10 April, 2025
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Pensavamo in tanti che il sistema e l’organizzazione della sanità nel territorio della nostra Asl del Sulcis, in questi ulti anni, avesse toccato il fondo. Pensavamo, nel merito, con l’avvento della nuova giunta regionale della Todde, che fosse urgente e opportuno assumere provvedimenti per assicurare alla popolazione quei servizi ospedalieri e territoriali previsti e nell’ambito della normativa regionale tutt’ora in vigore.
In tanti, allo stato dei fatti, siamo costretti a prendere atto, viste le recenti affermazioni sulla stampa dell’assessore regionale alla sanità, che per la Asl del Sulcis, si aprono scenari e percorsi non solo inediti e inaspettati, che però non incidono minimamente sui gravi problemi che tutti i giorni vive il nostro sistema ospedaliero e territoriale e quindi la popolazione che ne subisce le preoccupanti e continue carenze.
L’assessore regionale della Sanità, infatti, con assoluta semplicità, nell’avanzare la possibile vocazione di un presidio ospedaliero, prende ad esempio il Sulcis e la popolazione molto anziana, per definire la missione del CTO e del Sirai per cui:
a. uno concentra la propria attività nella chirurgia con numeri da richiamare medici da Cagliari e oltre;
b. l’altro potrà svolgere l’attività soprattutto nella riabilitazione, anche con un reparto di ortopedia e geriatria.
L’assessore, su come affrontare e superare i problemi che tutti i giorni vive la nostra popolazione, non dice assolutamente nulla.
Tutto sembrerebbe rinviato a un ipotetico nuovo assetto prefigurato per il CTO e Sirai.
Si ha l’impressione, purtroppo, che l’assessore regionale non abbia quella necessaria consapevolezza di come è caratterizzato il nostro territorio e dei bisogni che concretamente vive la popolazione: non solo quella anziana.
Inoltre, l’assessore, trascura e forse ignora totalmente, che in Sardegna e quindi nel Sulcis, è in vigore la “Rete ospedaliera”, approvata dal Consiglio regionale il 25.10.2017, di cui molte parti nella nostra Asl restano ancora incompiute.
È in questo ambito che l’assessore dovrebbe prendere conoscenza che nella Asl del Sulcis l’assistenza ospedaliera dovrebbe essere garantita:
a) dal P.O. Sirai, a Carbonia, quale stabilimento DEA di I livello, multi-specialistico e punto di riferimento per le attività di Emergenza-Urgenza;
b) dal P.O. CTO a Iglesias, quale stabilimento DEA di I livello, per le attività programmate e polo materno infantile, con le funzioni di assistenza programmate previste per il pronto soccorso semplice.
c) dal P.O. Santa Barbara a Iglesias, quale stabilimento e nodo della rete territoriale regionale, Ospedale di comunità, Casa della Salute con servizi specialistici, polo riabilitativo (di cui 22 posti letto per lungodegenti e 31 posti letto di riabilitazione funzionale) e Hospice.
La rete ospedaliera in questione, trova le disposizioni contenute nel Documento del 25 ottobre 2017, con il quale il Consiglio regionale della Sardegna ha approvato la rete attualmente vigente, con una dotazione complessivi di 313 posti letto.
Per quanto riguarda invece l’assistenza territoriale, nella ASL Sulcis Iglesiente sono attualmente presenti 4 Case della Salute nei seguenti comuni: Carloforte, Sant’Antioco, Giba e Fluminimaggiore.
Infine, con il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), si prevede la realizzazione di due nuove Case della comunità:
– Una a Carbonia, presso il poliambulatorio di San Ponziano;
– Una nel P.O.S. Barbara di Iglesias.

Sempre con il PNRR, si prevede di realizzare ne P.O. Santa Barbara, l’Ospedale di comunità, con 20 posti letto.
In questo contesto, l’assessore regionale, fatta un’attenta disamina della situazione, dovrebbe porsi delle semplici domande:
a. perché, la Asl del Sulcis, da diversi anni patisce indubbie sofferenze organizzative nell’assistenza ospedaliera e territoriale?
b. quali sono i motivi per cui gli unici incarichi di struttura complessa sono di Chirurgia generale del Sirai, nel Pronto soccorso, di Ortopedia, Anestesia e Rianimazione?
c. come si spiega che i reparti di Neurologia, Urologia, Radiologia, Medicina del CTO, Centro trasfusionale, il Laboratorio analisi, la Psichiatria, l’Oculistica, l’Ortopedia CTO, l’Otorinolaringoiatria, la Dialisi e la Diabetologia sono strutture complesse senza direttori da tantissimo tempo?
d. per quale ragione la Asl sconta una forte carenza di personale con oltre 88 medici? E che dei 153 attualmente in organico oltre il 50 per cento è in età avanzata.

e. quali sono i motivi che nel PO Santa Barbara non si sono ancora determinate le condizioni per realizzare compiutamente l’Ospedale di Comunità, la Casa della Salute con i servizi specialistici, il polo riabilitativo e l’Hospice.

In questi mesi abbiamo preso atto che nonostante le diverse deliberazioni adottate dal Direttore generale della Asl del Sulcis di programmazione e organizzazione, nei presidi ospedalieri e nel territorio la situazione è notevolmente peggiorata. Siamo in alcune realtà al disfacimento. Troppi reparti degli ospedali sono in grave sofferenza perché manca di personale medico e di infermieri, la situazione di crisi non sembra avviata a soluzioni. Anzi.
Ora, se queste osservazioni corrispondono a semplice verità, si tratta di definire, con una certa urgenza, quali iniziative assumere nel nostro territorio.
Considerato in particolare che la Giunta regionale ha previsto di commissariare le Asl, e che quindi si avrà una gestione ordinaria, con tempi oggi imprevedibili per avere la nomina dei nuovi direttori generali e quindi di governo pieno per affrontare il presente e il futuro.
Insomma una fase transitoria con tempi oggi imprevedibili.
La situazione di crisi della nostra sanità è comunque presente, la sofferenza di assistenza della popolazione non entra certamente in pausa, anzi.
Riprendendo in questo contesto alcune recenti considerazioni di Mario Marroccu.
Che cosa si può fare nel nostro territorio?
Certo la politica può fare la sua parte. Così come le organizzazioni sindacali confederali e di categoria.
Certamente un ruolo determinante è oggi in carico ai 23 Comuni, dei Sindaci e della Conferenza socio sanitaria.
I nostri 23 sindaci, nella piena consapevolezza della situazione che attraversa la Asl, “unitariamente”, possono rispondere a pieno titolo all’assessore regionale che non siamo un territorio da colonizzare con proposte senza fondamento e, soprattutto, avere la forza per rivendicare un cambio di gestione della Asl, recuperare subito quanto stabilito dagli atti aziendali, per il ripristino dei servizi ospedalieri e del fabbisogno del personale.
Se non ora quando?
Tore Arca
Cittadino della provincia del Sulcis Iglesiente

