari e Sassari, non hanno una città di appartenenza ma vanno identificati come strutture regionali, appartenenti a tutti i sardi  Questa precisazione, apparentemente ridondante, è utile per spiegare ciò che segue sulla evoluzione della rete ospedaliera sarda e anche per chiarire lo stato di diritto alla pari, di tutti i malati sardi in quegli ospedali.
La legge sulla nuova rete ospedaliera sarda del 2017 distingue gli ospedali in:
– Ospedali di Base (corrispondente agli ospedali zonali)
– Ospedali DEA di I livello (corrispondenti agli ospedali provinciali)
– Ospedali DEA di II livello (corrispondenti agli ospedali regionali).
Questa è la legittima dizione con cui si distinguono oggi gli ospedali. E’ cambiata la terminologia ma la sostanza è uguale. Chi utilizza l’espressione “ospedali periferici” commette un abuso di interpretazione, perché non esistono “ospedali territoriali periferici”: tutti gli ospedali hanno lo stesso valore di “centralità”.
Ogni ospedale, in ragione delle competenze attribuitegli dalla legge, deve essere, nell’ambito della propria competenza, “HUB” di se stesso (cioè “centrale”). Gli ospedali regionali sono “hub” esclusivamente per le specialità di Neurochirurgia, Cardiochirurgia, trapianti d’organo e patologie rare ed eccezionali.

In Sardegna, tra pubblico e privato, esistono 39 strutture ospedaliere, di cui:
– 4 centri ospedalieri universitari (Sassari e Cagliari),
– 2 aziende ospedaliere regionali (Brotzu di Cagliari),
– 7 ospedali provinciali DEA di I livello:
– Olbia (ospedale Giovanni Paolo II)
– Oristano (ospedale San Martino)
– Nuoro (ospedale San Francesco)
– Cagliari (SS Trinità)
– Cagliari (policlinico di Monserrato)
– Carbonia (Sirai e completamento DEA del CTO con funzioni di base di Iglesias)
– San Gavino Monreale (ospedale Nostra Signora di Bonaria)
– 2 Ospedali DEA di II livello (San Michele di Cagliari e SS Annunziata di Sassari)

– 11 case di cura private
– 14 ospedali di base
Totale: 39 ospedali.
I DEA di I livello sono di fatto gli ospedali “provinciali” della vecchia dizione (legge 128/1968).
Le competenze di questi ospedali sono: Chirurgia generale, Urologia, Ortopedia e Traumatologia, Ostetricia e Ginecologia, Medicina Interna, Terapia intensiva, Cardiologia. Emodinamica, Nefrologia, Dialisi, Pediatria, Gastroenterologia, Geriatria, Pneumologia, Neurologia, Psichiatria, Oncologia, Anestesia e Rianimazione, Anatomia Patologica, Dipartimento diagnostico per immagini, Laboratorio, Virologia, Immunologia, Centro trasfusionale, Riabilitazione e fisioterapia, Accettazione e Pronto soccorso DEA di I livello con astanteria per medicina e chirurgia d’urgenza, etc.
I DEA di I livello devono essere, nelle loro competenze, “Hub” di se stessi; cioè devono essere totalmente autonomi e autosufficienti, pronti ad affrontare patologie anche di altissima difficoltà.
I 7 ospedali DEA di I livello devono essere alla pari sia per dotazione di personale che di attrezzature ultra-sofisticate, e devono essere strutturati in modo completo e soddisfacente in modo da garantire un altissimo livello di assistenza, 24 ore su 24, nelle loro specialità.
Questi 7 ospedali (su 39) sono la vera struttura portante della rete ospedaliera sarda che, perfettamente e uniformemente compenetrata nel territorio, non lascia vuoti nell’assistenza di base e d’urgenza.
Gli Ospedali di Base, coadiuvati dalla Case di Cura, sono deputati a compiti di assistenza di base e non sono compatibili con le funzioni ininterrotte di emergenza-urgenza h24.
Quella testé descritta è la base di legittimità su cui si basa il disegno politico amministrativo descritto dalla legge regionale (rete ospedaliera 2017) affidato alle nostre autorità comunali, provinciali e regionali. Purtroppo, esistono deviazioni dallo spirito della legge che indica il corretto indirizzo verso cui vanno pilotati i nostri ospedali. Di tali deviazioni esistono dichiarazioni ufficiali autorevoli. Tali dichiarazioni sono state pubblicate e documentate in un documento pubblicato pochi giorni fa da ARES (agenzia regionale salute). Nel documento sul “Piano preventivo delle attività 2024-2026” la stessa ARES riconosce le difficoltà, e deficienze esistenti, e le denuncia con questa espressione: «…si evidenziano le criticità dei presidi ospedalieri della ASL Sulcis Iglesiente, caratterizzati da problemi come il pensionamento di Personale difficilmente sostituibile, un’età media elevata del Personale con limitazioni funzionali e lavori edili incompleti, e si sottolinea la necessità di una revisione dell’organizzazione ospedaliera…. in parallelo con la riconsiderazione della rete Ospedaliera Regionale, affinché possa rispondere in modo adeguato alle esigenze del territorio».
La dichiarazione che certifica le cause che sono alla base del deficit organizzativo che ARES ha reso pubblica necessita di provvedimenti. Essi vanno concentrati sulla legge di riforma sanitaria regionale del giugno 2020; tali provvedimenti possono essere presi solo dalla politica.
In quella legge esistono le disposizioni che hanno mandato in stallo la Sanità pubblica.
In essa esistono articoli che hanno totalmente invertito il senso della famosa legge 833 del 1978 che istituì per la prima volta la Sanità gratuita per tutti, il Sistema Sanitario Nazionale e il Fondo Sanitario Nazionale. Tutt’oggi quella legge è considerata la più grande legge della Repubblica dal dopoguerra ad oggi.
Il Sistema Sanitario Nazionale della 833/78 era basato sulle USL (Unità Sanitarie Locali). Le USL erano concepite come “articolazioni territoriali” del SSN. In base agli articoli 116 e 119 della costituzione le USL dovevano godere di “autonomia gestionale e finanziaria”. L’“autonomia” si concretizzava nella capacità di: programmare, acquistare e assumere personale autonomamente entro i limiti degli organici definiti dalla legge. L’“autonomia” veniva gestita dal “Comitato di gestione” e dal suo “Presidente” che venivano eletti dai Consigli comunali delle città del territorio provinciale.
La presenza di tali figure politiche territoriali garantiva il funzionamento di una “cinghia di trasmissione” delle istanze democratiche dalla popolazione al Sistema Sanitario.

