21 November, 2024
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I vincitori delle elezioni politiche, di qualunque colore siano, hanno in comune uno stesso mantra: «… la Sanità e le liste d’attesa sono il primo problema da risolvere immediatamente». La soluzione è pure simile: «… impegnare milioni di euro per le liste d’attesa». Una soluzione che ha l’aspetto di una medicina per ridurre la febbre del momento ma non adatta a curare la malattia del Servizio Sanitario pubblico. Noi ci aspetteremmo la riapertura dei reparti specialistici nei nostri ospedali provinciali, l’assunzione del personale mancante e il riavvio di una Sanità su nuovi criteri etici. Invece no. Quei milioni sono destinati a riconoscere un onorario extra a quei medici che faranno visite in più. Poi, una volta studiati, i pazienti non troveranno posto per essere ricoverati, operati, curati, perché i posti-letto e gli specialisti non ci sono. Di fatto la “relazione di cura” non inizierà. L’utilizzo degli straordinari o di medici a contratto, è utile a far diminuire la lunghezza delle liste d’attesa ma non è utile a far diminuire il numero di persone che aspirano a passare dallo stato di malato allo stato di sano, nel corpo e nello spirito, perché di questo è fatta la persona umana. Questa soluzione, basata su criteri economicistici che andrebbe bene per una fabbrica di “bulloni” (come paragonò un professore bocconiano che voleva trasferire le regole gestionali di una fabbrica a un ospedale), manca della necessaria coniugazione fra l’atto tecnico del “curare” un corpo e l’atto umano (antropologico) del “prendersi cura” della persona che c’è in quel corpo, fino alla conclusione dello stato di disagio fisico e psicologico, e al totale recupero alla famiglia, alla società e al mondo del lavoro. Per ottenere questo risultato è necessario che si instauri una “relazione” tra la persona malata e l’apparato che lo assiste, e che a questa “relazione” venga destinato del “tempo”. E il “tempo“ è direttamente proporzionale al numero e al valore delle persone impegnate nella “cura”. Per descrivere la differenza sostanziale tra il “curare” e il “prendere in cura qualcuno”, può essere utile usare l’ esempio di due fatti realmente accaduti.
Un anziano sacerdote (70 anni) si trovava ricoverato in un ospedale per la cura del suo cancro al fegato. Un signore andò a trovarlo. Lo trovò triste, adagiato nel suo letto, affiancato da un altro paziente terminale nelle sue condizioni. Alla domanda sul come stesse allargò le mani e indicò il muro di color celeste che gli stava davanti, sul quale era un piccolo crocifisso. Raccontò che il personale, scarso e indaffarato, si vedeva fugacemente solo nei pochi istanti in cui venivano distribuite le pillole. Tutto il giorno poteva parlare solo col crocifisso e col muro. Alla richiesta di piccoli servizi alla persona, otteneva frequentemente la stessa risposta: «Aspetti il prossimo turno; chieda a loro». L’anziano sacerdote morì.

Dopo qualche mese quel suo generoso visitatore si accorse di avere un cancro al polmone già metastatizzato. Per una strana sorte venne ricoverato nella stessa stanza e nello stesso letto del prete. Allora capì cosa significasse avere, come unico interlocutore, il muro celeste davanti a lui e il crocifisso. Stavolta c’era una novità: a fianco del crocifisso era stato appeso un televisore. Guasto.
Iniziò il suo mese di degenza fra chemio e TAC. Il rapporto col personale curante era esattamente identico a quello riferito dal prete: scarso, in un fuggi fuggi indaffarato, senza tempo per scambiare una parola e instaurare una “relazione”. Aspettava, per le piccole necessità fisiche, l’arrivo della moglie che ogni mattina prendeva il treno alla stazione di Carbonia, raggiungeva la stazione di Cagliari e, da lì, con un pullman, raggiungeva l’ospedale. Di sera faceva il percorso inverso. Fu il suo appiglio per resistere. Poi morì.

Il concetto rappresentato da queste immagini è che l’ospedale è un “campo di lavoro” che, per sua natura, è anche un “campo di vita” in cui si devono intrecciare “relazioni” e anche a questo fine dovrebbe essere organizzato il lavoro. Questo è il punto: in quell’ospedale avveniva la “cura”, ma per scarsità di personale e di tempo mancavano le “relazioni” necessarie al “prendersi cura” dell’altro.
Curare e prendersi cura sono due attività dell’uomo molto diverse. Mentre il “curare” si ottiene investendo denaro pubblico, il “prendersi cura” ha bisogno invece di una rivoluzione culturale. Ha bisogno di più “tempo”, più “empatia” e “più valore” riconosciuto per tutti gli attori coinvolti nel dramma.
Ecco un altro esempio che merita d’essere riferito. Alla fine degli anni ‘70 vi furono scioperi molto duri che coinvolsero anche gli ospedali in tutta Italia. Nel reparto Medicina di un nostro ospedale vicino lavorava un medico speciale. Accortosi che la camera dei malati di cui era responsabile era in condizioni igieniche gravi, fece questo: indossò una tuta da operaio, prese secchio, sapone e straccio, e lavò il pavimento dalle secrezioni umane che lo imbrattavano. Poi cambiò le lenzuola ai letti più compromessi. Finito il lavoro si rimise in ordine, indossò il camice da medico e iniziò il giro delle visite col Primario. Questo fatto descrive esattamente la differenza tra il “curare” e il “prendersi cura” empatico di qualcuno.

L’ospedale è un campo di lavoro in cui le disuguaglianze giocano un ruolo centrale nelle relazioni umane. Vi è chi, per il suo ruolo stabilito dalle regole, è dominante, e vi è chi si trova in un rapporto inferiorizzato. Questo genere di rapporti è molto delicato e va gestito con prudenza perché a causa dei diversi ruoli può avvenire, tra gli attori, un processo di distanziamento. Se non si ha la cura di evitarlo può avvenire che il distanziamento peggiori fino alla marginalizzazione del più debole. Diventa, insomma, un problema esistenziale in cui la marginalizzazione induce uno stato di subalternità, che può trascendere fino all’emarginazione e all’esclusione. Nel caso che ciò avvenga, potrà avvenire la cessazione del “prendersi cura” dell’“altro”. E iniziano l’abbandono, e l’isolamento. Il deficit di relazioni umane non è compreso fra le competenze della burocrazia sanitaria, e non viene contabilizzato.
Nel primo racconto il malato venne salvato dall’iniziativa personale della moglie che viaggiò tutti i giorni per assisterlo; nel secondo racconto i malati vennero messi al sicuro, dal rischio di marginalizzazione, da quel medico che indossò la tuta da lavoro. Questo è ciò di cui si dovrebbe fare tesoro: in mancanza di un livello etico elevatissimo che riguarda il “prendersi cura”, è necessario attuare iniziative personali per mettere al sicuro la persona presa in cura. Il prendersi cura l’un dell’altro,
vicendevolmente, aumenterà la sicurezza esistenziale del gruppo.
Questa pulsione al “prendersi cura” contro un “rischio esistenziale” che può essere anche letale, eccede i doveri della amministrazione sanitaria, ma certamente fa parte dei doveri della politica.
L’empatia è l’anello che unisce il cittadino, che attende risposte, al politico che gli fece la sua promessa di presa in carico. Con le difficoltà organizzative emergenti sarà necessario aumentare l’umanizzazione dell’apparato sanitario, passando da un’organizzazione di tipo economicistico a una di tipo etico.
Ormai è chiaro che il problema della sanità pubblica è destinato ad aggravarsi e che la soluzione non può essere progettata solo dai contabili di stato.
I problemi demografici produrranno un cambiamento della struttura sociale e si dovranno escogitare nuove regole per facilitare l’interscambio di vicendevoli cure.
I numeri non lasciano dubbi. In queste ultime ore è stato pubblicato dall’OCSE il rapporto Health at a Glance Europe 2024 nel quale si sostiene che oltre il 30% degli italiani ha un’età superiore ai 65 anni. E’ noto che per queste età si consuma circa il 90% della spesa del Fondo Sanitario Nazionale, dato destinato a peggiorare.
Già oggi il fondo statale per la spesa sanitaria è di 586 euro inferiore alla media europea. Più della metà dei nostri medici ha un’età superiore ai 55 anni. Il 20% dei medici in servizio ha superato i 65 anni d’età. Per quanto riguarda la dotazione italiana in personale infermieristico la situazione è preoccupante.
Abbiamo 6 infermieri ogni 1.000 abitanti, contro la media europea di 8 infermieri per 1.000 abitanti. La spesa italiana pro capite è di 2.947 euro contro i 3.533 della media europea. Destiniamo solo il 10% del totale della spesa sanitaria alle malattie a lungo termine, mentre l’Unione europea destina il 15 %. In Europa vi sono 4,2 medici per 1.000 abitanti mentre in Italia sono solo 3,2.
Considerato che l’aspettativa di vita è aumentata, dobbiamo aspettarci un futuro con sempre più vecchi e sempre meno medici e infermieri.
Programmare l’evoluzione della nuova Sanità Pubblica è adesso una necessità ineludibile.

Mario Marroccu

Per il prossimo Natale, vedremo un fenomeno a cui siamo abituati da anni e che può essere utile per spiegare cosa sta succedendo. In questi giorni può capitare, al momento di pagare, che alla cassa ci propongano di acquistare dei gadgets, o di fare un’offerta, a favore di un ricco ospedale, che diventerà un beneficio per i malati.
Premettiamo che un’offerta per la Sanità è un gesto altamente meritorio a cui tutti dovremmo partecipare. Questo meccanismo di raccolta fondi è anche utile per capire un fenomeno più generale diffuso in tutta Italia, soprattutto al Nord. Ci si chieda: chi ha pensato di raccogliere fondi per i malati? Forse i medici e gli infermieri? E’ poco probabile. E’ molto più probabile che l’idea provenga da un ufficio di contabilità ospedaliera. A cosa servono quei soldi? Servono senza dubbio a creare un “fondo integrativo “ per migliorare le cure del malato.
Bisogna tener presente che l’ospedale è già finanziato dal Fondo sanitario pubblico, ma il finanziamento pubblico non gli basta e raccoglie, privatamente, altri fondi. Secondo le norme i “fondi pubblici” dovrebbero essere “equamente” spartiti fra le Regioni, e assicurare “uguaglianza“ di trattamento a tutti gli italiani. La Costituzione, infatti, dispone l’“universalità“ delle cure. Ciò premesso, come vanno inquadrate quelle offerte natalizie? Si tratta di fondi extra che “integrano” il fondo pubblico, e che vengo definiti, per legge, “fondi integrativi”. Quei fondi verranno utilizzati dall’ospedale beneficiario in modo autonomo e indipendente dal controllo dello Stato, perché sono suoi, e lo Stato non interferisce nella libertà del loro utilizzo. Chi raccoglie fondi più ricchi conquista grande autonomia e grande potere di controllo sulla qualità e sulla scelta delle cure che erogherà. La differente entità di fondi integrativi esistente fra ospedale e ospedale, e fra Regione e Regione, può essere enorme; questo determinerà la differenza nella qualità di vita delle distinte popolazioni. Ciò avrà influenza sul criterio costituzionale di “uguaglianza”.
La rivoluzione dei principi di “equità”, di “uguaglianza” e di “universalità” introdotta da Tina Anselmi nella Costituzione, e da lei stessa concretizzata nella Legge 833/78, fu un’idea geniale ma venne depotenziata dal ministro Francesco De Lorenzo nel 1992 e poi dal ministro Rosy Bindi con la legge 299/1999; in quest’ultima vennero definitivamente riconosciuti i ”fondi integrativi” per finanziare gli ospedali.
Nel 2001 l’esistenza dei “fondi integrativi” ebbe un ulteriore supporto dalle modifiche portate al Titolo V della Costituzione. Gli emendamenti alla Costituzione hanno avuto conseguenze evidenti la Sanità nelle regioni ricche del Nord è una grande sanità. La Sanità nelle regioni povere è una povera Sanità. Non ci volle molto a capire che l’effetto dei fondi integrativi avrebbe differenziato gli italiani e da questa lezione prese piede l’idea nel ministro Roberto Calderoli di estendere quel metodo a tutti i servizi pubblici, e cioè, oltre alla Sanità, all’Istruzione, ai Trasporti, e a tutti i Servizi pubblici attinenti alla qualità della vita nazionale. Si tratta quei Servizi che tengono coeso un popolo. Il rischio, con la legge integrale di Roberto Calderoli, è quello di intaccare i quattro principi fondamentali della Costituzione: la Solidarietà, l’Uguaglianza, la Sovranità Popolare, i Diritti Inviolabili (articoli 1, 2, 3, 32, etc.).
Il difetto di Solidarietà e Uguaglianza si sta già vedendo nel sistema sanitario Sardo. E’ noto a tutti che, data la crisi profonda dell’assistenza sanitaria in Sardegna, molti sardi affetti da tumori, per curarsi, migrano verso le regioni più ricche del Nord Italia. Chi ha questa esperienza scopre che, secondo la Regione in cui vai, ogni malattia ha un costo diverso. Il prezzo da pagare è il DRG (Diagnosis Related Group) che permette di classificare tutti i malati dimessi da un ospedale in gruppi omogenei in base alle risorse. Ora, prendiamo il caso di una ipotetica paziente con cancro alla mammella che viene operata in un ospedale sardo. Il DRG per cancro di mammella operato in Sardegna viene pagato all’ospedale 4.500 euro circa. Se la stessa paziente venisse operata in un ospedale del Nord, il DRG per lo stesso intervento varrebbe circa 7.000 euro. Quindi l’ospedale guadagna di più e può offrire cure migliori. Chi paga l’aumento del costo, in questo caso, se il malato è sardo? Paga la Regione Sardegna. La differenza del costo dell’intervento per i malati di quella regione del Nord, viene pagato dai “fondi integrativi” della stessa regione. Tali fondi sono stati formati con un metodo paragonabile alle donazioni che facciamo nel corso degli acquisti di Natale. Si tratta cioè di fondi extra, indipendenti dal Fondo Sanitario Nazionale, che possono essere accumulati massimamente nelle regioni più ricche, sia attraverso donazioni sia attraverso una raccolta fiscale supplementare attuata dalla stessa regione.

