21 November, 2024
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Tenere in ordine i conti pubblici sanitari è materia molto difficile ed è riservata agli specialisti; ma c’ è una materia, molto più complessa, ed è il benessere sociale globale. Questa è materia dei politici. Materia ancora più difficile è quella riservata al cittadino il quale ha il compito di controllare il servizio pubblico ma che, essendo privo delle conoscenze tecniche, basa il suo giudizio sulle esperienze della vita quotidiana. Queste sono tre linee di pensiero che spesso corrono parallele e non si incontrano mai. Il cittadino ammalato non è interessato ai “numeri” che vengono dichiarati dagli specialisti di contabilità pubblica, mentre è molto interessato a non diventare un numero senza nome nel bilancio di previsione o consuntivo di un Ente pubblico.
Facciamo alcuni esempi tratti dall’esperienza quotidiana per imbastirvi poi un ragionamento amministrativo.
Prendiamo il caso di due cittadini, realmente esistenti, che raccontano ciò che segue.
Primo caso. Il Medico di Base chiede una “Angio TAC” del cranio per un paziente perché ha il sospetto che esista un problema circolatorio nel suo cervello. Il paziente si rivolge al CUP che provvede a fissargli un appuntamento in una data che comporta 5 mesi d’attesa. Il nostro paziente, avendo disponibilità economica ed essendo molto preoccupato, si rivolge ad uno studio di radiologia privato e ottiene l’esame immediatamente. Il referto dello specialista attesta la presenza di una vasta emorragia subaracnoidea. Si tratta di un’ampia raccolta di sangue (ematoma) nello spazio tra volta cranica e cervello. Dato che la scatola cranica è fatta di osso inestensibile, le forze di schiacciamento prodotte dall’ematoma si scaricano tutte sul cervello danneggiandolo. Se non si provvede subito a svuotare chirurgicamente l’ematoma succede che la corteccia dell’encefalo va in atrofia e il paziente finisce in coma. Si chiama “coma apallico” ed è il tipo di coma che colpì la povera Eluana Englaro, la ragazza che divenne famosa nel 2009 perché il suo fu uno dei primi casi di eutanasia in Italia.
Questa sarebbe stata la sorte del nostro paziente ma, avendo egli una buona disponibilità economica, si salvò con un immediato intervento neurochirurgico seguito alla TAC tempestiva.
Se avesse optato per accettare i 5 mesi d’attesa oggi avremmo un’altra Eluana Englaro.
Secondo caso. Tratta di un paziente che recentemente si è rivolto al CUP per prenotare una colonscopia.
Si sa che questo esame viene eseguito soprattutto quando si sospetta l’esistenza di un tumore maligno del colon. Ha ottenuto la prenotazione per aprile 2025. E’ noto che il ritardo della diagnosi di tumore (19 mesi) non è compatibile con la speranza di guarire dal cancro. Anche in questo caso il paziente ha provveduto a rivolgersi privatamente ad una clinica per ottenere immediatamente l’esame. Nel caso in cui la colonscopia dimostrasse la presenza di un tumore la precocità della diagnosi gli varrebbe il vantaggio di potersi salvare la vita.
Anche in questo secondo caso il Sistema sanitario pubblico non ha concesso al paziente la possibilità di curarsi secondo il dettato dell’articolo 32 della Costituzione. Da questi due esempi si desume che dare l’assistenza in ritardo equivale a non darla e che il principio dei L.E.A. (Livelli Essenziali di Assistenza), nel modo in cui viene applicato, ha fallito. Non basta l’enunciato della legge a darci la sicurezza delle cure perché manca il “controllore” che ne accerti l’applicazione.
Con questa premessa si può già immaginare cosa potrebbe avvenire con i futuri L.E.P. (Livelli Essenziali di Prestazione). Con il termine “Prestazione” si intendono tutte le prestazioni tipiche del servizio pubblico che vanno dalla Istruzione, ai Trasporti, alla Sanità, alla Giustizia, etc…
Dei LEP si fa un gran parlare da quando è in itinere il disegno di legge sull’“Autonomia Differenziata” delle Regioni. Si tratta di un provvedimento che promette alle regioni più svantaggiate la garanzia che verranno mantenuti sempre i “livelli essenziali di prestazioni” per i loro cittadini. Le prestazioni, contenute in un elenco che è in fase di compilazione, sarebbero vigenti nel caso in cui si consentisse alle Regioni ordinarie di gestire autonomamente la propria spesa pubblica. A tal fine queste regioni (le più avvantaggiate economicamente) utilizzerebbero i fondi raccolti con le tasse della stessa Regione come fondi propri; con quei fondi esse gestirebbero i servizi pubblici indipendentemente dallo Stato. In sostanza i servizi pubblici che oggi sono garantiti dallo Stato non sarebbero più statali ma passerebbero sotto la gestione autonoma di ciascuna Regione. Le attuali 5 Regioni autonome continuerebbero a gestirsi con i propri modesti fondi e vedrebbero ridursi il fondo perequativo statale.
Per quanto riguarda la Sanità, i due esempi clinici riportati all’inizio dell’articolo dimostrano la buona fede dello Stato che garantisce il Servizio ma non può erogarlo in un tempo ragionevole. Le stesse “liste d’attesa” sono la dimostrazione che l’assistenza sanitaria non viene mai rifiutata tuttavia essa è prigioniera dei numeri. Il numero fondamentale che governa il Servizio pubblico corrisponde alla quantità di danaro che serve per alimentare il Fondo Sanitario Nazionale. Il FSN (Fondo Sanitario Nazionale) viene costituito con i soldi raccolti con le tasse. Ogni cittadino, versando i contributi, matura un credito che gli verrà pagato sotto forma di di L.E.A. oppure di L.E.P.. Dato che tutti i cittadini contribuiscono equamente a formare il fondo sanitario nazionale ne consegue che tutti hanno diritto a goderne equamente. Ma proprio qui sta il punto. Da quel che si sente non tutti i cittadini ne godono equamente né all’interno della Nazione né all’interno della Regione. Esiste un meccanismo di suddivisione dei fondi da verificare.
La spesa sanitaria pubblica in Nord Europa equivale ad una somma pari a 4.000 euro per cittadino. La media europea equivale a 3.269 euro per cittadino. La media italiana equivale a circa 2.600 euro per cittadino. La media in Sardegna equivale a circa 2.100 per cittadino.
La differenza tra i finanziamenti sanitari di Europa, Italia e Sardegna è grandissima.
In Sardegna i fondi vengono distribuiti equamente per cittadino. Tuttavia, vi sono sperequazioni dovute ad anomalie nella distribuzione dei servizi nel territorio: scorrendo i bilanci delle ASL si nota che la ASL di Cagliari è in gran parte fornitrice di servizi sanitari per tutte le altre ASL sarde. Questi servizi non sono gratuiti; vengono acquistati dalle ASL provinciali che, essendo insufficientemente dotate di personale e di tecnologia, sono obbligate a diventare clienti di Cagliari. La nostra Asl del Sulcis Iglesiente spende circa 30 milioni di euro all’anno per pagare le cure ospedaliere in strutture extra ASL (che in genere sono a Cagliari). Tale somma viene prelevata ogni anno dal nostro fondo. La ASL di Cagliari invece non ha questa spesa obbligata, al contrario, oltre a conservare integralmente la quota ad essa riservata, ha anche un consistente incasso aggiuntivo annuale: glielo pagano le ASL vicine, soprattutto il Sulcis e il Medio Campidano. Con quell’incasso colossale che si aggiunge al fondo di ripartizione generale, la ASL cagliaritana può assumere altro personale e aggiornare il suo corredo tecnologico. Di fatto tale trasferimento di danaro si traduce in un trasferimento di personale, di alta tecnologia e di reparti ospedalieri che da noi vengono chiusi mentre lì vengono incrementati. Se quel fondo restasse nella nostra ASL, potrebbe consentirci di assumere personale medico, infermieristico e tecnologia e, soprattutto, ci farebbe abbattere le liste d’attesa. A tali fattori di debolezza economica che ci affliggono, fa seguito la scarsità di assistenza sanitaria di cui siamo tutti testimoni quotidianamente. Tenendo conto di questo calcolo si comprende perchè i due casi clinici raccontati all’inizio ebbero certamente la possibilità teorica d’ottenere il servizio richiesto (TAC e colonscopia), ma la ottennero a patto di accettare il loro inserimento in una enorme lista d’attesa che avrebbe vanificato la loro speranza di guarigione.
La coscienza pubblica e la politica regionale dovrebbero cimentarsi con questi numeri.
Contemporaneamente i nostri amministratori locali dovrebbero riottenere il potere di un reale controllo del funzionamento della ASL e del suo finanziamento. La loro funzione non dovrebbe limitarsi a valutare l’efficienza della macchina sanitaria locale ma dovrebbe consistere nel guidarla.
Le speranze di miglioramento purtroppo sono poche. La situazione storica è difficilissima soprattutto oggi che il Bilancio dello Stato soffre gravemente a causa dell’inflazione, dell’altissimo debito pubblico, dell’enorme problema demografico, del problema energetico ed ecologico, della richiesta degli industriali di fermare la spesa corrente (stipendi, pensioni, servizi pubblici essenziali) e non esiste un piano per una soluzione ideale.