Le USL entrarono rapidamente in competizione fra di loro in termini di efficienza, e si inaugurò il periodo di più rapida crescita del sistema sanitario con grande soddisfazione dei cittadini.
L’attuale sistema della ASL sarde è diversissimo:
– all’interno della amministrazione delle ASL provinciali non esiste più alcuna rappresentanza politica della popolazione;
– è esclusa la comunicazione continua e diretta tra politici locali e il centro regionale direttivo;
– le ASL provinciali non possono né assumere autonomamente il personale necessario, né fare acquisti diretti.
– le ASL sono prive di fondi propri ad hoc.
Un’Azienda che non può né assumere né acquistare, di fatto non ha alcuna autonomia.
La Grande Riforma 833/78 è stata capovolta. Di fatto esiste una catena di dominio che prevede un unico centro direttivo regionale che ha lo scopo di pianificare il programma pluriennale sanitario che, purtroppo, ignora la diversità dei territori sardi.
Il cuore del problema della Sanità sarda è esattamente quello su decritto: l’inesistenza di autonomia delle ASL.
Non si vede traccia di idee di soluzione del problema in nessuna dichiarazione programmatica esposta in questi giorni.
Al fine di riportare il cittadino al centro della Sanità sembrerebbe opportuno integrare qualche punto alla legge 24/2020 per:
1 – introdurre figure politiche territoriali tra gli organi della ASL,
2 – conferire autonomia finanziaria alle ASL al fine di liberarle dalla immobilizzazione per incapacità di spendere,
3 – consentire alle ASL la possibilità di assumere autonomamente il personale sanitario di cui ha bisogno.

Mario Marroccu

Sollecitato dalla recente pubblicazione del sapiente Mario Marroccu, past Direttore della Struttura Complessa di Urologia del Presidio ospedaliero Sirai, dal titolo: “in sanità siamo tutti colpevoli”, volevo contribuire alla discussione sui diversi attori che governano la sanità con un’ulteriore riflessione sul ruolo del manager in sanità, con o senza precedente esperienza clinica. Illuminato.
Senza voler delimitare gli ambiti delle mie responsabilità (ed eventuali colpe) di dirigente sanitario (con provenienza da una professione tecnico specialistica di infermiere), riprendendo alcune illuminanti considerazioni tratte dal libro di Annalisa Pennini, “10 brevi lezioni per manager in sanità”, provo a sollecitare alcune riflessioni.
Manager in sanità si diventa partendo spesso da una professione clinica e iniziando a svolgere una funzione manageriale come coordinatore, dirigente, responsabile o direttore.
Il passato come clinico è sicuramente una grande ricchezza ma, affinché non diventi un ostacolo alla nuova prospettiva, deve essere considerato un aspetto da gestire: lo scenario è cambiato e ci si trova a svolgere un lavoro totalmente diverso da prima, si tratta del passaggio dal lavoro in “prima linea” al lavoro “dietro le quinte”.
Il manager in sanità è quasi sempre un ex clinico. Anche nella nostra ASL (ex USL, ASSL), a parte alcuni ex Direttori Generali (il compianto Giuseppe Ricciarelli, Emilio Simeone, Maurizio Calamida, Maddalena Giua, per citarne alcuni) che non possedevano una formazione di tipo sanitario e quindi non provenivano dall’attività clinica, i restanti avevano tutti un passato di pregresse esperienze in ambito clinico e questo ne ha influenzato l’identità e le modalità di interazione con l’organizzazione.
Parlare di chi oggi ricopre funzioni di dirigenza e si è trovato in passato a svolgere attività clinica e a vivere il passaggio fra essere un clinico e gestire i clinici, richiede alcune precisazioni preliminari.
Quando si utilizza il termine clinico, si intende qualsiasi ambito dell’attività sanitaria, dove il professionista svolge una funzione operativa a contatto con le persone assistite o con processi di lavoro in prossimità di esse. Parlando di clinici, non si fa distinzione di professione e si vogliono includere tutte le comunità professionali che operano in sanità. I termini non vengono utilizzati come sinonimi di medico o medici, ma come suggerito dall’etimologia della parola, che spiega che il termine clinico deriva dalla parola “letto” (Kline in greco) o che si fa presso il letto (klinikòs). Nella presente riflessione si farà quindi riferimento estensivo e inclusivo di ogni attività o funzione di “prima linea” o strettamente collegata con essa, come ad esempio le attività diagnostiche di laboratorio o di radiologia.
La seconda precisazione riguarda l’utilizzo del termine manager che, in questa valutazione, viene riferito a chiunque all’interno dell’organizzazione conduca qualcosa o qualcuno. Anche in questo caso, l’etimologia della parola sostiene questa scelta. Infatti, dal latino “manu agere” deriva l’attuale “condurre con la mano”. Dal successivo passaggio attraverso la lingua francese si trova la vicinanza con “maneggio” o “maneggiare”. Pertanto, il riferimento può essere allargato a tutti coloro che, a vario titolo, contratto, investitura formale o meno, svolgono funzioni di “conduzione” e non di “prima linea”. Un tempo in sanità c’erano i coordinatori e i dirigenti ( o meglio i caposala e i primari), ora ci sono i manager di vario livello ed estrazione professionale (in diverse ASL, ex infermieri ricoprono oggi il ruolo di Direttore Generale o Direttore di Distretto), intrecciati in matrici gerarchico funzionali diversamente rappresentate nelle organizzazioni.
L’ultima precisazione interessa il management, che deve essere ricondotto e contestualizzato alla tipologia di organizzazione che lo ospita. Queste organizzazioni, sono oggi aziende, e come tali necessitano di management e di manager. Ma cosa rende diverso il management delle aziende sanitarie rispetto a quelle che posizionano i loro prodotti e servizi sul libero mercato? Sicuramente non la catena di creazione del valore, che le accomuna, in considerazione del fatto che tutte utilizzano risorse (input), per lavorarle (processi), al fine di produrre risultati, come i prodotti o i servizi (output), indirizzati alla soddisfazione dei bisogni (outcome). Alcune differenze sono:
– tipologia di funzioni svolte: le aziende sanitarie si occupano di attività di interesse collettivo (tutela della salute), nomate e protette da leggi dello stato e ciò le rende più distanti dalle regole del mercato puro.

– configurazione organizzativa: le aziende sanitarie sono configurabili come burocratiche professionali, che mettono al centro il potere della competenza e l’autorità di tipo professionale, in quanto si fondano, per funzionare, sulle competenze dei professionisti in prima linea, cioè i clinici. Il meccanismo di coordinamento prevalente di questa tipologia di organizzazione è standardizzazione degli input, cioè standard che vengono definiti all’esterno dell’organizzazione stessa, nelle strutture formative e associative ai quali i professionisti appartengono ancora prima di inserirsi nell’organizzazione sanitaria. Sono organizzazioni perlopiù conservatrici, stabili e al tempo stesso complesse, poco propense all’innovazione e all’integrazione fra gruppi professionali.