I “fondi integrativi” di dette regioni possono essere scaricati dal conto che le stesse regioni devono allo Stato per finanziare la Solidarietà nazionale. Di fatto, quindi, tali regioni possono contribuire di meno alla formazione del Fondo sanitario Nazionale. Ne consegue che le regioni più povere possono attingere in misura minore e possono erogare una sanità di livello inferiore.
Questo meccanismo, secondo la legge sull’“autonomia differenziata” di Roberto Calderoli, dovrebbe essere esteso a tutti i Servizi pubblici, dalla Sanità ai Trasporti, dall’Istruzione e Università alla Viabilità e all’edilizia pubblica, etc.. Se passasse integralmente quella legge creerebbe una distanza incolmabile sulla qualità di vita tra i cittadini delle regioni del Nord e quelli del Sud. Lo stesso Sergio Mattarella ha messo in guardia sul pericolo che si corre nell’intaccare i diritti inviolabili della Costituzione; fatto che ci esporrebbe alla disgregazione nazionale. Verrebbero intaccati non solo i LEA (livelli essenziali di assistenza), ma anche i LEP (livelli essenziali di prestazioni); in sostanza ne soffrirebbero tutti i servizi pubblici.
Oggi la Consulta ha dato il suo parere sulla legge e sostiene che essa è costituzionale (art. 116) ma illegittima in alcune parti decisive. I Giudici, infatti, richiamano al rispetto della Costituzione e sottolineano che la forma dello Stato, insieme al ruolo fondamentale delle Regioni, riconosce i principi della Unità della Repubblica, della Solidarietà tra le Regioni, dell’Eguaglianza, della garanzie dei Diritti dei Cittadini e dell’equilibrio di bilancio. Testualmente sentenzia: «La distribuzione della funzione legislativa e amministrativa tra i diversi livelli territoriali di governo (Comuni, Province, Regioni) non deve corrispondere all’esigenza di un riparto di potere tra i diversi segmenti del sistema politico, ma deve avvenire in funzione del bene comune della società e di tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione. A tal fine, è il principio costituzionale di sussidiarietà che regola la distribuzione delle funzioni fra Stato e Regioni. In questo quadro l’Autonomia differenziata deve essere funzionale a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici e ad assicurare maggior responsabilità politica, rispondendo meglio alle attese e ai bisogni dei cittadini».
La sentenza richiama al rispetto dell’articolo 116 della Costituzione e all’osservanza dei principi fondamentali della Costituzione tutta. Principi che il proponente ignorava.
Le quattro regioni che hanno ricorso, per adesso, ci hanno salvati da un disastro.

Mario Marroccu

Tutti hanno memoria di una qualche “Tzia Maria” e della sua bottega vicino a casa. Aveva due caratteristiche:
1 – Tutti potevano acquistarvi , subito e a poco prezzo, pane, pasta, conserve, Olà, DDT e saponi.
2 – Con i soldi guadagnati, “Tzia Maria” vestiva in figli, li faceva studiare, curava il marito, pagava il macellaio, il muratore, il falegname, il sarto, comprava miscela per la motocarrozzella e  se ne restavano, li metteva nel libretto postale.
Erano soldi benedetti che, in un circuito virtuoso, alimentavano l’economia locale facendo lavorare anche altri artigiani. Era una “Catena di Sant’Antonio” che nutriva le città di un’economia circolare auto-prodotta.
Oggi quel tipo di economia auto-prodotta è superata. Compriamo tutto ai Super-Store: dal pane alla frutta, dalle scarpe ai vestiti, dagli infissi già pronti alle auto, etc… e i soldi finiscono immediatamente in conti correnti del Continente o all’Estero. La virtuosa economia circolare è stata sostituita da un’idrovora quotidiana che prosciuga dal danaro liquido le città. Al contrario dell’economia di “tzia Maria”, la redistribuzione del danaro è stata sostituita da un fiume in fuoriuscita unidirezionale, senza ritorno. Le conseguenze sono desolanti. Il nuovo quadro economico è ben rappresentato dal tipico aspetto assunto dai centri-città: negozi chiusi, palazzi disabitati, un corteo di cartelli “vendesi” affisso alla porta di ex locali commerciali e abitazioni. Tutti segni di impoverimento economico e di spopolamento.

Una delle cause è attribuibile all’accentramento delle attività economiche nei Super-Store: strutture nate per vendere ma che difficilmente reinvestono il ricavato nel luogo che le ospita.
Un fenomeno esattamente identico è avvenuto alla rete sanitaria locale che una volta ci forniva tutta l’assistenza sanitaria che abbisognava. Le nostre Province, con i loro ospedali e le loro reti territoriali sanitarie erano totalmente autonome nell’auto-prodursi il Servizio sanitario in medici, personale, strumenti e edifici proprii. Ricordiamo che le Università istruiscono i Medici ma non li formano professionalmente. La loro formazione professionale è avvenuta sempre negli Ospedali, ad opera dei primari e dei medici anziani. Una legge dello Stato, la 128/69, all’articolo 7, imponeva l’obbligo ai primari di formare culturalmente e professionalmente i nuovi medici. Così i nostri ospedali auto-producevano le nuove generazioni di medici bene addestrati. Qui si curavano le malattie internistiche dei bambini e degli adulti, si facevano gastroscopie, colonscopie, TAC ed esami di laboratorio, si operavano tutte le patologie addominali, toraciche, ortopediche, urologiche, ginecologiche, traumatologiche, e qui si nasceva in sicurezza. Tutti erano nelle condizioni di apprendere l’arte medica, a fare gli elettrocardiogrammi, le colonscopie e ad operare. Nonostante in quei tempi i medici fossero numericamente in numero inferiore rispetto ad oggi, non esisteva il problema della carenza di medici e le liste d’attesa si esaurivano in giornata o in una settimana. Il mondo poi è cambiato.
Fino al 1978 gli ospedali provinciali erano finanziati dai proventi provenienti dalle Casse mutue private e dai privati cittadini. In quell’anno Tina Anselmi abolì le Casse mutue e creò il Fondo sanitario Nazionale. Da quell’anno la Sanità fu veramente e totalmente pubblica. Lo Stato, su proposta di Tina Anselmi, istituì il Servizio sanitario nazionale (L. 833/78), diede in gestione le USL territoriali ai sindaci e ai Consigli comunali. Furono applicate esattamente le norme costituzionali che suddividono gli Enti gestori dei servizi pubblici in: Comuni, Province, Regioni.
Era chiaro che, in democrazia, la gestione pubblica spettasse al popolo tramite i suoi rappresentanti. Tina Anselmi era un personaggio complesso: proveniva da una famiglia socialista; da universitaria nel 1944 vide impiccare dai nazisti i 31 martiri di Bassano del Grappa e aderì immediatamente alle brigate partigiane combattenti in montagna. Lì, nei bivacchi, si discuteva sul come costruire la Costituzione del nuovo Stato che avrebbero creato. Fu attiva nella CGIL e poi aderì ad uno dei tre partiti che scrissero la Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Per effetto dell’articolo 3 della Costituzione, che conferiva pari diritti a maschi e femmine, poté essere candidata; nel 1956 divenne deputato della Repubblica e scrisse il testo della legge sulla “pari opportunità” Uomo-Donna. Fu il primo ministro donna nella storia italiana. Nel 1976 venne nominata ministro della Sanità e scrisse il rivoluzionario testo di Riforma sanitaria: la legge 833/78. In quasi tutte le Regioni la nuova legge di riforma venne compiutamente applicata nel 1982. Fu un’esplosione di democrazia. Durò fino al 1992 e fu il decennio d’oro della Sanità italiana. Gli ospedali crebbero di numero e in qualità. Gli amministratori locali misero in competizione le USL fra di esse. In quella gara ognuno si assicurava i migliori professionisti per dirigere i reparti e iniziò la produzione, in ciascuna provincia, di una Sanità autoctona, auto-prodotta, adeguata alle esigenze di ciascun territorio nel rispetto delle norme nazionali.
La Sanità divenne un motore economico che, attirando pazienti e finanziamenti, produsse profitto per la comunità, così come oggi lo producono il Turismo, la Cultura, e l’Archeologia. Poi venne l’anno 1992 ed entrammo in un trentennio molto controverso.
Oggi sappiamo che in quell’anno avvenne la fine dell’entusiasmo creativo dei partiti politici e della partecipazione popolare. Fu l’anno di Mario Chiesa, di “tangentopoli” e dello sconquasso dei partiti dei Padri costituenti. In quell’anno, alle dimissioni di Francesco Cossiga da Presidente della Repubblica, venne proposta la candidatura di Tina Anselmi. Se fosse stata nominata lei come Presidente, avrebbe sicuramente protetto la sua legge di Riforma sanitaria. Viceversa, venne eletto Oscar Luigi Scalfaro, il quale nominò ministro della Sanità il rappresentante del Partito liberale, on. Francesco De Lorenzo. La storia della Sanità pubblica cambiò.

Francesco De Lorenzo proveniva da una parte politica che non aveva partecipato alla scrittura della Costituzione. Conformemente alle sue idee economiche, agli antipodi di quelle di Tina Anselmi, egli produsse una sua “Riforma sanitaria”, la L. 502/92, in cui applicò il concetto di “impresa” alla Sanità pubblica. Rimosse i sindaci e i Comitati di gestione. Le Unità Sanitarie Locali (USL) presero il nome di “Aziende Sanitarie Locali” e per dirigerle egli inventò la figura del “Manager”. E’ una figura tipica delle imprese economiche basate sulle regole del mercato privato. Il centro dell’attenzione, che prima era il “cittadino malato”, divenne “l’Ufficio del bilancio”. Alla direzione “democratica” si sostituì la direzione “centralizzata”. Da allora il metodo più semplice di ridurre la spesa sanitaria consiste nello spendere il meno possibile e nel “centralizzare”, quindi: meno personale, meno strumenti, meno accessibilità alle cure. Ai politici di allora sfuggì che esiste uno stretto connubio tra la democrazia, il benessere dei cittadini e la loro percezione di sicurezza. E’ per questo che i cittadini amano le libere elezioni: perché incentivano i Governi a tutelare il benessere. A queste disattenzioni consegue in genere la caduta del consenso popolare. A quel primo atto di centralizzazione del potere in un’unica Persona-Manager sono poi seguite altre “centralizzazioni”. I politici locali allora perdettero il potere di controllo sulla Sanità pubblica. Oggi lo stanno perdendo i politici regionali: la centralizzazione del controllo della Sanità regionale è stata acquisita da un’altra struttura gestionale, al di fuori dell’assessorato della Sanità, a cui è stato conferito grande potere ed autonomia. Tale nuova struttura, l’ARES, seguendo una logica amministrativamente ineccepibile e in linea col processo di aziendalizzazione dell’intera struttura sanitaria sarda, ha proceduto alla “delocalizzazione” di fatto dell’assistenza sanitaria, trasferendola dalle Province al centro della Regione. Il cambiamento è enorme.
L’impoverimento dell’apparato ospedaliero provinciale oggi impone che i nostri “corpi malati” vengano forzatamente trasferiti negli ospedali DEA di II livello di Cagliari e negli ospedali universitari per qualunque malattia, sia grande sia piccola. Tale centralizzazione sta comportando la scomparsa degli ospedali DEA di I livello, che sono gli 8 ospedali provinciali delle 8 province sarde. La conseguenza è tutti i giorni nelle prime pagine dei quotidiani. Gli ospedali cagliaritani, sommersi da un eccesso di richieste di cure provenienti da tutta la Regione, sono finiti in scompenso funzionale. In certi momenti si è rischiata la chiusura per impossibilità di accettare altri pazienti.
Certamente la soluzione non consiste nel tornare ai tempi di “tzia Maria”. Si potrebbe però applicare correttamente la legge sulla “Rete Ospedaliera Regionale” del 2017, rimasta nel cassetto.
Si potrebbe anche riportare al controllo delle ASL i sindaci del territorio, che potrebbero affiancare con funzione di proposta e controllo, i Manager.
Potremmo avere la gradita sorpresa di restituire la certezza delle cure alle Province e, forse, di innescare anche un sano circuito di ritorno economico.