Va detto subito: il vero salto quantico” è un concetto della fisica atomica; invece il “salto quantico” della lingua parlata è sinonimo di “illogico”. Questo secondo genere di “salto quantico” è quello che si attaglia di più alle dichiarazioni rilasciate ieri dall’assessore della Sanità Armando Bartolazzi. Da ciò che dichiara si desume che in modo indipendente sta procedendo al sovvertimento della legge sulla “rete ospedaliera” sarda, approvata dal Consiglio regionale della Sardegna il 25 ottobre 2017. Egli sta trasformando la destinazione dei nostri ospedali da una struttura generalista con tutti servizi a strutture con un solo servizio specialistico. Cioè, a suo vedere, ci sarà un’ospedale per i bambini, uno per i tumori, uno per gli occhi, uno per l’addome, uno per il cuore, uno per i vecchi, uno per i depressi, uno per il cervello, uno per la pelle e così via. A parte l’illogicità del metodo per le complicazioni organizzative che comporterebbe, una cosa del genere non si può fare. Qualunque sia il fine di questa azione personale, deve essere precisato che nessun assessore regionale può modificare una legge. Lo possono fare solo i consiglieri regionali in Assemblea. Il “salto quantico” dell’assessore, che non è assimilabile a quello della fisica, in realtà e un “volo pindarico”. Pindaro era un poeta greco del sesto secolo avanti Cristo che scriveva opere con ragionamenti belli ma senza capo né coda.
Il vero “salto quantico” della fisica quantistica è dato del salto di un elettrone di un atomo da uno stato di energia ad un altro con emissione di radiazione elettromagnetica sotto forma di “fotoni”. Dietro questo concetto esistono gli studi dei più grandi scienziati del 19° e 20° secolo: Max Plank, Niels Bohr, Rutherford, Heisenberger, Broglie, Einstein, Fermi, eccetera, tutti premi Nobel. Essi fondendo la “teoria particellare” e la “teoria ondulatoria” della fisica quantistica gettarono luce sulla natura stessa della materia dando all’Umanità la “consapevolezza” di cosa sia l’”esistente”.
Presto l’”Intelligenza artificiale” occuperà molti spazi riservati oggi agli umani. Essa sostituirà tutti: anche i medici e i chirurghi verranno sostituiti dalla I.A. Tuttavia, a detta degli scienziati i nuovi computer, nonostante la loro super-intelligenza, hanno un difetto che non verrà risolto in futuro: non hanno “coscienza di sé”. Cioè non hanno la “consapevolezza” del proprio “Io” perché non lo possiedono.
L’Uomo, che vive nel mondo reale e ne ha “consapevolezza”, manterrà la sua superiorità nel processo di programmazione del proprio futuro. E’ esattamente ciò che vogliamo.
Il programma di riforma sanitaria esposto ieri pare non avere “consapevolezza” né di come è fatto il mondo dei sardi né di quanto sta avvenendo nel mondo globale.
Il mondo concreto di cui bisogna avere “consapevolezza” è davanti a noi.
In questi due mesi tutto è cambiato. Nessuno prevedeva il ritorno indietro della storia del mondo Occidentale fino a rivivere le guerre di conquista. Dopo la Seconda Guerra Mondiale si costituì la Società delle Nazioni e poi l’ONU, alla ricerca di un garante del vicendevole rispetto fra le Nazioni. In un attimo, con un “salto quantico” illogico è avvenuto il regresso della civiltà occidentale delle Democrazie e delle Costituzioni verso le conquiste territoriali per puro interesse economico. Un fatto grande come questo, nel momento in cui si decide la revisione dell’apparato sanitario pubblico regionale, non può essere ignorato e tutti i programmi devono essere rivisti e adeguati alla nuova realtà storica.
Un’altra notizia proveniente dal mondo reale, molto istruttiva per chi vuole essere “consapevole”, è quella riguardante la scomparsa di Gene Hackman, di sua moglie e del suo cane. Novantenne, ex famoso attore, titolare di vari premi Oscar, e affetto da Alzheimer, Gene Hackman viveva con la moglie di 63 anni, in solitudine. Visse ricco ed amato dal pubblico americano finché si ritirò dalle scene. Invecchiando venne la malattia e con questa l’eclissi di amici e figli. Le figlie si informavano della sua salute con una telefonata ogni 6 mesi. In un sistema sanitario e di Welfare come quello statunitense chi è senza figli, e non lavora, se si ammala è perduto. E’ avvenuto che sua moglie, sua unica fonte di assistenza, contraesse un’infezione polmonare da Hantavirus. Si tratta di un virus dei roditori americani (topi). L’essere umano contagiato manifesta sintomi di tipo influenzale (febbre, dolori muscolari, tosse). L’infiammazione polmonare può provocare stravaso di liquido essudatizio negli alveoli respiratori; questi, allagati dal liquido, non scambiano più ossigeno con l’aria respirata. Tale infiammazione può portare al peggioramento del respiro, a compromissione del cuore e del cervello, fino alla morte. La moglie, non curata, si aggravò e morì lasciandolo solo. Cosa può fare un paziente con Alzheimer, solo, per sopravvivere? In questi pazienti oltre al danno motorio e cognitivo esplode il danno della memoria. La “memoria episodica” comporta la cancellazione dei ricordi di eventi passati. Tuttavia il danno peggiore è la perdita della “memoria procedurale”. Cioè il malato non sa come si deve procedere per raggiungere un determinato scopo. Se, per esempio, ha sete e vuole bere, egli non ricorda quale è la sequenza di azioni da mettere in atto: non sa che deve allungare il braccio per afferrare con la mano il bicchiere; non sa che per riempire il bicchiere bisogna versare acqua dalla bottiglia; non sa neppure che deve avvicinare il bicchiere alle labbra, riempire la bocca e deglutire. Similmente non sa cosa fare per nutrirsi, per lavarsi, per proteggersi dal freddo, per aprire la porta di casa, eccetera. In sostanza rimane inerte nel luogo in cui si trova e non prende iniziative. Morirà per mancata assistenza alimentare e termica.
Nel caso di Gene Hackman, una volta morta la moglie, egli morì dopo 7 giorni. Così pure il cane.
Ora, applichiamo a questo evento le regole del fondatore della medicina clinica: Ippocrate di Coo del V secolo avanti Cristo. Egli osservava il malato sia nel suo letto, sia nell’ambiente di vita; ne seguiva l’evoluzione patologica e, dopo osservazione prolungata, emetteva la diagnosi.
Seguiamo lo stesso metodo di osservazione col caso del malato Gene Hackman; caso che ci interessa molto perché attuale, e perché è lo specchio di questi tempi; potrebbe riguardarci. Caratteristiche:
– era un grande anziano;
– era malato di Alzheimer;
– aveva la sola compagnia della moglie;
– era senza figli in prossimità;
– mancava la frequentazione di un vicinato;
– era senza badante;
– non aveva la visita abituale di un medico di famiglia;
– non aveva una cerchia di amici a cui rivolgersi;
– non aveva un amministratore delle proprie risorse finanziarie.
Questo elenco riguarda molti.
Oggi stiamo tutti vivendo la vera epidemia del 21° secolo nel mondo occidentale. Si tratta della crisi demografica con scarsità di nuovi nati e con un eccesso di anziani candidato alla vecchiaia in solitudine.
Si può fare un programma di riforma sanitaria senza tener conto del dato demografico? No.
Ora facciamo un “salto quantico – volo pindarico” nella storia della Sanità.
Iniziamo col fare una distinzione fra “Sanità” e “Medicina”.
La “Sanità” riguarda lo stato di salute di una persona, di un popolo, o di una Nazione. Essa rappresenta  uno degli aspetti della “sicurezza” pubblica. E’ un compito dello Stato.
La “Medicina” è un branca della scienza e dell’attività professionale che ha lo scopo di modificare, con artifizi, l’evoluzione di un malattia. Di questo si curano i medici.
La Sanità pubblica nacque per un fatto storico drammatico: la peste del 1347-48. In quei 12 mesi in Italia, che aveva circa 10 milioni di abitanti, morirono 2 milioni di persone. E’ come se in 12 mesi del nostro anno 2025 in Italia, che ha 56 milioni di abitanti, morissero 12milioni di persone, e ne sopravvivessero 44 milioni. Nelle grandi città ( Milano, Venezia, Firenze) morirono più della metà degli abitanti.
Morirono gli operai, i contadini, gli artigiani, i professionisti; l’economia crollò. La povertà e la penuria di alimenti negli anni successivi provocarono una mortalità anche maggiore.
Le autorità politiche dei vari Stati e staterelli capirono l’importanza di contenere i contagi. Allora vennero costituiti i primi “Uffici di sanità” pubblici. Erano dotati di personale che aveva il compito di controllare i traffici di uomini e merci alle frontiere e nei porti. Furono i primi Sistemi sanitari nazionali della storia.
Fino ad allora gli ospedali caritativi religiosi ricoveravano poveri, vecchi, idioti, orfani, e li assistevano procurando loro un letto, alimenti e vestiario. Erano ospizi. Dopo il 1348 fu chiara la necessità di convertire gli “hospitalia” religiosi in veri ospedali per malati. Così nacquero gli ospedali moderni che si avvalevano di medici professionisti e infermieri pagati dallo Stato.
A Milano, nell’Ospedale Maggiore del 15° secolo, si pensò di distinguere gli ospedali destinati alle malattie che iniziano e finiscono rapidamente colla guarigione o colla morte del paziente. Si individuarono poi gli ospedali per quei malati che non guariscono, non muoiono e restano invalidi. Un questo caso il problema assistenziale, a carico dello Stato, si cronicizzava.
Il Sistema sanitario pubblico si adattò alle esigenze della popolazione del tempo.
Nei secoli successivi, fino al 1900, la situazione sanitaria si mantenne quasi immodificata. Poi, con l’arrivo dei vaccini (fine 1800) e degli antibiotici (1950) i malati acuti iniziarono a sopravvivere. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, col miglioramento delle condizioni economiche, la pace garantita dall’ONU, l’industrializzazione e la liberalizzazione dei mercati internazionali, la salute nazionale migliorò ulteriormente fino a generare un “boom” demografico tra il 1946 e il 1966. Al Sirai di Carbonia nascevano 2.000 bambini all’anno. Al Santa Barbara di Iglesias ne nascevano 1.000. Oggigiorno ne nascono in tutto circa 300 all’anno.
I nati di quegli anni vengono denominati “baby boomers”. I bambini del “boom” oggi (anno 2025) hanno un’età fra i 59 e 79 anni. A causa di questi fatti abbiamo, tra gli abitanti della Sardegna, il 45% di ultra-55enni. Si tratta di un numero pari a 700mila anziani su un milione e mezzo di abitanti. Nel Sulcis Iglesiente gli anziani sono il 50%. della popolazione.
A questo punto mettiamo in rapporto questi dati col triste fatto di Gene Hackman e chiediamoci: “quanti di questi 700mila diventeranno invalidi? Rivediamo anche l’elenco dei motivi della fragilità e
della solitudine di Hackman:
1 – problemi amministrativi-economici;
2 – figli distanti, assenti, o impegnati;
3 – assenza di famiglia stabile e convivente;
4 – assenza di un compagno o una compagna di vita;
5 – assenza di rapporti sociali;
6 – assenza di badante;
7 – incapacità motorie;
8 – deficit cognitivo:
– eccetera.
Questi soggetti, tra l’altro, sono bersaglio, praticamente obbligato, di altre malattie come: infarto, ictus, tumori, artrosi, dolori articolari e muscolari, diabete, ipertensione arteriosa, insufficienza renale, ipertrofia prostatica (catetere), tumori ginecologici, problemi intestinali, fibrillazione atriale e uso di farmaci da monitorare come gli anticoagulanti. Questo è un quadro realistico ed è con questo quadro, tipico di questo secolo, che si devono fare i conti. Una riforma si può fare solo se si ha la “consapevolezza” di questo mondo reale. Altrimenti è solo una soddisfazione teorica.
In questo scorcio di secolo, e con questa umanità sofferente, abbiamo bisogno di:
– Ospedali dotati di tutti i servizi chirurgici e internistici per le malattie che agiscono concorrenti.
– Vicinanza dell’ospedale alle residenze degli utenti.
– Medicina territoriale collegata all’ospedale provinciale competente.
– Tutto il Sistema sanitario della provincia finanziato dallo Stato, ricordando che il malato di oggi è per definizione: solo, povero, invalido, senza disponibilità di autonomia nei mezzi di trasporto.
Per questo ogni città ha bisogno di un suo ospedale completo di tutti servizi.
Per giunta: gli ospedali provinciali non hanno bisogno di finanziamenti per un Centro Trapianti, o per la cura delle leucemie, o per la neurochirurgia, o per la chirurgia pediatrica. Hanno bisogno di essere attrezzati per assistere le patologie quotidiane, le più frequenti e più diffuse.
Io oggi ho bisogno di un chirurgo che sappia fare una ureterocutaneostomia per trattare un cancro di vescica inoperabile in vecchio, e non lo trovo. Intervento facile, semplice e poco costoso. Prima era disponibile.
Cosa fare nel nostro territorio? Cosa può fare la Politica? Abbiamo un esempio davanti agli occhi: c’è un Sindaco che ha la concreta “consapevolezza” di cosa si deve fare. E’ il sindaco di Iglesias. Sta riuscendo a restituire all’ospedale della sua città tutti quei Servizi specialistici di cui ogni città necessita. Sembra l’unico ad aver capito per tempo che il mondo è cambiato mentre noi corriamo il rischio di rimanere ai margini del programma sanitario regionale. I sindaci del Sulcis Iglesiente in tutto sono 23. Aspettiamo che si rivolti l’animo degli altri 22.
Questo non è un “discorso quantico”, è semplicemente logico. Ci serve gente che usi la logica umana.
Che sia come noi.

Mario Marroccu

Il professor Nicola Perra, docente di Fisica teorica e Statistica in un’Università di Londra, ci ha inviato un articolo pubblicato il 27 gennaio (3 giorni fa) sulla rivista scientifica “Nature” in cui un gruppo di famosi studiosi comunica al mondo intero che è deceduto un uomo in Inghilterra a causa di un’infezione da “virus influenzale aviario H5N1”.
Attenzione! Non si tratta della comune “influenza umana H1N1” come quella che provocò 60-100 milioni di decessi nel 1919. Questo nuovo virus è specifico degli uccelli. Il focolaio iniziale proviene dagli uccelli selvatici. I focolai diffusi negli allevamenti intensivi di pollami sono arrivati da essi. Il virus, classificato con la sigla H5N1, venne scoperto a Hong Kong nel 1993. Nel 1997 esplose un’epidemia negli allevamenti aviari di quell’area e per fermarla vennero sacrificati 15 milioni di volatili. Vi furono altre 6 epidemie tra il 1997 e il 2006 ma riguardarono solo animali da allevamento (polli, tacchini, anatre, oche). Oltre all’eliminazione radicale di quegli allevamenti si procedette a vaccinazioni veterinarie estesissime. Da allora gli scienziati temono l’adattamento del virus aviario all’uomo, in quanto si tratta di un agente ad altissima letalità, molto più alta del Covid 19 e della Spagnola del 1919.
Il 25 marzo 2024 (10 mesi fa) si è scoperto che gli uccelli selvatici portatori del virus hanno acquisito la capacità di contagiare le mucche. In quel giorno si registrò il primo caso nella storia di passaggio del virus aviario ai mammiferi.
Il 22 maggio 2024 (8 mesi fa) il ministro della Salute australiano ha comunicato d’aver registrato il primo caso di infezione di H5N1 nei loro allevamenti di bovini.
Nello stesso periodo (pochi mesi fa) negli Stati Uniti di trovò il DNA del virus aviario nel latte distribuito dai centri commerciali. Questo fece capire l’estrema diffusione del virus negli allevamenti di mucche da latte in America. Si scoprì, dalle segnalazioni dei veterinari, che il contagio si era diffuso a 16 Stati dell’Unione e a 900 grandi allevamenti di bovini. Si ebbero 64 infezioni negli allevatori e solo un decesso. Questi addetti avevano inspirato massivamente i virus nei loro polmoni.
Quegli episodi a loro volta erano stati preceduti da un’epidemia da virus aviario in allevamenti di polli.
La mortalità in quegli allevamenti fu altissima; per fermarne la diffusione si procedette ad uccidere tutti gli animali.
Nel settembre 2024 (4 mesi fa) nel Missouri il CDC (Centre for Disease Control) ha segnalato un caso di contagio in una persona che non aveva avuto contatti con animali infetti. Ciò fece porre il sospetto, per la prima volta, che il paziente fosse stato contagiato da un uomo. Fu allarme severo perché quel virus è contagioso solo fra uccelli. E’ ammesso che possano contrarre la malattia gli animali che mangiano carne cruda di uccello infetto o ne respirano le feci secche polverizzate così come è accaduto agli umani che lavoravano a contatto stretto con i pennuti.
Il fatto della diffusione massiva a mandrie di vacche che non hanno avuto contatti con pennuti è nuovo.
Significa che le prime vacche che si sono ammalate contraendo l’influenza aviaria dovrebbero aver mangiato o inspirato feci di gallina. Dato che le galline non esistono dentro gli allevamenti di mucche, come è successo che il virus si sia diffuso a tutta la mandria e poi abbia raggiunto molte mandrie che sono allevate a distanza? Questa volta le galline non c’entrano nulla. Il nesso causale sta nella vicinanza di mucche influenzate a mucche sane. Perché questo fatto è gravissimo? Perché non è possibile il contagio da mucca a mucca di virus H5N1; per ragioni di specificità dell’ospite è possibile solo il contagio da uccelli infetti a mucca sana o ad altri mammiferi sovraesposti (come gli operai). Per motivi biologici i mammiferi non possono contagiarsi a vicenda in quanto il virus aviario originale (per intenderci quello di HongKong) non ha i “rampini” per aggrapparsi alle cellule dei mammiferi. Pertanto, l’unica spiegazione possibile è che adesso quei virus abbiano imparato a fabbricarsi i “rampini” per saltare da una mucca all’altra. E’ avvenuta una mutazione che si è iscritta nel loro DNA; pertanto, possiamo ben dire che questi ora sono “nuovi virus” capaci di attaccare anche i mammiferi. Cioè è avvenuto quello che gli scienziati chiamano “salto di specie”. Questa mutazione di DNA virale non era mai esistita prima.
Il fatto che un virus, nato per vivere solo dentro gli uccelli, abbia acquisito la capacità di viaggiare dentro i mammiferi, come se fossero dei taxi, per andare da un posto ad un altro liberamente, significa che adesso, per la prima volta, il virus aviario non è più riservato solo agli uccelli, ma è diventato specifico anche per le mucche.