– sistema di finanziamento e di gestione economica: il modo in cui le aziende sanitarie si finanziano prevede che vi sia un contatto indiretto fra i clienti e l’azienda, dal punto di vista del pagamento del servizio. Fatte salve le prestazioni pagate direttamente dalle persone assistite, il sistema sanitario si basa ancora, in larga misura, su finanziamenti che non vengono erogati direttamente dalle persone che usufruiscono del servizio. Le differenze descritte sottolineano alcune delle caratteristiche delle organizzazioni sanitarie che ne condizionano il modo in cui il management viene interpretato e i manager svolgono le loro funzioni. Le specificità sopraindicate rischiano di essere dei fattori predittivi di scarsa efficienza ed efficacia, di cui il management deve tener conto e deve far fronte.
Salvatore Nieddu, professore a contratto di Organizzazione Aziendale presso la Facoltà di Economia dell’Università di Torino e Responsabile della Struttura Controllo di gestione dell’ASL 4 di Torino, nell’interessante e piacevole libro intitolato: «Un week end con… il management sanitario», Centro Scientifico Editore di Torino, ricorda che il management è la cura prescritta per le patologie chiamate inefficienza e inefficacia, ma che l’esito di tale terapia non è certo, perché si tratta di un trapianto che potrebbe avere un rischio di rigetto, in ragione degli aspetti storici, culturali e organizzativi del contesto in cui si opera.
Per rispondere alla domanda iniziale, è importante chiederci se il passato clinico rappresenta davvero una ricchezza o piuttosto un limite.
Rispetto al passato da clinico, alcuni autori hanno evidenziato come il beckground di riferimento rappresenti una solida base per leggere la realtà e agire in essa in modo competente ed efficace. Uno dei più illustri studiosi di management al mondo, il famoso economista canadese Henry Mintzberg, studioso di scienze gestionali, ricerca operativa, organizzazione aziendale, ha affermato che “ i manager devono sapere molte cose, soprattutto sul contesto specifico in cui operano, e devono prendere decisioni sulla base di queste conoscenze” (Henry Mintzberg, Il lavoro manageriale, Franco Angeli, 2010).
Per poter affermare che il passato da clinico rappresenta una ricchezza e non un limite, è opportuno sottolineare che affinché sia un vero vantaggio è necessario spostare la posizione e la motivazione con cui lo si utilizza. In altri termini, l’obiettivo del lavoro in sanità è di proprietà sia del clinico che del manager, quello che cambia è la prospettiva con cui vengono usate le conoscenze e le competenze. Il clinico lo utilizza per risolvere i problemi di salute delle persone, il manager per risolvere o migliorare i problemi organizzativi dei clinici.
Le conoscenze cliniche del manager sono un livello soglia in grado di fare la differenze per la comprensione del contesto, per entrare nei problemi sollevati dai clinici, per orientare una unità operativa e un team verso outcome (risultati) significativi per le persone assistite.
Ciò che viene a cambiare, tra la linea clinica e quella manageriale è la profondità della conoscenza e la profondità di utilizzo. Più profonda e orientata al singolo problema per il clinico, più trasversale e orientata all’insieme per il manager, come se si immaginasse una visione verticale e orizzontale delle cose.
Il clinico usa la conoscenza clinica in modo diretto e come strumento basilare per la sua attività che è la clinica. Il manager usa la conoscenza clinica in modo indiretto e come strumento importante per la sua attività che è la gestione.
Non è lo strumento in sé che cambia, è l’uso che se ne fa. Quindi è l’attività che cambia, non lo strumento. Se non viene interiorizzato questo passaggio concettuale e pratico fra attività e strumenti, il background clinico rischia di costituire un impedimento allo sviluppo di una identità manageriale, in quanto si confonde la funzione con lo strumento.
Il background clinico rappresenta una barriera quando la visione da clinico limita lo sguardo e non consente il passaggio verso livelli più ampi.
Partendo da alcuni riferimenti storici, oltre che culturali e paradigmatici, Pennini descrive tre modelli di manager (utilizzando le diciture 1.0 – 2.0 – 3.0 diventate di uso comune per indicare programmi, app e chat di ultima generazione, ma che si utilizza anche quando si vuole dire che qualcuno o qualcosa è “un passo avanti”) che hanno in comune caratteristiche e tratti essenziali e che si sono succeduti nei diversi anni.
La versione 1.0. del manager in sanità è riconducibile a un’organizzazione burocratica e gerarchica, dove il rispetto delle regole assume un posto di rilevo. Verosimilmente collocabile in modo prevalente fra gli anni 70 e 80 del secolo scorso, ha trovato fortuna nella figura del primario e del caposala che ricoprivano ruoli in organizzazioni verticali e conservatrici.
La realtà ospedaliera suddivisa in specialità, fungeva da volano a questo tipo di manager che pur con le dovute differenze in base alle professioni e posizioni, fondava la sua identità perlopiù sull’autorità. La normativa professionale del tempo, con la suddivisione in professioni sanitarie principali e ausiliarie, forniva una ulteriore base per mantenere relazioni gerarchiche e stratificate che necessitavano di ordine e ordini che dovevano essere eseguiti.
Per alcune professioni esistevano programmi formativi formali di tipo manageriali (Abilitazione a Funzioni Direttive -AFD- per la formazione dell’infermiere coordinatore), mentre per altre il passaggio da clinico a manager era sostenuto dall’elevato livello di competenze cliniche, tanto da collocarlo come un “primo fra pari” (primus inter pares) per altre professioni ancora, il passaggio al ruolo di manager avveniva per anzianità di servizio, affidabilità, capacità tecniche, buon senso applicato.