Mario Marroccu

Piove dentro casa e mettiamo secchi e pentole per terra prima che l’acqua bagni i tappeti. Stiamo facendo la stessa cosa nella Sanità Pubblica dal 1992.
Quando Oscar Luigi Scalfaro si accorse che l’Italia correva il rischio del dèfault economico dette l’incarico di Governo a Giuliano Amato che ci salvò. Egli prese provvedimenti d’emergenza che erano giustificati ma che adesso, da almeno 25 anni, non lo sono più. Per risparmiare sulla spesa sanitaria egli dette l’incarico di ministro della Sanità a Francesco De Lorenzo che, da buon liberale, approntò una legge neo-liberista: la 502 del 30 dicembre 1999. Quella legge abolì il principio cardine della più grande legge italiana dopo la Costituzione: la legge sanitaria 833 di Tina Anselmi. Ne smontò il principio di uguaglianza, equità, universalità e gratuità della Sanità pubblica per tutti nella Nazione. Abolì gli organi democratici di governo delle Unità Sanitarie Locali e le trasformò in “Aziende” di tipo privatistico, con un “Manager”.
Fin qui si può capire e anche approvare quel metodo, data la confusione politica di quegli anni  Non si è mai capito, però, per quale motivo quella linea liberista, in campo pubblico, sia stata mantenuta e aggravata da ministri della stessa area politica riformista a cui apparteneva Tina Anselmi.
L’aziendalizzazione di tipo privatistico applicata alla Sanità pubblica peggiorò nel 2001 con la modifica del Titolo V della Costituzione, poi col Governo Berlusconi del 2003, col Governo Monti del 2010 (che fece leggi che indussero la riduzione di reparti ospedalieri e la chiusura di ospedali) e col governo Renzi che emanò norme ancora più restrittive per gli ospedali pubblici (DM 70/ 2015).
Tina Anselmi nel 1978 aveva abolito le Casse Mutue e l’ampio uso dell’ospedalità privata e caritativa, concentrando tutta la sanità negli ospedali pubblici ed aveva ottenuto grande soddisfazione nella popolazione. I Governi dal 1992 in poi fecero il contrario: tolsero all’ospedalità pubblica la centralità sanitaria e la suddivisero con gli ospedali privati (case di cura). Così la parola “Servizio” scomparve dall’acronimo SSN (Servizio Sanitario Nazionale) e venne sostituita dalla parola “Sistema” (Sistema Sanitario Nazionale – SSN). Allora non ci accorgemmo di quel cambiamento apparentemente insignificante, invece esso conteneva la sostanza di un cambiamento enorme: da allora la Sanità privata cominciò a lavorare facendo “Sistema“ con la Sanità pubblica. La riforma di Tina Anselmi era finita.
Fino ad allora il “Fondo Sanitario Nazionale” era stato riservato alla sola Sanità pubblica. Da allora il “Fondo sanitario” venne suddiviso fra Sanità pubblica e Sanità privata. Per pagare la sanità privata si attinse dallo stesso unico fondo a cui attingeva la Sanità pubblica.
La Sanità privata fu sempre efficiente. Si è vista, per esempio, la sua efficienza durante l’epidemia di Covid. Nel tempo, man mano che aumentava la percentuale di Fondo sanitario destinato a pagare la sanità privata, inevitabilmente, diminuì la quota rimasta per quella pubblica. Si capisce che con l’aumento della spesa per la Sanità privata, la Sanità pubblica è destinata ad essere progressivamente sottopagata. Alla fine la pubblica va in crisi per deficienza di fondi.
In Sardegna, in particolare, a questo meccanismo di morte lenta per deficit di finanziamento degli ospedali, si è aggiunto un altro meccanismo anche peggiore: la “Centralizzazione “ della Sanità ospedaliera nelle due città di Cagliari e Sassari e il depotenziamento dei 6 ospedali delle altre Province. In particolare, l’accentramento sanitario regionale è stato concentrato nell’ARNAS Brotzu di Cagliari.
La spiegazione per cui venne avviato questo progetto accentratore era semplice: «Visto che l’evoluzione della tecnologia sanitaria è costosissima, per contenere i costi ci conviene centralizzare la spesa in uno o due ospedali regionali». Questa teoria fu micidiale per gli altri 6 ospedali provinciali. Ne conseguì che i direttori generali delle altre ASL sarde ebbero il mandato di «ridurre le spese». Chi più riduceva, più veniva premiato e i direttori generali potevano, in base all’entità del risparmio, ottenere un premio economico. Ne conseguì che ci fu una gara al risparmio proprio negli ospedali provinciali e i fondi regionali si concentrarono, soprattutto, sulle due città universitarie di Cagliari e Sassari. Intanto, a causa della defunzionalizzazione progressiva dei nostri ospedali di provincia, i malati sardi cominciarono a riversarsi su Cagliari. Tuttavia l’ospedalità cagliaritana, e il Brotzu in particolare, non avevano una capacità di posti letto e personale adeguati all’aumentata richiesta. Così il Brotzu, nella notte fra il 13 e 14 luglio 2024 andò in crisi gravissima, con file di barelle alle sue porte, e vi fu una protesta pubblica di tutti i Capi dipartimento medici che si scoprirono inadeguati e impotenti davanti al fenomeno.
Per di più negli ospedali provinciali, come una valanga che si forma lentamente, i medici hanno cominciato ad andarsene. Il danno è grave perché non abbiamo medici giovani, formati ed esperti, pronti alla loro sostituzione.
Contemporaneamente, i medici di base dei territori, privati dei loro ospedali di riferimento provinciali, hanno cominciato a disdire i loro contratti con lo Stato, andando in quiescenza.
Oggi gli ospedali privati del Cagliaritano, presi d’assedio da una gran massa di pazienti rifiutati dagli ospedali pubblici, hanno liste d’attesa di molti mesi, e non riescono a compensare la carenza pubblica.
La scontentezza aumenta e a pagarne il conto sono i Pronto Soccorso. Lì, non essendo possibile assistere tutti contemporaneamente, si creano file di pazienti in attesa per ore. Alla fine, arriva la contestazione proprio contro chi non ha responsabilità.
Questa sintetica ricostruzione storica dell’origine del malcontento sanitario, dimostra che Tina Anselmi aveva ragione a puntare tutto sulla Sanità pubblica così come l’aveva formulata lei.
Aveva ragione anche Francesco De Lorenzo nel momento di quell’emergenza, così come hanno ragione coloro che mettono secchi e pentole per terra per raccogliere l’acqua piovana quando il tetto si rompe.
Nel primo momento è giusto così; tuttavia, per affrontare le piogge successive, è più corretto riparare, cioè “ri-formare” il tetto rotto. Non si può continuare a mettere secchi.
Pochi giorni fa, il governo regionale ha deliberato la spesa di 7 milioni di euro a favore degli ospedali per ridurre le “liste d’attesa”; ha anche deliberato lo stanziamento di 5 milioni di euro per le case di cura private per lo stesso motivo.
Tutto questo, in emergenza, è necessario. Finita l’emergenza si fa programmazione.
Per il futuro bisognerebbe mettersi nelle condizioni di non dover disporre secchi e pentole sotto il tetto rotto per contenere l’acqua piovana. Sarebbe auspicabile riparare il tetto e approntare una Riforma sanitaria regionale che consideri l’immediata:
– attivazione dei 6 ospedali provinciali;
– l’integrazione ospedali provinciali/territorio attraverso le strutture intermedie (case della salute).
– il decentramento sanitario e il coinvolgimento dei territori.

Mario Marroccu

Imane Khelif, pugile algerina, ha vinto la medaglia d’oro, nella categoria pesi Welter, alle Olimpiadi di Parigi/2024. Il suo torneo pugilistico venne turbato dal ritiro intempestivo della rivale italiana Angela Carini dopo un primo potente pugno al volto. Nei media italiani si creò subito uno schieramento:
– quelli pro-Carini che accusavano Imane Khelif d’essere impropriamente sul ring femminile nonostante avesse caratteristiche fisiche di tipo maschile;
– quelli pro-Khelif che sostenevano la legittimità di quell’incontro in quanto non vi erano dubbi sulla sua femminilità.
E’ riemerso il problema dell’”identità di genere”.
Per capire in quale assurdo ginepraio ci siamo addentrati, convinti di dire cose semplici sul chi sia maschio e chi sia femmina, è necessario rivedere su quali basi storiche, giuridiche e biologiche si identificano il sesso maschile e femminile.
Il problema dell’identità di genere nell’essere umano viene discusso approfonditamente da oltre 2.500 anni, ad iniziare dalla mitologia greca, dai filosofi, dai biologi, dai religiosi, dagli psicologi, dai sociologi dai giuristi, e oggi dai social.
L’”identità” in generale, da quella razziale, a quella culturale, a quella religiosa, etc., è una questione difficilissima. Se ne accorse tristemente Carlo Linneo, il naturalista che per primo tentò di definire il genere “HOMO” nel lontano 1758. Egli ebbe molte difficoltà: venne avversato dagli opinionisti del tempo, quando pubblicò la sua prima classificazione dei resti ossei fossili che “identificò” come appartenenti al genere “HOMO” All’inizio classificò come “Homo” tutti gli scheletri fossili associabili ad attività intelligenti come la fabbricazione di utensili. Con sua sorpresa, nella società civile, in quella scientifica e nella religiosa emersero vivaci contestazioni quando si vide che aveva incluso fra gli “Homo” anche i resti fossili delle grandi scimmie antropomorfe che precedevano l’“Homo sapiens”. A causa di problemi di identità ideologica egli allestì subito una seconda classificazione in cui separò accuratamente l’“Homo sapiens”, dall’”Homo Abilis”, dallo Australopitecus” e dall’Homo Heidebergensis. Così distinse quelli con cranio più piccolo (Ominini) da quelli con cranio più grande.
Fra quest’ultimi incluse l’Uomo di Neanderthal (estinto 25.000 anni fa), e l’Uomo di Flores (estinto 12.000 anni fa).
Già questo fatto dimostra quanto sia difficile definire chi sia “Homo” e chi non lo sia. E’ sicuro che l’”Homo sapiens” deriva per evoluzione dalla scimmia, ed è sicuro che durante l’evoluzione del DNA siano comparsi un numero enorme di aspetti somatici e forme diverse sia di “ominini” che di uomini. E il percorso dell’evoluzione non è finito. Continua ancora oggi come in passato.
Proprio a causa della continua e ininterrotta evoluzione di A-G-T-C (che sono i mattoni del DNA, e di A-G-T-U (i mattoni di RNA), la nostra specie è riuscita a sopravvivere nel pianeta Terra. Tale differenziazione e mutazione continua dei caratteri genetici, inarrestabile nel tempo, venne capita e descritta da Charles Darwin nel suo libro “L’Origine delle specie” del 1859. Egli capì che il cambiamento continuo del cammino della differenziazione genetica attraverso le mutazioni, era necessario per avere sempre a disposizione il tipo di “umano” più adatto a sopravvivere nelle varie condizioni avverse che si sarebbero incontrate.
Watson e Crik nell’anno 1953 si scoprì la “doppia elica del DNA” e aprì la strada “progetto Genoma”.
Nel 1983 il Governo Americano affidò la direzione del centro di ricerche genetiche a Francis Collins affinché sequenziasse completamente il DNA umano. Nell’anno 2000 Bill Clinton e Tony Blair presentarono al mondo la prima bozza dell’intero DNA umano allestita da Craig Venter e Francis Collins. Nel discorso di presentazione Bill Clinton previde la possibilità di analizzare e separare in laboratorio i vari geni contenuti nel DNA (quelli che definiscono il colore dei capelli, degli occhi, della corporatura, della differenziazione sessuale, dell’intelligenza, dei tumori e delle malattie genetiche, etc.). Si prospettò già allora la possibilità di eseguire procedure di ingegneria genetica allo scopo di migliorare il genoma.
Questa nuova possibilità di interferire sull’opera dei Madre Natura ha creato una rivoluzione: prima del 2000 le mutazioni nell’evoluzione genetica erano opera esclusiva di Madre Natura; dal 2000 l’Uomo può interferire sull’ordine naturale dell’Evoluzione. La possibilità di indurre, in laboratorio, mutazioni pilotate del DNA, genererà una nuova definizione della “identità umana”. Necessariamente verranno distinti gli Uomini “mutati in laboratorio” da quelli “non mutati” e potrà derivarne un problema sociale.

Verranno discriminati i “migliorati geneticamente” e quelli “non migliorati” dotati del solo DNA naturale. Ne potrà derivare un problema sociale e politico già sperimentato in epoche recenti: “l’eugenetica” o selezione della “razza migliore”. Potrà imporsi uno nuovo strato sociale di super-umani dominanti e uno strato sociale di umani, inferiori geneticamente, assoggettati ai primi.