Questa mutazione è un evento pericolosissimo. Significa che la potenzialità di mutazione del virus è talmente evoluta e rapida che in breve tempo può mutare per vivere stabilmente nell’uomo, usarlo come ospite definitivo, e utilizzarlo come ponte per passare ad altri esseri umani, sia attraverso le goccioline dell’alito, sia attraverso secrezioni e sangue. Si può immaginare cosa avverrebbe negli assembramenti in luoghi chiusi come scuole, fabbriche, edifici pubblici, mezzi di trasporto di massa.
Fino ad oggi le epidemie di virus H5N1 degli uccelli sono state contenute abbattendo interi allevamenti ed eliminandone le carcasse col fuoco. Metodo adatto solo agli animali. Se l’uomo diventasse vettore il contagio potrebbe diffondersi a tutto il mondo in un lampo.
Ciò che ci vuole riferire l’articolo di “Nature” è che la mutazione del DNA virale per adattare il virus ad essere contagioso per il mammifero “mucca” è avvenuta in un paio di mesi. Se questa è la velocità che ha acquisito a mutarsi, dovremmo aspettarci che i salto di specie al “mammifero” Uomo sia imminente. Il futuro potrebbe essere molto impegnativo per l’Umanità.
Come si vede il virus H5N1 lavora in tempi rapidi. Il nostro problema sta nel fatto che l’Uomo, per prendere decisioni, ha tempi troppo lunghi e potrebbe farsi trovare impreparato. Basta vedere l’enorme “indecisionismo” sanitario che affligge la Sanità nazionale da anni.
Ciò detto sarebbe prudente prepararsi ai ripari con quel che si ha:
– informazione corretta e tempestiva,
– educazione sanitaria,
– metodi di isolamento individuale,
– mascherine,
– lavaggio delle mani,
– disinfezione degli ambienti.
Seguiamo l’evoluzione.

Mario Marroccu

La costruzione della “ Torre di Babele” venne fatta fallire con un metodo semplice: la confusione dalle lingue. Nessuno capiva più l’altro e, mancando la “comunicazione” tra i costruttori, l’edificazione fallì. Lo stesso metodo confusionario venne applicato contro la legge 833/78, confondendo le idee degli italiani tramite una comunicazione in cui vennero adottate terminologie ingannevoli che gettarono il marasma nella mischia del politica del tempo. La storia sanitaria che ne seguì andò avanti a colpi di sorprese, e non si capì mai chi ne fosse l’autore.
All’inizio (1978) il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) era costituito dalle USL (Unità Sanitarie Locali); nel 1992 vennero trasformate in ASL (Aziende Sanitarie Locali). Sembrava solo un cambio di nome, da “Unità” ad “Azienda”, invece stava crollando il mondo. In Sardegna, nel 2017 le ASL vennero unificate in un’altra sigla ancora: ASUR (Azienda Sanitaria Unica Regionale). Con questo atto vennero fatte sparire le ASL che conoscevamo, e comparve una nuova sigla: ASSL (Aree Socio Sanitarie Locali); queste nuove strutture organizzative non erano più “aziende”: di fatto, con la perdita di connotazione di “azienda” le ASL persero la loro autonomia programmatoria e gestionale. L’autonomia nella gestione degli acquisti e delle assunzioni finì nelle mani di una nuova unica entità: ASUR (Azienda Sanitaria Unica Regionale). ASUR , a sua volta, istituì un’altra azienda autonoma chiamata ARES (Azienda Regionale Sanità). In questo modo la parte politica regionale, delegando i suoi poteri ad una nuova struttura di tipo privatistico, ma di natura giuridica pubblica, rinunciò a gestire direttamente la Sanità Regionale. Ecco perché, da allora, i concorsi e le assunzioni furono “regionali”, con un contratto di dipendenza da ARES, e i neo-assunti potevano scegliersi la sede ospedaliera che preferivano, cioè quella più prestigiosa. Ne conseguì che il nuovo personale sanitario specialistico si accentrò negli ospedali di Cagliari e Sassari, mentre si impoverivano gli ospedali delle Province. Quanti si resero conto di cosa stesse succedendo in quel periodo? Quasi nessuno. Una cosa è certa: la distruzione della catena di comando della Sanità Ospedaliera delle USL precedenti ebbe la conseguenza di distruggere anche del capitale medico specialistico provinciale. Da allora non si capisce bene dove sia la testa e il corpo degli ospedali. Sono come navi alla deriva a cui manca sia il personale per governare i motori sia il Comandante e gli Ufficiali. Chi si fiderebbe a salirci?
Questa decapitazione della “catena di comando” delle strutture sanitarie delle province iniziò con l’opera di moralizzazione avviata nel 1992, l’anno dello scandalo della corruzione politica. Il 30 dicembre di quell’anno il ministro alla Sanità Francesco di Lorenzo eliminò la figura del “Presidente” delle USL e, con lui, il suo Consiglio di Amministrazione per il semplice fatto che allora i “Presidenti” USL erano Sindaci o Consiglieri comunali. In quel momento storico, i politici avevano lo stigma della corruzione e della condanna dell’opinione pubblica. Con lo stesso metodo vennero distrutte le “Partecipazioni statali”, considerate corrotte, e la conseguenza fu che ancora oggi, come si vede nei tristissimi fatti del polo industriale di Portovesme, stiamo pagando quella politica autolesionistica. In quell’opera moralizzatrice si dettarono le regole sul controllo delle spese dei candidati in campagna elettorale, con strascichi fino ad oggi. Per paura dei Sindaci, che erano di estrazione politica-partitica, e quindi potenzialmente corrotti, ma che in realtà nella gestione della Sanità erano stati eccellenti, essi vennero estromessi dal Sistema sanitario nazionale e al loro posto, e dei loro consiglieri, venne creata la figura del “Manager” derivandolo dalle aziende private. Si pensava che il “privato” fosse eticamente più sano del pubblico e per questo le USL (Unità Sanitarie Locali) divennero “Aziende Sanitarie Locali” (ASL).

Il Manager privato ha, per definizione, ampie libertà di “scelta” nella gestione dell’azienda; il suo potere nelle scelte decisionali è assoluto, ed agisce nell’interesse economico dell’azienda (lucro). I Manager vennero presentati ai cittadini come garanzia dell’indipendenza dalla politica. Questo fu l’unico motivo che ne giustificò l’esistenza. Dopo 32 anni di gestione manageriale e, dopo averne verificato il fallimento, è più che accertato che i Manager, inventati in un momento di grande confusione, in realtà non sono per nulla indipendenti dalla politica. Sono sempre legati al carro di un potente politico o di un partito. Allora, quale differenza c’è tra i Presidenti delle USL che governarono la Sanità tra il 1982 e il 1992, dai Manager che la governano dal 1992 ai giorni nostri? La differenza sta nel fatto che i Presidenti erano Sindaci del territorio o loro delegati e i cittadini avevano il vantaggio che essi erano in contatto continuo con i Consigli dei vari Comuni attraverso una cinghia di trasmissione rappresentata dal Consiglio di Amministrazione della ASL, che era formato da vari consiglieri comunali della zona; invece i Manager, scelti rigorosamente da un “elenco di idonei”, di fatto sono sempre provenienti da nomine politiche, ma non dipendono dalla politica degli enti locali. Costoro, al contrario dei Sindaci, sono figure estranee ai Comuni e, pertanto, inavvicinabili, impermeabili alle loro istanze e  come Achille, invulnerabili alle minacce di non essere votati alle future elezioni. Con questo metodo i cittadini, sottoposti alla gestione del Manager, non vincitore di tornate elettorali, non possono né controllare, né aggiustare, e neppure influire sulle scelte della politica sanitaria.
Oggi il problema immediato è: come fare a ricostituire le “catene di comando” degli apparati sanitari ridando il potere di scelta ai cittadini a nominare i propri rappresentanti deputati al controllo del funzionamento dei servizi pubblici? Tale potere-diritto dei cittadini venne sancito dallo articolo 114 della Costituzione. In quell’articolo gli enti territoriali autonomi sono collocati a fianco dello Stato come elementi costitutivi della Repubblica, secondo il principio democratico della sovranità popolare (la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato).
Quando Tina Anselmi presentò la sua bozza della legge di Riforma Sanitaria si premurò di rispettare quell’articolo e dichiarò che le USL (Unità sanitarie Locali) erano “…articolazioni dello Stato…” esattamente come lo sono i Comuni, le Province e le Regioni. Per questo motivo mise le USL sotto il diretto controllo politico dei Comuni. Quando il 30 dicembre 1992 venne fatta la riforma sanitaria n. 502/92 di Di Lorenzo, che aboliva la precedente riforma 833/78, le USL vennero degradate dal ruolo di “articolazioni dello Stato” a quello di “Aziende”. Sembrava un semplice cambiamento della terminologia, invece con quel nuovo termine si toglieva la Sanità dal controllo popolare per metterla sotto il controllo dei Manager. Quella dei Manager fu da subito una gestione fallimentare a causa della contraddizione tra la “mission” dell’azienda, che deve produrre “lucro”, e la “mission” di un servizio pubblico che invece deve produrre “profitto sociale solidale”, così come avviene per l’Istruzione e la Difesa; per tale motivo, non deve produrre “incasso” ma solo spese a carico della comunità solidale.
Questa contraddizione nacque dall’utopia del 1992 che predicava la moralizzazione dello Stato attraverso l’introduzione de principi aziendalistici (simili a quelli del privato) nel servizio pubblico. Oggi questa contraddizione sta continuando a vivere dentro le “Aree Socio Sanitarie Locali” (ASSL) , ex Aziende Sanitarie Locali (ASL), ex Unità Sanitarie Locali (USL), facendo molti danni.
La storia ci racconta che le USL avevano una Dirigenza strutturata come i Comuni. Come i Comuni avevano un Sindaco (Presidente) e un Consiglio politico di gestione (Comitato di Gestione); avevano inoltre un direttore generale per il funzionamento dell’apparato amministrativo. Tale composizione conferiva alle USL una notevole efficienza. E’ ragionevole credere che il ritorno ad una struttura amministrativa dotata di autonomia e una “catena di comandor” simile a quella delle USL e dei Comuni restituirebbe alle “Aziende socio sanitarie locali” l’efficienza che vorremmo.
Rimane da affrontare il problema della organizzazione da dare a tutta la rete sanitaria regionale attuale.
Se si desse ascolto a tutti i pareri e ai suggerimenti che provengono quotidianamente dai giornali e dai convegni sulla crisi sanitaria, anche i più esperti entrerebbero in confusione. E’ una Babele. La “confusione delle lingue” dei mille pareri continua a gettare disordine e immobilismo. Il 99% degli interventi riguarda la descrizione di varie sofferenze patite dai malati; 1% (l’un per cento) riguarda l’esame delle cause.
Nelle pagine dei giornali di questi giorni risalta la dichiarazione di un chirurgo del Brotzu il quale, con la concretezza e la concisione che solo un chirurgo possiede, in sostanza dice «… la causa del disagio dell’ospedale Brotzu sta nella destrutturazione degli ospedali delle Province…». A causa di ciò è conseguita l’alluvione continua di pazienti dal Campidano e dal Sulcis verso Cagliari. Fra tutte le cose dette, questa ha lo stesso valore di un “filo d’Arianna” utile a districarsi nella Babele; ad esso converrebbe aggrapparsi per trovare una via d’uscita.