Mario Marroccu

Il patrimonio culturale sulcitano si arricchisce di un dipinto del XVII-XVIII secolo rappresentante Nostra Signora di Bonaria con Bambino e Sant’Antioco orante. L’operazione di recupero della tela che viene presentata è stata la crociata più laica e più veloce della storia. Nacque con una fiammata di entusiasmo che coinvolse in un attimo un gruppo di amici antiochensi sul sagrato della chiesa di Nostra Signora di Bonaria alla fine di un rito religioso. La fiamma venne accesa da Roberto Lai, quando propose di acquistare la grande tela, risalente al secolo di mezzo tra il 1600 e 1700, che giaceva tra i reperti della collezione Gasperini a Cagliari. Non se ne conosceva l’origine esatta, né il luogo di fabbrica, né l’autore, né il committente. Si sapeva che tale oggetto d’arte e di culto aveva avuto una vita travagliata inframezzata da viaggi tra Spagna, Liguria, e Sardegna. Alla fine, era approdata a Cagliari in seguito ad un’asta di oggetti d’antiquariato, avvenuta mezzo secolo fa.
Il proprietario, l’editore Gasperini, non se ne separò mai. Alla morte dell’editore, si seppe che egli aveva desiderato che il dipinto fosse destinato ad un luogo pubblico preferibilmente di culto. La scomparsa del Gasperini comportò l’accoglimento dei suoi desideri da parte dei figli. Roberto Lai lo raccontò in quel sagrato di chiesa al gruppo di antiochensi. La reazione fu immediata: si trattava di dare il via ad un’operazione di acquisizione, a beneficio della popolazione di Sant’Antioco, di un bene culturale di valore inestimabile e di battere sul tempo tutte le concorrenze disposte ad acquistarla a qualsiasi costo.
Fu partecipazione totale di un numero immediatamente grande di cittadini, il cui sentimento e raziocinio erano potenziati dalla passione per la propria storia identitaria.
Il gruppo di amici antiochensi non trovò il Santo Graal, ma si avvicinò a qualcosa di simile. Aveva visto che nell’ineffabile volto della Madonna di Bonaria mentre regge il Bambino con il mondo nelle mani, sono racchiusi i simboli del mistero della fede. Quella Madonna che regge amorosamente il figlio ha l’espressione di una mamma felice offuscata, tuttavia, da una tristezza profonda come se già ne prefigurasse il destino terreno finale.
Nelle tre figure del dipinto, è contenuto il fulcro del Credo Niceno su cui si basa l’idea fondante della Chiesa cattolica Universale: raffigura l’esistenza del Figlio di Dio nato da una donna eletta dallo Spirito Santo; quel Figlio che morirà per la salvezza del mondo, che verrà sepolto e che resusciterà. Su quella nascita e su quella morte, celebrati dai riti della Settimana Santa, è fondata tutta la teologia della Chiesa cattolica. Il Santo orante a lato, che rappresenta la “comunione dei Santi” impegnati a chiedere per l’Umanità la “ remissione dei peccati”, è Antioco di Sulci.
Il dipinto non è né il Santo Graal, né la Sindone, ma è una preziosa opera d’arte destinata a tramandare, con una complessa descrizione figurativa, i misteri della fede.
L’impresa totalmente laica ha raggiunto l’obiettivo. Il dipinto si trova ora tra i “Suoi” e, sopratutto, si trova oggi nella sede pubblica di culto cristiano come desiderò l’editore Gasperini.
Il programma.
Sabato 2 settembre, ore 19.00, Santa Messa concelebrata, presieduta da Sua Eminenza Cardinale Arrigo Miglio.
A seguire la benedizione e la conferenza “La fede venuta dal mare”, con presentazione di un antico quadro, a cura di Roberto Lai.
Per la particolare ricorrenza è stato elaborato un libro illustrato sulle alterne vicende dell’opera acquisita.
Mario Marroccu

Dal primo giugno 2013 esiste una delibera con cui è stata decisa la costruzione dell’ospedale unico del Sulcis Iglesiente. La stessa delibera dichiara che la progettazione e l’esecuzione dell’opera verrà affidata alla ARES (Agenzia Regionale Sanità). Alla comunicazione inviata ai 23 Comuni del Sulcis Iglesiente è stata associata la richiesta di indicare la sede prescelta per situarvi il nuovo ospedale.
La scelta della sede apre a tre possibilità:
I – edificare l’ospedale in una delle due città maggiori;
II – la mancanza di risposta rischierebbe di veder edificato un palazzone qualsiasi in un luogo qualsiasi col pericolo che venga costruito “in mezzo al nulla” lontano dai centri abitati.
III – edificare in un “luogo condiviso” e secondo i “canoni dell’OMS”.
Stiamo vedendo quanto sia fragile il diritto alla salute nel caso in cui non si eserciti il diritto democratico della partecipazione alle scelte.
Allo scopo di evitare che ci venga calata dall’alto la scelta di un progetto burocraticamente perfetto, ma senz’anima, proviamo sommessamente a disegnare con l’immaginazione ciò che potremmo proporre seguendo i canoni ingegneristico-architettonici proposti a livello di OMS e UE.
Lo scopo atteso da tutti è quello di raggiungere, per il nostro territorio, l’autonomia sanitaria strategica per il futuro. Non sarà un semplice edificio di cemento: sarà una piccola città fortemente energivora che vivrà 24 ore al giorno e 365 giorni all’anno.

Ipotetico schema planimetrico dell’area sanitaria secondo le indicazioni emerse dai centri studi italiani e presentati all’OMS e UE.

Relazione allegata per spiegare l’ipotesi disegnata.
E’ fortemente aumentata l’insicurezza mondiale con l’esperienza della Pandemia Covid, con l’attuale minaccia nucleare, il rischio climatico e meteorologico, l’invecchiamento della popolazione, l’incremento delle migrazioni, la penuria energetica e alimentare, la nuova competizione del Sud del Mondo. Così come è già avvenuto nel passato, visto lo stravolgimento storico che stiamo vivendo, dobbiamo dedicarci al rinforzo delle strategie di sopravvivenza finalizzata a ottenere una maggiore autonomia alimentare ed energetica e una maggiore autonomia strategica in Sanità.
Da ciò deriva che per la futura generazione saranno necessari “nuovi criteri” per la progettazione degli ospedali.
I veri “criteri fondanti” dell’ospedale moderno furono quelli “rampiniani” (cardinal Enrico Rampini) del 1450,e cioè:
– umanizzazione,
– igiene,
– servizio idrico e fognario capillare
– corretta aerazione e riscaldamento delle camere di degenza,
– distinzione per “intensità di cure” (pazienti acuti e pazienti cronici),
– distinzione per genere,
– distinzione per specialità medica e chirurgica,
– servizio religioso,
– medicina di prossimità,
– buona gestione sotto controllo pubblico.
Dopo altri 450 anni, finita l’epoca storica delle “epidemie”, e finita la Grande Guerra, emerse un nuovo criterio: la “velocità” di intervento sanitario, sopratutto legata ai grandi traumi e alle emergenze chirurgiche.
Pertanto, fu necessario passare dagli ospedali a “padiglione” su piano orizzontale agli ospedali a monoblocco verticale dotati di veloci ascensori.
Era intervenuto un nuovo criterio: il “tempo” di intervento.
Nel 1930 l’architetto Alvar Aalto interpretò, graficamente, un’idea ancora più avanzata sul come debba essere disegnato il nuovo ospedale, e aggiunse altri due “criteri”:
Primo: il criterio dell’“economia” attraverso il “risparmio energetico” e lo fece progettando un ospedale che avrebbe sfruttato razionalmente la luce solare, orientando le grandi fenestrature delle camere di degenza verso sud-est e disponendo i servizi tecnici e amministrativi nel lato dell’edificio orientato a occidente.
– Secondo: il “criterio della “umanizzazione”. Questo criterio era già presente nell’idea di Enrico Rampini ma Alvar Aalto lo arricchì coll’idea di fornire ai degenti una vista godibile sul panorama circostante e mise in progetto l’esistenza di un grande parco verde in cui si doveva immergere la fabbrica dell’ospedale.
I “criteri” maturati in 2.000 anni di ingegneria e architettura ospedaliera sono tutt’oggi vigenti.

Attualmente sta avvenendo un ulteriore cambiamento per fenomeni sociali mai visti nella storia dell’Uomo:
– l’invecchiamento demografico,
– La sovrappopolazione del globo,
– la rivoluzione della comunicazione,
– La digitalizzazione e la dipendenza obbligata che ne è conseguita.
– La Pandemia Covid che ha messo in luce l’inadeguatezza del sistema Sanitario,

– le emigrazioni,
– la crisi climatica
– la nuova guerra in Europa,
– la paura di un possibile coinvolgimento in “fall-out” nucleare,
– la scarsità di nascite nel mondo occidentale.
– il Sud del mondo che avanza le sue richieste di ricchezza, potere e consumi.
La vistosa carenza di “visione “ della Sanità internazionale, messa alla prova dalla Pandemia, oggi ci obbliga a cambiare la prospettiva di osservazione.
Nel 2.000 Carlo Azeglio Ciampi se ne rese conto e dette incarico all’architetto Renzo Piano di disegnare l’“ospedale del futuro”. Questi produsse un nuovo criterio: “l’Umanesimo”.
Con tale termine egli indicava la necessità di introdurre il concetto di “bellezza” sia nei nuovi edifici che alle aree verdi circostanti destinati all’ospedale. Riteneva che la “bellezza” fosse necessaria per migliorare la qualità della vita dei degenti e del personale sanitario, ed era convinto che avrebbe avuto benefici effetti accelerando la guarigione.
In linea con l’OMS, la Commissione europea ha dato incarico agli scienziati di elaborare i “criteri” adeguati ai futuri ospedali europei.
Aggiungendo i nuovi criteri ai criteri classici del passato, i punti cardine da rispettare sarebbero:
– la flessibilità
– la autonomia energetica,
– la intensità di cure,
– la bellezza e gradevolezza del contenuto della struttura ospedaliera e dell’ambiente circostante (l’Umanesimo).
Secondo la proposta italiana presentata a Baku una decina di mesi fa dagli scienziati del Politecnico di Milano questi criteri dovrebbero essere preceduti da un altro criterio, necessario e imprescindibile: l’accettazione propedeutica di un “modello condiviso” tra gli attori pubblici in campo che sono:
– 1) l’Opinione pubblica,
– 2 ) la Politica,
– 3 ) le Istituzioni Sanitarie.
Secondo l’opinione degli scienziati in assenza della condivisione propedeutica di un modello non si può procedere all’esecuzione del progetto definitivo.
Tra le opzioni, proposte dai vari studi, prevale l’idea che nei progetti debbano coesistere le seguenti strutture:
1 – gli edifici a monoblocco o poliblocco;
2 – l’esistenza di torri parallele destinate all’impiantistica,
3 – l’ospedale per day surgery,
4 – l’ospedale stanziale, con prevalenza di camere singole.
5 – l’Hotel per pazienti dimessi,
6 – Percorsi separati per padiglioni a pressione negativa destinati agli infettivi,
7 – padiglione psichiatrico,
8 – giardino terapeutico (preferibilmente sulle terrazze); miniappartamenti per maternità.
A queste strutture di degenza si assocerebbero:
9 – i locali per i servizi di igiene (sterilizzazione e lavanderia) e di catering (cucine, ristorante),
10 – centrale energetica (pannelli fotovoltaici, etc..)
11 – servizio idrico (da fonti autonome e di rete; produzione di acqua sanitaria), serbatoi,
12 – eliporto,
13 – stazione metropolitana collegata alle città e alla rete ferroviaria,
14 – via d’accesso con immissione diretta ad arteria stradale principale,
15 – grande parco nel quale saranno immersi gli edifici. Superficie di 30 ettari per un ospedale medio.
16 – scelta dell’area in posizione tale da: non essere in ombra a sud-est ed essere ad un’altitudine sufficiente per non incorrere nel rischio di inondazioni; essere in località sismicamente stabile.