Il problema di “identità di genere”, appena sfiorato, e impropriamente gestito, col caso Khelif-Carini, sarà nulla in confronto a ciò che potrà avvenire in futuro.
Oggi, 11 agosto 2024, chiuse le Olimpiadi rimane in piedi un clima di “scontro identitario di genere”.
Uno scontro di cui esistono documenti storici da almeno 2.500 anni a questa parte.
Gli antichi Greci si limitavano a prendere semplicemente atto di ciò che vuole la Natura. Già Platone fece descrivere ad Aristofane lo spettro delle diverse manifestazioni di genere sessuale connaturate all’Umanità. Essi ritenevano che la perfezione stesse nella somma delle qualità di genere e fra le divinità vennero inclusi gli “ermafroditi”. Soggetti dotati di qualità maschili e femminili. Il tema sulla esistenza in Natura degli “intersessi”, secoli prima di Platone, era stato già affrontato dalla filosofia trascendentale iraniana che aveva dato luogo allo sviluppo di una corrente culturale molto influente: quella degli gnostici.
Questi ritenevano che il Demiurgo avesse creato un’umanità imperfetta e che questa avrebbe potuto avvicinarsi al Dio perfetto attraverso la “conoscenza”. Secondo la loro visione tutto era imperfetto; assolutamente tutto e tutti gli esseri viventi avrebbero potuto migliorarsi solo con la “conoscenza”.
Questo concetto di imperfezione connaturata all’uomo entrò in tutte le religioni successive e ne nacque la distinzione tra un “mondo del Bene” e un “mondo del Male”. Ne derivarono correnti intellettuali che estremizzarono il significato di “male”, insito nel sesso e nella capacità riproduttiva degli esseri umani, tanto che giunsero ad imporre ai seguaci imposizione di astinenza assoluta dal sesso e il divieto di procreazione. Fu la corrente dei Catari. Nel 1200 i Catari vennero dichiarati eretici dai Cristiani e la loro corrente fu soffocata nel sangue.
Fu una strage basata sulla lotta culturale scatenata dal diverso modo di concepire l’idea di “identità” sia dell’essere umano, sia della distinzione maschio/femmina.
In quel caso la diversa idea di “identità” venne risolta con una strage. Sappiamo che in seguito, con la retorica della “identità”, anche nella storia recente avvennero altre assurde stragi.
La scienza del 1900 ha dimostrato che l’“identità sessuale” è un concetto che necessita di una classificazione riconosciuta da protocolli allestiti dalla Comunità scientifica internazionale.
In base a quei protocolli la “identità sessuale “ può essere determinata da:
1° Gli ormoni: la prevalenza di testosterone indirizza verso la mascolinità. La prevalenza di Estrogeni indirizza verso la femminilità.
2° La psiche: determina il convinto orientamento personale di genere verso una personalità maschile o femminile.
3° Il DNA: I cromosomi sono in numero di 46 n distinti in 23 coppie; la 23ª coppia è XX nelle femmine, XY nel maschio.
Gli scienziati indicano 4 modelli diversi utilizzabili nell’identità sessuale:
a) Sesso somatico o fenotipo: è dato dai caratteri sessuali primari che sono i testicoli e il pene nel maschio; la vagina, l’utero e le ovaie nelle femmine.
b) Sesso ormonale: prevalenza di gonadotropine e ormoni sessuali (più testosterone nei maschi, più estrogeni nelle femmine).
c) Sesso psichico: orientamento della personalità prevalentemente maschile o femminile (indipendentemente dal sesso genetico, somatico, ormonale).
d) Sesso genetico: XY per i maschi; XX per le femmine.
All’interno di queste 4 classi esiste un’infinita variabilità sui vari gradi di differenziazione sessuale esistenti tra il modello maschile e quello femminile. La variabilità può comportare anche cambiamenti temporanei dell’orientamento sessuale: è la “fluidità di genere”.
Gli studiosi di Biologia molecolare (specialisti in genetica medica) e di ormoni (endocrinologi) dimostrano continuamente l’esistenza di modelli diversi di sessualità.

Nella pratica Urologico-Ginecologico-Andrologica si incontrano due sindromi che possono essere esempi utili per chiarire questi concetti:
Primo esempio: la Sindrome di Morris. E’ una sindrome dovuta alla assenza di recettori per il testosterone. Si tratta di neonati geneticamente maschi (XY) che non sviluppano i caratteri sessuali maschili perché il testosterone non riesce ad attivare i recettori delle cellule somatiche. Questi soggetti sono tuttavia sensibili agli estrogeni. Il risultato finale sarà lo sviluppo di un feto che alla nascita si presenterà con caratteri sessuali femminili. Anche lo sviluppo successivo (adolescenza-maturità) sarà caratterizzato da aspetto generale femminile sia nei caratteri sessuali primari (genitali esterni) che in quelli secondari (ghiandole mammarie, pannicolo adiposo, cute, peli). Questi soggetti presenteranno un’altezza superiore alla media femminile.
L’ostetrica che accoglierà questi bambini alla nascita noterà la presenza della vulva, della vagina e l’assenza dei testicoli. Nel momento della compilazione del certificato di nascita che verrà consegnato all’Anagrafe l’ostetrica certificherà la nascita di una bambina. Con quell’atto si certifica l’“assegnazione di genere”.
Con quell’atto, riconosciuto dalle leggi di tutto il mondo il neonato è per lo Stato una “femmina”.
Esistono anche forme di “insensibilità incompleta al testosterone “ che daranno luogo ad altre varianti con fenotipi ancora differenti.
Secondo esempio: la Sindrome di Klinefelter. In questo caso la 23ª coppia avrà un cromosoma sessuale in più: XXY.
I bambini con sindrome di Klinefelter nascono con aspetto dei genitali esterni di tipo maschile.
Successivamente i caratteri genitali primari saranno ipotrofici mentre i caratteri sessuali secondari svilupperanno in senso femminile (ginecomastia, cute senza peli scarsa muscolatura). Questi individui, come quelli con sindrome di Morris, non saranno fertili.
Esistono poi casi di varianti femminili con un eccesso di cromosomi sessuali: la 23ª coppia sarà rappresentata da tre X, ovvero XXX. La tripla X darà luogo alle “superfemmine” con caratteri femminili molto pronunciati (formosità).
Esistono casi con tripla Y, ovvero YYY. Si tratta dei “supermaschi”. Avranno possente muscolatura, sviluppo scheletrico aumentato, saranno eccellenti nello sport e saranno aggressivi.
Esistono casi da difetto di cromosomi nelle 23ª coppia. E’ il tipico caso della Sindrome di Turner (la 23ª coppia è sostituita da una sola X). Si tratta di neonate bambine che avranno uno scarso sviluppo dell’apparato genitale, dei caratteri secondari e dello sviluppo scheletrico.
Tutte queste varianti avranno grandi difficoltà a riprodursi.
Dopo queste premessa si comprende che l’”identità di genere” può essere molto difficile da definire.
Per evitare di entrare nella trappola dell’“identità” il CIO (Comitato Internazionale Olimpico) ha convenuto che il sesso ufficiale dell’atleta è il “sesso assegnato” alla nascita dal pubblico ufficiale a ciò deputato: l’ostetrica.
Durante les “Jeux Olympiques Paris 2024″ il CIO ha scelto il parametro della certezza legale basato su una convenzione internazionale.
Se fossero stati ignorati i parametri di “identità di genere” riconosciuto dai Parlamenti si sarebbe corso il rischio di discriminare un numero enorme di persone legittimate ad esistere godendo dei diritti costituzionali.
Nel mondo della Sessuologia esiste, con un certa frequenza, la richiesta di “riassegnazione di genere”.
Sono i casi in cui viene contestato il “sesso assegnato alla nascita”.
In questo caso la Legge affida agli scienziati esperti la decisione sul come indirizzare la riassegnazione.
Prendiamo il caso di un individuo che alla nascita sia stato assegnato al genere maschile, che però abbia manifestato in seguito un orientamento in senso femminile, e che chieda una “riassegnazione” al genere a cui sente di appartenere. In tal caso la Commissione di esperti, riunita dal Giudice, dovrà definire:
– a – quale sia il sesso somatico (l’aspetto fisico),
– b – quale sia il sesso genetico nel DNA (XX oppure XY),
– c – quale sia il sesso ormonale,
– d – quale sia il sesso psichico.
L’aspetto sessuale più difficilmente modificabile è il sesso psichico . Si tratta di soggetti che potrebbero entrare in uno stato di profonda sofferenza, fino all’autolesionismo nel caso non venissero soddisfatti nella loro identificazione psichica. Per questo motivo il “sesso psichico” sarà il parametro guida.

Il giudice, una volta ottenuti i pareri certificati dagli specialisti potrà autorizzare la messa in atto delle procedure per la “riassegnazione di genere”. Il chirurgo urologo e quello plastico ridefiniranno l’anatomia dei caratteri sessuali primari in senso femminile (raramente si fa in senso maschile).
L’Endocrinologo riequilibrerà l’assetto ormonale in senso femminile. Il sociologo e lo psicologo sosterranno l’inserimento sociale. Le spese potranno essere a carico dello Stato.
In questo caso il problema da risolvere ha un iter ben definito.
Il problema più grande, per il quale non esiste ancora un iter definitivo, si trova nei soggetti che non sono chiaramente orientati. Sono i Gender-fluid.

L’identificazione di genere è un tema studiatissimo da almeno 25 secoli e, nonostante l’impegno di eccellenti studiosi, il tema è aperto. Per questo, nonostante la sommarietà di quanto riferito, è difficile pensare che le scarne e deficienti informazioni diffuse con linguaggio così elementare dai social, possano essere utili a produrre un’opinione pubblica corretta. Il tema dell’”identità” è un tema sensibile e, se mal gestito, è pericoloso: può indurre dinamiche di esclusione, di discriminazione, fino al razzismo e alla violenza.

Mario Marroccu

Le immagini delle televisioni americane, rilanciate sui nostri teleschermi in questi giorni, mostrano, oltre a Donald Trump sanguinante, Joe Biden assente e Kamala Harris in lizza, tanti americani che indossano mascherina respiratoria FFP2 anticovid. E’ il segno certo che in America il Covid corre. Da noi, in Italia, non se ne ha ancora la chiara percezione e la comunicazione dell’incombenza del Covid è poco esplicita. Alcuni giorni fa è comparsa la notizia che nell’ultima settimana in Italia vi sarebbero stati 8.500 nuovi casi di Covid. Il ché contrasta con la nostra esperienza quotidiana, la quale ci dice che moltissime famiglie del Sulcis Iglesiente e del Cagliaritano stanno combattendo con la febbre da Covid.
Gli 8.500 casi attribuiti all’Italia probabilmente si trovano tutti nella provincia del Sud Sardegna e Cagliari.
Considerato che quest’area rappresenta la centesima parte della popolazione italiana, è verosimile che il numero degli infettati dal virus Sars-Cov2 in Italia sia cento volte superiore, e il numero reale possa trovarsi intorno ai 850.000 casi.
Se fosse così, si tratterebbe di una franca ripresa dell’epidemia di Covid-19. Ne parla esplicitamente il direttore dell’OMS (Organizzazione Mondiale Sanità) in Europa, il dottor Hans Kluge. Egli, dall’alto del suo osservatorio, certifica che il numero dei ricoveri ospedalieri per Covid in Europa, rispetto alle ultime 4 settimane, è aumentato in questa settimana del 51%. Questo è il primo dato statistico ottenuto dai fogli gnoseologici ospedalieri e riferito dagli Istituti di Statistica Sanitaria. Gli stessi Istituti certificano che nelle ultime 4 settimane il numero dei morti per Covid è aumentato del 32% rispetto al mese precedente. La mortalità è francamente in aumento. I dati di incidenza della diffusione del Sars-Cov2 nel Sud Sardegna dovrebbero essere omogenei alle percentuali europee.
La malattia, oltre alle persone immunodepresse, sta colpendo le donne in stato di gravidanza e il personale ospedaliero.
Certamente, come dice il dr Hans Kluge, si devono evitare gli allarmismi, tuttavia è anche opportuno mettere in guardia le persone più esposte: gli ultrasessantacinquenni, le donne incinte, e il personale ospedaliero.
Purtroppo, il personale ospedaliero lavora, quasi tutto, senza la protezione di Dispositivi di Protezione Individuale. Ciò lo espone ad essere vittima di contagio per causa di lavoro e ad essere, a sua volta, vettore del virus.
Le donne incinte, la parte più pregiata della popolazione, si vedono circolare nei luoghi pubblici affollati e nei mezzi di trasporto (aerei, treni, navi) praticamente sempre senza mascherina respiratoria. Forse per scelta, forse per mancata informazione.
Gli ultrasessantacinquenni in generale, ma sopratutto quelli fragili, dovrebbero proteggersi per due motivi: per preservare la propria autosufficienza e per evitare il sovraccarico di impegno assistenziale al SSN e alle proprie famiglie. Mentre le donne incinte e il personale ospedaliero rappresentano numericamente una parte limitata della popolazione italiana, questi ultimi sono un esercito.
Alla data di oggi, gli ultrasessantacinquenni sono il 24 % della popolazione; si tratta di un’enormità di italiani pari a 14,6 milioni di potenziali bersagli del virus. Questo numero nei prossimi anni è destinato a crescere. Nel 2045 gli ultrasessantacinquenni saranno il 35% della popolazione, cioè 17,5 milioni su 50 milioni di abitanti.
I dati demografici ci dicono che il numero degli italiani fragili è destinato a crescere; con la loro crescita, aumenterà la necessità di nuova Sanità pubblica, e di ulteriore spesa sanitaria dello Stato. A causa del ridotto numero di nuovi nati e del ridotto numero di abili al lavoro contribuenti, diminuirà il gettito fiscale e lo Stato non potrà sostenere l’impatto di nuovi aumenti di spesa sanitaria. Molti italiani non potranno essere curati a spese dello Stato.
I freddi numeri statistici sono cinici. Davanti al cinismo dei numeri è prudente supporre che non ci si possa più aspettare una “sanità pubblica dalla culla alla tomba”, e sia necessario imparare a vivere adottando tutti i presidi di prevenzione che ci aiutino a non ammalarci.
Il Covid redivivo di questa Estate sarda è un utile avviso alla prudenza e una palestra per esercitarci a fare prevenzione.
Il dottor Hans Kluge, in un suo comunicato di pochi giorni fa, ha sostenuto che «per affrontare il nuovo Covid l’azione da prendersi immediatamente è sbarrare le vie di diffusione del virus e difendere i fragili, i grandi anziani, gli oncologici, gli immunodepressi. E’ necessaria una campagna informativa basata sulla raccomandazione di portare la mascherina, lavarsi frequentemente le mani, evitare gli assembramenti, mantenere le distanze da chi è sintomatico, fare il tampone nasofaringeo al minimo sintomo o al minimo dubbio d’essere entrati in contatto con una persona sospetta d’essere portatrice di Covid, autoisolarsi in caso di positività».