Pertanto, in molti casi l’identità manageriale poggiava su un primo tipo di competenze (cliniche) che non sulle seconde (manageriali). Infine, i modelli organizzativi delle organizzazioni sanitarie erano di tipo funzionale, con riferimento a compiti e giri che sostenevano ulteriormente la necessità e la possibilità di controllo e di comando. Erano modelli basati su una importante, a volte eccessiva, standardizzazione delle attività, che frenava l’assunzione di responsabilità professionali e l’orientamento al risultato delle cure.
La versione 2.0. in ambito sanitario è collocabile, invece, all’interno della spinta aziendalistica degli anni ’90 del secolo scorso. La normativa del periodo (D.Lgs 502/92 e seguenti) ha trasformato il sistema sanitario e le organizzazioni sanitarie (territoriali e ospedaliere) sono diventate aziende. A capo di queste non vi era più un Comitato di Gestione ma un Direttore Generale con potere di gestione e rappresentanza, Si sono create delle realtà che, pur mantenendo una connotazione pubblica, hanno sperimentato logiche gestionali nuove per il settore, Di conseguenza anche il management si è ridisegnato sulle caratteristiche di questi diversi contesti. Le iniziative formative degli anni ’90 e 2000, hanno sostenuto l’idea di un manager che per svolgere correttamente le funzione doveva in qualche modo allontanarsi dai contesti clinici, per gestire risorse. Si introducono termini, concetti e strumenti provenienti da altri ambiti, come la gestione del budget, i sistemi di qualità, il benchmarking, gli indicatori, gli standard e altri ancora. Le parole chiave sono dell’efficienza nella gestione delle risorse umane, materiali, tecnologiche ed economiche. Anche in sanità si era palesato il modello di manager per far fronte alle inefficienza (Gary Hamel, il futuro del management 2008): “in quanto manager, siamo schiavi di un paradigma che antepone il perseguimento dell’efficienza a tutti gli altri obiettivi. “Il futuro del
management” è un’analisi lucida dell’attuale mondo manageriale, ma senza piglio distruttivo, nonostante non faccia sconti; individua bene i problemi che hanno messo in crisi le aziende, troppo occupate a guardare i bilanci senza preoccuparsi del valore che avevano già in casa e che avrebbe consentito loro innovazioni a costo zero; propone soluzioni in modo realistico che partono da quello che l’impresa è ora, dalle persone che ha, dalle risorse su cui può fare affidamento. Hamel vede nel coinvolgimento delle persone la chiave per lo sviluppo, l’innovazione, la crescita e per una vita migliore sul luogo di lavoro.
La versione 3.0. del manager in sanità è infine, quella che si vuole collocare nel presente e nel futuro delle organizzazioni sanitarie. È l’idea di un manager contemporaneo, che persegue principalmente due orientamenti: all’autcome del servizio e alla gestione di un team di professionisti autonomi o potenzialmente autonomi. Rispetto al primo orientamento (all’autcome del servizio ) si pone come un garante della qualità del servizio che la sua unità organizzativa è in grado di assicurare alla persona assistita. Questo concetto di qualità è composto da altri termini
chiave: efficacia, appropriatezza, sicurezza, equità, eticità sostenibilità e non solo efficienza.
Il secondo orientamento (gestione del team) vede il manager come un leader e un coach impegnato nella costruzione e mantenimento di un team di lavoro, che ha attenzione sia ai compiti da svolgere che alle relazioni, il team è composto da professionisti autonomi o potenzialmente autonomi che necessitano di un leader che possa interloquire con loro in modo qualificato, I l manager come coach è sempre più una necessità delle attuali organizzazioni, in riferimento al crescente aumento di complessità organizzativa e della necessità di apprendimento continuo.
Più volte è stato affermato che il manager che proviene dalla clinica deve passare attraverso un cambio di prospettiva. Si tratta di una trasformazione necessaria per ricoprire un nuovo ruolo e funzionale per agire in esso. Questo cambio deve concretizzarsi su due principali livelli:

– diverso utilizzo delle conoscenze e competenze cliniche

– differente ampiezza e direzione della prospettiva.