17 – ampi spazi sotterranei per parcheggi trasformabili all’occorrenza in rifugi antinucleari.
18 – miniappartamenti per il personale,
19 – edificio di culto
20 – inceneritore
21 – market
22 – Centro studi sia per ricerche universitarie sia per la formazione del personale.
Queste poche note hanno il solo scopo di mantenere viva l’attenzione sul nostro Ospedale del futuro affinché diventi, secondo le indicazioni citate, una piccola città immersa in un parco di 30 ettari di verde.

Tutti sono chiamati a fornire un contributo d’idee per concepire il progetto dell’ospedale del futuro. L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) oltre un anno fa avviò un concorso internazionale di idee per produrre le linee guida sul come progettare i futuri ospedali. A tal fine, alcuni mesi fa venne organizzato un convegno di esperti a Baku in Azerbaijan, a cui partecipò l’Italia, con il Politecnico di Milano.
Il relatore fu l’ingegner Stefano Capolongo, che espose un progetto curato dal “Design and Healt Lab” del dipartimento di Ingegneria e Architettura.
A conclusione di quel convegno la OMS decise di raccomandare a tutti i progettisti l’uso delle linee Guida del Politecnico di Milano.
I criteri di quelle linee guida risentono moltissimo dell’esperienza Covid e, in sintesi, raccomandano:
– infrastrutture flessibili
In particolare, il prof, Stefano Capolongo si è soffermato su:
– Scelta dell’area in cui situare il nuovo ospedale (città o periferia).
– Aree più vaste da destinate alle strutture ospedaliere.
– L’ospedale del futuro dovrebbe avere parti flessibili e rimodulabili col variare delle esigenze.
– Ospedali a strutture multiple a monoblocco verticale, distinte per funzione ma inter-comunicati.
– Sinergia con la rete sanitaria territoriale.
– Aumentare le strutture per i servizi di medicina locale.
– Gestione dell’energia e delle risorse.
– facilità di adattamenti e ampliamenti.
– Sicurezza generale (da incendi o eventi sismici e idrogeologici).
– Riduzione rischi di infezione e contagio.
– Comfort (umanizzazione e standard igienici elevati)
Gli esperti di Paesi bassi e Scandinavia hanno proposto ospedali con camere singole allo scopo di ridurre il rischio delle infezioni ospedaliere e dei contagi.
E’ emersa la proposta di distinguere gli ospedali in base ai tempi di intervento sanitario. Per esempio, vengono distinti gli ospedali ambulatoriali destinati a day Surgery, dagli ospedali stanziali destinati a ricoveri prolungati. A questi si assocerebbero gli Hotel per pazienti destinati ad ospitare i dimessi che non voglio rientrare al proprio domicilio e preferiscono risiedere temporaneamente in prossimità dell’ospedale.
Lo svizzero Eugen Schroeder, direttore dell’ospedale universitario di Zurigo, ha proposto il modello di ospedale a padiglioni con camere singole, situati in campagna, circondati dal verde dei parchi.
Tuttavia, i convenuti hanno fatto notare che nelle strutture modulari a padiglioni sorgerebbero criticità dovute alla difficoltà di gestione del personale che dovrebbe essere numerosissimo e impiegare tempi di percorrenza da un padiglione all’altro, troppo lunghi.
Tutti sono stati concordi sulla necessità di adattare gli spazi alle necessità sanitarie; spesso si è fatto il contrario.
Le discussioni di quel convegno hanno rinforzato l’idea che sia urgente e necessario redigere i criteri nazionali e internazionali a cui devono fare riferimento i committenti dei nuovi ospedali e i progettisti.
Ben 20 anni prima della pandemia, nel 2.000 il professor Umberto Veronesi dette l’incarico a Renzo Piano di progettare l’ospedale del futuro, formulandone i criteri. Oggi, in campo europeo e internazionale stanno prevalendo i “criteri” dell’ingegner Stefano Capolongo, del “Centro nazionale di edilizia ospedaliera”. Il prof. Stefano Capolongo ritiene che in fase iniziale sia imprescindibile creare un modello condiviso tra i vari attori interessati che sono: La Politica, l’Opinione pubblica, le Istituzioni sanitarie, le Aziende sanitarie. Per far ciò è necessario mettere sotto osservazione le esperienze più recenti di costruzioni di ospedali.

Tra gli ospedali più recenti in Italia, c’è il “Papa Giovanni XXIII” di Bergamo. Si tratta di un ospedale da 1.024 posti letto, composto da 7 torri di 5 piani ciascuna. Le torri sono collegate fra loro da percorsi.
La superficie complessiva è di 320.000 mq (32 ettari).
La concezione del Papa Giovanni si basa su una versione rivisitata dell’ospedale a padiglioni ottocentesco. A Bergamo i padiglioni sono spariti lasciando lo spazio alle più moderne torri. Nella città più colpita dal Covid, questa struttura ha consentito, durante la fase peggiore dell’epidemia, di
continuare a gestire i pazienti senza tralasciare le altre patologie, in particolare quelle oncologiche.
Questa esperienza, che ha testato le strutture a torri, è piuttosto interessante.
L’ingegner Stefano Capolongo ha fatto notare che purtroppo gli ospedali nella prima ondata si dedicarono per il 90% al Covid, dimenticando tutte le altre patologie. Questa consapevolezza ha accelerato la riflessione e lo studio di nuovi processi tecnologici. L’esempio di Wuhan e degli ospedali tenda in Italia inducono a catalogare fra i criteri la “Flessibilità” e la “Resilienza”.
Flessibilità.
Questo concetto deriva proprio dalle osservazioni delle modifiche apportate attorno agli ospedali con l’edificazione di strutture mobili, ampliabili e trasformabili. Tali strutture di ricezione, degenza e cura, possono essere create con pareti mobili formate da pannelli metallici rivestiti in PVC e calamitati fra di loro. In questo modo le pareti si possono spostare velocemente al bisogno. Con questo metodo a Wuhan venne costruito un ospedale in due settimane.
Impiantistica.
L’avaria degli impianti all’interno degli ospedali, e la loro riparazione, può provocare gravi disagi al personale e ai degenti. Per evitarli occorre creare per tutta l’impiantistica, spazi dedicati in cavedi tecnici orizzontali o verticali, progettati in modo tale da non interferire con le aree destinate alle attività sanitarie. Per esempio si possono costruire edifici affiancati agli ospedali per potervi contenere impianti facilmente accessibili ai tecnici senza entrare nelle aree di degenza. Il progetto dovrebbe prevedere l’esistenza di un secondo edificio parallelo alla struttura principale che si sviluppi in verticale, connesso all’ospedale attraverso i controsoffitti. In questo modo gli impianti sarebbero autonomi rispetto all’ospedale.
La questione energia.
Questo argomento venne affrontato dal Politecnico di Milano per dare un significato concreto all’espressione “ospedale sicuro e sostenibile” contenuta nel PNRR. Si concluse che bisogna partire dall’idea che un ospedale è come una città che lavora e vive h/24 e pertanto è fortemente energivoro. Esiste l’esigenza dell’isolamento termico e il problema del risparmio energetico, per l’illuminazione, per il riscaldamento.
Una buona pratica è quella messa in campo dall’ospedale pediatrico Mayer di Firenze dove il progettista ha pensato di portare il più possibile la luce naturale dentro l’ospedale e prevedere in aggiunta un impianto fotovoltaico. Stefano Capolongo nella sua relazione ha sostenuto che si debba andare in questa direzione. Infine, Stefano Capolongo, convinto che i padiglioni non siano l’opzione migliore, ha affermato che i padiglioni sono utili solo per contenere le malattie infettive epidemiche, motivo per cui si svilupparono soprattutto nel 1800, quando si scoprì l’esistenza dei microbi e i modi di trasmissione dei contagi. La loro necessità è giustificata solo dalla norma del “distanziamento”.

Il Nuovo Policlinico di Milano
Il Policlinico di Milano è conosciuto anche come “Ospedale Maggiore” o “Ca’ Granda”; è specializzato in materno infantile, malattie rare, trapianti, dermatologia, gastroenterologia, epatologia, medicina del Lavoro.
La sua struttura verrà modificata: sarà composta da 7 piani: piano terra, tre piani di blocco centrale, due piani di parcheggio interrato. L’edificio Sud sarà dedicato a donne e bambini, ma la vera particolarità saranno le “Case parto”. Le case parto saranno dei veri e propri mini-appartamenti che daranno la possibilità alle donne di vivere l’esperienza di partorire in casa, rimanendo in ospedale. Esisterà un “giardino terapeutico” sopraelevato sul tetto dell’edificio.

Questa evoluzione della struttura degli ospedali concepita in chiave moderna iniziò nel 1456 con l’Ospedale Maggiore di Milano, progettato e realizzato dal Filarete su commissione di Enrico Rampini.
Nel 1700 si diffusero in Europa gli ospedali a padiglione, composti da più edifici immersi nel verde, distinti secondo la patologia dei pazienti.
In seguito, colla riduzione del problema dei contagi si studiarono nuove soluzioni per risolvere un’altra problematica: il consumo di tempo impiegato dal personale per percorrere le lunghe distanze tra i padiglioni dell’ospedale.
La soluzione si trovò con gli ospedali monoblocco, ovvero edifici più compatti che si sviluppano in verticale e a dipartimenti.
Negli anni dal 1950 in poi si svilupparono gli ospedali a piastra-torre, cioè edifici con una base più ampia in cui si collocavano i servizi ambulatoriali, mentre le degenze si collocavano nella torre.
Sicuramente i futuri progettisti di ospedali dovranno tener conto dei “criteri aggiuntivi” maturati con l’esperienza della pandemia. All’esigenza di nuovi ospedali si somma oggi la carenza di strutture ospedaliere efficienti a causa dei mancati ripristini provocati dalle ridotte disponibilità di finanziamenti per la sanità. Si calcola che dagli 8 miliardi annui destinati alla Sanità ospedaliera nel 2008, sia avvenuta una decrescita annuale del finanziamento, fino ai 5,5 miliardi nel 2017.
Si stima che saranno necessari altri 32 miliardi per intervenire sulle strutture sanitarie dell’intero paese. Quando si passerà alla realizzazione dei nuovi ospedali, oltre ai “criteri generali” che dovranno ispirare i progettisti (umanizzazione, economicità, sicurezza, igiene, rapidità di intervento, etc..), si dovranno considerare i “requisiti” strutturali imposti dalle leggi vigenti.
La legge di riferimento più nota del ventesimo secolo è il DCG del 20 luglio 1939. Esso detta norme su:
– Elementi generali da tener presenti nella costruzione degli ospedali.
– Scelta dell’area secondo parametri d’obbligo (dati meteorologici della località, temperature minime e massime dell’anno ed escursioni giornaliere, umidità, stabilità dei suoli, andamento altimetrico e planimetrico del terreno, direzione e velocità dei venti dominanti, durata dell’insolazione media, presenza di acque superficiali, profondità della falda freatica, libera esposizione a sud-est, possibili inquinanti nell’aria, rumorosità ambientale).
– Ampiezza dell’area: non meno di 75 mq per posto letto.
– Approvvigionamento idrico e smaltimento liquami
– Numero posti letto adeguato alle finalità dell’ospedale.
– Sviluppo verticale a monoblocco o poliblocco
– Requisiti costruttivi (doppio corpo, orientamento sec. l’arco solare, illuminazione, aereazione).
-Elementi funzionali (servizi generali, direzione sanitaria, cucine, lavanderia, centrale termica).
– Servizi di accettazione.
– Locali di degenza.