I mezzi per ridurre il rischio grave ci sono:
– adottare precauzioni sensate come indossare la mascherina monouso respiratoria in spazi chiusi frequentati, o in spazi aperti affollati;
– tenersi lontani dagli altri se si è sintomatici o se si sospetta di essere portatori del virus;
– mettersi in isolamento spontaneo secondo le indicazioni dei DPCM del 2020;
– adottare precauzioni se si deve interagire con persone che hanno rapporti con pazienti affetti da Covid;
– lavarsi regolarmente le mani;
– vaccinarsi con vaccini aggiornati ogni 6 mesi se si è fragili. I vaccini salveranno ancora vite.
Per il futuro, visto che il virus non ci abbandonerà per molti anni ancora, il direttore dell’OMS Europa raccomanda ai Governi l’adozione di azioni strutturali per ridurre la concentrazione del virus negli ambienti dedicati ai servizi pubblici. Per questo, consiglia l’impiego diffuso di ventilazione meccanica a pressione negativa negli ospedali, nelle scuole e nei trasporti pubblici.
Le raccomandazioni date dal dottor Hans Kluge hanno due scopi:
– rimuovere l’illusione diffusa che il Covid sia finito;
– avviare la campagna di informazione e prevenzione.

Mario Marroccu

Oggi, 2 giugno 2024, è l’anniversario del giorno in cui si tenne il referendum per la scelta istituzionale Monarchia/Repubblica e vennero eletti i deputati che avrebbero scritto la Costituzione per ridare un’anima unica all’Italia. Oggi è il giorno adatto per iniziare la lettura del libro “di Uomini e di Diavoli” scritto dall’avv. Luigi Pateri e riflettere sui rimaneggiamenti che si stanno per fare su alcuni articoli della Costituzione.
Il libro racconta una storia di banditismo il cui “demone” fu il “Separatismo” siciliano. Esistono due personaggi di fantasia, il capitano Peralta e Rosa, che fungono da filo d’Arianna per orientare il lettore in una vicenda estremamente complessa. Il periodo storico è quello dell’Italia negli gli anni compresi fra il 1943 e il 1950: gli anni cruciali in cui si succedettero la tragedia finale della Seconda guerra Mondiale, il dramma economico e sociale, l’avanzata degli Alleati, la fine della monarchia, la guerra civile e molti governi provvisori (2 governi Badoglio, un governo Bonomi, un governo Parri, 5 governi De Gasperi). Il subbuglio, l’incertezza e l’instabilità politica di quegli anni generò in Sicilia il fenomeno criminale del banditismo separatista.
La prima parte del libro contiene il racconto fedele della vicenda del bandito Salvatore Giuliano. La seconda parte è frutto di una ricerca eseguita sui documenti riguardanti le indagini per il processo per la morte di Giuliano; in essa si adombrano molti sospetti sulla reale identità dei mandanti della strage di “Portella della Ginestra”. Questa parte del libro è estremamente inquietante e getta l’ombra del sospetto su tante vicende successive, fino a lambire il nostro tempo.
I numerosi atti criminali, ineguagliabili per numero e ferocia in tutta la storia italiana del 1900, provocarono l’assassinio di 151 carabinieri, circa 40 poliziotti e centinaia di privati cittadini, politici e sindacalisti.
Il libro esce, molto opportunamente, in un momento molto delicato in cui si sta andando ad eseguire un complesso intervento “chirurgico demolitivo e ricostruttivo”, quindi trasformativo, a carico degli articoli 116 e 117 della Costituzione: gli articoli che definirono le Regioni ad Autonoma Speciale e l’istituzione del “Fondo Perequativo” tra di esse. La strage di Portella della Ginestra avvenne proprio nel momento in cui i Padri Costituenti, nel 1947, stavano scrivendo quegli articoli della Costituzione Italiana, con il fine di mantenere integro il corpo della Stato, della Nazione e del suo territorio.
Per entrare nello spirito del libro è necessaria una premessa storica. L’oggetto del racconto è costituito dalle circostanze che portarono all’attentato che si concluse con la strage di Portella della Ginestra, il Primo Maggio 1948, festa dei lavoratori. Tale festa era stata soppressa durante il ventennio fascista e ripristinata con legge del 1946 (Alcide De Gasperi). Era la prima festa del Primo Maggio dopo l’Era Fascista. L’anno della strage, il 1947, sta in mezzo, tra i due anni più importanti per la ricostruzione dello Stato italiano: il 1946, anno del Referendum, e il 1948, anno di promulgazione della Costituzione Italiana. Il 2 giugno 1946 si celebrò il Referendum Istituzionale (Monarchia/Repubblica) e l’elezione per la nomina dell’Assemblea Costituente che aveva il compito di redarre la madre di tutte le leggi.
Nel gennaio 1948 venne promulgata la Costituzione italiana e vennero varate le prime tre leggi ritenute più urgenti: la numero 1 riguardava il funzionamento delle Corte Costituzionale; la Numero 2 dichiarava l’Autonomia Speciale della Sicilia; la numero 3 dichiarava l’Autonomia speciale della Sardegna. Nella Costituzione, agli articoli 116 e 117 (titolo V), erano state indicate le 5 Regioni con “Autonomia Speciale”: Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia-Giulia, Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta.
Il tema più divisivo, che bisognava risolvere per ricostituire l’unità della Nazione, era la gestione delle comunità regionali che, per varie ragioni, avevano nel loro seno un forte partito indipendentista. Le tre regioni del Nord erano frontaliere ed erano abitate da popolazioni di madre lingua non italiana (Francese, Tedesco, Slavo) e in ognuna esistevano pulsioni al distacco dall’Italia. La Sardegna aveva un partito indipendentista rappresentato dal movimento sardista. Il caso più difficile era rappresentato dalla Sicilia che per ben 700 anni, dal tempo del Normanno Ruggero II, fino ai Borboni, era stata un regno indipendente. Anche nel 1900 la massima aspirazione politica dei siciliani fu quella di ottenere un regno di Sicilia indipendente dall’Italia. Tale aspirazione era coltivata dai nobili proprietari del latifondo.
La nobiltà siciliana era nata con Ruggero II ( 1130) che nominò i Baroni e suddivise fra di loro tutte le terre coltivabili . I Baroni a loro volta le distribuirono ai Vassalli. Le terre potevano essere coltivate dal popolo dei contadini sotto il vincolo di un contratto di mezzadria. I Baroni garantivano ai contadini la difesa del territorio e la loro personale sicurezza; in cambio ricevevano dai contadini le somme corrispondenti all’affitto del latifondo. A tal fine, si era costituita una struttura funzionalmente intermediaria, tra nobili e contadini, rappresentata dagli “esattori”: costoro riscuotevano dai contadini il premio dovuto per la loro protezione, l’affitto spettante ai baroni, il prezzo dell’acqua per l’irrigazione e il prezzo del guardianaggio. Gli “esattori” facevano pagare ai Baroni il prezzo dei loro servigi e della loro “protezione”. La protezione e la riscossione erano compito dei “gabellieri”, i quali a loro volta utilizzavano una manovalanza, spesso selezionata tra la criminalità locale: i “campieri”. Si trattava di uomini armati a cavallo che perlustravano, controllavano e riscuotevano gli affitti, con l’uso della forza se necessario. Tale struttura intermedia dette corpo, poi, alle famiglie e alle “cosche” mafiose.
L’eccesso di potere nel fornire protezione spesso sconfinò nell’azione criminale. Ciò avvenne, soprattutto, per contrastare le richieste di riforma agraria dei contadini.
Nel 1866, sempre per ottenere la “riforma agraria”, esplose una grande rivolta a Palermo: i contadini invasero la città e qui fecero sollevare in armi la popolazione, che fu solidale, per l’assegnazione delle terre del latifondo al popolo. I contadini si erano illusi che Garibaldi fosse giunto in Sicilia per distribuire le terre, successivamente si accorsero che di fatto avevano solo cambiato padrone (dai Borboni ai Savoia). Per sedare la rivolta fu necessario l’impiego delle navi da guerra Sabaude e Inglesi che procedettero al bombardamento della città provocando mille morti. Vennero arrestati molti rivoltosi e alcuni vennero giustiziati.
Politicamente esistevano in Sicilia due tendenze opposte: quella dei Baroni che volevano mantenere lo “statu quo ante”, conservando le terre, e quella dei contadini che volevano appropriarsene per la sopravvivenza. I primi (i Baroni) non avrebbero accettato il nuovo ordinamento democratico repubblicano e, pertanto, erano conservatori e monarchici. I secondi aspettavano l’ordinamento repubblicano e democratico-riformista, pertanto, erano contro la monarchia che garantiva la conservazione dei privilegi ai nobili.
I baroni latifondisti, nel loro interesse, alimentavano il sentimento indipendentista-separatista che propendeva per una Sicilia indipendente dallo Stato italiano e libera di associarsi ad altre nazioni. In quel clima di separatismo indipendentista si era sviluppata l’idea di far diventare la Sicilia uno stato confederato agli Stati Uniti d’America: il 49° stato. Tale idea trovava terreno fertile nella propensione americana di favorire l’idea separatista e annessionista siciliana, perché gli Stati Uniti vedevano nei suoi porti un possibile punto strategico per il controllo del Mediterraneo. Un’idea simile l’avevano anche gli inglesi. L’appoggio internazionale all’idea separatista, e il sostegno interessato dei baroni latifondisti, indussero nei siciliani l’aspirazione alla rifondazione di un regno indipendente della Sicilia come ai tempi di Ruggero II.
L’idea-sogno separatista ebbe una fiammata di entusiasmo quando il 20 giugno 1943 gli Americani conquistarono Pantelleria e ne fecero una loro base per lo sbarco in Sicilia. In quei giorni, a Palermo, si iniziarono a vendere spille raffiguranti la “Trinacria” e la bandiera “a stelle e strisce” americana.
Il 10 luglio 1943 avvenne lo sbarco alleato in Sicilia. Questo fatto fu prodromico a ciò che sarebbe avvenuto 14 giorni dopo, la notte del 24 luglio, con l’ordine del giorno Grandi. Benito Mussolini, esautorato, la sera del 25 luglio venne fatto arrestare. Il Duce rimase in arresto per 57 giorni, fino al momento in cui fu liberato da Otto Skorzeny e messo a capo della Repubblica di Salò in contrasto al “Regno del Sud” con Vittorio Emanuele III a Brindisi.
Il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio aveva nominato un governo con a capo il Generale Pietro Badoglio.
Il 28 aprile 1945 Benito Mussolini venne ucciso a Dongo. Due giorni dopo si suicidò Adolf Hitler. Fu la fine della guerra.
Dal dicembre 1945 il Governo venne presieduto da Alcide De Gasperi fino alla nomina della “Commissione Costituente”; questa venne eletta il 2 giugno 1946, contemporaneamente al “referendum istituzionale Monarchia /Repubblica”.
Vinse la Repubblica e il Re venne esiliato.
In questa temperie della grande Storia si inserisce la storia criminale del bandito Salvatore Giuliano.
N.B.: il 22 giugno 1946 (20 giorni dopo il Referendum) Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia, proclamò l’amnistia generalizzata per tutte le violenze perpetrate per motivi politici.

Tra gli amnistiati rientrarono anche i adepti dell’EVIS (l’esercito separatista siciliano) di cui Salvatore Giuliano era componente. Salvatore Giuliano e la sua banda non furono ammessi all’amnistia a causa dei tanti crimini comuni commessi; essi si sentirono traditi e riavviarono la loro guerra contro lo Stato.
La passione di Salvatore Giuliano per il separatismo e il suo odio per l’Italia che percepiva come un governo straniero occupante, gli avevano dato titolo per essere affiliato alla mafia, per assumerne incarichi e per servire la causa separatista della nobiltà siciliana latifondista. Aveva fatto delle caserme e delle stazioni di polizia un suo obiettivo. I suoi nuovi datori di lavoro criminale lo apprezzavano tantissimo per le capacità organizzative, la dote naturale al comando, e lo avevano individuato come leader all’interno dell’Esercito Volontario Indipendentista Siciliano (EVIS) col grado di colonnello. La sua guerra iniziò abbracciando la causa della Sicilia indipendente dallo Stato italiano.
Il Governo italiano, dopo tanti attacchi ad opera dei separatisti avvenuti nel periodo della forte instabilità dei Governi provvisori (1943-1945) dapprima non rispose perché non era in condizioni di farlo; successivamente, con la fine della guerra e con l’avvento del primo Governo De Gasperi, il 10 dicembre 1945, lo Stato rispose: inviò tre divisioni (Sabauda, Aosta, Garibaldi) in Sicilia che dettero la caccia all’esercito EVIS battendolo in battaglia campale a “San Mauro di Caltagirone” il 29 dicembre 1945. Molti separatisti vennero arrestati. Salvatore Giuliano reagì alla sconfitta nel gennaio 1946 attaccando una casermetta di carabinieri e uccidendone 5. Dopo pochi giorni attaccò una stazione dei carabinieri, ne catturò 8 e tentò di instaurare una trattativa per scambiarli con i separatisti detenuti nel carcere di Palermo. Lo Stato non accettò di entrare in trattativa con i criminali e Salvatore Giuliano giustiziò gli 8 militari. Le uccisioni di carabinieri, poliziotti e privati cittadini continuarono. Lo scopo era aprire una trattativa per ottenere l’indipendenza della Sicilia dallo Stato italiano. Nell’anno 1946, il 2 giugno si tenne il Referendum per la scelta della nuova forma istituzionale da dare allo Stato. Seppure per poche migliaia di voti, vinse la Repubblica. Questo fatto mise in forte scompiglio i latifondisti siciliani. Si temeva che, con l’applicazione dei vari decreti del ministro dell’Agricoltura Fausto Gullo, si potessero costituire le cooperative dei contadini e che questi potessero appropriarsi delle terre incolte possedute dai Baroni.
Chi era interessato a mantenere il latifondo intatto iniziò ad esercitare tutte le pressioni possibili sui Padri Costituenti, che allora stavano scrivendo gli articoli della Costituzione, per indurli a introdurre nella legge l’Indipendenza siciliana. L’indipendenza avrebbe significato per i latifondisti la possibilità di mantenere il potere di fare le leggi future a proprio vantaggio.
Le pressioni sui Costituenti durarono per il 1946 e tutto il 1947.
Il 1947 fu l’anno della strage di “Portella della Ginestra”. Fu la più grande azione violenta contro lo Stato. Tutta la rabbia antipolitica e antisindacale si concentrò nell’agguato del Primo Maggio 1947 contro la festa del Lavoro organizzata dai partiti di sinistra e antifascisti assieme ai sindacati dei contadini. L’esecutore della strage che ne seguì fu Salvatore Giuliano, l’intermediario fu la mafia, ma il mandante è tutt’oggi ignoto.
Salvatore Giuliano ebbe l’incarico di eseguire l’agguato con la massima ferocia e venne rifornito di una mitragliatrice Breda e altri fucili mitragliatori.
Quando nel pianoro di Portella della Ginestra furono presenti almeno 2.000 festanti contadini con le famiglie, e si attendeva il comizio di un politico, le mitragliatrici presero a sparare all’impazzata.
Morirono 11 persone, fra cui 2 bambini; molte decine furono i feriti gravi; anche moltissimi animali da soma, usati come mezzo di trasporto dalle famiglie, vennero uccisi.
Si seppe poi che fra i banditi sparatori vi erano 5 confidenti dell’apparato di giustizia che avevano avvisato sulla prossimità di un grave attentato. Il fatto indusse il forte sospetto che gli organi di polizia fossero già a conoscenza della preparazione dell’agguato ma che avessero scelto di non impedirlo. Tutti quei confidenti vennero poi uccisi un mese dopo in un agguato teso dai carabinieri. Si ritenne che la strage fosse avvenuta per impedire che qualcuno di essi rivelasse il nome dei mandanti.
Il destino dei separatisti e dello stesso Salvatore Giuliano era segnato. Nonostante la politica internazionale (Stati Uniti e Inghilterra) fosse orientata per l’indipendenza della Sicilia, e quindi in linea con i desiderata di Salvatore Giuliano e dei latifondisti, la Russia era contraria: sosteneva la necessità di lasciare la Sicilia unita all’Italia. Ciò venne concordato definitivamente a Jalta, fine 1945, tra Winston Churchill, Franklin Delano Roosevelt 32° presidente degli Stati Uniti e Iosip Stalin.