Riguardo l’utilizzo delle conoscenze e competenze cliniche, è stato evidenziato come possano essere delle risorse per il manager. Esse divengono uno strumento di lavoro che può concretamente fare la differenza fra un manager autorevole ed efficace e chi non lo è. Questo diverso utilizzo delle conoscenze e competenze cliniche è un’evoluzione che il manager deve comprendere e gestire. Deve “elaborare il lutto” della perdita della profondità con cui possedeva e usava queste conoscenze e competenze e canalizzare su altri fronti la “nostalgia” della maggiore distanza dalle persone assistite e dai processi clinici.
Il secondo aspetto riguarda la differente ampiezza e direzione della prospettiva, che precedentemente è stata anche denominata: verticale e orizzontale. È verticale, cioè di profondità per il clinico; è orizzontale, cioè di superficie per il manager. Non vi è un meglio e un peggio, come non vi è un tutto-o-niente, in queste due direzioni. Per il manager non è funzionale andare cosi “a fondo” come è richiesto al clinico, perderebbe in ampiezza che è un elemento fondamentale per avere “la visione d’insieme”. Questa prospettiva deve essere temporaneamente significativa, cioè in grado di coniugare una concretezza del qui e ora, per avere il controllo del lavoro quotidiano, con una visione del futuro che conduca l’organizzazione verso nuove mete.
Per comprendere il processo di cambiamento fra il ruolo del clinico e quello manageriale, è importante riflettere su alcuni punti, con l’aiuto di Antonello Goi (Laurea in Filosofia, con un’esperienza trentennale nell’ambito Risorse Umane in una grande azienda leader nel settore delle telecomunicazioni) e del suo libro: “Professione manager Teoria e pratica della gestione strategica delle risorse umane”, Ed. Franco Angeli.
1. Il manager diviene un componente della linea intermedia o della direzione, provenendo da nucleo di base. Egli fa comunque parte dell’organizzazione ma si trova in posizione diversa. Antonello Goi afferma: «Chi manovra le leve del management è, infatti, un uomo che appartiene anch’esso all’organizzazione, si nutre al suo interno della stessa strategia e ne è il principale interprete e diffusore». Questo percorso lo pone in una zona di maggiore visibilità e al tempo stesso di invisibilità. Con questa affermazione si evidenzia che spostandosi, esso diventa sicuramente più esposto e visibile, ma che al tempo stesso, ciò che fa diviene agli occhi dei colleghi clinici, meno comprensibile a causa della sua lontananza dalla clinica e dell’intangibilità intrinseca del lavoro manageriale. D’altronde, questa incomprensibilità del ruolo, da parte del clinico che non ha mai fatto il manager, è una situazione che non lascia molte alternative in termini di soluzioni efficaci per la gestione: affidare il management a un esterno alla comunità professionale che non possiede un background clinico o “tollerare” la lontananza dai processi del manager- ex clinico che pur sempre possiede e mantiene un livello sufficiente di conoscenze per leggere i contesti.
2. Il manager diviene un rappresentante del lavoro liquido. Zygmunt Bauman, è stato uno dei più noti e influenti intellettuali del secondo Novecento, maestro di pensiero riconosciuto in tutto il mondo. A lui si deve la folgorante definizione della «modernità liquida». Secondo Zygmunt Bauman «la società liquido moderna nella quale viviamo, è caratterizzata da situazioni in cui gli uomini agiscono e che si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure”. È una realtà che crea: esperienze e “relazioni sociali segnate da caratteristiche e strutture segnate che si vanno decomponendo e ricomponendo rapidamente, in modo vacillante incerto, fluido e volatile» (https://www.treccani.it/vocabolario/societa-liquida_res-c0525b22-89ec ). Per Henry Mintzberg, il lavoro manageriale è affetto dalla “sindrome di superficialità”. Il termine superficiale non deve essere inteso con un’accezione negativa di approssimazione o inconsistenza, ma come uno stare su tante cose, passare da un momento all’altro con velocità ma al tempo stesso la necessaria seppur fugace attenzione.
Il manager è attratto dall’andare in profondità, come era abituato a fare nel lavoro di clinico, ma si trova a rispondere alla domanda: “come si può fare un’analisi approfondita, quando si è sempre sotto pressione?”
(Henry Mintzberg, Il lavoro manageriale in pratica, Franco Angeli, 2014).
3. Il manager diviene un professionista nuovo con una diversa identità. Se l’identità del clinico è un’identità basata sul sapere scientifico e sul “fare” come applicazione di questo sapere, quella del manager dovrà essere basata ancora sul sapere scientifico (gli argomenti del clinico) e sul “far fare” o “all’aiutare a fare” (Ugo Morelli, Maria Gabriella De Togni, coordinatori infermieristici. Competenze e qualità nelle relazioni di cura, 2010).
L’assunzione della nuova identità è come un cambio di pelle, è come la trasformazione crisalide-farfalla. È quindi u’identità che deve basarsi su nuove pratiche professionali e sull’asimmetria della relazione con le persone che si dirigono. Da clinici si operava in un gruppo di pari (i colleghi), da manager si è il leader di un gruppo di professionisti.
Dopo aver esplorato un possibile percorso della nuova identità del manager ex clinico, due battute volevo dedicarle a quelle che Pennini definisce le “possibili tentazioni” che il manager ex clinico incontra nel quotidiano.
Si tratta di “tentazioni” perche, in qualche modo, collegate al suo paradigma operativo e dalle quali può essere attratto in quanto rappresentano schemi conosciuti e nei quali “rifugiarsi” quando le cose non vanno come si vorrebbe o quando vi sono sfide e situazioni inconsuete da affrontare.
Secondo Marco Rotella, coach, counselor, mental trainer ed esperto di processi formativi, molti manager vivono oggi, pur avendo difficoltà a confessarlo, una vera e propria “sindrome da schiacciamento” (niente a che vedere con la rabdomiolisi post-traumatica o sindrome di Bywaters): si sentono affannati, impotenti, assolutamente non in grado di fronteggiare nel migliore dei modi tutto questo. Vivono momenti di ansia, a volte di vera e propria angoscia, l’irritabilità aumenta, le relazioni, professionali e soprattutto familiari, ne risentono in modo decisivo. In altre parole, si crea una situazione di stress permanente.
Questo scenario ha spinto Marco Rotella a scrivere il libro: “Manuale di sopravvivenza manageriale. Breve guida per manager, imprenditori, professionisti intrappolati”, Di Marsico libri, Bari. Un testo veramente pratico, semplice, leggibile, che potrebbe essere usato come “kit di sopravvivenza”.
Operare in contesti complessi e mutevoli, per Marco Rotella, implica imparare ad essere continuativamente attenti ai segnali che pervengono dall’esterno. Per poter gestire questi sistemi è necessario comprenderli e governarli. La tentazione in questo caso, è quella di trattare il sistema come se fosse semplice, reclamando risposte certe e percorsi lineari.
Il concetto di complessità viene declinato in diversi settori secondo forme e modalità conoscitive proprie. […] Esso assume un preciso significato a seconda dei numerosi campi scientifici in cui si applica (Gualandi R, Tartaglini D., Le organizzazioni sanitarie come sistemi complessi, in A. Pennini Modelli organizzativi in ambito ospedaliero McGraw-Hill 2015).
L’etimologia della parola complesso, fa riferimento a cum plexus, cioè con nodo o intreccio. Quest’ultimo non si può facilmente “sbrogliare “senza perderne la sua natura intrinseca, la sua interezza. Infatti: a differenza di un meccanismo, che seppur complicato […] può essere smontato nelle sue parti per poter agire su di esse e poi successivamente ricomposto, nel fenomeno complesso ci si deve concentrare sull’intero sistema, considerato nel suo insieme come qualcosa di indivisibile (Gualandi R., Tartaglini D. 2015).
Sempre secondo i due autori, gli elementi che contribuiscono a rendere complessi i sistemi sono (Gualandi R., Tartaglini D. 2015):