Alle legge del 1939 si sono aggiunte negli anni nuove disposizioni che rendono ancora più complessa la normativa per la realizzazione di un ospedale:
– Legge 833/78; legge 502/1992; DPR 503/1996; DPR 380/2001 (barriere architettoniche);
– DM 5 luglio 1975 (requisiti igienico-sanitari)
– D.L. 396/1993 (disposizioni in materia edilizia;
– DPR 14 gennaio 1997 (requisiti strutturali, tecnologici, organizzativi minimi per servizi sanitari).
Inoltre, sarà necessario verificare che il progetto soddisfi tutti i “criteri urbanistici” definiti dal “Piano regolatore” di riferimento, con rispetto di parametri come la “densità edilizia”, le “altezze” degli edifici, la “distanza tra fabbricati” e la “destinazione d’uso”.
L’intento dichiarato, nei programmi politici, di costruire nuovi ospedali è semplice da scrivere su delibere di poche righe, ma è piuttosto difficile da concretizzare in opere compiute.
Tra l’intento e la realizzazione c’è di mezzo il “tempo disponibile”. Questo fattore, stante la richiesta pressante di sanità, è l’incognita dell’equazione che si frappone tra le esigenze sanitarie dell’attuale generazione e l’ospedale del futuro.

Il giorno 1 giugno 2023 la Giunta regionale ha deliberato la costruzione di 4 nuovi ospedali in Sardegna. Ne sono stati previsti uno a Cagliari, uno nel Sulcis Iglesiente, uno ad Alghero ed uno a Sassari. Il nuovo “Ospedale della città” di Cagliari dovrà sostituire gli attuali Brotzu, Oncologico, Microcitemico e SS Trinità che verranno chiusi. Similmente l’ospedale nuovo del Sulcis Iglesiente sostituirà il Santa Barbara, il CTO e il Sirai. Così avverrà per Alghero e Sassari.

La delibera, tuttavia, non contiene indicazioni sulle risposte da dare ai seguenti quesiti: “Quando?”, “dove?”, “come?”e “perché?”. Per ora sono in sospeso e non sarà facile definire i Tempi, i Criteri e le Norme.

I “Tempi”.

Se i 4 ospedali sorgessero all’istante sarebbe una bella idea, ma non è così perché nel mondo reale le cose avvengono col “consumo di tempo”. E’ presumibile che per costruire i nuovi ospedali ci vorranno dai 15 ai 25 anni e molti degli attuali sardi sessantenni non ne vedranno l’inaugurazione.

Oggi, con gli incombenti pericoli di nuove epidemie, del cambiamento climatico, di altri shock energetici, di un’immane immigrazione, e di un inedito cambiamento demografico, gli attuali sessantenni dovranno assolutamente assicurarsi che per i prossimi 20 anni gli ospedali continuino a funzionare benissimo. E’ certo che i futuri ospedali saranno destinati alla futura generazione.

Il proposito di costruire nuovi ospedali venne ufficialmente espresso nella legge regionale 24/2020 all’articolo 42. Per produrre la delibera attuativa, pubblicata il 13 giugno 2023, ci son voluti 3 anni. Questi sono i tempi tecnici di qualunque amministrazione pubblica. Ora ci vorranno i tempi necessari per il concorso di idee e per l’individuazione di un’area di almeno 30 ettari adatta dal punto di vista geomorfologico. Altro tempo sarà necessario per la scelta del sito esatto in cui costruire il nuovo ospedale mettendolo al centro delle vie di comunicazione terrestri, marittime e ferroviarie, rispettando la densità della popolazione, la non interferenza con altri interessi, e l’accordo politico che dovrà essere raggiunto con il concorso di un referendum provinciale. Vi saranno i tempi per la progettazione, l’edificazione, l’arredamento, l’impiantistica, le variazioni in corso d’opera, il reperimento del personale e, soprattutto, il reperimento di altri fondi dato che l’inflazione avrà svalutato i finanziamenti attualmente disponibili. Considerato che per porre la prima pietra del nuovo ospedale di San Gavino ci sono voluti 20 anni si può supporre che la previsione di 15-25 anni per vedere costruiti e in funzione i futuri 4 ospedali sia abbastanza realistica.

Le discussioni dei politici riportate dai quotidiani, intanto, continuano senza chiarire bene i termini.

I “Criteri”.

Non si può fare a meno di osservare che in queste pubbliche discussioni manca un fattore ineludibile: i “Criteri” da utilizzarsi per raggiungere lo scopo. In passato per formulare i “Criteri” ci vollero molti secoli.

Ogni periodo storico, da 2.000 anni ad oggi, ha avuto i suoi “Criteri”.

Ai tempi di Cesare Augusto gli ospedali non esistevano.

A Roma, nell’Isola Tiberina, esisteva una “vulneraria” in cui venivano curate le ferite dei gladiatori e degli schiavi. Il criterio per l’esistenza del vulneraria fu: avere un luogo specializzato e isolato per riparare gli strumenti del divertimento e del lavoro.

Ai tempi di San Benedetto e San Basilio, nel quinto secolo d.C.,  gli “hospitalia” servivano a prendersi cura dei “poveri cristi”. Il Criterio era religioso.

Nel Medio Evo, tra il 1.000 e il 1.400, gli “hospitalia” venivano costruiti con fondi donati dai ricchi commercianti. Il loro vero fine era quello di acquisire meriti per essere ammessi in  Paradiso. Il criterio per l’edificazione di quegli ospedali era caritativo.

Quel sistema caritativo dette vita ad un’economia fiorente basata sulle donazioni alle organizzazioni pseudoreligiose che lo dominavano. A Milano nel 1450 esistevano ben 16 ospedali caritativi in mano a “conversi e converse “che agli occhi della chiesa suscitavano scandalo. Il cardinal Enrico Rampini per mettervi ordine dette il via alla costruzione dell’Ospedale Maggiore. Per riuscire nel suo piano ebbe necessità della protezione degli Sforza e del Papa. Così poté chiudere quei 16 ospedali caritativi privati e trasportare i malati nel suo nuovo ospedale. L’Ospedale Maggiore fu destinato ai malati acuti; i malati cronici vennero messi in un altro ospedale alle porte della città.

Con quell’impresa il Cardinale aveva realizzato il primo sistema ospedaliero “per intensità di cure”.

Per costruire l’Ospedale Maggiore (tutt’oggi funzionante) il cardinale Enrico Rampini dettò i suoi criteri:

1 – La  prossimità dell’ ospedale alla popolazione;

2 – L’ amministrazione controllata da rappresentanti popolari.

3 – La vicinanza ai Navigli per le fonti d’acqua;

4 – L’affidamento del progetto al massimo architetto del tempo: il Filarete;

5 – Il servizio d’acqua corrente in camera e nei bagni;

6 – L’ esistenza di una efficace e capillare rete fognaria;

7 – I letti singoli (fino ad allora erano ovunque a 4 e a 8 posti e il fratturato stava coll’appestato);

8 – Gli  armadietti singoli personalizzati (vennero inventati i comodini);

9 – I servizi igienici dovevano essere separati dalle degenze e situati in una corsia parallela;

10 – La cucina in un piano separato;

11 – La corsia maschile  distinta da quella femminile;

12 – I malati chirurgici distinti da quelli internistici;

13 – Le  “Zone filtro” per l’igienizzazione dei  nuovi ricoverati;

14 – Le abitazioni per il personale annesse all’ospedale

15 – Gli Impianti di riscaldamento e di aerazione per tutti gli ambienti.

Il Filarete, progettò l’opera secondo i Criteri dettati dal Cardinale e tale progetto divenne pilota per tutta l’Europa. Egli fu il primo architetto dell’ospedale moderno.

I “Criteri rampiniani” i cui scopi erano l’igiene e l’umanizzazione, rimasero immodificati fino al ventesimo secolo.

Dopo il disastro della Prima Guerra Mondiale e le due epidemie di Spagnola e Tubercolosi che seguirono gli architetti specialisti in ospedali aggiunsero altri “criteri”. Si trattò di Criteri, oltre che di umanizzazione delle cure e di difesa dalle infezioni epidemiche, di buona gestione economica e di risparmio di energia.

Fino ai primi del 1900 gli ospedali furono costruiti su un piano orizzontale e a padiglioni. Poi nei primi decenni del 1900 in America comparvero gli ospedali skyscraper (grattacieli) nella forma di complessi verticali alti fino a 30 piani. Si trattava di strutture in acciaio e calcestruzzo, costruite in moduli prefabbricati, dotate di veloci ascensori. Negli anni ‘20-’30 il modello si diffuse in tutta Europa. L’antesignano di tali progetti fu l’architetto finlandese Alvar Aalto. Il criterio che pilotò verso il monoblocco fu quello della riduzione  dei tempi di percorrenza per favorire la prontezza nel soccorso. Il “Tempo “ è il fattore che condiziona tutta la medicina d’urgenza e ciò ha indotto alla progettazione degli ospedali verticali dotati di trasporti semplificati e veloci. L’altro vantaggio è l’impiantistica comune e facilmente accessibile posta all’interno di colonne in cavedi verticali attraversanti tutti i piani. Il monoblocco di Alvar Aalto venne realizzato nella città di Paimio in Finlandia. Quel progetto di ospedale vinse un concorso internazionale di idee indetto dal Governo americano nel 1930. Fu la vittoria definitiva degli ospedali a monoblocco verticale sui complessi ospedalieri orizzontali a padiglioni. L’ospedale di Paimio aveva la caratteristica d’essere un monoblocco con annesse due “stecche” laterali. Il blocco centrale, destinato alle camere di degenza, aveva ampie fenestrature esposte a sud-sud-est secondo l’arco del sole. Lo scopo era quello di captare il più possibile i raggi solari per l’illuminazione, per il riscaldamento e la salubrità della stanze, secondo il criterio di efficienza e efficacia. La vista riservata ai degenti dava su un grande parco con alberi e prati. Il lato esposto verso occidente era riservato ai servizi. La prima stecca serviva alle camere operatorie, ai laboratori e alle radiologie. La seconda stecca era destinata ai servizi amministrativi e tecnici. Esisteva nel complesso una parte destinata alle residenze del personale sanitario. Il criterio era l’autosufficienza.