Come porre riparo alla destrutturazione della rete ospedaliera provinciale? La risposta esiste già nelle leggi nazionali e nelle delibere regionali. E’ già tutto scritto. Non c’è bisogno di inventare nulla. Le leggi nazionali sono: la Costituzione, il DM 70/2015, il DM 77 / aggiornato al 2023, la legge sulla “rete ospedaliera sarda” del 2017.
La legge DM 70/2015 stabilisce:
a) come devono essere strutturati gli ospedali,
b) definisce gli ospedali sede di DEA di I e di II livello. Intendendo con DEA i Dipartimenti di Urgenza e Accettazione. La legge identifica con esattezza gli ospedali che sono destinati alle urgenze. Questi sono il centro motore della Sanità. Se noi oggi andassimo a visitare gli ospedali, scopriremmo che soltanto davanti agli ospedali pubblici (e mai davanti a quelli privati) esistono le lunghe file d’attesa di pazienti che aspettano d’essere visitati, e le file di ambulanze in attesa del ricovero dei loro trasportati.
Davanti alla visione delle file di pazienti che si presentano per patologie urgenti risulta chiaro come sia assurdo pensare di negare a tali richiedenti l’assistenza sanitaria gratuita universalistica.

Il problema grave a cui stiamo assistendo sta negli ospedali d’urgenza DEA e nel fatto che i DEA di I livello delle Province sono stati immiseriti in personale e deprivati di attrezzature.
Se la legge DM70/2015 fosse stata rispettata ciò non sarebbe successo.
La legge DM 77 / aggiornata al 2023:
Questa legge riporta tutte le indicazioni del Decreto Draghi sul PNRR nel capitolo della Mission 6.
Essa riguarda :
– Case della salute
– Case della Comunità
– Medici di base
-Personale
– Attrezzature
– Finanziamenti.
Il rispetto di questa legge avrebbe evitato il blocco della sanità territoriale e la crisi degli ospedali.
La legge regionale sarda sulla “rete ospedaliera” del 2017 indica la distribuzione degli ospedali nel territorio sardo e chiarisce con esattezza quali sono gli ospedali DEA di I livello e i DEA di II livello.
Va precisato che in Sardegna sono attivi 29 ospedali. Due (2) di essi sono sede di DEA di II livello (Brotzu e Santissima Annunziata di Sassari).
8 (otto) sono ospedali DEA di I livello, e sono distribuiti uno per provincia. Essi sono:
1 – Sassari (Santissima Annunziata)
2 – Olbia (San Giovanni Paolo II)
3 – Nuoro (San Francesco)
4 – Lanusei (Ogliastra)
5 – Oristano (San Martino)
6 – San Gavino Monreale (Medio Campidano)
7 – Carbonia (Sirai)
8 – Cagliari (Santissima Trinità – Is Mirrionis).
La differenza tra DEA di I e di II livello sta nel fatto che i DEA di II livello trattano le patologie più rare e impegnative come: Neurochirurgia; Cardiochirurgia; Radioterapia; Chirurgia toracica; Trapianti d’organo. Le altre patologie devono essere curate a dagli Ospedali DEA di I livello, alla pari con quelli di II livello.
I 19 ospedali restanti possono essere inquadrati come ospedali zonali di base oppure come ospedali di Comunità per cronici.
La riattivazione immediata degli 8 ospedali di I livello salverebbe l’intera sanità regionale.
Inoltre, è necessaria l’eliminazione dell’Azienda Unica Regionale e la ricostituzione delle Aziende Sanitarie Locali. Queste dovrebbero essere dirette da un Direttore Generale per la parte amministrativa e presiedute da un Presidente, per la parte politica. Il Presidente della ASL sarebbe coadiuvato dal Consiglio dei sanitari (Medici, Infermieri e Tecnici) e dalla Commissione Sanitaria provinciale (formata dai Sindaci della Provincia).

Mario Marroccu

Il naufragio della Sanità italiana e, soprattutto, di quella sarda, è noto e lo vediamo certificato in un documento che circola in Europa. C’è scritto che la Sanità italiana è al 22° posto tra le 27 Sanità degli Stati dell’Unione. Nel 2006 eravamo all’11° posto. Dato che i 5 Stati che vengono dopo l’Italia sono press’a poco nelle stesse pessime condizioni, potremmo dire che noi italiani siamo all’ultimo posto.
L’istituto di statistica che ha pubblicato il rapporto si chiama EHCI (Euro Health Consumer Index). Se si considera che la Sardegna, in Sanità, è all’ultimo posto fra le regioni italiane, e che il Sulcis Iglesiente è all’ultimo posto nelle province sarde, potremmo anche pensare che il CTO e il Sirai siano gli ospedali più poveri in Europa.

Il degrado sanitario va di pari passo con il degrado demografico e ci stiamo abituando a questo lento peggioramento senza reagire. Anche questo secondo fenomeno sociale è certificato da un rapporto ufficiale, quello della SviMez (Sviluppo Mezzogiorno) redatto su dati governativi. Sanità e spopolamento sono tristemente collegati. Si pensi che oggi, alle scuole medie ed elementari, abbiamo 120.000 tra bambini e ragazzi; è previsto che fra 10 anni saranno meno di 77mila. In conseguenza di questo andamento demografico sono state applicate, anche per le scuole così come è avvenuto per gli ospedali, le logiche ingegneristiche e contabili dei relativi ministeri per cui, dal 2018 ad oggi, sono state cancellate 1.000 classi e sono stati chiusi 29 istituti scolastici.

«Con i ragionamenti derivati dalle logiche contabili della burocrazia ministeriale vengono eliminati servizi essenziali la cui qualità e diffusione capillare sono condizioni socialmente e territorialmente inclusive, soprattutto nelle aree più deboli e distanti dai centri maggiori» (Istituto di statistica dell’Università di Cagliari).
In questi giorni si sta discutendo la nuova Riforma sanitaria della Regione Sardegna. Nessuno ha la più pallida idea dell’indirizzo che darà alla Sanità sarda e, soprattutto, a quella delle Province. Visto che i tempi di presentazione si stanno allungando, forse c’è ancora speranza che il progetto contempli la partecipazione popolare all’identificazione di norme di salvataggio condivise.
I sardi, con i soldi dei loro contributi, vogliono essere curati subito, bene, gratuitamente e vicino a casa. Tanto più lo vogliono ora che l’età media è molto avanzata, con il 25% di ultrasessantacinquenni, e un calo demografico pari allo 0,8 bambini per coppia. E’ evidente che per mantenere lo stesso numero di abitanti dovremmo mettere al mondo 2 bambini per coppia. Ciò significa che la popolazione sta lentamente scomparendo per due motivi:
1 – perché il 25% di anziani ha già percorso oltre i due terzi del proprio arco vitale;
2 – perché il numero di nascite (0,8) è insufficiente a sostituire il numero (2) dei genitori.
Preso atto che esiste una progressiva riduzione del “Welfare” non si può fare a meno di notare che tale la curva di riduzione è sincrona e simmetrica al calo della partecipazione popolare alle consultazioni elettorali, che sono la massima espressione dell’esercizio di “Democrazia”. Per effetto della rinuncia massiva all’esercizio democratico del diritto di voto stiamo vivendo gli effetti surreali di uno stato di “democrazia con carenza di popolo”.
Alle ultime consultazioni regionali sarde hanno espresso la loro volontà di avere un proprio rappresentante solo il 52% degli aventi diritto al voto. Questo dato certifica che il 48% dei sardi non ha voluto nominare un suo rappresentante al Consiglio regionale. Questo problema di “democrazia senza il popolo” è molto grosso e difficile da risolvere. Invece alle ultime consultazioni per le elezioni dei sindaci ha partecipato il 60% degli aventi diritto mentre alle consultazioni nazionali ha partecipato il 64% degli aventi diritto. Questi dati suggeriscono l’idea che esista una diversa propensione popolare a nominare i propri rappresentanti. In Sardegna prevale la propensione a votare i sindaci.

Probabilmente la conoscenza diretta è uno stimolo che induce l’elettore a concedere la propria fiducia ad una persona nota e più prossima.
Probabilmente i fenomeni dell’astensionismo, della riduzione delle strutture scolastiche, dell’assistenza sanitaria e il calo demografico hanno un comune nesso causale. Gli esperti di statistica suppongono che l’effetto negativo sull’aggregazione sociale peggiorerà coll’ulteriore destrutturazione del sistema ospedaliero e scolastico provinciale oggi esistenti nei territori lontani dai centri maggiori. Ciò avrà un costo per le famiglie: nuove spese per raggiungere i luoghi lontani dove si genera istruzione e sanità. Solo chi avrà solide possibilità economiche potrà affrontare le spese per istruire i figli e curare i propri familiari.