– la struttura del sistema: può essere composta da diverse parti, numerose e variabili, che si mettono in relazione tra loro in modo non lineare;
– il comportamento del sistema: può cambiare nel tempo e rispetto all’ambiente di riferimento;
– le proprietà emergenti del sistema: cioè comportamenti che si presentano a un certo livello di complessità, che non erano presenti agli stadi precedenti e che fanno in modo che il sistema non torni più allo stato originario.
Un testo che non dovrebbe mancare nella biblioteca di un manager e che consentire una più facile diagnosi della complessità, è sicuramente quello di Roberto Vaccani, docente senior di comportamento organizzativo della SDA Bocconi: “Riprogettare la sanità. Modelli di analisi e sviluppo”. Carocci Faber 2012.
A tale proposito, Vaccani identifica i seguenti criteri diagnostici enunciandoli come livelli:
– livello di incertezza/imprevedibilità che il sistema deve amministrare,
– livello di pluralità e diversificazione dei beni/servizi prodotti;
– livello di discrezionalità decisoria decentrata indotto dai beni/servizi prodotti; dimensione organizzativa.
Per Edoardo Manzoni, Direttore Generale Istituto Palazzolo (Bergamo) e autore del libro “l’identità delle professioni sanitarie per far fronte alla complessità, 2015″, che ho avuto la fortuna di conoscere nel 2014, in una tavola rotonda organizzata dall’OPI di Carbonia Iglesias, «non possiamo contrapporci alla complessità ma la dobbiamo accettare coniugando tre parole chiave: accogliere, vivere e integrare».
Accogliere, così da: «Rendere intero e ottenere un risultato che è maggiore e diverso dalla somma dei risultati dei singoli elementi che compongo l’intero medesimo» (Edoardo Manzoni 2015). Convivere con la complessità significa fare lo sforzo di “non ridurre i fenomeni, di non scomporli necessariamente verso un impoverimento interpretativo” (Edoardo Manzoni 2015). Integrare, come accezione allarga, che va al di là della sola costruzione di relazioni e alleanze, ma deve intendersi come accoglienza di punti di vista, conoscenze, domande. Nel mondo sanitario, integrare e accogliere, sono un’importante sfida per tutti i professionisti, ma soprattutto per chi è chiamato a gestire l’organizzazione. Oggi la sfida della complessità comprende la necessità di integrare i saperi , superando la disintegrazione, pur riconoscendo il valore della specializzazione.
Oltre tali aspetti concettuali legati alla complessità, in generale e in particolare in sanità, sempre secondo A. Pennini, diventa importante indirizzare l’atteggiamento del manager verso alcuni percorsi che consentano di governare nella complessità e che per semplicità vengono riportati nel seguente elenco.
1. Ampliare la visuale all’interno del sistema.
2. Avere e sviluppare una visione.
3. Programmare in progress.
4. Stabilire poche e semplici regole.
5. Dare spazio e al significato espresso da chi fa le cose.
6. Adottare stili di conduzione negoziali e autorevoli.
7. Concentrarsi sugli obiettivi.
8. Creare piani e programmi che anticipino i fenomeni.
9. Consentire (la reale) partecipazione.
10. Far convivere sistemi formali e informali.
11. Sviluppare la creatività.
12. Creare e sostenere reti di relazioni.
13. Imparare ad imparare.
Queste semplici indicazioni (che necessitano di essere sviluppate), sulla modalità di gestire le organizzazioni complesse,
sicuramente non esauriscono tutte le possibili strategie, ma costituiscono un punto di partenza per il manager che si
trova, soprattutto all’inizio del suo incarico, a vivere dentro la complessità in sanità.
Carissimo Mario, nei miei 39 anni di servizio, 23 dei quali passati da professional clinico e 16 da dirigente/direttore delle professioni sanitarie, ho conosciuto numerosi manager – ex clinici che vantavano una notevole casistica di attività sanitaria ma che, una volta promossi manager, non sono stati in grado di costruire e guidare un team di professionisti con i quali condividere obiettivi e strategie di sviluppo, perché prigionieri di schemi mentali rigidi e convinti di poter replicare l’esperienza di direzione della ex unità operativa nella gestione di un’azienda.
Concordo con te sul fatto che questa sanità vada rivista e che nessuno di noi è immune da colpe o responsabilità, ma ho ritenuto opportuno delineare il cambio di prospettiva, illustrato in modo eccellente da Annalisa Pennini, necessario per tutti i clinici (me compreso) che vogliono diventare manager.
I manager della sanità si trovano oggi in una posizione scomoda: devono affrontare il dilemma di coniugare il bisogno di salute con la sostenibilità economica e la restrizione di risorse. Devono inoltre, fare i conti con la gestione della rete dei portatori di interesse (sindaci, sindacati, professionisti, etc.), sia interni che esterni. Gran parte del loro tempo è dedicato a gestire incontri con interlocutori istituzionali e non, dentro e fuori le mura dell’azienda. Proprio per questo, l’attuale manager deve essere in grado di coniugare la capacità di esprimere una visione e di condividerla con i suoi interlocutori.
Deve tradurre poi la visione in orientamento strategico, sapendo tenere il focus su obiettivi, aspettative e risultati.
Un ruolo che ha necessità di essere supportato da percorsi di formazione e di sviluppo professionale allineati alle aspettative del nuovo ruolo, che non può limitarsi alla frequenza di un corso regionale di qualche weekend al mese, pur tenuto da autorevoli docenti. Il percorso dovrebbe combinare la formazione tradizionale con il confronto tra pari e la condivisione delle esperienze e delle buone pratiche, contemperando attività di lavoro, apprendimento sul campo e opportunità di networking e ampliamento dei propri orizzonti, come sta facendo da qualche anno, la ASL di Nuoro.

Antonello Cuccuru

Bibliografia
A. Goi, Professione manager Teoria e pratica della gestione strategica delle risorse umane, Franco Angeli 2004
A. Pennini, Dieci brevi lezioni per manager in Sanità, Franco Angeli 2020
E. Manzoni, l’identità delle professioni sanitarie per far fronte alla complessità, Casa Editrice Ambrosiana 2015
H. Mintzberg, Il lavoro manageriale in pratica, Franco Angeli, 2014
M. Rotella, Manuale di sopravvivenza manageriale. Breve guida per manager, imprenditori, professionisti intrappolati, Di Marsico libri, Bari 2016
R. Vaccani Riprogettare la sanità. Modelli di analisi e sviluppo, Carocci Faber 2012.
S. Nieddu, Un week end con… il management sanitario”, Centro scientifico editore di Torino 2005
R. Gualandi, D. Tartaglini, Le organizzazioni sanitarie come sistemi complessi, in A. Pennini Modelli organizzativi in ambito ospedaliero, McGraw-Hill 2015
U. Morelli, M G.De Togni, Coordinatori infermieristici. Competenze e qualità nelle relazioni di cura, Guerini, Milano 2010
G. Hamel, Il futuro del management ETAS, Milano 2008
Z. Bauman, Vita liquida, Laterza Bari 2005