Nel periodo fascista in Italia il regime dette notevole impulso alla costruzione di nuovi ospedali. Negli studi tecnici ingegneristici specializzati in architettura ospedaliera nacque un vivace dibattito sulle varie idee di progettazione. Il criterio generale era: ridurre al minimo ingombro i fabbricati sviluppandoli in altezza e accentrando i servizi.

In vari concorsi di idee prevalsero sia i progetti dell’architetto Concezio Petrucci che sviluppò un progetto a “T”, con 4 letti per camera, sia i progetti dell’architetto Giorgio Rossi. Il criterio era l’umanizzazione. Erano gli anni in cui si costruiva la città di Carbonia; nell’originale linea a “T” del suo ospedale si notano tutti gli influssi del pensiero architettonico del tempo.

Quei progetti  rispettavano i criteri di Alvar Aalto:

Nel 1964 il più famoso architetto del ventesimo secolo, Le Corbusiér, ebbe l’incarico di progettare l’ospedale di Venezia. Con quel progetto egli andò contro-corrente e modificò le linee guida di Alvar Aalto: progettò un ospedale orizzontale. Il motivo era legato alla necessità di non erigere un grande edificio al centro di Venezia che col suo corpo di calcestruzzo e acciaio confliggesse con gli antichi edifici in mattoni rossi della città lagunare. L’ospedale fu progettato su tre piani. Il piano terra fu destinato ai servizi per il pubblico; il primo piano per i servizi medici veri e propri sale operatorie e diagnostiche); il secondo piano per le degenze. Si seguì il criterio della efficienza, dell’urbanistica e dell’estetica.

In questo anno 2023 nella città di Cremona è in corso una preselezione per partecipare al concorso per il nuovo ospedale. I criteri dettati dal committente sono:

Strutture modulari e flessibili in grado di adattarsi con facilità agli eventi (vedi nuova epidemia);

La Logistica che dovrà prevedere percorsi interconnessi fra Ospedale, Territorio, casa del paziente;

– L’ Ecosostenibilità che metta al centro la cura del paziente, degli operatori e dei visitatori.

Si tratta con tutta evidenza di nuovi criteri di prevenzione, prossimità e umanizzazione esaltati dall’esperienza Pandemica Covid.

Attualmente esiste, anche in Toscana, il progetto di costruire 4 nuovi ospedali: a Prato, a Pistoia, a Lucca, e nel territorio Apuano. Lo scopo è quello di sostituire i vecchi ospedali nati più di un secolo fa.

Anche qui sono stati individuati alcuni criteri pilota che dovranno essere rispettati dai progettisti:

– La persona e le sue necessità messe al centro del progetto;

– L’assistenza continua personalizzata;

– L’integrazione dei percorsi di cura col territorio;

– percorsi multidisciplinari; modello a “intensità di cure”

Tutto sommato sembrerebbero criteri non molto diversi da quelli del cardinal Enrico Rampini nel 1450 e di Alvar Aalto del 1930.

Le “Norme”.

All’elenco di “criteri” maturati nei secoli oggi se ne potrebbe aggiungere uno specifico per il Sulcis Iglesiente: ritorno al passato restituendo ai nostri Ospedali tutti i Servizi e il Personale cancellati da leggi restrittive. L’unico modo per ottenere quella restituzione consiste nel ridurre la rigidità delle  normative vigenti nate dopo la fine della Grande Riforma Sanitaria del 1978. Esse creano gravi problemi agli ospedali provinciali a tutto vantaggio degli ospedali dei capoluoghi di regione. L’ultima di queste leggi restrittive, il DM 70/2015, ha posto limiti all’attività e alla dimensione agli ospedali provinciali cancellando le speranze di autosufficienza e di ripresa.

Questo ragionamento oggi appare solidamente fondato. Lo conferma una autorevole nota ministeriale che sta sollecitando il riesame di certe leggi. E’ quanto sembrerebbe di capire dal documento emanato il 6 giugno 2023 dal Capo di Gabinetto del Ministero della Salute. Esso decreta “l’istituzione di un tavolo tecnico presso l’Ufficio di Gabinetto per lo studio delle criticità emergenti dall’attuazione del DM 70 e del DM 77”.

Il DM 70 è quel decreto che con le sue regole stringenti, provocò l’ulteriore riduzione dei posti letto e di servizi specialistici nei nostri ospedali di Carbonia e Iglesias.     

Oggi i nostri politici dovrebbero porre attenzione a questo riesame  delle Norme che regolano l’organizzazione dei servizi ospedalieri. Per ora si può già dire che la nota del Capo di Gabinetto del 6 giugno conferma la validità delle nostre segnalazioni sulla disparità di trattamento tra territorio e capoluogo.

Qualora la commissione per il riesame del DM 70 confermasse le nostre ragioni e dettasse Nuovi Criteri per la definizione della rete ospedaliera regionale, forse i nostri ospedali recupererebbero l’efficienza perduta e potremmo aspettare serenamente i 20 anni che ci vogliono per costruire i nuovi 4 ospedali sardi.

L’Autonomia riconosciuta a noi sardi in Costituzione ha ragioni molto diverse da quelle che oggi sono alla base del recente disegno di legge sull’“Autonomia differenziata”. La prima fu approvata per generare coesione nazionale e sussidiarietà. La seconda invece pare avere principi e finalità differenti.

L’Autonomia sarda derivò dall’esperienza di tre secoli di sottomissione alla Spagna, da un secolo di resistenza ai piemontesi e da un altro secolo di guerre e battaglie per fare l’Italia. I sardi inventarono l’“Autonomia” per porre fine alla povertà indotta dal feudalesimo. Nei tre secoli in cui la Sardegna era stata sottoposta al dominio spagnolo, la sua amministrazione era basata su una gerarchia molto semplice.

Esisteva il “vassallo” del re che, per diritto feudale, era proprietario di tutto: delle terre, delle persone, degli animali, dei mari e dei pesci, dei boschi, insomma di tutto. L’economia era semplicissima: dentro il feudo avvenivano la produzione, il consumo e la vendita o lo scambio dei prodotti della terra; il commercio finiva lì. In un sistema economico e culturale chiuso, senza scambi col mondo esterno, la povertà era assicurata. Una siffatta povertà si è poi radicata in modo strutturale e persistente. Fino all’anno 1714 la Sardegna e il ducato di Milano furono parte integrante dell’impero spagnolo. Il regime di controllo politico a cui erano sottoposti i sardi e i milanesi era simile, ma in Sardegna la vita era infinitamente peggiore. Nel 1702, dopo la morte dell’imperatore di Spagna Carlo II, che non lasciava eredi, era scoppiata una guerra di successione terrificante tra la Francia e il resto d’Europa (Inghilterra, Sacro Romano Impero e piccolo Ducato di Savoia). Alla fine, con il trattato di Ramstatt del 1714, l’impero spagnolo venne spezzettato. Con la spartizione la Sardegna venne assegnata al duca di Savoia, il Lombardo-Veneto invece venne assegnato agli Austriaci.

La nobiltà sarda, di genealogia spagnola, mantenne in vita il regime feudale con le note conseguenze sociali, economiche e culturali di arretramento. Il Lombardo-Veneto invece fu molto più fortunato perché, nonostante mancasse la libertà politica, il regime feudale finì e l’economia, la burocrazia, la cultura e l’organizzazione sociale si adeguarono all’evoluzione post-feudale di tutta l’Europa.

Fino al 1730 circa il duca di Savoia evitò di interessarsi di Sardegna ignorando lo stesso titolo di re che gli era piombato addosso. Dal 1730, con l’intervento del primo viceré sabaudo barone di Saint Remy e, soprattutto, dal 1756 con l’opera riformatrice del conte Lorenzo Bogino, iniziarono i cambiamenti. Fu soprattutto con la nuova cultura illuminista, che proveniva dalla Francia, che i sardi cominciarono a prendere coscienza dei diritti naturali dell’Uomo e del Cittadino. A Cagliari, alla fine del 1700, nel rione di Stampace, si formarono in segreto circoli illuministi di stampo giacobino e iniziò a prendere corpo l’idea di autogovernarsi secondo i principi di uguaglianza e di libertà. Contemporaneamente esisteva un vasto movimento autonomista in Corsica alimentato da Pasquale Paoli e si instaurarono contatti fra i movimenti delle due isole. Pasquale Paoli dapprima combatté i Genovesi per liberare la Corsica dal loro dominio, poi si ribellò anche ai Francesi, divenuti i nuovi padroni. Quella ribellione non si è mai spenta completamente tanto che Paoli tutt’oggi è considerato il padre della patria corsa. Similmente anche i sardi rifiutarono di finire sotto il nuovo padrone francese, e successivamente cacciarono i Piemontesi maturando l’idea di Autonomia del popolo sardo. Tutto iniziò nel 1793. A gennaio di quell’anno le navi da guerra francesi inviate dal Comitato rivoluzionario di Salute pubblica di Parigi, al comando dell’ammiraglio Truguet, occuparono le isole di Carloforte e Sant’Antioco. Come primo atto gli occupanti-liberatori vi fondarono la prima repubblica italiana: “La Rèpublique de la Libertè”. I Carlofortini, dapprima accettarono, ma i Calasettani e gli Antiochensi no.