E’ evidente che la nave della spesa sociale ha perso la rotta e che dovrebbe rientrare in un percorso virtuoso prima che si instauri una deriva della “democrazia” dei servizi. Tale evento è possibile quando il bilancio economico delle famiglie porta alla differenziazione sociale tra i cittadini che possono e quelli che non possono studiare e curarsi. Si realizzerebbe un ossimoro: un governo democratico che induce una differenza sociale per ottenere il godimento al diritto basilare di istruzione e salute. Sarebbe un fallimento della Costituzione stessa.
Pertanto la risposta alla domanda: «Quando salvare la Sanità?» E’: subito.
La risposta alla seconda domanda: «Da chi salvarla?» E’: da tutti noi che abbiamo rinunciato alla partecipazione democratica alle scelte della politica.
La risposta alla terza domanda: «Come salvarla?» E’: rispettare le rappresentanze democratiche.
Oggi la maggiore rappresentanza democratica risiede nei sindaci, sia per il maggior consenso popolare di cui sono dotati, sia per diritto costituzionale al riconoscimento (art. 114) dei Comuni al coinvolgimento nella amministrazione dei servizi di base dello Stato come sanità e istruzione, in cooperazione con province e regioni.
Pertanto, ad essi sindaci dovrebbe essere conferito la possibilità di fare proprie proposte vincolanti sul come produrre una “Riforma sanitaria regionale” aderente al bisogno popolare e di controllarne i risultati.
La precedente legge di Riforma sanitaria regionale era perfetta nella sua struttura giuridica. Era talmente perfetta che probabilmente non era stata concepita dai consiglieri regionali ma da un apparato burocratico aduso a confezionare leggi. Il risultato di quella legge fu il trasferimento del potere amministrativo dalle ASL ad una struttura regionale centrale. Le ASL di fatto non ebbero più potere di assumere il personale e di indire gare d’appalto per l’acquisto del materiale sanitario, e di quant’altro serve a far funzionare gli ospedali.
I medici venivano selezionati tramite un concorso regionale globale cosicché, appena assunti sceglievano le sedi più prestigiose situate nelle città capoluogo. Gli ospedali delle province vedevano assegnarsi medici che subito dopo chiedevano e ottenevano il trasferimento a Cagliari o Sassari. Con questo metodo perdemmo anestesisti, chirurghi, cardiologi e specialisti essenziali. Le Unità operative si svuotarono di specialisti e caddero in disuso. Simile destino subirono le spese per strumenti e innovazione tecnologica. Inoltre, quella legge non prevedeva alcun piano per gestire la medicina di base.
Non si previde di instaurare un rapporto di collaborazione con l’Università per la formazione continua e la specializzazione dei medici ospedalieri nello stesso ospedale in cui venivano assunti. Non si regolamentò alcun rapporto tra medici di base e medici ospedalieri per instaurare un rapporto di osmosi professionale continua. Non si regolamentò quali compiti dare agli ospedali DEA di I livello (provinciali) e quali dare ai DEA di II livello regionali. Ne conseguì che i DEA II livello (Brotzu di Cagliari e Santissima Annunziata di Sassari) si misero a curare patologie frequenti (calcoli, prostate, tumori intestinali, ernie, fratture, infarti, ictus, etc.) dimenticando che queste erano destinate agli ospedali DEA di I livello messi al centro delle loro Province. Ciò provocò la defunzionalizzazione degli ospedali provinciali e l’accumulo di pazienti in fila alle porte del Brotzu fino a mandarlo in crisi.
Fu uno squilibrio letale per gli ospedali provinciali e per gli stessi ospedali regionali.
Quella legge, inoltre, rese inefficace la funzione di controllo e proposta a cui hanno diritto i sindaci e i presidenti di Provincia.
Per fortuna, visto che i tempi per la presentazione della nuova Riforma sono ancora lunghi, esiste tutto il tempo per consultare i sindaci e far formulare a loro la proposta di nuova Riforma sanitaria adattata alle esigenze dei territori provinciali.

Mario Marroccu

La società civile e quella politica italiana sul tema della Sanità si stanno dividendo in due come in America. Anche qui da noi probabilmente in futuro i tanti partiti confluiranno in due fronti. Ci sarà un fronte di conservatori e uno di progressisti, e ognuno avrà un diverso parere sul come risolvere i problemi.
La differenza di opinioni a cui stiamo assistendo in campo sanitario oppone quelli che propendono per una Sanità pubblica, integrata da una sanità privata e concentrata in pochi centri di riferimento, a quelli che propendono per una sanità prevalentemente pubblica e omogeneamente distribuita nel territorio.
Un manifestazione chiara di questa tendenza si è vista nella proposta di “Autonomia Differenziata” in cui le regioni del Nord vorrebbero una propria Sanità finanziata da fondi ricchissimi e una Sanità del Sud finanziata da un modesto Fondo Sanitario Nazionale.
Ciò porta alla situazione di stallo decisionale attuale in cui i politici, che hanno in mano una Sanità fallita, dovranno infine decidersi: o Sanità pubblica o Sanità privatizzata.
Onestamente non è chiaro quale via vogliano prendere, né se abbiano previsto quali conseguenze contrapposte ne deriveranno.
Non dobbiamo condannarli: la decisione , in realtà, è estremamente difficile. La storia, la Grande Storia sanitaria, ha da sempre due facce: una pubblica e una privata, ed è così da secoli e millenni.
Anticamente la Sanità, già da prima di Ippocrate, era sostanzialmente privata. Poi venne quel “tale” che raccontò la parabola del “Buon Samaritano”, e lì iniziarono i problemi di coscienza per l’umanità. La “coscienza” ribollì fino al quarto secolo dopo Cristo quando Benedetto da Norcia in Italia, e Basilio in Cappadocia idearono la “sanità ospitaliera” gratuita per tutti. Per aver preso quella decisione vennero fatti Santi. Quella sanità, totalmente caritativa, generò poi nella chiesa cattolica e in quella ortodossa il fulcro della loro missione assistenziale. Le città medioevali si riempirono di tanti ospedali caritativi retti da fratres” e “sorores” che erano finanziati da benefattori. Nell’anno 1456, un certo cardinal Rampini, a Milano, decise di chiudere i 16 ospedali caritativi della città e di costruirne solo uno, grandissimo, dotato di letti con comodini e bagni che scaricavano nei “Navigli”, con criteri di igiene e di amministrazione modernissimi. Venne chiamato “Ospedale Maggiore”. Era destinato agli acuti, cioè a quei pazienti che entrano febbricitanti o traumatizzati e ne escono, dopo poco tempo, vivi e sani, o morti. Poi costruì un ospedale fuori Milano, destinato ai “cronici”. Qui coloro che vi entravano, fossero essi storpi, lebbrosi, tubercolotici, folli, idioti, o semplicemente vecchi e poveri, vi restavano per sempre. Come si vede nella Storia, con l’invenzione degli ospedali civili e delle Rsa, noi del terzo millennio siamo arrivati secondi.
Quella di Rampini fu la rivoluzione che suggerì a tutta l’Europa come costruire gli ospedali moderni. Era il quindicesimo secolo e, se ci si pensa, oggi siamo ancora fermi lì a quella riforma ospedaliera. Invece, la medicina territoriale rimase in mano agli specialisti nei loro ambulatori privati finché, nel corso della Rivoluzione francese del diciottesimo secolo, si decise un piano anche per essa: tutto il territorio nazionale della nuova Repubblica venne suddiviso in “distretti sanitari” dotati di ospedali e di ambulatori pubblici, finanziati dallo Stato (esattamente come la ASL attuali). A quel piano, dette il suo apporto un tal “Marat”, socio di Danton e Robespierre. “Marat” è la pronuncia francese di “Marras”, un cagliaritano. A Cagliari, nella seconda metà del diciannovesimo secolo venne fondato l’ospedale “San Giovanni di Dio” finanziato da donazioni di cittadini facoltosi. Gli stessi benefattori pagavano la retta giornaliera dei ricoverati. Ogni cittadino era libero di salvaguardarsi come poteva, ma, come si sa nessuno era in condizione di farlo. Tanto meno si salvaguardavano le donne che non avevano alcuna autonomia finanziaria. Per capire quanto estrema fosse la miseria sociale ricordiamo che in quei tempi, in Italia, vi erano 286 nati morti ogni mille parti. Allora lo Stato riteneva che non fosse opportuno entrare nelle cose private di sanità. Qualche cambiamento comparve con le leggi Crispine del 1887 quando, dopo un gravissima epidemia di colera, per la prima volta il Governo dichiarò che l’igiene pubblica deve essere gestita e tutelata dallo Stato. Così nacque il primo embrione di Sanità pubblica e furono regolamentate le Opere pie. A fine 1800 vennero poste le radici delle Casse mutue. Esse erano Enti assicurativi nati nelle società operaie quando i lavoratori salariati iniziarono ad associarsi e mettere in comune proprie risorse per assicurarsi il rischio di vita. Le casse Mutue iniziarono a strutturasi meglio alla fine della Prima Guerra Mondiale e negli ultimi anni del Fascismo. In quel tempo le Casse mutue garantivano la salute solo ai lavoratori dipendenti dallo Stato e ai lavoratori di Aziende che lavoravano per lo Stato. La protezione tuttavia non era totale: se un minatore restava schiacciato sotto una frana poteva contare su cure gratuite limitate a 6 mesi in un anno mentre la famiglia poteva essere curata per soli 30 giorni in un anno.
L’assistenza per i mutuati, fuori dagli ospedali, era limitata soltanto alla visita del medico generico. Il mutuato doveva pagarsi i farmaci e gli Specialisti. I lavoratori privati invece non avevano nessuna assistenza. Quando un componente della famiglia di questi si ammalava tutta la famiglia correva il serio rischio di finire in povertà per pagare le spese di cura. Chi aveva case, terreni, bestiame li vendeva per pagare i ricoveri, i farmaci e gli specialisti. Per i lavoratori dipendenti tra il 1927 e il 1943 nacquero l’INAIL e l’INAM, finanziate obbligatoriamente con parte del salario, ma avevano molti limiti. Per altre categorie di lavoratori nacquero molte piccole mutue private che davano prestazioni modeste. Tutte le Mutue si differenziavano fra di loro in base all’entità della contribuzione dell’associato. Solo i poveri erano curati con fondi comunali. La carità era la forma di assistenza più diffusa.
La medicina caritativa sopravvisse in Italia fino al ventesimo secolo quando venne supportata anche dallo Stato che costruì i tubercolosari e i centri ospedalieri di assistenza ai lavoratori delle miniere e delle industrie pesanti (vedi CTO e Sirai), destinati sia agli operai vittime di incidente sul lavoro, sia alle loro famiglie (ostetricie e pediatrie).
La modestissima Sanità pubblica veniva controllata dal ministro dell’Interno, o da quello del Lavoro.
Fino al 1956 nessuna parte politica volle mai istituire il ministero della Sanità per evitare l’onere delle spese. Spese che sarebbero state intollerabili per lo Stato a causa della forte incidenza e mortalità da TBC, malaria e tifo. Negli anni ‘50 del 1900 vennero portate in Italia la Penicillina, la Streptomicina e il DDT, acquistati con fondi del Piano Marshall e della Fondazione Rockfeller; questo ridusse moltissimo l’incidenza di malattie da infezione.
Allora facevano paura allo Stato le spese per le malattie da microbi così come oggi fanno paura le spese per malattie da invecchiamento. Si sta ponendo oggi un dilemma di spesa simile.
In America nel 1945, quando ancora in Italia si vivevano gli strascichi delle lotte partigiane, divenne presidente Harry Truman. Fu un presidente determinato in ogni azione politica: decise la fine dello isolazionismo americano, occupò Berlino per non lasciarla ai russi e stabilì un ponte aereo per nutrirla, iniziò la guerra in Corea e finanziò il “Piano Marshall” che salvò l’Italia dallo sprofondare nella fame del dopoguerra, fermò definitivamente la Seconda Guerra Mondiale con le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki e, per quanto riguarda la politica interna americana, propose una modernissima “Riforma sanitaria”, nel contesto del “fair deal” (l’affare giusto per i diritti civili). Quella sua proposta di riforma influenzò la storia sanitaria italiana. La proposta iniziava con questa dichiarazione: «La Nazione ha bisogno che siano rimosse le barriere economiche per ottenere l’assistenza sanitaria. La salute di tutti i cittadini merita l’aiuto di tutta la Nazione». Egli propugnava l’assistenza sanitaria gratuita per tutti. Tuttavia, la proposta di riforma venne bocciata a causa della forte opposizione del partito Repubblicano.
Ai repubblicani si era associato, nel voto contrario, anche un gruppo di senatori democratici. La lobby delle assicurazioni private aveva vinto.
La riforma non si fece e ne conseguì la persistenza di un sistema sanitario nazionale basato sulle assicurazioni private, in cui i facoltosi si potevano curare in modo accettabile. I poveri e i vecchi potevano contare sul sistema assistenziale pubblico di “Medicaid” e “Medicare”. Circa il 60% della popolazione, se voleva assistenza, doveva stipulare una assicurazione privata. L’occasione perduta della proposta Truman fu parzialmente recuperata sessantasette anni dopo con Barak Obama. La riforma nota col nome di “Obamacare” venne approvata nel 2008 e con essa l’assistenza gratuita si estese ad altri 32 milioni di americani. Questa riforma contiene anche due novità: il divieto alle assicurazioni private di rescindere il contratto nel caso in cui il cliente contraesse il diabete o un tumore, e il divieto alle assicurazioni di mettere un tetto ai risarcimenti. Questo salvò gli assicurati dal calvario del dover ricorrere in giudizio, contro le assicurazioni, per ottenere l’intera somma spesa anticipatamente per le cure.
In America il presidente Harry Truman fallì ma ebbe successo in Italia. In una intervista il ministro della Sanità Tina Anselmi raccontò che già in Italia si discuteva sulla proposta di Truman nei primi anni ‘50. I princìpi in essa contenuti vennero da lei utilizzati per produrre la più grande legge del ventesimo secolo: laì Riforma sanitaria 833/78. Con essa si realizzò concretamente l’articolo 32 della Costituzione garantendo a tutti gli italiani l’assistenza sanitaria gratuita “dalla culla alla tomba”. La Riforma venne poi applicata successivamente dal ministro Aldo Aniasi nel 1980; venne poi applicata in Sardegna nel 1982. Da noi vi fu un immediato miglioramento della sanità pubblica. Gli anni dal 1982 al 1992 furono di grande creatività assistenziale sia negli ospedali che nei territori. Nel 1992 il mondo cambiò. Avvenne la più grave crisi politica ed economica del Dopoguerra. Con gli scandali della corruzione (“Mani pulite”) e col crollo delle “Partecipazioni statali” l’Italia stava andando in fallimento. Fu necessaria una cura da cavallo: bisognava risparmiare  e la sanità pubblica venne duramente colpita. Le Usl (Unità sanitarie locali), con gestione esclusivamente pubblica e territoriale, vennero trasformate in ASL, cioè in
“Aziende” a gestione di tipo privatistico con l’esclusione dei Sindaci dal controllo della gestione.
Vennero approvate leggi di riforma con lo scopo di ridurre ulteriormente la componente pubblica contenuta nella legge 833/78. Furono la legge 502/1992 e la legge 229/1999.
Così nacquero le “Aziende” gestite da manager. Con l’ingresso dei manager prese piede lo slogan “gestire con efficienza e efficacia” che banalmente vuol dire “spendere meno e ottenere lo stesso di prima”. In quegli anni si facevano corsi di “management” che insegnavano come farlo. Fu allora che si iniziò a “spendere meno” riducendo il personale ospedaliero e gli acquisti, gli emolumenti e le manutenzioni. I Sindaci, che prima erano i controllori, non potevano farci più niente. Nel 2011 il sistema di controllo sulla gestione economica delle ASL si fece più severo e vennero prodotte leggi che inducevano a chiudere intere Unità operative specialistiche e interi ospedali. Da allora l’efficienza degli ospedali ha preso la china fino alla condizione attuale. Oggi tutti, facoltosi e meno facoltosi, affollano i Pronto soccorso degli ospedali disponendosi in lunghe file d’attesa per farsi trattare una frattura, una febbre, una colica, o una crisi cardiaca o neurologica. Alcuni finiscono per prendere l’aereo verso regioni del Nord per ottenere cure.
Ecco, questo è il contesto in cui si trovano quei politici che devono prendere una decisione veramente difficile. Il dilemma, come si è voluto dimostrare, è storico ed essi legislatori non sono i primi che si apprestano ad affrontarlo. In passato si arrivò a non volere istituire il ministero della Salute per non aggravare il Bilancio dello Stato. Il dilemma è sempre lo stesso: diminuire le spese per la Sanità pubblica, limitandola a pochi centri, per salvare il Bilancio dello Stato? Oppure: salvare la Sanità pubblica, su tutto il territorio, mettendo a dura prova il Bilancio dello Stato?
Ci vogliono doti di saggezza, mediazione e determinazione veramente notevoli.