E’ notte fonda. L’ambulanza della ASL 7 si è appena arrestata davanti all’ingresso di un ospedale pubblico del capoluogo e ha sbarcato una barella che trasporta una vecchia paziente. La poveretta ha necessità di un intervento urgente che al Sirai non si può fare per difficoltà organizzative riguardanti il personale. Il medico dell’ospedale di destinazione ferma il medico del Sirai all’ingresso del suo reparto mentre entra con la paziente e lo accoglie con frasi scortesi: «Che altra [robaccia…] ci stai portando oggi?». Pare che con una certa frequenza l’accoglimento dei nostri malati in altri ospedali pubblici avvenga in modo sgradevole e respingente.
Per la burocrazia contabile anche questo trasferimento di paziente dalla nostra ASL 7 verso altre ASL, verrà inquadrato nelle statistiche sanitarie sarde come “mobilità passiva”.
L’espressione “mobilità passiva” è burocraticamente elegante, tuttavia, se esaminiamo il significato dei due termini, emerge quanto segue: per “mobilità” si intende l’atto dello spostarsi di qualcuno da un luogo ad un altro. Col termine “passiva” si intende significare che l’azione del muoversi non avviene per autonoma decisione del soggetto ma per necessità ineludibile o per decisione presa da altri .
Quindi si tratta di “spostamento senza il desiderio di farlo”. L’espressione più esatta non dovrebbe essere “mobilità passiva” ma “emigrazione” e l’emigrazione è il passaggio dal proprio territorio di appartenenza verso uno estraneo. In questo caso, si corre il rischio d’essere male accetti. Noi Italiani ne abbiamo una triste esperienza e da quella esperienza passata, possiamo ancora trarre insegnamento.
L’emigrazione italiana fa parte della nostra storia. Essa si protrasse per circa un secolo, dal 1876 al 1970. All’inizio i migranti italiani provenivano dal Nord Italia: lombardi, veneti, friulani, piemontesi, e si dirigevano verso le Americhe. Nel 1900 iniziò l’emigrazione in massa dal Meridione. Le navi, gestite da veri e propri trafficanti di uomini, partivano da spiagge, dai porti e da approdi di barche da pesca di tutta la penisola. Sia alla partenza, che durante l’attraversata, che nei porti d’arrivo oltremare, avvennero fatti gravissimi contro la pietà umana. Molti morirono di stenti, maltrattamenti e linciaggi. Per fermare la disfatta morale il Governo Giolitti, nel 1901, emanò una legge al fine di fermare lo stato penoso in cui si svolgeva il trasporto di quella umanità. Il fenomeno migratorio italiano si attenuò durante le due Guerre Mondiali, sia per il più accanito respingimento dei paesi verso cui si migrava, sia per la comparsa di provvedimenti restrittivi messi in atto dal fascismo.
Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, dal 1946 al 1970, l’emigrazione fu soprattutto interna e andava dal Meridione e Isole verso le città industriali del Nord che chiedevano mano d’opera per il boom economico.
L’emigrazione più terribile fu tra la seconda metà del 1800 e l’inizio del 1900. La richiesta di mano d’opera a basso costo proveniva soprattutto dal Brasile e dagli Stati Uniti del Sud.
Avvenne a causa della fine della schiavitù. Gli schiavi neri utilizzati in Brasile nelle piantagioni di caffè e canna da zucchero divennero liberi a causa della “ley do ventre libre” (legge del ventre libero). Si racconta che la figlia dell’imperatore del Brasile, opponendosi ai fazenderos schiavisti avesse ottenuto dal Parlamento brasiliano che dall’anno 1871 tutte le donne schiave in attesa di un figlio, dovessero darlo alla luce libero. Da allora la schiavitù lentamente scomparve. Ciò comportò la mancanza di mano d’opera schiava per il lavoro nelle piantagioni. Il problema venne risolto inviando agenti arruolatori di mano d’opera a basso prezzo nelle regioni più povere del neonato Stato Italiano.
Lo stesso fecero i coltivatori di cotone degli Stati del Sud degli Stati Uniti d’America alla fine della guerra di secessione che sancì la fine della schiavitù dal 1865. Nel 1888 una convenzione internazionale abolì il commercio degli schiavi e il traffico delle navi negriere dall’Africa all’America si fermò. Quelle orribili carrette dal mare per il traffico di schiavi restarono inutilizzate nei porti americani, europei e africani.
Gli sfruttatori del traffico di esseri umani non si fermarono. La contemporaneità fra blocco del commercio degli schiavi e la necessità di mano d’opera a basso prezzo europea restituì valore a quelle navi negriere appena dismesse. Esse vennero rimesse in attività nella rotta dell’Atlantico; stavolta non partirono più dalle coste della Guinea ma dalle coste del Mediterraneo e trasportarono in America masse di bianchi bisognosi. Il disprezzo e l’intolleranza contro i migranti in arrivo furono enormi. Mentre gli ex schiavi pretendevano contratti di un dollaro al giorno per lavorare nelle piantagioni, gli immigrati italiani accettavano mezzo dollaro. Questo fu un motivo di screzi anche gravi tra neri e bianchi immigrati.
I padroni americani chiamavano gli italiani alle loro dipendenze “negri bianchi”. Le atrocità che seguirono al disprezzo e alla disumanizzazione sono note. Questo fatto divenne argomento di scandalo nel Parlamento italiano e un senatore del regno d’Italia, il ministro degli Esteri Giulio Prinetti propose una legge per la regolamentazione dell’emigrazione economica verso le Americhe. La sua legge venne applicata immediatamente per fermare gli abusi sui migranti perpetrati dagli agenti brasiliani. Costoro battevano la campagna del meridione d’Italia promettendo lavoro, la fine della povertà, benessere e il viaggio pagato. Poi, una volta sbarcati in Brasile, pretendevano la restituzione della somma anticipata per pagare il viaggio in nave. Il debito era impossibile da restituire e quei poveracci dovettero lavorare per i fazenderos fino alla restituzione della somma anticipata che cresceva per gli interessi e per il pagamento degli alimenti e dell’affitto delle baracche per l’alloggio di cui erano proprietari gli stessi fazenderos. Di fatto i debitori, non potendo mai restituire le somme pretese, divennero schiavi e come tali vennero trattati insieme alle loro famiglie.
Per fermare l’abuso la Legge Prinetti del 1901 impose quanto segue:
1 – le navi dei migranti potevano salpare dall’Italia soltanto da tre porti autorizzati che venivano controllati dalle forze di polizia: Napoli, Palermo, Genova.
2 – Da nessun altro porto italiano, da nessuna spiaggia e da nessun approdo era consentita la partenza di dette navi.
3 – Nei tre porti autorizzati esistevano i “Patronati” dello Stato Italiano che provvedevano a pagare in anticipo il biglietto della nave e tutte le spese di viaggio.
4 – La nave , prima della partenza, veniva ispezionata da un Medico militare italiano che faceva verifiche sulle condizioni igieniche delle cabine e la salubrità del vitto. Chi era malato veniva sottoposto a cure prima della partenza.
5 – Ogni nave doveva avere un “Commissario di bordo” italiano per i passeggeri. Egli aveva la responsabilità della sorveglianza del benessere dei migranti.
6 – I porti di arrivo in America dovevano essere autorizzati secondo accordi bilaterali col Governo italiano.
7 – Allo sbarco i migranti dovevano ricevere, nel porto d’arrivo, l’assistenza da un ufficio di “Patronato”.
Il Patronato indirizzava i migranti alle aziende richiedenti lavoratori. La legge Prinetti e le integrazioni che seguirono contenevano disposizioni di umanizzazione che anche oggi darebbero utili suggerimenti. Oltre all’intervento di tutela dello Stato crebbe anche l’opera di solidarietà del Volontariato. Alle organizzazioni laiche si aggiunsero le organizzazioni religiose missionarie. La più nota al tempo era la “Missione del Sacro Cuore”. L’aveva fondata la suora Francesca Saverio Cabrini. Questa donna era stata una maestra elementare che, fattasi religiosa nel 1874, fondò il suo Ordine ad imitazione di san Francesco Saverio, protettore dei naviganti in mare, fondatore dell’ordine terziario francescano e dell’Ordine delle Clarisse. Francesca Cabrini fece numerosi viaggi transoceanici sulle carrette del mare per accompagnare i migranti italiani negli Stati Uniti e fondò 80 istituti di assistenza per i migranti. Costruì asili, scuole, orfanotrofi, ospedali, e convitti per studentesse. Le ragazze migranti venivano prese in carico dai suoi istituti, addestrate a parlare la lingua inglese e ad una professione. Quindi venivano avviate alla vita come persone libere, sostenute da un elevato livello culturale. Nel Minnesota fondò un collegio femminile così avanzato che il frequentarlo divenne un titolo di prestigio, e fu una moda per i potenti locali iscrivervi le proprie figlie.
Francesca Cabrini morì a Chicago nel 1917, fu canonizzata da Pio XII del 1946. E’ patrona dei migranti. Sarebbe consigliabile, sopratutto per chi ci amministra, tornare allo studio del fenomeno migratorio, perché di quel fenomeno esistono diverse varianti. Anche se è avvenuto in tempi diversi, in luoghi diversi e in parti diverse della Terra, con gradi di gravità differenti, si tratta sempre di vicende di esseri umani che la storia ha indotto alla perdita progressiva della titolarità dei diritti civili, e li ha destinati a subire abusi e sottrazioni.
Il caso raccontato all’inizio contiene elementi in comune con la storia delle migrazioni umane:
– la sottrazione mascherata di più diritti costituzionali come il diritto alla salute individuale e collettiva e il diritto costituzionale all’uguaglianza e alla realizzazione delle aspirazioni della persona umana;
– l’appropriazione della gestione del diritto alla salute da parte di entità inaccessibili;
– il difetto di solidarietà.

