Il “curare” è diverso dal “prendersi cura”. Questo è una rivoluzione culturale della Sanità – di Mario Marroccu
I vincitori delle elezioni politiche, di qualunque colore siano, hanno in comune uno stesso mantra: «… la Sanità e le liste d’attesa sono il primo problema da risolvere immediatamente». La soluzione è pure simile: «… impegnare milioni di euro per le liste d’attesa». Una soluzione che ha l’aspetto di una medicina per ridurre la febbre del momento ma non adatta a curare la malattia del Servizio Sanitario pubblico. Noi ci aspetteremmo la riapertura dei reparti specialistici nei nostri ospedali provinciali, l’assunzione del personale mancante e il riavvio di una Sanità su nuovi criteri etici. Invece no. Quei milioni sono destinati a riconoscere un onorario extra a quei medici che faranno visite in più. Poi, una volta studiati, i pazienti non troveranno posto per essere ricoverati, operati, curati, perché i posti-letto e gli specialisti non ci sono. Di fatto la “relazione di cura” non inizierà. L’utilizzo degli straordinari o di medici a contratto, è utile a far diminuire la lunghezza delle liste d’attesa ma non è utile a far diminuire il numero di persone che aspirano a passare dallo stato di malato allo stato di sano, nel corpo e nello spirito, perché di questo è fatta la persona umana. Questa soluzione, basata su criteri economicistici che andrebbe bene per una fabbrica di “bulloni” (come paragonò un professore bocconiano che voleva trasferire le regole gestionali di una fabbrica a un ospedale), manca della necessaria coniugazione fra l’atto tecnico del “curare” un corpo e l’atto umano (antropologico) del “prendersi cura” della persona che c’è in quel corpo, fino alla conclusione dello stato di disagio fisico e psicologico, e al totale recupero alla famiglia, alla società e al mondo del lavoro. Per ottenere questo risultato è necessario che si instauri una “relazione” tra la persona malata e l’apparato che lo assiste, e che a questa “relazione” venga destinato del “tempo”. E il “tempo“ è direttamente proporzionale al numero e al valore delle persone impegnate nella “cura”. Per descrivere la differenza sostanziale tra il “curare” e il “prendere in cura qualcuno”, può essere utile usare l’ esempio di due fatti realmente accaduti.
Un anziano sacerdote (70 anni) si trovava ricoverato in un ospedale per la cura del suo cancro al fegato. Un signore andò a trovarlo. Lo trovò triste, adagiato nel suo letto, affiancato da un altro paziente terminale nelle sue condizioni. Alla domanda sul come stesse allargò le mani e indicò il muro di color celeste che gli stava davanti, sul quale era un piccolo crocifisso. Raccontò che il personale, scarso e indaffarato, si vedeva fugacemente solo nei pochi istanti in cui venivano distribuite le pillole. Tutto il giorno poteva parlare solo col crocifisso e col muro. Alla richiesta di piccoli servizi alla persona, otteneva frequentemente la stessa risposta: «Aspetti il prossimo turno; chieda a loro». L’anziano sacerdote morì.
Dopo qualche mese quel suo generoso visitatore si accorse di avere un cancro al polmone già metastatizzato. Per una strana sorte venne ricoverato nella stessa stanza e nello stesso letto del prete. Allora capì cosa significasse avere, come unico interlocutore, il muro celeste davanti a lui e il crocifisso. Stavolta c’era una novità: a fianco del crocifisso era stato appeso un televisore. Guasto.
Iniziò il suo mese di degenza fra chemio e TAC. Il rapporto col personale curante era esattamente identico a quello riferito dal prete: scarso, in un fuggi fuggi indaffarato, senza tempo per scambiare una parola e instaurare una “relazione”. Aspettava, per le piccole necessità fisiche, l’arrivo della moglie che ogni mattina prendeva il treno alla stazione di Carbonia, raggiungeva la stazione di Cagliari e, da lì, con un pullman, raggiungeva l’ospedale. Di sera faceva il percorso inverso. Fu il suo appiglio per resistere. Poi morì.
Il concetto rappresentato da queste immagini è che l’ospedale è un “campo di lavoro” che, per sua natura, è anche un “campo di vita” in cui si devono intrecciare “relazioni” e anche a questo fine dovrebbe essere organizzato il lavoro. Questo è il punto: in quell’ospedale avveniva la “cura”, ma per scarsità di personale e di tempo mancavano le “relazioni” necessarie al “prendersi cura” dell’altro.
Curare e prendersi cura sono due attività dell’uomo molto diverse. Mentre il “curare” si ottiene investendo denaro pubblico, il “prendersi cura” ha bisogno invece di una rivoluzione culturale. Ha bisogno di più “tempo”, più “empatia” e “più valore” riconosciuto per tutti gli attori coinvolti nel dramma.