Dopo la strage di Portella della Ginestra, la guerra personale di Giuliano contro lo Stato Italiano continuò con eccidi e sequestri di persona per tutto il 1949 e 1950. Molti furono i segretari politici di sezione paesani e i sindacalisti uccisi.
Questi fatti non furono indifferenti per i Padri Costituenti. Era evidente l’esistenza di un grande problema indipendentista. Da lì nacque l’idea di concedere l’”Autonomia Speciale”, ma non l’indipendenza, alla Sicilia. Ne derivò la concessione dell’autonomia anche ad altre 4 regioni in condizioni critiche. Tale decisione fu alla base degli articoli 116 e 117 della Costituzione del 1948.
Nel 1949 si erano avviate trattative tra le istituzioni e Salvatore Giuliano per fermare la violenza contro i politici.
Si giunse a concordare il trasferimento dell’intera banda Giuliano in Brasile.
Salvatore Giuliano frequentava un avvocato di Castelvetrano (avv. De Maria) con l’aiuto del quale compilò un memoriale in cui citava i nomi dei mandanti della strage di Ginestra della Portella. Questo doveva essere lo scudo che gli avrebbe garantito la salvezza.
Il piano di Giuliano non si avverò. Venne ucciso il 5 luglio 1950.
Si ritiene che ad ucciderlo fosse stato un personaggio della Mafia, Luciano Liggio, con la complicità di Gaspare Pisciotta.
A novembre 1950 la madre di Salvatore Giuliano presentò querela contro i carabinieri per l’uccisione del figlio. Il processo si tenne a Viterbo.
Il memoriale di Salvatore Giuliano entrò in possesso degli organi inquirenti ma poi sparì e non si ritrovò più.
Molti, tra le figure di autorità giudiziaria che avevano trattato con Giuliano e la sua banda, morirono d morte violenta nei mesi e negli anni successivi.
Nella storia della banda Giuliano e del movimento separatista siciliano esiste un trend interessante sull’evoluzione della tendenza al separatismo. Si iniziò col pretendere l’indipendenza della Sicilia per farne uno stato sovrano e si concluse per concedere l’Autonomia speciale con legge Costituzionale. Al contrario oggi si sta evolvendo il concetto di autonomia verso una forma cosiddetta “differenziata”. Il termine “differenziazione” significa “prendere strade diverse” e quando ci si differenzia si tende ad allontanarsi da un obiettivo comune. Appare chiaro che la differenziazione riguarda la gestione del “Fondo perequativo”. Tale fondo venne concepito per creare infrastrutture economiche e sociali nelle regioni meno avvantaggiate. Oggi, con l’attuale disegno di legge tale fondo può essere ridimensionato.
Il fondo è costituito da una percentuale sulla raccolta fiscale delle regioni. Nell’interpretazione precedente degli articolo 116 e 117 della Costituzione tale fondo era destinato quasi esclusivamente alle 5 regioni autonome. Inoltre, la legge in discussione prevede che le nuove regioni richiedenti la “Autonomia differenziata” possano costituire un loro fondo per la gestione dell’Istruzione, della Sanità e dei trasporti locali. Si creerebbe così un nuovo Stato del Nord con Scuole, Università e Sanità differenziate dal Sud.
La Storia dell’Autonomia speciale, con le sue lotte anche violente, dovrebbe far riflettere.

L’Italia conta, dal primo gennaio 2024, 58 milioni di abitanti. I nati del 2023 sono stati 379.000. Appena 8 anni fa furono 473.000 (quasi 100mila in più). Il Sulcis Iglesiente che due anni fa aveva 119.000 abitanti, ne ha perso il 2% l’anno; dovrebbe essere oggi intorno ai 117mila. Fra 15 anni la nostra popolazione provinciale scenderà a 100.000 abitanti e sarà composta prevalentemente da ultra-sessantacinquenni. Vi saranno pochissimi bambini e pochi adulti in età lavorativa e, fra 40 anni, la Sardegna sarà severamente spopolata. Un cambiamento regressivo del genere non avverrà in Germania, Francia, Spagna, Svizzera, Nord Europa, Inghilterra e Stati Uniti. Avverrà solo da noi in tutto il mondo occidentale.

La regressione avverrà in modo limitato nel Nord Italia, dove esiste un rapporto di quasi due bambini per coppia; avverrà un po’ di più nel Centro Italia e Sud, dove nascono 1,2 bambini per coppia; sarà grave in Sardegna, con la nascita di 0,9 bambini per coppia; sarà molto grave nel Sulcis Iglesiente dove nascono 0,8 bambini per coppia. Sembra incredibile che il Sulcis possa perdere tanti abitanti, eppure è un fenomeno già visto in altre specie animali familiari.

Fino al 1970 sembrava impossibile che potessero scomparire le rondini ma da allora iniziò un progressivo calo dei loro arrivi. Gli studiosi scoprirono che la riduzione del numero delle rondini era dovuto ad un calo della fertilità dei maschi. Il fatto venne attribuito all’aumento della radioattività terrestre, conseguente ai numerosi esperimenti nucleari nel deserto africano. Nonostante l’avvio degli accordi per la cessazione degli esperimenti nucleari, la fertilità delle rondini peggiorò; allora si scoprì che le rondini stavano ulteriormente perdendo fertilità anche a causa dei prodotti chimici ampiamente utilizzati in agricoltura. Oggi le rondini sono una rarità. Il fenomeno dell’inquinamento ambientale tossico per l’uomo divenne chiaro per la prima volta nel 1915, con  l’impiego del gas “Iprite” da parte dei tedeschi durante la prima guerra mondiale. Un inquinamento ambientale massivo avvenne in Sardegna nel 1950, quando fu avviata  la grande operazione Rockfeller, con l’impiego di agenti chimici per eradicare la malaria. Per estinguere la zanzara anofele, la Sardegna venne irrorata con quantità colossali dell’insetticida DDT. La malaria venne eradicata ma il DDT inquinò la terra, le acque e l’ambiente vegetale; le quantità di DDT che arrivarono al mare attraverso lo scolo delle acque piovane fu talmente grande che ne arrivò perfino al polo Nord. Si rinvenne l’insetticida anche nel grasso delle foche e degli orsi bianchi che si nutrivano di pesci che rientravano dal Mediterraneo dopo avervi deposto le uova. Contemporaneamente iniziò a diminuire la fertilità dei maschi umani. Gli scienziati scoprirono poi che il DDT ingerito con gli alimenti possiede sull’uomo un effetto antiandrogeno, cioè blocca il sistema ormonale delle ghiandole della fertilità. Successivamente, si scoprì che anche gli anticrittogamici organofosforici dell’agricoltura hanno effetti ormonali femminilizzati per il maschio. Senza saperlo, era stata attuata un’opera di depressione della fertilità maschile attraverso l’inquinamento chimico ambientale. Oltre all’infertilità nelle coppie,  negli stessi decenni del dopoguerra e del “miracolo economico” si iniziò a registrare un aumento dei tumori in generale. L’osservazione corrisponde cronologicamente allo sviluppo delle industrie chimiche, alle estrazioni minerarie e alle industrie di trasformazione metallurgiche, soprattutto dei metalli pesanti. Quei fenomeni patologici evolvettero in parallelo con l’inquinamento ambientale da causa industriale e, come si sa, le vie del passaggio degli inquinanti dalle industrie all’uomo sono infinite.  

Le persone di una certa età ricorderanno che negli anni ‘50-’60 era pericoloso fare un viaggio a Milano indossando una camicia bianca perché il colletto della camicia diventava rapidamente grigio-scuro a causa del deposito di “smog”. Questo termine indica le polveri sottili emesse dai camini delle industrie, commiste all’umidità dell’aria. Milano, la città dei camini industriali perennemente fumanti, attuò un programma di ricollocamento in altra sede delle industrie e dei relativi camini per motivi di salute pubblica. Era contemporaneamente il periodo della crisi delle miniere del Sulcis e dell’Iglesiente. L’esigenza del Nord Italia di liberarsi dall’inquinamento ambientale e l’esigenza di posti di lavoro nel Sud Sardegna imposero alla bussola della politica la direzione da prendersi. Così le industrie vennero portate in Sardegna e nacque il polo industriale più grande e più inquinante d’Italia: quello di Portovesme. L’inquinamento ambientale non era una novità per la nostra provincia, dove da secoli si coltivavano miniere di metalli pesanti e da molti decenni si coltivavano le miniere di carbone Sulcis, portatrici di malattie degenerative, silicosi, tumori, TBC.

I sanitari che hanno lavorato negli ospedali di Carbonia e Iglesias sanno che in questo territorio esistono un numero di tumori e una varietà di malignità istologiche che ha pochi paragoni in Europa. Non se ne conosce il dato statistico certo per la carenza storica di un registro dei tumori locale, pertanto, ciò di cui si tratta riguarda osservazioni dei medici e degli anatomopatologi che si sono confrontati con i tumori del Sulcis Iglesiente dal 1950 ad oggi. Ciò che viene riferito è coerente con le preoccupazioni esplicitate dal Governo nel 1990 nell’atto di dichiarazione del Sulcis come “Area ad alto rischio di crisi ambientale”. Un esempio di patologia molto nota è dato da un particolare tipo di cancro urologico. Si tratta del carcinoma uroteliale che colpisce frequentemente la vescica e raramente il rene. Diversi anni fa una rivista pubblicò che nel Nord Italia quel tipo di cancro colpiva il rene nel 3% di tutti i cancri renali. Confrontando con i dati dell’ospedale Sirai di Carbonia, si scoprì che nella nostra area invece quel tipo di tumore è percentualmente molto più frequente rasentando il 30%, cioè 10 volte tanto che a Milano. 

Considerato che il carcinoma uroteliale è in diretto rapporto con l’inquinamento da causa industriale e ambientale, si comprende quanto maggiore sia stata la nostra esposizione rispetto ai milanesi. Questa esperienza è un’ulteriore conferma del danno ambientale e alla salute che ci pervenne con il ricollocamento delle industrie inquinanti dal Nord Italia al Sud Sardegna.

Il trasferimento di materiali inquinanti da altri luoghi verso il Sulcis non è mai finito. Pochi giorni fa una nave ha scaricato, destinati a Portovesme, 8 containers pieni di “fumi d’acciaieria” con livelli radioattivi oltre i limiti consentiti, fermati ai controlli. Si tratta di materiali di risulta provenienti da fonderie o industrie a noi sconosciute contenenti: mercurio, vanadio, arsenico, berillio, rame, cobalto, cesio, e chissà che altro. In genere la provenienza è dall’Est Europeo. Circa 30 anni fa ad una nave simile venne impedito di scaricare un carico radioattivo formato da “fumi d’acciaieria” che pare provenissero dalla centrale nucleare ucraina di Chernobyl. 