Una volta occupate militarmente le due isole sulcitane, le truppe francesi iniziarono la marcia su Cagliari passando dall’istmo di Santa Caterina. Allorché le truppe si inoltrarono nell’istmo vi fu un’incredibile reazione da parte di sei abitanti della zona che, saltati a cavallo e caricati gli schioppi, attaccarono i soldati francesi e in men che non si dica ne uccisero 20. Il fatto interruppe l’avanzata francese e dette tempo al cavalier Camurati, piemontese, di organizzare le sue truppe nella terraferma e di ricevere l’appoggio di armati inviati dalla curia di Iglesias. Questi erano una milizia privata bene armata e, infervorati fa un frate guerriero, un tal padre Arrius, erano pronti a tutto, pur di fermare i francesi rivoluzionari anticlericali. L’ammiraglio francese, vista quella micidiale resistenza, dimise subito l’idea di raggiungere Cagliari per quella via, reimbarcò le truppe sulle navi ancorate nel Golfo di Palmas e procedette per via mare. Dopo pochi giorni la flotta da guerra francese cannoneggiò Cagliari e sbarcò le sue truppe d’assalto nella marina di Quartu. Le guardie svizzere che proteggevano il Castello di Cagliari, si asserragliarono chiudendo i ponti levatoi. Il popolo, lasciato solo, si armò e, organizzato da leaders improvvisati come Vincenzo Sulis e Girolamo Pitzolo, sorprese i soldati invasori nelle paludi di Quartu e del Poetto e ne fece strage. I Francesi rinunciarono e ripartirono. In quelle due battaglie, quella di Santa Caterina nel Sulcis e quella di Quartu, si era manifestata, dopo molti secoli di rassegnato torpore medioevale, un nuova entità guerriera che avrebbe fatto la storia: il “popolo sardo”.

Il re piemontese in tutta risposta premiò le guardie svizzere che si erano asserragliate in Castello e ignorò il popolo che aveva difeso sé stesso e anche la sede del viceré Balbiano. I coscritti dei circoli stampacini, approfittando dei meriti maturati in quel momento, organizzarono un Commissione per chiedere udienza al re a Torino e proporgli le cosiddette “cinque domande”. Si trattava di richieste apparentemente molto semplici ma che contenevano fondamentalmente il riconoscimento e la legittimazione del “popolo sardo” come nuovo soggetto da prendere in considerazione e introdurre nell’apparato per l’amministrazione e la difesa della Sardegna. Si trattava, di fatto, del primo abbozzo scritto dell’idea di “Autonomia” sarda. Il re Vittorio Amedeo III, molto regalmente, ignorò la Commissione e la lasciò in attesa fuori dal suo palazzo per 6 mesi, poi respinse le “5 domande”. Fu una grande umiliazione.

A Cagliari, nel quartiere di Stampace, per reazione fervèttero ancor di più le riunioni dei circoli giacobini allo scopo di creare una coscienza popolare rivoluzionaria. Qui, un anno dopo le battaglia contro i francesi, maturarono i fatti di “Sa Die de Sa Sardigna”: il 28 aprile 1794. Quel giorno, non potendone più degli arresti e delle provocazioni delle guardie del Viceré, il popolo si rivoltò e puntò armi e cannoni contro Castello. La battaglia fu intensa, con morti da ambo le parti, è finì con la conquista della piazzaforte e con lo “Scommiato”, cioè la cacciata da Cagliari dei Piemontesi che vennero imbarcati su navi dirette a Genova. Con questi eventi violenti il popolo sardo entrò nel vortice delle rivoluzioni della fine del 1700 e con la sua rivolta contro i Savoia divenne attore di primo piano nello stesso violento scenario storico per portò all’Indipendenza degli Stati Uniti di America con Giorgio Washington e al Terrore di Parigi con Robespierre. Il re di Sardegna si trovò all’improvviso dentro la Rivoluzione che stava agitando l’Europa; capì la situazione e accettò immediatamente le “5 domande”. Fu la prima pietra storica dell’edificio giuridico che in 150 anni avrebbe sancito l’Autonomia Speciale della Sardegna. In quella storia di rivoluzione e riscossa avvenne un triste fatto emblematico dell’insofferenza del popolo sardo. Due dei Commissari sardi, rappresentanti del movimento patriottico, che si erano recati a Torino e avevano concordato i termini della compartecipazione della Sardegna alla nuova gestione, il marchese della Planargia e Girolamo Pitzolo, accettarono dal re incarichi e privilegi personali, diventando di fatto collaborazionisti dell’apparato di controllo politico straniero. Furono cioè cooptati nel sistema di potere piemontese. Tale posizione era in netto contrasto con le idee più radicali di Autonomia rappresentate da Giovanni Maria Angioy. Ciò creò nei sardi, che si sentirono traditi, un forte risentimento che esplose in una rivolta sanguinosa con il massacro dei due, avvenuto a Cagliari nel luglio 1795.

Il sogno dell’autonomia coltivato dai sardi con “Sa Die de sa Sardigna del 1794” non fu facile da realizzare; dopo l’accettazione delle “5 domande” quel sogno fu represso da frustrazioni dolorose che andarono avanti per tutto il 1800. I sardi, per le doti guerriere che avevano dimostrato, erano diventati, per il re di Sardegna, un esercito di soldati professionisti, fedeli, coraggiosi e micidiali, da utilizzarsi in battaglia. Furono impiegati efficacemente a fianco dei Francesi contro i Russi in Crimea nel 1853-56. Subito dopo Napoleone III accettò di aiutare il regno Sardo nella Seconda guerra d’Indipendenza. Da allora i sardi rappresentarono il nerbo delle forze speciali in tutte le guerre che seguirono. Questo non fu dimenticato.

Fin dall’inizio del 1800, al centro dell’interesse, nella vita civile dei sardi, vi era sempre stata la rinascita dell’Isola, partendo dall’agricoltura. Il dibattito che ne era seguito in sede di governo aveva generato l’editto delle “chiudende”, nella convinzione che la distribuzione al popolo delle terre dei Salti o ademprivi, avrebbe favorito una nuova economia imprenditoriale.

Tale metodo di distribuzione del latifondo reale era stato sperimentato nel regno Unito con qualche successo. In Sardegna fu un fallimento, perché le terre finirono nelle mani dei più ricchi e i poveri rimasero senza pascoli e senza terra libera da coltivare, perché i salti vennero inglobati nel latifondo privato. L’uscita dalla mentalità feudale si rivelò difficilissima. Durante tutto il secolo vennero istituite diverse commissioni parlamentari che svolsero inchieste per trovare una soluzione alla cronica povertà dell’Isola. Nel 1897 venne approvata la prima legge speciale per la Sardegna. Ad essa seguirono le leggi speciali del 1902 e 1914. Alla fine si approdò alla legge nota come “Legge del Miliardo” con cui si disposero spese per l’esecuzione di opere pubbliche finalizzate ad ottenere una maggiore produzione e migliorare il tenore di vita della popolazione.

L’Italia neonata aveva continuato ad utilizzare i sardi in prima linea in tutte le guerre che seguirono. Da quelle in Africa a quelle in Europa. I sardi furono messi al centro del fronte di tutte le battaglie dell’Isonzo nella prima Guerra mondiale, e furono essi, con la Brigata Sassari, i temuti “diavoli rossi”, che protessero le truppe italiane in fuga dai cacciatori austriaci nella ritirata di Caporetto. Dai reduci di quella guerra nacque il Partito sardo d’Azione con un programma Autonomistico. L’Autonomia sarda non fu bene accetta dal Fascismo ma riprese vigore alla fine della Seconda Guerra Mondiale, con la richiesta di introdurre in Costituzione il riconoscimento della Sardegna come regione ad Autonomia Speciale.

Il riconoscimento avvenne il 26 febbraio 1948, con la legge n. 3. I padri Costituenti che presentarono le motivazioni per la concessione dell’“Autonomia Speciale” alla Sardegna furono Emilio Lussu e Renzo Laconi. La sintesi delle motivazioni fu: «Povertà secolare per una storica sottomissione che ne ha impedito lo sviluppo economico».

I Costituenti Repubblicani tennero conto delle diverse istanze provenienti dalle regioni e optarono per concede ad alcune di esse l’Autonomia speciale, nel rispetto del principio di indivisibilità della Repubblica e della sussidiarietà tra le regioni.

Vennero riconosciute “Regioni a Statuto speciale” la Sicilia, la Sardegna, la Val d’Aosta, il Trentino alto Adige ed il Friuli Venezia Giulia.

Le motivazioni erano basate su ragioni storiche, geografiche, economiche, per contenere spinte autonomistiche e per la tutela delle minoranze linguistiche.

Ai Consigli regionali delle regioni elencate venne riconosciuto potere legislativo con la possibilità di produrre leggi concorrenti con lo Stato. Fu altresì riconosciuta a tali regioni la competenza ad imporre tributi propri e la capacità di trattenere per i propri bisogni una percentuale del gettito fiscale di alcune imposte statali che poteva essere anche del cento per cento (per esempio sulla produzione e consumo di energia).

Ora questo privilegio, che fu concesso per necessità, è in pericolo.

Una trentina d’anni fa un nostro conterraneo sulcitano, rappresentante sardista, venne invitato ad una cena politica organizzata dal leghista Roberto Maroni in una città del Nord. In quella cena i leghisti vantarono la loro superiorità morale, economica e politica rispetto al Sud. Il nostro uomo prese la parola e rispose: «…evidentemente non sapete che se voi oggi esistete come popolo libero e ricco lo dovete a noi sardi che nel 1859, quando voi eravate l’estrema periferia dell’impero austro-ungarico, con le battaglie di Solferino, di San Martino e di Magenta, vi liberammo dall’oppressore e vi facemmo assaporare l’indipendenza; con la libertà conquistata da noi avete potuto diventare quello che oggi siete».

Questa fu la posizione del sardo quel giorno. Oggi è vecchio e continua a pensare allo stesso modo; non so se le nuove generazioni abbiano la stessa consapevolezza della nostra storia.