Ecco un altro esempio che merita d’essere riferito. Alla fine degli anni ‘70 vi furono scioperi molto duri che coinvolsero anche gli ospedali in tutta Italia. Nel reparto Medicina di un nostro ospedale vicino lavorava un medico speciale. Accortosi che la camera dei malati di cui era responsabile era in condizioni igieniche gravi, fece questo: indossò una tuta da operaio, prese secchio, sapone e straccio, e lavò il pavimento dalle secrezioni umane che lo imbrattavano. Poi cambiò le lenzuola ai letti più compromessi. Finito il lavoro si rimise in ordine, indossò il camice da medico e iniziò il giro delle visite col Primario. Questo fatto descrive esattamente la differenza tra il “curare” e il “prendersi cura” empatico di qualcuno.
L’ospedale è un campo di lavoro in cui le disuguaglianze giocano un ruolo centrale nelle relazioni umane. Vi è chi, per il suo ruolo stabilito dalle regole, è dominante, e vi è chi si trova in un rapporto inferiorizzato. Questo genere di rapporti è molto delicato e va gestito con prudenza perché a causa dei diversi ruoli può avvenire, tra gli attori, un processo di distanziamento. Se non si ha la cura di evitarlo può avvenire che il distanziamento peggiori fino alla marginalizzazione del più debole. Diventa, insomma, un problema esistenziale in cui la marginalizzazione induce uno stato di subalternità, che può trascendere fino all’emarginazione e all’esclusione. Nel caso che ciò avvenga, potrà avvenire la cessazione del “prendersi cura” dell’“altro”. E iniziano l’abbandono, e l’isolamento. Il deficit di relazioni umane non è compreso fra le competenze della burocrazia sanitaria, e non viene contabilizzato.
Nel primo racconto il malato venne salvato dall’iniziativa personale della moglie che viaggiò tutti i giorni per assisterlo; nel secondo racconto i malati vennero messi al sicuro, dal rischio di marginalizzazione, da quel medico che indossò la tuta da lavoro. Questo è ciò di cui si dovrebbe fare tesoro: in mancanza di un livello etico elevatissimo che riguarda il “prendersi cura”, è necessario attuare iniziative personali per mettere al sicuro la persona presa in cura. Il prendersi cura l’un dell’altro,
vicendevolmente, aumenterà la sicurezza esistenziale del gruppo.
Questa pulsione al “prendersi cura” contro un “rischio esistenziale” che può essere anche letale, eccede i doveri della amministrazione sanitaria, ma certamente fa parte dei doveri della politica.
L’empatia è l’anello che unisce il cittadino, che attende risposte, al politico che gli fece la sua promessa di presa in carico. Con le difficoltà organizzative emergenti sarà necessario aumentare l’umanizzazione dell’apparato sanitario, passando da un’organizzazione di tipo economicistico a una di tipo etico.
Ormai è chiaro che il problema della sanità pubblica è destinato ad aggravarsi e che la soluzione non può essere progettata solo dai contabili di stato.
I problemi demografici produrranno un cambiamento della struttura sociale e si dovranno escogitare nuove regole per facilitare l’interscambio di vicendevoli cure.
I numeri non lasciano dubbi. In queste ultime ore è stato pubblicato dall’OCSE il rapporto Health at a Glance Europe 2024 nel quale si sostiene che oltre il 30% degli italiani ha un’età superiore ai 65 anni. E’ noto che per queste età si consuma circa il 90% della spesa del Fondo Sanitario Nazionale, dato destinato a peggiorare.
Già oggi il fondo statale per la spesa sanitaria è di 586 euro inferiore alla media europea. Più della metà dei nostri medici ha un’età superiore ai 55 anni. Il 20% dei medici in servizio ha superato i 65 anni d’età. Per quanto riguarda la dotazione italiana in personale infermieristico la situazione è preoccupante.
Abbiamo 6 infermieri ogni 1.000 abitanti, contro la media europea di 8 infermieri per 1.000 abitanti. La spesa italiana pro capite è di 2.947 euro contro i 3.533 della media europea. Destiniamo solo il 10% del totale della spesa sanitaria alle malattie a lungo termine, mentre l’Unione europea destina il 15 %. In Europa vi sono 4,2 medici per 1.000 abitanti mentre in Italia sono solo 3,2.
Considerato che l’aspettativa di vita è aumentata, dobbiamo aspettarci un futuro con sempre più vecchi e sempre meno medici e infermieri.
Programmare l’evoluzione della nuova Sanità Pubblica è adesso una necessità ineludibile.
Mario Marroccu