Nella delibera sulla dichiarazione di “ Zona ad alto rischio di crisi ambientale” pubblicata dal ministro dell’Ambiente il 30 novembre 1990, sta scritto che dai camini del polo industriale di Portovesme allora venivano eruttati nei nostri cieli tre tonnellate di polveri ogni ora. Un’enorme quantità di polveri, provenienti dalla lavorazione di materiali inquinanti, pari a 70 tonnellate emesse ogni giorno poi ricadeva sulle case, sulle piante, sui suoli, sulle colture, sui prati dei pascoli, sui corsi d’acqua e in mare. L’erba assorbiva le sostanze tossiche, gli animali al pascolo se ne nutrivano, noi mangiavamo carni e latte di tali animali assumendone le sostanze chimiche incluse. Similmente avveniva con frutta, ortaggi e cereali. Ciò avvenne per 20 anni. Nel mare della laguna di Santa Caterina i mitili oggi sono scomparsi; i piccoli crostacei, i muscoli e i pesci si sono rarefatti. Esiste un’ordinanza che vieta la pesca di arselle e muscoli della laguna a causa dell’alto tasso di metalli pesanti nelle loro polpe. Nonostante la solenne promessa di grandi finanziamenti da parte dallo Stato per disinquinare il nostro ambiente, il danno è ormai perenne e irrisolvibile. L’unico provvedimento assumibile da parte dello Stato è l’impegno alla sorveglianza sanitaria continua della popolazione e alla cura immediata in loco. Purtroppo, però, nonostante l’impegno di salvaguardia della salute preso con noi dal ministero dell’Ambiente nel 1990, oggi sta avvenendo il contrario.

In contrasto con l’evidenza dell’alto rischio patologico che corriamo, stiamo tutti assistendo alla chiusura progressiva dei nostri ospedali, alla sottrazione di personale sanitario, alle lunghe liste d’attesa. Per curarci dobbiamo migrare verso altri territori, spesso, a nostre spese. 

Tale condizione è diventata obbligata  dopo l’avvenuto depotenziamento degli 8 ospedali provinciali delle 8 province sarde (Olbia/Tempio, Sassari, Nuoro, Oristano, Ogliastra, Medio Campidano, Sulcis, Cagliari). Il depotenziamento di 6 Asl è avvenuto per sottrarne le funzioni e accentrarle nell’unica super-ASL di Cagliari. Ciò fu attuato per ridurre le spese di tutta la Sanità sarda e per farlo si creò un’unica ASL sovrana, a Cagliari. Ci eravamo illusi che la democrazia sanitaria realizzata dalla legge 833/78 sarebbe durata nel tempo.

Oggi, dopo aver vissuto l’inefficacia della “Dichiarazione di zona ad alto rischio di crisi ambientale” che avrebbe dovuto garantire la sorveglianza della salute nell’area comprendente i territori di Carbonia, Portoscuso, Gonnesa, San Giovanni Suergiu, Sant’Antioco, stiamo per vedere di peggio: sta avvenendo che tre regioni del Nord Italia ci vogliono tagliare fuori dalle garanzie dell’articolo 116 e 117 della Costituzione che dettero alla Sardegna lo status di “Regione Autonoma Speciale” con il diritto alla protezione economica garantita dal “Fondo Perequativo”. Tale fondo nacque per equipararci, dal punto di vista “strutturale”, alle regioni più dotate nei seguenti campi: Sanità, Istruzione, Trasporti pubblici locali. Quel dettato costituzionale non venne mai realizzato e non risulta a tutt’oggi rispettato. Per quanto riguarda la Sanità del Sulcis Iglesiente, non abbiamo avuto reali miglioramenti rispetto alle strutture ospedaliere del dopoguerra (nel dopoguerra avevamo 750 posti letto ospedalieri tra Carbonia e Iglesias, oggi ne abbiamo molto meno di 300). I trasporti pubblici oggi sono costituiti da una poverissima rete ferroviaria e da trasporti aerei e navali costosi e insufficienti, e con la sostanziale assenza del rispetto del diritto alla “continuità territoriale col continente”. Con la proposta di legge di “Autonomia regionale differenziata” in discussione in Parlamento. potrebbe avvenire il declassamento delle scuole e, soprattutto, delle Università sarde. Se avvenisse un inferiore finanziamento delle nostre Università, i titoli di laurea sardi potrebbero valere molto meno di quelli acquisiti nelle università del Nord Italia. Si capisce cosa avverrebbe ai concorsi tra i candidati sardi e quelli del Nord Italia. Questa legge sull’Autonomia differenziata sta inventando un’anomalia dell’amministrazione dello Stato non prevista dalla Costituzione: sta inventando le “Regioni sovrane” del Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) che non avranno bisogno né del Parlamento per varare leggi né dell’Italia unita per formare un’unica Nazione.

Così va la Storia. Noi sardi nel 1854-56 facemmo la guerra di Crimea per ingraziarci i francesi e ottenere il loro appoggio per liberare il Lombardo Veneto quando era l’estrema periferia del dominio Austroungarico. Poi ci prendemmo le industrie inquinanti del Nord per salvarle dall’inquinamento e cedemmo a quelle industrie la nostra salute in cambio di lavoro. Da quella nostra disponibilità sono poi derivati l’inquinamento, i tumori, lo spopolamento, il mancato rispetto del nostro Statuto e oggi il mancato diritto al “Fondo Perequativo” costituzionale. 

Nel 2024 non abbiamo più i nostri ospedali provinciali, i nostri tribunali, la nostra rete ferroviaria e i porti ad essa afferenti. Fra 40 anni non avremo più la nostra popolazione, estinta a causa di una politica che sta ignorando le regole democratiche della partecipazione popolare e che sta consentendo progetti di sfruttamento delle risorse naturali di questa terra e delle persone che la abitano.

Mario Marroccu

Immaginare i “buchi neri” è piuttosto impegnativo. Li ipotizzarono i Professori Fisici nucleari che posero le basi della “meccanica quantistica” e della “teoria della relatività”. Quando immaginiamo un buco nero, tutti pensiamo ad un nero abisso in cui si può essere inghiottiti senza ritorno. 

Invece i “ buchi neri stellari” sono quelli descritti dai fisici teorici. Da quelle basi scientifiche nel 1945 emerse il progetto delle prime bombe atomiche che distrussero Hiroshima e Nagasaki. 

Il professor Robert Oppenheimer spiega in una sua lezione che il buco nero è il fenomeno fisico più terrificante dell’Universo. Esso è capace di risucchiare i pianeti, le stelle e anche le intere galassie, facendoli scomparire in un “nulla” inconcepibile per la mente umana. È il fenomeno astrofisico più vicino alla morte biologica. Secondo Oppenheimer i buchi neri stellari si formano quando le stelle di massa superiore a 8 volte il Sole esplodono come “Supernovae”. Il materiale dell’esplosione forma una coltre pesantissima che circonda il nucleo della stella, generando sopra di essa una “forza gravitazionale “immane”. Ad un certo punto il nucleo non regge più quel sovraccarico e “implode”. È molto difficile immaginare il nucleo che si collassa su se stesso, soprattutto, se si considera che il nucleo delle stelle è fatto della stessa materia densissima e durissima che dette origine all’Universo. Eppure può esistere un peso eccessivo ancora più grande che, circondando la stella, la comprime fino a far crollare la struttura atomica del suo nucleo e annientarlo. Al suo posto si forma un “buco nero” che ha un potere di risucchio immane su tutto ciò che lo circonda. Niente gli può resistere, neppure la luce. Anche i “fotoni” della luce e la loro onda elettromagnetica vengono risucchiati nel buco nero, schiacciati e azzerati. La luce che vi entra non può più tornare indietro. 

Gli scienziati affermano che il nostro Sole non dovrebbe diventare mai un buco nero perché non è gravato da onde gravitazionali tanto grandi da farlo implodere. Pare che le esplosioni termonucleari, con cui ci irradia di luce e calore, gli facciano da scudo. 

Tutti dovrebbero sentire la lezione di Oppenheimer per entrare nel mondo della fisica e, soprattutto, dovrebbero ascoltarlo i responsabili della Sanità Regionale Sarda. Avrebbe-ro la prova che accentrando i Servizi sanitari in un’unica “stella-ospedale” della sanità, e aumentando la for-za di attrazione gravitazionale a cui verrà sottoposta, è possibile creare un “buco nero”. 

Quel buco nero, al pari di quello dei Fisici, ha la capacità di risucchiare il Sistema degli ospedali provinciali che ruotano intorno ad esso e di distruggerli. Questo si sapeva già da tempo, tuttavia coloro che progettarono di accentrare tutta la Sanità a Cagliari non sapevano che una volta formato il “buco nero della Sanità”, esso genera problemi da cui è difficile tornare indietro. Adesso l’involuzione del nostro intero Sistema appare inarrestabile; per salvarsi si dovrebbe emigrare in un altro Sistema sanitario, oppure si potrebbe farne uno con i pesi sanitari equamente distribuiti su ognuna delle 8 province. 

Le disposizioni politiche che hanno portato al disastro sanitario a cui stiamo assistendo, iniziarono quando lo Stato nel 1992 iniziò a liberarsi delle sue pregiate proprietà come le Partecipazioni Statali e la Sanità Pubblica. Con le prime perdemmo il più grande polo minerario e industriale d’Italia che era nel Sulcis Iglesiente. Con la trasformazione della Sanità pubblica in una Sanità parzialmente privatizzata, iniziammo a perdere gli ospedali. 

Una quindicina d’anni fa nelle Regione Sardegna fu formulata la teoria dell’accentramento sanitario nell’Isola allo scopo di ridurre le spese. Per questo si pensò di sviluppare due poli sanitari: Cagliari e Sassari. Il polo più grosso doveva essere Cagliari. Poi con la teoria che fosse utile unificare la Amministrazioni delle 8 ASL sarde in una soltanto, si procedette a svuotare di poteri e di disponibilità economica le altre 7 ASL provinciali ,concentrando tutte le funzioni in “1” ASL regionale. Venne sostenuta l’idea che centralizzando gli acquisti e le assunzioni avremmo speso di meno. In realtà la spesa sanitaria aumentò mentre, al contrario, il servizio sanitario continuò a diminuire. Si teorizzò anche l’utilità di concentrare tutti gli investimenti per le nuove tecnologie in un unico centro sanitario regionale. Ciò venne fatto ma naturalmente questo comportò lo spostamento di finanziamenti dagli ospedali provinciali e quelli centrali (HUB). Ne derivò anche lo spostamento del personale sanitario dalla Provincia al Centro. Tale operazione non fu ostacolata perché nessuna delle altre 7 ASL poteva più assumere personale né fare acquisti, e ciò avvantaggiò l’unica ASL centralizzata. Era nato, per la Sanità, il più grande centro gravitazionale ospedaliero della Sardegna. 

Tale concentrazione di potere politico, di finanziamenti, di personale, di attrezzature, e di strutture tutte su Cagliari avviò un fenomeno che Oppenheimer avrebbe previsto, ma i politici e i teorici di stampo bocconiano non capirono. 

Così è stato fabbricato un “buco nero” sanitario che oggi Cagliari non può più sostenere. Il Brotzu non riesce più a proteggersi dalla forza di attrazione gravitazionale con cui ha attirato pazienti provenienti da tutta la Sardegna e, teoricamente, dovrebbe implodere. Non è un’esagerazione. L’ha fatto capire chiaramente l’allarme che abbiamo letto pochi giorni fa sui quotidiani lanciato dalla dottoressa Agnese Foddis, D.G. dell’Azienda Brotzu di Cagliari. 

Chi ha avuto l’esperienza di passare negli ospedali cagliaritani ha visto, toccato, udito il disagio provocato dalle barelle in “fila d’attesa” negli anditi dei reparti di degenza. 

I pazienti provenienti dalle province vogliono essere curati per quelle patologie gravi e urgenti che nessuno degli ospedali provinciali può più accettare e che il Brotzu ormai non può più assistere. 

Nelle Province molti stanno subendo l’umiliazione delle “liste di attesa” per ottenere una TAC, una Risonanza magnetica o visite specialistiche. 

Questo avviene nella più grande “Stella ospedaliera” in Sardegna, Cagliari, che sta implodendo nel suo buco nero. Purtroppo, quel buco nero, fabbricato da politici improvvidi, sta risucchiando e annientando il personale, le attrezzature e i finanziamenti spettanti agli altri ospedali provinciali. 

Questo buco nero adesso è incontrollabile e non si fermerà spendendo 12 milioni di euro per le “liste d’attesa”. 

Dopo il film “Oppenheimer” è fortemente consigliato leggere i quotidiani sardi e seguire le cronache della paralisi progressiva degli ospedali (Nuoro, Oristano, San Gavino, Iglesias, Carbonia). 

Che fare? I fisici nucleari ci risponderebbero che il Sole si difende dalle forze gravitazionali con proprie esplosioni termonucleari continue. Questo dovrebbero fare gli ospedali provinciali. Far riesplodere la loro vita con l’autonomia gestionale e la politica locale. Salverebbero se stessi e Cagliari. 

I Sindaci e i Politici forniti di coscienza propria ci assistano! 

Mario Marroccu

Enzo Jannacci era un medico ospedaliero specializzato in Cardiochirurgia che operava a Milano e qualche vola a Città del Capo con Christian Barnard. Fuori dall’ospedale suonava e cantava in un una band le sue canzoni comico-demenziali. Nel 1968 lanciò l’immortale canzone:
«Vengo anch’io?…no, tu no!». A dispetto del titolo un po’ fesso egli descriveva che razza di gente siamo noi italiani: bravi a curare l’apparenza in pubblico e a vivere come se la tragedia della morte riguardasse sempre gli altri e noi ne fossimo i disinteressati spettatori. Il verso principale della canzone descriveva un quadro fedele del nostro modo di partecipare alla disgrazia comune: «Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale… per vedere se la gente poi piange davvero…e sentire che per tutti è una cosa normale (la morte degli altri) …per vedere di nascosto l’effetto che fa…». E’ del tutto vero.