Ieri, 6 giugno 2023, l’assessore sardo della Sanità, il professor Carlo Doria, sassarese, ha fatto dichiarazioni da cui si desume che avrebbe deciso di costruire un nuovo mega-ospedale nella Città metropolitana di Cagliari.
Merita molta attenzione. La provincia di Cagliari oggi si chiama “Città metropolitana”, è composta da 12 Comuni ed ha 550.000 abitanti. In essa sono accentrati il potere e i servizi regionali: la struttura politico amministrativa, l’aeroporto, il porto, l’Università, il Tribunale e i grandi Ospedali. Ha una rete ospedaliera esagerata formata da: l’Università di Medicina, il Brotzu, il Microcitemico, il SS Trinità, l’Oncologico, il Policlinico di Monserrato, 8 ospedali privati, numerose RSA, molte Case della salute, Ospedali di comunità e Hospice. In tutto sono circa 2.500 posti letto ospedalieri. Se si considera che in tutta la Sardegna sono presenti poco più di 5.000 posti letto, ne consegue che Cagliari accentra in sé circa la metà dei posti letto ospedalieri di tutta le regione.
La provincia del Sulcis Iglesiente ha 120.000 abitanti. In essa esistono due “ospedaletti” in estremo stato di miseria. Il piano contenuto nell’“atto aziendale” accettato dal professor Carlo Doria attribuirà in futuro alla nostra provincia, complessivamente, 313 posti letto. In questo momento non ne abbiamo attivi neppure 200. Per legge ce ne spetterebbero 414. Praticamente stiamo assistendo ad una distribuzione del Servizio Sanitario di Stato in modo assolutamente iniquo. E’ come se avessimo davanti ai nostri occhi un immaginario signore ricco, obeso, ingordo, opulento grassone che viaggia in Maserati con autista dopo essersi appropriato di fondi presi a due barboni costretti a vivere sotto un ponte. I barboni sono Carbonia e Iglesias. Eppure la legge madre di tutte le leggi, la Costituzione, impone il principio dell’equa distribuzione dei servizi in tutto il territorio. C’è anche una legge dello Stato, nota col nome di legge n. 42 del 2009, che dovrebbe proteggere i due barboni obbligando il ricco Epulone a smetterla di appropriarsi anche delle briciole. La legge, infatti, dice: «La presente legge costituisce attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, assicurando autonomia di entrate di spesa di Comuni, Province, città metropolitane e regioni, e garantendo i principi di solidarietà e di coesione sociale […] garantisce la trasparenza del controllo democratico […] e disciplina il funzionamento del fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante […] secondo l’articolo 119 della Costituzione perseguendo lo sviluppo delle aree sottoutilizzate[…] per il superamento del dualismo economico del Paese…». In sostanza, questa legge costituzionale afferma che non si possono arricchire territori già ricchi e impoverire ulteriormente territori già poveri. Invece, esistono decisori pubblici che ignorano ospedali già feriti da pregresse inaccettabili deliberazioni.
Lo stato miserando dell’Ospedale di Carbonia si vedrà nella sua interezza fra poco. Di fatto il bellissimo reparto specialistico di Urologia è messo nelle condizioni di non funzionare più secondo l’esigenza. Sono stati trasferiti in altre sedi il primario e quattro specialisti urologi, lasciando da soli due medici specialisti col compito enorme di presidiare un territorio con 120.000 abitanti. E’ possibile che il reparto venga soppresso o disperso all’interno di un altro reparto chirurgico. Sarebbe la fine dell’Urologia. La Rianimazione sta per perdere per quiescenza un altro specialista che ha rappresentato la colonna portante della struttura per molti anni. A questa perdita si assocerà la perdita di un altro specialista anestesista per altri motivi. Resteranno in attività per tutto l’ospedale solo quattro anestesisti, contro i 16 anestesisti di 15 anni fa. Ciò renderà inevitabile la chiusura della Rianimazione. I quattro anestesisti superstiti saranno appena sufficienti per le sale operatorie. Dopo la chiusura dell’ostetricia e dell’Anatomia patologica, dell’ospedale resta poco.
La Sanità di Iglesias è allo stremo e quasi annullata, come si legge nei giornali. Ormai si può dire che i nostri due ospedali sono finiti sotto i ponti come barboni. Forse c’è possibilità di ripresa ma, a questo punto, non basta la promessa di soldi. Ci serve immediatamente il personale medico e infermieristico. Purtroppo, questo personale scarseggia e nessuno vuole imbarcarsi in una nave che sta affondando. I pochi specialisti disponibili in campo regionale stanno pensando alla loro salvezza e al futuro delle loro famiglie. Non accettano di venire sotto il ponte dei barboni e si precipitano verso la casa del ricco Epulone, a Cagliari. E’ là che si sta pensando di realizzare a proprio vantaggio l’articolo 42 della legge 24/2020 di istituzione della ARES. E’ la legge che prevede la costruzione di nuovi ospedali in Sardegna. Il problema nasce nel momento dell’interpretazione autentica della legge. Esiste un conflitto di interessi fra chi ha scritto la legge e chi la interpreta, poiché l’autore e l’interprete sono la stessa persona. Così i nuovi ospedali invece che andare al territorio continuano ad essere costruiti a Cagliari.
L’andamento di questa storia sta scorrendo tumultuosamente verso il basso, facendo danni come quei fiumi che hanno sommerso disastrosamente l’Emilia Romagna. Eppure è necessario sognare che l’acqua dei fiumi cammini contro corrente verso l’alto. A tentare di invertire la direzione del torrente ci ha provato il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza).
L’Europa ci ha destinato una valanga di finanziamenti. Con questi, potremmo invertire il corso della Storia. Invece no. I soldi si fermano a Cagliari e lì l’assessore Carlo Doria vuole costruire un nuovo mega-ospedale aggiungendo altri posti letto ad una città che ne ha quasi 2.500. Le città che fino ad oggi hanno visto aumentare i propri posti letto ospedalieri sono state Cagliari e Olbia. Tali posti letto sono stati ricavati dal trasferimento degli stessi posti letto che si trovavano negli ospedali territoriali come quelli di Carbonia e Iglesias. Ciò che sta pensando il professor Carlo Doria è un lusso oggi del tutto esorbitante e ingiustificato davanti alla povertà della vicina provincia del Sulcis Iglesiente.
Ciò che a Cagliari si sta tentando di fare, sarà possibile attraverso il travisamento dello spirito della legge sul PNRR, la quale prevede la “medicina di prossimità”, cioè di quella medicina che deve esistere nei territori in vicinanza dei luoghi dove si trova il malato: si tratta dello stravolgimento interpretativo della legge. Il potere vero è esattamente questo: il possedere la capacità di “interpretare” le leggi. Il vero potente è colui che “interpreta” a proprio favore i sacri testi. Ne deriva che i soldi per la Sanità, invece che distribuirli equamente ai territori, verranno concentrati all’interno del solo Comune metropolitano di Cagliari. Tale concentrazione di risorse a favore di un solo territorio, già di per sé ricco, è esattamente il contrario di ciò che afferma la legge costituzionale n. 42 del 2009. Essa legge all’articolo 2, paragrafo “e” impone che si debba «attribuire risorse ai Comuni, alle province, alle città metropolitane e alle regioni […] secondo il principio di territorialità e nel rispetto del principio di solidarietà e dei principi di sussidiarietà e adeguatezza di cui all’articolo 118 della Costituzione».
Ciò che è contenuto nella dichiarazione di Carlo Doria è esattamente il contrario di quei principi costituzionali. Se si va a leggere la bellissima legge 42/2009, che impone ai politici il rispetto della Costituzione, si scopre che vi sono descritte precise disposizioni sulla distribuzione dei fondi per la Sanità e per tutti i servizi pubblici necessari ai territori. Per esempio dispone di: «…determinare il costo del fabbisogno standard». Non dice che devi dare servizi eccezionali; dice che devi dare almeno i servizi di base, «valorizzando l’efficienza e l’efficacia» che è l’unico «indicatore rispetto al quale comparare e valutare l’azione pubblica» nel rispetto dei “Livelli Essenziali di Prestazione”.
Orbene, quali sono i “Livelli Essenziali di Prestazione”? Con questa espressione si indicano tutte le prestazioni di pubblica necessità e in particolare indicano: l’Istruzione, la Sanità, la Giustizia, i trasporti pubblici locali, la cura dell’Ambiente.
Questi sono i servizi pubblici che mantengono le popolazioni radicate nel loro territorio; senza di essi avviene lo spopolamento. Il territorio è quello che produce il reddito nazionale. Se il territorio si spopolerà, mancheranno coloro che coltivano i campi, che allevano il bestiame, che pescano, che lavorano nelle fabbriche e nelle miniere, che raffinano il petrolio per produrre tutta la benzina nazionale e si inquinano per gli altri, che tengono viva la produzione artigianale e l’industria manifatturiera, che danno assistenza al turismo, eccetera. Il reddito nazionale non viene prodotto nelle sedi del potere politico ma nel territorio. Ne consegue che le amministrazioni centrali che tengono per sé i “Fondi perequativi” immiserendo il territorio sono insensate. E’ da chiarire il significato dei “fondi perequativi”. Si tratta di quei soldi residui che incamera lo Stato dopo che le Regioni hanno trattenuto, per le propri e necessità, i fondi provenienti dalla raccolta fiscale regionale. Quei soldi che eccedono vengono raccolti dallo Stato in un “fondo perequativo” Tale fondo viene poi distribuito, per equità, ai territori meno ricchi, al fine di creare un’uguaglianza nazionale secondo i principi di sussidiarietà e unitarietà della Nazione.
Proprio quei fondi perequativi sono la fonte del finanziamento che garantisce ai sardi la Sanità, l’istruzione e i trasporti pubblici locali. Su quei fondi, che potrebbero essere la salvezza di molti ospedali provinciali, ha puntato i suoi occhi l’assessore Carlo Doria.
Negli ultimi mesi quei fondi sono diventati il bersaglio a cui puntano anche le mire di altri. Si tratta del tentativo di portarli in riduzione secondo il disegno di legge dell’“Autonomia Differenziata” preparato dal ministro Calderoli. Con questo doppio attacco a quei fondi, i nostri ospedali sono entrati in una china pericolosa. Le ricche regioni del Nord chiedono di avere maggiore mano libera nell’attribuire a sé stesse una superiore quota delle entrate fiscali regionali. In tal modo, il fondo perequativo dello Stato si impoverirà drasticamente. Ne conseguirà che la Sanità, l’Istruzione, i servizi di trasporto locale, l’ambiente, eccetera, avranno meno finanziamenti statali a disposizione. Quella legge sancirà la fine della sussidiarietà nazionale.
A conclusione di questo ragionamento, suscitato dalle dichiarazioni dell’assessore sardo della Sanità, potremmo dire che oggi abbiamo due potenti ostacoli alla rinascita degli ospedali di Carbonia e Iglesias.
Il primo ostacolo è rappresentato dalla manifestazione dell’intenzione di aumentare ulteriormente le struttura sanitarie a Cagliari, ignorando le nostre carenze.
Il secondo ostacolo è il disegno di legge Calderoli che ci priverà dei fondi che ci spettano per diritto costituzionale.
La Sanità del Sulcis Iglesiente sta correndo fra due poderosi elefanti e rischia di restarne schiacciata.