Esiste la convinzione diffusa che si stia tentando di soppiantare la Sanità pubblica con una privata.
Si tratta di due entità assolutamente differenti:
– la Sanità privata è un’organizzazione auto-mantenentesi che deve affrontare spese con fondi propri destinati a: personale, edifici, attrezzature, manutenzione, materiali di consumo, servizio alberghiero, trasporti, burocrazia, tasse, eccetera. Il godimento del suo servizio è oneroso;
– la Sanità pubblica è una grande società di mutuo soccorso solidale dello Stato, il cui servizio dovrebbe essere gratuito, che si finanzia attraverso la contribuzione fiscale dei cittadini secondo regole condivise di contribuzione progressiva in base al reddito. Ciò è necessario per produrre il Fondo Sanitario Nazionale.
Il Fondo Sanitario Nazionale serve a finanziare il Piano Sanitario Nazionale. Il Fondo Sanitario Nazionale viene ripartito equamente fra le Regioni. Le Regioni devono ripartirlo equamente fra le Aziende Sanitarie Locali (ASL) in base alla numerosità della popolazione.
Il cittadino viene assistito attraverso quel fondo che egli stesso ha contribuito a formare. Ne consegue che la proprietà della Sanità pubblica è del cittadino. L’uguaglianza tra i cittadini non è soltanto un diritto costituzionale ma ha anche solide basi matematiche per uguaglianza nella contribuzione.
Esiste la possibilità che l’apparato burocratico che gestisce il Fondo possa optare per una suddivisione non equa sia per motivi di bilancio che per motivi di pianificazione sanitaria, risultando così non equamente solidale ma tendenzialmente preferenziale e vantaggiosa per una parte rispetto ad un’altra della popolazione. Per questo motivo, alle esigenze contabili dovrebbero affiancarsi quei principi etici di uguaglianza e di equità di cui sono ricchi gli articoli della Costituzione.
I guardiani dell’etica politica nella pubblica amministrazione sono gli uomini politici legittimamente eletti. Può avvenire che alla “sorveglianza” dei politici sfugga qualche “sbavatura” contabile. La somma di più sbavature nella distribuzione delle finanze del Fondo Sanitario Nazionale può generare disuguaglianze e disparità per cui può avvenire che il Welfare di una parte del territorio fallisca mentre un altro vicino fiorisca.
Questo è quanto è avvenuto alla nostra ASL 7. Altri si sono appropriati della gestione della Sanità pubblica, racchiudendola nei propri confini sotto forma di “centralizzazione”. La seconda faccia di quella medaglia è l’“esclusione” della Provincia dalla gestione della Sanità. Ora spetta alla politica illuminata futura il compito di riparare i danni della politica passata e presente che, credendo di far bene, ha fatto molto male.
Nell’attesa che si torni alla “statu quo ante” è necessario che la “mobilità passiva”, nuova forma di emigrazione, non voluta ma subita dai nostri pazienti, presso altri territori provvisti di ospedali efficienti, cessi.
Per la cessazione di questo nuovo fenomeno migratorio interno è necessario che si rispetti il Piano sanitario della Rete ospedaliera regionale del 2017 e si provveda a:
– dare un ospedale di base ad Iglesias perfettamente e completamente funzionante;
– dare a Carbonia un ospedale che abbia anche funzioni di Urgenza ed Emergenza;
– o, in alternativa, un ospedale unico.
Tra la promulgazione della legge n. 23 del 1901 del senatore Giulio Prinetti e il raggiungimento dell’obiettivo di frenare i disagi delle emigrazioni passarono 69 anni.
Tra il dire e il fare, ci sarà un lasso di tempo che vorremmo breve, ma potrebbe essere lungo. Nel frattempo, i nostri “Migranti per motivi di salute” hanno bisogno di tutele che può dare solo lo Stato, esattamente come lo Stato fece nel 1901 nei confronti dei Migranti economici italiani.
Pertanto, per tutelare i nostri malati e i nostri medici che li accompagnano presso altri ospedali necessita che:
1 – il paziente che ha bisogno di ricovero non venga rimandato a casa dai nostri ospedali con consiglio di cercarsi un posto in altri ospedali. Ciò equivale ad abbandonarli al loro destino. Invece, il paziente dovrebbe essere accolto e accompagnato previo accordo bilaterale fra direzioni sanitarie delle diverse ASL (come fece il Regno d’Italia con l’America);
2 – il paziente che necessita d’essere ospedalizzato dovrebbe essere accompagnato con ambulanza dotata di equipaggio sanitario completo (idem);
3 – giunti all’ospedale di destinazione il medico accompagnante dovrebbe ottenere dalla Direzione sanitaria ospitante il mandato di disporre l’accettazione già concordata prima della partenza (come fecero i patronati);

4 – il nostro paziente, una volta ricevuto da un altro ospedale dovrebbe godere della tutela dei nostri medici che dovrebbero ottenere alla pari con i medici riceventi la condivisione delle informazioni cliniche sull’evoluzione successiva;
5 – alla dimissione dall’ospedale ospitante, il nostro paziente dovrebbe godere della tutela dei nostri mezzi di trasporto medicati nel caso esistano impedimenti economici e organizzativi familiari.
Il Regio Decreto n. 23 del 1901 e l’esempio dato da santa Francesca Saverio Cabrini sono tutt’oggi validi per allestire sistemi di tutela per i nostri malati-migranti costretti ad essere trasferiti in ospedali di altri territori a causa della nostra povertà assistenziale.

Mario Marroccu