Ci basta presenziare al rito funebre e siamo assolti per la nostra indifferenza alla morte dell’interessato. Enzo Jannacci, dal suo osservatorio privilegiato di un reparto di cardiochirurgia ospedaliera, vedeva questo ossimoro: l’estraniazione-solidale alle disgrazie degli altri.
Oggi la situazione in Sardegna è identica. Siamo in uno stato di grave emergenza sanitaria dove la gente muore davvero ma non succede niente. Eppure servono decisioni rapide, efficaci e anche molto difficili, perché dopo il Covid-19 e la guerra Russo-Ucraina, il mondo è cambiato.
Lo stato di economia da guerra in cui ci troviamo da alcuni anni, indebolirà ulteriormente le nostre finanze e non siamo pronti al peggio. Oltre alla minaccia atomica proveniente dal fronte ucraino, e una simile minaccia dal vicino-medio Oriente, esiste un’altra minaccia: forse si sta preparando una nuova pericolosa epidemia di influenza aviaria. Alle guerre e alle epidemie seguono sempre gravi deterioramenti del sistema economico mondiale: carenza di carburanti, distruzione di fonti alimentari, emergenza energetica e dei trasporti, arresto della produzione industriale e manufatturiera, difficoltà nelle comunicazioni, perdita di valore della moneta, crollo della natalità e, soprattutto, povertà.
Si può immaginare cosa avverrà del nostro Sistema Sanitario già in crisi. Appare incredibile la mancanza di percezione dell’emergenza. I vincitori della recente battaglia elettorale sono schierati davanti al capo in attesa delle medaglie al valore da appuntare sul petto in un rituale obbligato ma l’esultazione è anzi tempo: la vera guerra è ancora all’inizio e ci sono provvedimenti importanti da prendere con urgenza.
Un ultimo articolo comparso recentemente sui quotidiani sardi, ha raccontato il dramma di una donna deceduta in un ospedale senza aver avuto il massimo delle cure a causa della carenza di personale.
E’ un fatto gravissimo. E’ un segno della compromissione della sicurezza sanitaria pubblica e i politici dovrebbero sobbalzare sulla sedia e concentrarsi su questa pista.
Attualmente, nei nostri ospedali, il pericolo per cui urgono provvedimenti si chiama: “Carenza di personale”. Il personale sanitario sottratto ai nostri ospedali dovrebbe essere urgentemente riportato indietro.
Questo provvedimento non verrà mai preso se il potere politico non lo imporrà. La concentrazione del personale sanitario nelle ricche strutture sanitarie delle città capoluogo ha impoverito drasticamente gli ospedali provinciali e nessuno adesso sa come compensare quelle perdite di specialisti. Questa situazione viene dal passato e venne generata da leggi scritte alla fine degli anni’90. Per effetto di quelle leggi si dette avvio alla costruzione di un nuovo Sistema logistico dell’apparato sanitario in cui i tecnici dominano assoluti e in cui politici sono esclusi. Ne consegue che manca, alla cinghia di trasmissione tra popolo e Burocrazia sanitaria, l’anello più importante: la “mediazione” del “politico eletto”.
Cosa è l’apparato logistico? E’ la struttura burocratica il cui compito è quello di mettere l’apparato operativo in condizioni di poter lavorare. Cos’è l’apparato operativo? È l’insieme dei medici e degli infermieri che operano negli ospedali e nel territorio. Cos’è l’apparto strategico? È l’apparato politico che ha il dovere di legiferare e di programmare il futuro del sistema sanitario. La funzione politica è delicatissima; essa si basa sulla capacità di “mediare” tra le richieste di servizi e la possibilità di fornirli attraverso la redistribuzione dei fondi raccolti col fisco. Da ciò deriva l’enorme responsabilità del politico nei risultati che ne conseguiranno. Se le parti tra politica e burocrazia vengono invertite, il sistema sanitario crolla. L’anomalia del “travaso di potere” dalla Politica all’apparato logistico si verificò in un momento di carenza di iniziativa politica e di capacità di programmazione. Fummo tutti distratti: mancò il controllo sulle conseguenze che sarebbero venute con certe leggi di uscita dello Stato dalla gestione dei Servizi essenziali. Chi è il controllore che può rimettere ordine? E’ il cittadino nel momento in cui vota. Col voto il cittadino nomina il suo rappresentante: il politico eletto. Per esempio, nei comuni il rappresentante popolare che controlla e programma l’apparato amministrativo è il sindaco. Nelle Regioni è il presidente della Giunta che delega gli assessori. Da queste premesse si capisce l’importanza che la Politica-governante mantenga fermo il suo controllo nel mondo della Politica-praticante: quella che fornisce il servizio pubblico.
Nell’ultima decina d’anni è stata architettata una nuova macchina logistico-burocratica che sta detenendo il monopolio della sanità regionale sia nella fase di “Programmazione “ sia nella fase “Esecutiva” ed è stato messo a capo di essa un esperto in campo amministrativo. Nessuno contesta il potenziale di efficacia che può esprimere un consesso di ottimi burocrati nel gestire la logistica del sistema sanitario.
Purtroppo però, attualmente la direzione politica sul Sistema logistico risulta debole. Manca l’equilibrio dei poteri di feed-back negativo (autoregolazione) tra politici e gestori della Sanità pubblica.
Le Giunte regionali precedenti misero, a capo della gerarchia burocratica, un tecnico in qualità di assessore non eletto. Così venne realizzato un quadro amministrativo della Sanità veramente singolare:
il Sistema Sanitario Regionale finì totalmente in mano all’apparato logistico. In un sistema come questo, il popolo ha di fatto perso la sua prerogativa di esercitare il “controllo” col voto.
Da anni persiste questa dinamica anomala:
– il popolo vota per nominare il controllore politico dei suoi interessi;
– il politico che è stato votato non può controllare, perché viene lasciato senza poteri;
– l’apparato logistico-burocratico occupa i posti del potere, ed è senza controllo popolare.
– le misure burocratiche sono basate su calcoli perfetti ma il popolo è scontento dei risultati.
Il caso sanitario riferito all’inizio ci dice che la malattia del Sistema è grave. Ancora più grave è la sensazione diffusa che manchi nei capi la percezione del pericolo.
La situazione sanitaria in cui ci troviamo è difficilissima e si sintetizza in un’espressione: emergenza.
Quando l’emergenza viene affrontata da nazioni ricche tutto si risolve con la messa in campo di immense riserve di capitali.
Quando l’emergenza deve essere affrontata da nazioni già molto indebitate e dipendenti da altre nazioni per le fonti energetiche, alimentari e per la sicurezza, bisogna ricorrere a mezzi più modesti. Noi siamo fra questi.
Davanti all’emergenza e in assenza di grandi fondi disponibili, si potrebbero prendere decisioni che non comportano un aumento di spesa ma che servirebbero a migliorare la funzionalità del sistema come:
1 – Obbligare i Politici eletti a rioccupare il centro della Sanità;
2 – Limitare l’utilizzo dei tecnici alle consulenze;
3 – Riportare i Sindaci al vertice delle ASL con funzioni di programmazione e controllo.

Una volta restituito il vertice gerarchico della Sanità alla Politica sarebbe necessario mettere ordine alla gerarchia delle funzioni ospedaliere.
Già in passato, nella legge sulla “rete regionale ospedaliera del 2017” vennero istituiti gli ospedali con funzioni di “HUB”, cioè di centro in cui convogliare tutte la patologie più impegnative, e vennero identificati gli ospedali “SPOKE”, cioè quelli che dovrebbero selezionare i pazienti più complessi e inviarli agli “HUB”; infine, furono individuati gli “ospedali di base” che di norma non si dedicano all’emergenza. Questa distinzione è importantissima, perché da essa dipende la dotazione organica del personale. Dato che il problema è proprio la “carenza di Personale”, tale distinzione è cruciale. Da questa distinzione dipende quanto personale spetta ad ogni tipologia di ospedale. Una volta stabilita la dotazione organica dovuta ad ogni tipo di ospedale, è facile calcolare la spesa futura e procedere alle assunzioni. Ciò deve essere chiarito da una specifica “legge sugli organici”. Tale legge per ora non c’è.
Questa carenza è causa del caos del Personale.
Le uniche strutture ospedaliere che possono sapere di quanto personale abbisognino sono le Case di cura private, che infatti non hanno problemi. Ciò è possibile perché il loro lavoro è facilmente prevedibile e programmabile in quanto esse non erogano prestazioni sanitarie in urgenza ed emergenza. Mancando l’“urgenza” esse possono concentrare il lavoro nelle sei ore del mattino, dalle ore 8 alle 14. In quel turno gli organici sono presenti al completo. Invece nei turni della sera, della notte e dei giorni festivi l’organico è ridottissimo. Basta un medico di guardia per tutta la Casa di Cura e pochi infermieri per l’assistenza corrente ai degenti.
Negli Ospedali “HUB” dello Stato è tutto diverso. In essi il lavoro è perennemente intenso, 24 ore su 24.
Significa che per ogni turno devono essere presenti gli organici completi di medici, infermieri, tecnici e consulenti specialisti, che sono necessari in emergenza. Il dispendio di Personale, materiale e ore lavorate è enorme.
Gli ospedali di Base non trattano emergenze e pertanto hanno necessità di poco personale, che è facilmente programmabile.
Il problema si pone per gli attuali 8 ospedali provinciali delle ASL sarde .
Questi 8 ospedali, in teoria, dovrebbero inviare le grandi emergenze all’ospedale “HUB” (es. Brotzu); in realtà prima di farlo devono dirimere il dubbio se si tratti di pazienti complessi o meno. Questa distinzione, tranne i casi di ictus o di aneurisma dell’aorta o di trauma cranio-encefalico-midollare, è impossibile da farsi in breve tempo. Per capirlo bisogna eseguire tutti gli esami ematochimici, radiologici, TAC, RMN e tutte le consulenze specialistiche nell’ospedale provinciale di primo arrivo. Ciò comporta la necessità di avere personale specialistico immediatamente disponibile e, se il caso, procedere a interventi chirurgici in estrema urgenza.
Ne consegue che per tutti i turni, 24 ore su 24, in qualunque giorno della settimana, anche in questi ospedali è necessaria una dotazione di personale piena.
Lo stato delle cose a cui stiamo assistendo ci dice che nel sistema ospedaliero “Provinciale”, come il nostro, la dotazione organica è estremamente carente. Per non incorrere in gravi rischi si è pensato di risolvere il problema della responsabilità medico-legale ricadente sui gestori con un metodo drastico: la chiusura dei reparti specialistici dedicati all’urgenza. E’ la logica della “tecnica difensiva a scanso di responsabilità”. Questa è la tipica e legittima soluzione “tecnicamente perfetta”.
La soluzione politica sarebbe stata molto diversa: il Politico avrebbe impedito la chiusura del reparto e cercato Personale di supporto. L’avrebbe fatto per non perdere il favore dell’elettorato. La differenza tra tecnico e politico, infatti, sta nel fatto che il politico è sotto esame continuo dei cittadini, e può essere duramente punito col voto. Il tecnico “no”: non perde voti e neppure il posto. Non c’è equilibrio né deterrenza.
Di questo passo, si potrebbe arrivare alla chiusura totale dell’ospedale.
Prima di arrivare al punto “zero” della curva del fallimento è necessario che qualcuno faccia richieste simili a queste:
1 – E’ necessario che si classifichino ufficialmente e realisticamente gli ospedali per sapere quali siano quelli ad alta intensità di cure, quelli a media e a bassa intensità.
2 – Si deve chiarire se “tutte” le urgenze vadano trasferite al centro “HUB” di Cagliari o trattate al DEA di I livello.
3 – Si deve chiarire, con una legge, quale debba essere la dotazione organica che spetta ad un ospedale DEA di I livello (di emergenza), come è il Sirai. E’ la decisione più urgente. Senza questa legge chiunque continuerà a sottrarci personale medico e infermieristico.

La risposta a tali richieste è difficilissima e ha molte implicazioni soprattutto di tipo economico.
In attesa di un’improbabile risposta, si potrebbe prendere la decisione di riorganizzare il lavoro dei sanitari e prendersi cura almeno dell’essenziale per mantenere in vita il nostro ospedale DEA di I livello.
In una situazione così difficile il Politico potrebbe anche solo dedicarsi alla ristrutturazione della gerarchia del Personale tenendo conto del fatto che la scarsità dei medici e infermieri laureati persisterà per altri 10 anni almeno.
Si dovrebbero necessariamente ristrutturare i contratti di dipendenza prevedendo altre forme più libere per rendere più attraente il lavoro in ospedale.
Il miglioramento delle retribuzioni soprattutto ai primari, ai reperibili, ai medici di primo intervento, e agli infermieri laureati e tecnici ospedalieri potrebbe essere un incentivo per attirare i libero-professionisti nell’area della dipendenza pubblica.

Un passo importantissimo sarebbe la rivitalizzazione del Consiglio dei sanitari attraverso una nuova forma di indipendenza, autorevolezza, e autonomia con una posizione stabile e determinante come componente degli organi della ASL.

A condizioni di lavoro, prestigio e retribuzione migliorate il medici specialisti non desidererebbero più abbandonare gli ospedali ma, al contrario, gli specialisti che oggi lavorano esclusivamente in libera professione troverebbero più gratificante l’ospedale e potrebbero convertirsi ad ottenere un contratto come strutturati.
Questo ragionamento, con soluzioni concrete, può essere fatto solo in un ambiente politico, cioè con quella parte dello Stato che formula proposte di legge, o cambia le leggi.
Il ritorno dei politici alla assunzione delle responsabilità in campo sanitario, al merito per i risultati ottenuti e all’esame dell’elettorato, è essenziale.
A questo punto, se l’evoluzione geopolitica assumesse aspetti più inquietanti, saremmo un po’ più pronti ad affrontarli e si dovrebbe cambiare il testo della canzone del nostro cardiochirurgo-cantante-comico-demenziale Enzo Jannacci.

Mario Marroccu