Mario Marroccu

Questo non è un racconto di Natale. E’ un racconto sul mondo squilibrato in cui viviamo.
Si immagini una mamma, che ha dieci figli, sostenuta economicamente per il loro mantenimento dal marito che lavora lontano e che le invia mensilmente lo stipendio. Immaginiamo che questa madre decida di nutrire quotidianamente due figli e di nutrire solo una volta la settimana gli altri 8 figli. Passano gli anni e un bel giorno il marito, ritornando a casa, scopre che due figli sono belli, alti, robusti, mentre gli altri otto sono gracili, tristi, poco sviluppati e anche meno intelligenti. Chiede spiegazioni sullo stato dei figli e la moglie risponde che per motivi di bilancio aveva dovuto scegliere chi alimentare bene e chi trascurare. Il marito si scandalizza e ordina alla moglie di nutrire tutti i figli in ugual misura. Poi riparte.
La moglie obbedirà?
Qualcosa di simile è avvenuto il 17 dicembre 2024.
Si tratta di una decisione della Corte Costituzionale che dovrebbe riguardare anche i nostri ospedali.
In quel giorno (17 dicembre 2024) è avvenuta una curiosa coincidenza: mentre un “Forum” per la Sanità del Sulcis Iglesiente inviava una lettera alla Regione Sardegna lamentando che la nostra Sanità territoriale è in gravi difficoltà a causa della impossibilità di assumere personale sanitario e di fare acquisti, nelle stesse ore i Giudici della Corte Costituzionale emettevano una sentenza dal tenore simile. Con quella sentenza la Corte, a nome del Governo, ha creato le premesse per obbligare la Regione Puglia a restituire alle ASL (Aziende Sanitarie Locali), il potere di assumere il personale sanitario necessario. Potere che la Regione aveva, invece, conferito ad un suo ente strumentale chiamato ARES. Tale Ente ha
il potere di assumere personale e acquistare strumenti sanitari destinati agli ospedali secondo la sua discrezionalità. Ne consegue il pericolo che alcuni ospedali vengano arbitrariamente “ben nutriti” mentre altri, rimangano “a digiuno” e deperiscano. Pare che il fatto sia frequente.
Secondo la Corte, la Regione Puglia che ha attribuito ad ARES (Azienda Regionale Sanità) quelle competenze togliendole alle ASL ha torto perché è «entrata in contrasto col principio fondamentale espresso dal decreto legislativo, n° 502 del 1992 , violando l’articolo 117, terzo comma della Costituzione». Quella legge del 1992, infatti, attribuisce specificamente alle ASL territoriali la funzione di amministrare i fondi per le assunzioni e gli acquisti. Quindi, nel nostro caso, tale funzione dovrebbe appartenere alle nostre ASL provinciali (che invece ne sono private) e non ad ARES.
Tale sentenza avrà effetti su tutto il territorio nazionale, pertanto, anche in Sardegna. Ebbene, l’autorevole sentenza dei Giudici fa il paio con la lettera che il Forum per la salute del Sulcis Iglesiente ha sottoscritto lo stesso giorno 17 dicembre 2024 e il cui testo è in attesa di pubblicazione.
Qui entriamo nel mondo del mistero, quasi da romanzo di fantascienza. Dato che la sentenza n° 202/2024 della Corte costituzionale certifica che il Governo si oppone alla sottrazione di potere delle ASL per gli stessi identici motivi che vengono contestati sia dal Forum del Sulcis Iglesiente, sia dai sindaci del territorio, come è possibile che per diversi anni le ASL siano state espropriate del potere di fare acquisti e di assumere il personale sanitario necessario? Perché si è lasciato che a causa di quella sottrazione la Sanità provinciale crollasse? Gli ospedali DEA di I livello non funzionassero? I medici di base entrassero in crisi? I malati di tutta la regione fossero costretti ad affluire in massa agli ospedali di Cagliari e Sassari, mandandoli in scompenso funzionale? Vi è stato un qualche meccanismo decisionale che ha condotto all’atrofia fisica del sistema sanitario regionale-provinciale, lasciando sviluppare
solamente il sistema sanitario di Cagliari e Sassari. Il risultato è simile a quello ottenuto nell’improbabile storia raccontata all’inizio: sono state generate due categorie di ospedali, quelli dominanti e quelli inferiorizzati.

Vengono alla mente quei racconti di fantascienza del secolo scorso prodotti da autori come Aldous Huxley (Mondo Nuovo) o George Orwell ( 1984). In quei classici della fantascienza si fabbricavano ad arte diverse caste umane: quelle dominanti e quelle sottomesse. Lo si faceva alimentando meglio gli embrioni umani destinati a dominare e affamando gli embrioni destinati a restare deboli, fisicamente e mentalmente, per essere schiavizzati. In quei mondi fantastici era possibile mantenere il potere sul popolo attraverso la gestione viziata dell’informazione (George Orwell). E’ una fantasia che in realtà fu storia reale nel tempo in cui il mondo era diviso in caste. In India le caste furono dichiarate illegali solo con la Costituzione del 1947. Fino ad allora le persone erano predestinate fin dalla nascita a essere dominanti o serve. Eppure, nonostante le caste siano state abolite, tutt’oggi i Dalit (Paria = Casta) sono predestinati per tradizione ad essere allevati allo scopo di raccogliere dalle strade lo sterco con le mani e non hanno altro destino. Fino a ieri esistevano ancora le caste dei Brahmane o sacerdoti, dai Ksetriya o guerrieri, dai Veysia o commercianti, e dai Paria o intoccabili. Con l’avvento della democrazia, e il riconoscimento della “uguaglianza” come diritto fondamentale dei cittadini, le caste sono finite per legge. L’evidenza su quanto sia recente l’evoluzione della civiltà, con la scoperta del pari diritto per tutti i cittadini, ci fa comprendere quanto sia possibile fare passi indietro se non si sta attenti.
Esistono anche altre forme per stratificare la società. Un altro modo per esempio è il tentativo di dare servizi sociali differenziati, siano essi l’istruzione, i trasporti pubblici, o la Sanità. Ne può derivare una sanità pubblica eccellente, oppure di media portata, oppure così-così, oppure annullata.
Oggi questa sentenza, nata dall’impugnazione del Governo contro una delibera della regione Puglia che accentrava le decisioni su assunzioni e acquisti in un ente strumentale, rimuovendone la competenza dalle Aziende Sanitarie locali (ASL), farà storia.
Adesso aspettiamo l’adeguamento della Regione Sardegna alle prescrizioni dei Giudici dell’Alta Corte.

Mario Marroccu

Meno male che esiste la Corte costituzionale! Ieri, 6 dicembre 2024, la Corte del Palazzo della Consulta, in piazza del Quirinale a Roma, ha depositato un’altra sentenza storica: «…in caso di necessità, per il ripiano del deficit della spesa pubblica, si deve procedere a ridurre le – spese indistinte – prima di eseguire tagli sui fondi per la Sanità…».

Con questa sentenza la Corte Costituzionale fissa i paletti di legittimità a chi riduce i finanziamenti alla Sanità portandola al fallimento. Ora i nostri cari con frattura di femore, o con tumore da operare, che vengono respinti dagli ospedali pubblici (e anche privati), possono fondatamente sperare. Sì! Solo sperare. Per ora non hanno ancora prospettiva d’essete “presi in cura” e operati tempestivamente. I famigliari, preoccupati e frustrati per la loro impotenza, adesso hanno il sostegno ufficiale della massima Corte che sorveglia la corretta applicazione dell’articolo 132 della Costituzione. Per adesso le Traumatologie degli ospedali provinciali continuano ad essere depotenziate e impossibilitate a fare il loro lavoro. Restano in funzione gli ospedali regionali, DEA di II livello, di Cagliari e Sassari, che però, essendo diventati il “collo di bottiglia” degli ospedali di tutta la Sardegna, non riescono ad erogare i servizi specialistici attesi.

Intanto, chiariamo: cosa sono i DEA di II livello? Sono gli ospedali incaricati per affrontare le patologie rare e complesse quali: Neurochirurgia, Cardiochirurgia, Chirurgia toracica, Chirurgia vascolare, Trapianti d’organo, Radioterapia dei tumori,
Chemioterapia. Questi ospedali sono “regionali”, cioè “di tutta la regione”, e ne abbiamo 2: uno a Sassari e uno a Cagliari.
Gli ospedali che in graduatoria vengono subito dopo sono i DEA di I livello ed hanno le competenze che abbiamo sempre conosciuto: la Traumatologia, la Chirurgia d’urgenza, quella vascolare e cardiologica d’urgenza, quella addominale, quella urologica, l’Ostetricia e Ginecologia, l’Anestesia e Rianimazione, la Pediatria, la Medicina generale, l’Oncologia, la Neurologia, la Psichiatria, l’Oculistica, l’Otorinolaringoiatria, il Pronto soccorso, etc.. I DEA di I livello dovrebbero essere adeguati per fornire tutte le specialità mediche e chirurgiche, tranne la Neurochirurgia e la Cardiochirurgia.
Di questi ospedali (DEA di I livello) ce ne sono uno per ognuna delle 8 Province. Quindi, la dotazione sarda in ospedali è costituita da 8 ospedali DEA di I livello, provinciali, e 2 ospedali DEA di II livello, regionali.
A causa dei programmi per la riduzione della spesa pubblica generale, i Governi  dal 1992 ad oggi, hanno progressivamente ridotto la spesa anche per la Sanità, con tagli lineari. Il risultato è davanti a tutti: funzionano solo gli ospedali DEA di II livello di Cagliari e Sassari. L’accentramento li ha sovraccaricati di lavoro fino a mandarli in scompenso gravissimo. Gli altri ospedali, intanto, messi da parte, sono fermi, senza personale e senza mezzi adeguati.
Cosa hanno fatto i politici succedutesi negli ultimi 30 anni? Non hanno avuto nessuna concreta iniziativa. Hanno obbedito alla burocrazia contabile, dello Stato e delle Regioni, che faceva il proprio asettico lavoro di contabilità. Per assicurarsi che non ci fosse il controllo politico dei territori, si procedette alla eliminazione dei Sindaci dall’amministrazione delle ASL. Apparentemente il responsabile di tale stato di cose è una entità neutrale, senz’anima politica: l’obbligo dell’equilibrio di bilancio.
Però, come è noto, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Finalmente a febbraio 2024 è avvenuto un fatto rivelatore: il Governo centrale ha approvato un testo di legge, prodotto dai burocrati di Stato, e ha messo un piede in fallo. E’ stato deliberato che le Regioni in deficit di bilancio dovessero ridurre la propria spesa sanitaria. Si specificava che nel caso in cui delle regioni non ottemperassero a tale disposizione restrittiva, per esse sarebbe stata chiusa l’erogazione della quota spettante del Fondo Sanitario Nazionale. Ciò provocò la rivolta della Regione Campania, la quale si rivolse alla Corte costituzionale lamentando che tale “ritorsione” avrebbe determinato la paralisi dell’assistenza sanitaria, soprattutto, a danno dei ceti poveri.
Ieri è cambiato tutto. La Corte costituzionale ha emesso la sua sentenza, valida sia per la Campania sia per tutte le Regioni d’Italia. Si tratta della sentenza n. 195 del 6 dicembre 2024. In essa si sostiene che nessuno può privare i cittadini del “Diritto fondamentale alle cure”, dando vittoria alla Regione Campania e torto allo Stato e al suo apparato contabile.
Così quest’anno, per la seconda volta, la Consulta costituzionale ha bacchettato i governanti con le sue sentenze. La prima è stata la sentenza riguardante l’“Autonomia differenziata” di Roberto Calderoli. La seconda è quella di oggi. Questa sentenza finirà nella Storia e avrà conseguenze.
Mentre da 30 anni, sia i governanti sia le opposizioni si sono dilettate a discutere sul “sesso degli angeli”, finalmente oggi qualcuno obbliga tutti a tornare con i piedi per terra. Gli effetti non si vedranno subito, ma verranno.
E’ avvenuto un fatto nuovo anche in Sardegna. Due giorni fa, il 5 dicembre 2024, i partiti di maggioranza si sono incontrati ad Oristano per trovare un parere condiviso sulla diagnosi della malattia che affligge la Sanità sarda, e per approntare un progetto di risanamento. L’analisi è stata fatta. Il progetto deve ancora nascere.
C’è da sperare che i nostri politici tutti leggano il punto “4.1” della sentenza della Consulta di cui abbiamo trattato e adeguino il progetto in gestazione.
Per ora c’è da sperare che:
1 – vengano riattivati gli 8 ospedali provinciali sardi, DEA di I livello, e si proceda alle assunzioni.
2 – Si introduca, tra gli organi della dirigenza ASL la figura del sindaco (rappresentante della Conferenza provinciale dei sindaci), con funzioni di controllo politico sulla realizzazione del programma sanitario concordato.
3 – si restituisca autonomia amministrativa alle ASL provinciali, sotto il governo della Giunta regionale.

Le tante promesse deluse di questi 30 anni hanno fatto sognare a molti una riforma della legge elettorale, inserendovi un curioso metodo americano: le elezioni di medio termine.
Con quelle elezioni, che avvengono dopo 2 anni da quelle generali, gli elettori americani possono rimandare a casa i parlamentari che si sono rivelati inattendibili.
Se lo facessimo anche in Italia, probabilmente, metteremmo più fretta ai parlamentari che non si curano di mantenere le promesse
Allora sì! I nostri fratturati che ristagnano nei Pronto soccorso avrebbero da divertirsi.

I vincitori delle elezioni politiche, di qualunque colore siano, hanno in comune uno stesso mantra: «… la Sanità e le liste d’attesa sono il primo problema da risolvere immediatamente». La soluzione è pure simile: «… impegnare milioni di euro per le liste d’attesa». Una soluzione che ha l’aspetto di una medicina per ridurre la febbre del momento ma non adatta a curare la malattia del Servizio Sanitario pubblico. Noi ci aspetteremmo la riapertura dei reparti specialistici nei nostri ospedali provinciali, l’assunzione del personale mancante e il riavvio di una Sanità su nuovi criteri etici. Invece no. Quei milioni sono destinati a riconoscere un onorario extra a quei medici che faranno visite in più. Poi, una volta studiati, i pazienti non troveranno posto per essere ricoverati, operati, curati, perché i posti-letto e gli specialisti non ci sono. Di fatto la “relazione di cura” non inizierà. L’utilizzo degli straordinari o di medici a contratto, è utile a far diminuire la lunghezza delle liste d’attesa ma non è utile a far diminuire il numero di persone che aspirano a passare dallo stato di malato allo stato di sano, nel corpo e nello spirito, perché di questo è fatta la persona umana. Questa soluzione, basata su criteri economicistici che andrebbe bene per una fabbrica di “bulloni” (come paragonò un professore bocconiano che voleva trasferire le regole gestionali di una fabbrica a un ospedale), manca della necessaria coniugazione fra l’atto tecnico del “curare” un corpo e l’atto umano (antropologico) del “prendersi cura” della persona che c’è in quel corpo, fino alla conclusione dello stato di disagio fisico e psicologico, e al totale recupero alla famiglia, alla società e al mondo del lavoro. Per ottenere questo risultato è necessario che si instauri una “relazione” tra la persona malata e l’apparato che lo assiste, e che a questa “relazione” venga destinato del “tempo”. E il “tempo“ è direttamente proporzionale al numero e al valore delle persone impegnate nella “cura”. Per descrivere la differenza sostanziale tra il “curare” e il “prendere in cura qualcuno”, può essere utile usare l’ esempio di due fatti realmente accaduti.
Un anziano sacerdote (70 anni) si trovava ricoverato in un ospedale per la cura del suo cancro al fegato. Un signore andò a trovarlo. Lo trovò triste, adagiato nel suo letto, affiancato da un altro paziente terminale nelle sue condizioni. Alla domanda sul come stesse allargò le mani e indicò il muro di color celeste che gli stava davanti, sul quale era un piccolo crocifisso. Raccontò che il personale, scarso e indaffarato, si vedeva fugacemente solo nei pochi istanti in cui venivano distribuite le pillole. Tutto il giorno poteva parlare solo col crocifisso e col muro. Alla richiesta di piccoli servizi alla persona, otteneva frequentemente la stessa risposta: «Aspetti il prossimo turno; chieda a loro». L’anziano sacerdote morì.

Dopo qualche mese quel suo generoso visitatore si accorse di avere un cancro al polmone già metastatizzato. Per una strana sorte venne ricoverato nella stessa stanza e nello stesso letto del prete. Allora capì cosa significasse avere, come unico interlocutore, il muro celeste davanti a lui e il crocifisso. Stavolta c’era una novità: a fianco del crocifisso era stato appeso un televisore. Guasto.
Iniziò il suo mese di degenza fra chemio e TAC. Il rapporto col personale curante era esattamente identico a quello riferito dal prete: scarso, in un fuggi fuggi indaffarato, senza tempo per scambiare una parola e instaurare una “relazione”. Aspettava, per le piccole necessità fisiche, l’arrivo della moglie che ogni mattina prendeva il treno alla stazione di Carbonia, raggiungeva la stazione di Cagliari e, da lì, con un pullman, raggiungeva l’ospedale. Di sera faceva il percorso inverso. Fu il suo appiglio per resistere. Poi morì.

Il concetto rappresentato da queste immagini è che l’ospedale è un “campo di lavoro” che, per sua natura, è anche un “campo di vita” in cui si devono intrecciare “relazioni” e anche a questo fine dovrebbe essere organizzato il lavoro. Questo è il punto: in quell’ospedale avveniva la “cura”, ma per scarsità di personale e di tempo mancavano le “relazioni” necessarie al “prendersi cura” dell’altro.
Curare e prendersi cura sono due attività dell’uomo molto diverse. Mentre il “curare” si ottiene investendo denaro pubblico, il “prendersi cura” ha bisogno invece di una rivoluzione culturale. Ha bisogno di più “tempo”, più “empatia” e “più valore” riconosciuto per tutti gli attori coinvolti nel dramma.
Ecco un altro esempio che merita d’essere riferito. Alla fine degli anni ‘70 vi furono scioperi molto duri che coinvolsero anche gli ospedali in tutta Italia. Nel reparto Medicina di un nostro ospedale vicino lavorava un medico speciale. Accortosi che la camera dei malati di cui era responsabile era in condizioni igieniche gravi, fece questo: indossò una tuta da operaio, prese secchio, sapone e straccio, e lavò il pavimento dalle secrezioni umane che lo imbrattavano. Poi cambiò le lenzuola ai letti più compromessi. Finito il lavoro si rimise in ordine, indossò il camice da medico e iniziò il giro delle visite col Primario. Questo fatto descrive esattamente la differenza tra il “curare” e il “prendersi cura” empatico di qualcuno.

L’ospedale è un campo di lavoro in cui le disuguaglianze giocano un ruolo centrale nelle relazioni umane. Vi è chi, per il suo ruolo stabilito dalle regole, è dominante, e vi è chi si trova in un rapporto inferiorizzato. Questo genere di rapporti è molto delicato e va gestito con prudenza perché a causa dei diversi ruoli può avvenire, tra gli attori, un processo di distanziamento. Se non si ha la cura di evitarlo può avvenire che il distanziamento peggiori fino alla marginalizzazione del più debole. Diventa, insomma, un problema esistenziale in cui la marginalizzazione induce uno stato di subalternità, che può trascendere fino all’emarginazione e all’esclusione. Nel caso che ciò avvenga, potrà avvenire la cessazione del “prendersi cura” dell’“altro”. E iniziano l’abbandono, e l’isolamento. Il deficit di relazioni umane non è compreso fra le competenze della burocrazia sanitaria, e non viene contabilizzato.
Nel primo racconto il malato venne salvato dall’iniziativa personale della moglie che viaggiò tutti i giorni per assisterlo; nel secondo racconto i malati vennero messi al sicuro, dal rischio di marginalizzazione, da quel medico che indossò la tuta da lavoro. Questo è ciò di cui si dovrebbe fare tesoro: in mancanza di un livello etico elevatissimo che riguarda il “prendersi cura”, è necessario attuare iniziative personali per mettere al sicuro la persona presa in cura. Il prendersi cura l’un dell’altro,
vicendevolmente, aumenterà la sicurezza esistenziale del gruppo.
Questa pulsione al “prendersi cura” contro un “rischio esistenziale” che può essere anche letale, eccede i doveri della amministrazione sanitaria, ma certamente fa parte dei doveri della politica.
L’empatia è l’anello che unisce il cittadino, che attende risposte, al politico che gli fece la sua promessa di presa in carico. Con le difficoltà organizzative emergenti sarà necessario aumentare l’umanizzazione dell’apparato sanitario, passando da un’organizzazione di tipo economicistico a una di tipo etico.
Ormai è chiaro che il problema della sanità pubblica è destinato ad aggravarsi e che la soluzione non può essere progettata solo dai contabili di stato.
I problemi demografici produrranno un cambiamento della struttura sociale e si dovranno escogitare nuove regole per facilitare l’interscambio di vicendevoli cure.
I numeri non lasciano dubbi. In queste ultime ore è stato pubblicato dall’OCSE il rapporto Health at a Glance Europe 2024 nel quale si sostiene che oltre il 30% degli italiani ha un’età superiore ai 65 anni. E’ noto che per queste età si consuma circa il 90% della spesa del Fondo Sanitario Nazionale, dato destinato a peggiorare.
Già oggi il fondo statale per la spesa sanitaria è di 586 euro inferiore alla media europea. Più della metà dei nostri medici ha un’età superiore ai 55 anni. Il 20% dei medici in servizio ha superato i 65 anni d’età. Per quanto riguarda la dotazione italiana in personale infermieristico la situazione è preoccupante.
Abbiamo 6 infermieri ogni 1.000 abitanti, contro la media europea di 8 infermieri per 1.000 abitanti. La spesa italiana pro capite è di 2.947 euro contro i 3.533 della media europea. Destiniamo solo il 10% del totale della spesa sanitaria alle malattie a lungo termine, mentre l’Unione europea destina il 15 %. In Europa vi sono 4,2 medici per 1.000 abitanti mentre in Italia sono solo 3,2.
Considerato che l’aspettativa di vita è aumentata, dobbiamo aspettarci un futuro con sempre più vecchi e sempre meno medici e infermieri.
Programmare l’evoluzione della nuova Sanità Pubblica è adesso una necessità ineludibile.

Mario Marroccu

Per il prossimo Natale, vedremo un fenomeno a cui siamo abituati da anni e che può essere utile per spiegare cosa sta succedendo. In questi giorni può capitare, al momento di pagare, che alla cassa ci propongano di acquistare dei gadgets, o di fare un’offerta, a favore di un ricco ospedale, che diventerà un beneficio per i malati.
Premettiamo che un’offerta per la Sanità è un gesto altamente meritorio a cui tutti dovremmo partecipare. Questo meccanismo di raccolta fondi è anche utile per capire un fenomeno più generale diffuso in tutta Italia, soprattutto al Nord. Ci si chieda: chi ha pensato di raccogliere fondi per i malati? Forse i medici e gli infermieri? E’ poco probabile. E’ molto più probabile che l’idea provenga da un ufficio di contabilità ospedaliera. A cosa servono quei soldi? Servono senza dubbio a creare un “fondo integrativo “ per migliorare le cure del malato.
Bisogna tener presente che l’ospedale è già finanziato dal Fondo sanitario pubblico, ma il finanziamento pubblico non gli basta e raccoglie, privatamente, altri fondi. Secondo le norme i “fondi pubblici” dovrebbero essere “equamente” spartiti fra le Regioni, e assicurare “uguaglianza“ di trattamento a tutti gli italiani. La Costituzione, infatti, dispone l’“universalità“ delle cure. Ciò premesso, come vanno inquadrate quelle offerte natalizie? Si tratta di fondi extra che “integrano” il fondo pubblico, e che vengo definiti, per legge, “fondi integrativi”. Quei fondi verranno utilizzati dall’ospedale beneficiario in modo autonomo e indipendente dal controllo dello Stato, perché sono suoi, e lo Stato non interferisce nella libertà del loro utilizzo. Chi raccoglie fondi più ricchi conquista grande autonomia e grande potere di controllo sulla qualità e sulla scelta delle cure che erogherà. La differente entità di fondi integrativi esistente fra ospedale e ospedale, e fra Regione e Regione, può essere enorme; questo determinerà la differenza nella qualità di vita delle distinte popolazioni. Ciò avrà influenza sul criterio costituzionale di “uguaglianza”.
La rivoluzione dei principi di “equità”, di “uguaglianza” e di “universalità” introdotta da Tina Anselmi nella Costituzione, e da lei stessa concretizzata nella Legge 833/78, fu un’idea geniale ma venne depotenziata dal ministro Francesco De Lorenzo nel 1992 e poi dal ministro Rosy Bindi con la legge 299/1999; in quest’ultima vennero definitivamente riconosciuti i ”fondi integrativi” per finanziare gli ospedali.
Nel 2001 l’esistenza dei “fondi integrativi” ebbe un ulteriore supporto dalle modifiche portate al Titolo V della Costituzione. Gli emendamenti alla Costituzione hanno avuto conseguenze evidenti la Sanità nelle regioni ricche del Nord è una grande sanità. La Sanità nelle regioni povere è una povera Sanità. Non ci volle molto a capire che l’effetto dei fondi integrativi avrebbe differenziato gli italiani e da questa lezione prese piede l’idea nel ministro Roberto Calderoli di estendere quel metodo a tutti i servizi pubblici, e cioè, oltre alla Sanità, all’Istruzione, ai Trasporti, e a tutti i Servizi pubblici attinenti alla qualità della vita nazionale. Si tratta quei Servizi che tengono coeso un popolo. Il rischio, con la legge integrale di Roberto Calderoli, è quello di intaccare i quattro principi fondamentali della Costituzione: la Solidarietà, l’Uguaglianza, la Sovranità Popolare, i Diritti Inviolabili (articoli 1, 2, 3, 32, etc.).
Il difetto di Solidarietà e Uguaglianza si sta già vedendo nel sistema sanitario Sardo. E’ noto a tutti che, data la crisi profonda dell’assistenza sanitaria in Sardegna, molti sardi affetti da tumori, per curarsi, migrano verso le regioni più ricche del Nord Italia. Chi ha questa esperienza scopre che, secondo la Regione in cui vai, ogni malattia ha un costo diverso. Il prezzo da pagare è il DRG (Diagnosis Related Group) che permette di classificare tutti i malati dimessi da un ospedale in gruppi omogenei in base alle risorse. Ora, prendiamo il caso di una ipotetica paziente con cancro alla mammella che viene operata in un ospedale sardo. Il DRG per cancro di mammella operato in Sardegna viene pagato all’ospedale 4.500 euro circa. Se la stessa paziente venisse operata in un ospedale del Nord, il DRG per lo stesso intervento varrebbe circa 7.000 euro. Quindi l’ospedale guadagna di più e può offrire cure migliori. Chi paga l’aumento del costo, in questo caso, se il malato è sardo? Paga la Regione Sardegna. La differenza del costo dell’intervento per i malati di quella regione del Nord, viene pagato dai “fondi integrativi” della stessa regione. Tali fondi sono stati formati con un metodo paragonabile alle donazioni che facciamo nel corso degli acquisti di Natale. Si tratta cioè di fondi extra, indipendenti dal Fondo Sanitario Nazionale, che possono essere accumulati massimamente nelle regioni più ricche, sia attraverso donazioni sia attraverso una raccolta fiscale supplementare attuata dalla stessa regione.

I “fondi integrativi” di dette regioni possono essere scaricati dal conto che le stesse regioni devono allo Stato per finanziare la Solidarietà nazionale. Di fatto, quindi, tali regioni possono contribuire di meno alla formazione del Fondo sanitario Nazionale. Ne consegue che le regioni più povere possono attingere in misura minore e possono erogare una sanità di livello inferiore.
Questo meccanismo, secondo la legge sull’“autonomia differenziata” di Roberto Calderoli, dovrebbe essere esteso a tutti i Servizi pubblici, dalla Sanità ai Trasporti, dall’Istruzione e Università alla Viabilità e all’edilizia pubblica, etc.. Se passasse integralmente quella legge creerebbe una distanza incolmabile sulla qualità di vita tra i cittadini delle regioni del Nord e quelli del Sud. Lo stesso Sergio Mattarella ha messo in guardia sul pericolo che si corre nell’intaccare i diritti inviolabili della Costituzione; fatto che ci esporrebbe alla disgregazione nazionale. Verrebbero intaccati non solo i LEA (livelli essenziali di assistenza), ma anche i LEP (livelli essenziali di prestazioni); in sostanza ne soffrirebbero tutti i servizi pubblici.
Oggi la Consulta ha dato il suo parere sulla legge e sostiene che essa è costituzionale (art. 116) ma illegittima in alcune parti decisive. I Giudici, infatti, richiamano al rispetto della Costituzione e sottolineano che la forma dello Stato, insieme al ruolo fondamentale delle Regioni, riconosce i principi della Unità della Repubblica, della Solidarietà tra le Regioni, dell’Eguaglianza, della garanzie dei Diritti dei Cittadini e dell’equilibrio di bilancio. Testualmente sentenzia: «La distribuzione della funzione legislativa e amministrativa tra i diversi livelli territoriali di governo (Comuni, Province, Regioni) non deve corrispondere all’esigenza di un riparto di potere tra i diversi segmenti del sistema politico, ma deve avvenire in funzione del bene comune della società e di tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione. A tal fine, è il principio costituzionale di sussidiarietà che regola la distribuzione delle funzioni fra Stato e Regioni. In questo quadro l’Autonomia differenziata deve essere funzionale a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici e ad assicurare maggior responsabilità politica, rispondendo meglio alle attese e ai bisogni dei cittadini».
La sentenza richiama al rispetto dell’articolo 116 della Costituzione e all’osservanza dei principi fondamentali della Costituzione tutta. Principi che il proponente ignorava.
Le quattro regioni che hanno ricorso, per adesso, ci hanno salvati da un disastro.

Mario Marroccu