Mario Marroccu

E’ sotto gli occhi di tutti l’esistenza di lunghe file di pazienti che si formano davanti ai laboratori diagnostici nella prima metà di ogni mese prima che si esaurisca il magro bubget e la nostra impotenza davanti alle prenotazioni di visite tanto lontane nel tempo da dover ricorrere a specialisti privati a pagamento.
La colpa è nostra. A causa della nostra disattenzione abbiamo lasciato crescere il disservizio sanitario senza prendere provvedimenti.
Quando ci lamentiamo contro le liste d’attesa per ottenere i ricoveri, le visite specialistiche, gli esami diagnostici, ci stiamo lamentando per la nostra incapacità ad esigere i LEA ì. I LEA sono i Livelli Essenziali di Assistenza che la legge garantisce a tutti gli italiani. Si tratta del minimo assistenziale per le nostre necessità di cura. I LEA sono le prestazioni sanitarie finanziate dallo Stato e descritte in un lunghissimo elenco: dall’estrazione dei denti cariati al trapianto cardiaco; dalla pastiglia della pressione alla protesi d’anca; dagli antibiotici ai vaccini, eccetera. Inoltre vi sono descritte tutte le visite specialistiche erogabili da Medici Specialisti dello Stato, i ricoveri, gli interventi chirurgici, eccetera. I LEA erano nati nella pancia di un “cavallo di Troia” (la legge 502/1992) che era stato fabbricato dal ministro Francesco De Lorenzo per far cadere la Grande Riforma Sanitaria 833/78, rinunziando alla assistenza sanitaria gratuita per tutti.
A quella ingenua rinunzia seguì la privatizzazione progressiva delle USL (Unità Sanitarie Locali) che forse ci porterà alla sanità a pagamento all’americana. Lo strumento legale che venne approvato per trasformare le USL in Aziende Sanitarie Locali (ASL) di diritto privato fu l’esclusione degli Enti locali (Comuni) dal controllo delle USL. I Sindaci non poterono più nominare il presidente della USL e i poteri vennero assunti dallo assessore della Sanità della Giunta regionale. Questi piazzò al vertice della ASL un uomo di sua scelta: il Direttore generale. Il Direttore generale a sua volta ebbe il potere insindacabile di nominare un Direttore sanitario e un Direttore amministrativo legati a lui da un contratto privato. Così un Ente di diritto pubblico venne amministrato da una triade di diritto privato del tutto svincolata dalle amministrazioni comunali.
Le cose cambiarono ancora dopo la modifica del Titolo V della Costituzione del 2001 quando lo Stato rinunciò alla esclusiva del potere legislativo in Sanità e lo cedette alla Regioni ordinarie.
Le Regioni acquisirono la capacità di produrre leggi in materia sanitaria e procedettero a riorganizzare le ASL. Quella riorganizzazione amministrativa basata sulla “efficienza ed efficacia”, cioè il massimo risultato con la minima spesa, mandò le ASL in coma profondo. Era successo che per pagare l’aumento di spesa imprevisto essi dovettero compensare le spese con la chiusura di reparti, di interi ospedali e il blocco delle assunzioni dei medici e Infermieri. Ne derivò la “mobilità passiva” e l’ulteriore indebitamento. A questo punto da poveri corpi comatosi delle ASL si procedette al prelievo di tutti gli organi amministrativi vitali per trasferirli in un nuovo mega-corpo amministrativo centralizzato nel capoluogo chiamato dapprima ATS e oggi ARES (Agenzia Regionale Sanità). Si tratta di un ente di diritto privato che ha assorbito le funzioni delle ASL territoriali ed ha assunto l’esclusiva sugli acquisti, le assunzioni del Personale e gli appalti per tutta per tutta la rete sanitaria della Regione. Le ASL, nonostante nominalmente esistano ancora, di fatto oggi lo sono solo virtualmente perché sono state svuotate del potere di iniziativa amministrativa.
La ARES ha acquisito tutti i fondi regionali destinati alla Sanità e da allora li utilizza a sua discrezione senza vincoli di destinazione.
Da allora la storia dei LEA è peggiorata perché i LEA costano e senza soldi non si può distribuire assistenza in proporzione alle richieste dei cittadini. Di conseguenza sono stati inventati i “budget” mensili che per motivi di risparmio sono poveri, sono aumentate le liste d’attesa per le visite specialistiche, sono diminuiti i ricoveri e gli interventi. Chi arriva ai laboratori d’analisi quando il budget è finito deve pagarsi l’esame. Si pagano gli esami di laboratorio, le ecografie, i colordoppler, le TAC, le Risonanze magnetiche e, a causa della carenza di specialisti dello Stato, si pagano le visite specialistiche.
A questo punto si può concludere che l’istituto dei LEA è fallito perché non è sufficientemente finanziato dallo Stato. E’ tutta una questione di soldi. Si tratta esattamente di quei soldi che arrivano alle Regioni dai cosiddetti fondi di perequazione. In base alla legge 42/2009 quei soldi dovrebbero essere distribuiti fra i territori al fine di pareggiare le differenze di assistenza tra territori ricchi e territori poveri. Mancando quei soldi chi vuole curarsi deve pagare. E’ l’esplosione della privatizzazione forzata della sanità pubblica. Questo è il percorso che porta obbligatoriamente alle assicurazioni sanitarie per coprire le deficienze dello Stato erodendo ulteriormente il potere d’acquisto delle pensioni e stipendi e impoverendo le famiglie.
Siamo stati tutti distratti. Non ci siamo accorti di cosa stesse succedendo. Oggi la nostra impotenza è dovuta ai seguenti motivi:
– Non abbiamo rappresentanti politici delle nostra comunità all’interno della ARES e delle ASL per poter esprimere le nostre istanze.
– Non abbiamo canali per comunicare con la ARES perché la ARES è volutamente strutturata come una fortezza impenetrabile a chiunque, tranne che al presidente della Giunta regionale che ne nomina il Direttore generale;
– Possiamo comunicare con la Giunta regionale solo attraverso la “ Conferenza territoriale sanitaria e sociosanitaria” formata dai Sindaci quando, una volta l’anno, esprimono un giudizio sul Direttore della ASL valutandone l’efficienza nella realizzazione del piano sanitario annuale. E’ l’unico momento in cui i Sindaci sono ascoltati (articolo 11, comma 9 e 10 della legge regionale n. 24 del 2020; legge di istituzione della ARES).
– Il personale sanitario non ha canali per comunicare se non attraverso il “Consiglio dei sanitari”, che peraltro non ha alcun potere e forse neppure esiste se non formalmente.
A questo punto, visto che l’enorme deficit di assistenza è direttamente proporzionale alla povertà economica della ASL, è necessario sapere se siamo in condizioni di negoziare con ARES i fondi per l’assistenza sanitaria che ci necessitano.
Per farlo dobbiamo sapere quali siano i nostri diritti e quali strumenti abbiamo per esigerli.
Gli strumenti disponibili sono quelli deliberati dalla Giunta Regionale e dal PNRR. Essi sono:
1 – Il piano ospedaliero regionale del 2017;
2 – la legge 24/2020 che ha istituito la ARES e le ASL;
3 – il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza);
4 – l’atto aziendale.
Utilizzando questi strumenti prodotti con valore di Legge è possibile esigere i fondi per finanziare i LEA.
Per quanto riguarda il territorio del Sulcis-Iglesiente si pongono alcune questioni:
Prima questione: l’Ospedale Unico.
Se al Giunta Regionale decide di realizzarlo deve fare tutti i passaggi necessari conseguenti all’articolo 42 della legge regionale 24/2020, cioè deve:
– deliberare la costruzione l’ospedale Unico,
– ordinarne il progetto,
– finanziarne la costruzione,
– arredarlo e dotarlo degli strumenti necessari ai servizi,
– assumere il personale.
– E’ una questione di finanziamento. Senza soldi si tratta solo di chiacchiere.
Per ora la ARES ha escluso il presidio ospedaliero unico e prevede per la ASL 7 tre strutture ospedaliere.
Il primo ospedale è il CTO di Iglesias, dotato di 127 posti letto e destinato alle patologie d’elezione. L’ARES e l’atto aziendale non hanno ancora preso in considerazione l’obbligo di deliberare l’organico del personale per il CTO, il finanziamento in spesa corrente per gli stipendi e le assunzioni. Inoltre, non è stata ancora considerata la specifica destinazione del personale medico e sanitario al CTO.
Il secondo ospedale è il Sirai di Carbonia, dotato di probabili 187 posti letto e deliberato come DEA di I livello per l’Urgenza e Emergenza. La ARES dovrebbe deliberare tutte le Unità Operative presenti nell’atto aziendale e dotarle di pianta organica. Non esiste la delibera sulle piante organiche e il relativo finanziamento nella spesa corrente. Senza una pianta organica adeguata alle funzioni di DEA (Dipartimento di Emergenza e Accettazione) dotata di un adeguato finanziamento l’ospedale non può esistere. Per ora è soltanto una intenzione scritta nell’atto aziendale.
Il terzo ospedale è la “Grande Casa della Salute” del Santa Barbara di Iglesias. E’ stata dichiarata nell’atto aziendale la destinazione del Santa Barbara a contenere la Casa della salute , l’ospedale di comunità, l’Hospice, il Centro Diabetologico e la Endocrinologia, la Neuropsichiatria infantile, il Centro di salute Mentale, la Nefrologia, la Psicologia, la medicina dello Sport, tutti i servizi Distrettuali; la riabilitazione (codici 56-60) la riabilitazione post Covid e la terapia intensiva Covid correlata. Tutti questi servizi hanno bisogno di finanziamenti. Alcune strutture sono finanziate attraverso il PNRR.
Molti altri servizi non hanno un esplicito finanziamento. Pertanto, non sono credibili se questo non esiste.
Seconda questione: problemi della medicina del territorio risolvibili con adeguati fondi.
– Carenza di Medici di medicina generale e pediatri.
– Liste d’attesa troppo lunghe.
– Insufficienza del budget per i laboratori analisi e radiologie.
– Fuga dei pazienti verso le ASL vicine più dotate.
-Recupero della autosufficienza specialistica perduta.
Terza questione: il problema demografico, dovuto a.
– forte invecchiamento della popolazione certificato da questi dati
a) numero degli ultrasessantacinquenni in Italia = 21 %
b) “ “ in Sardegna = 24 %
c) “ “ nel Sulcis = 28,5%
Numero assoluto di ultrasessantacinquenni nel Sulcis Iglesiente = 34.000 ( su 119.000 abitanti)
Nota Bene : Con questi dati demografici esiste un diretto rapporto con le malattie cardiovascolari,
tumorali , degenerative, demenze, insufficienze renali, eccetera.
Esiste inoltre una grave denatalità. L’ISTAT certifica che la nostra è la natalità più bassa del mondo
Natalità nell’Africa (Nigeria) = 44 nati per 1.000 abitanti
“ Francia = 12 “ “ “
“ Italia = 8 “ “ “
“ Sulcis = 5,2 “ “ “ La più bassa nel mondo

Questi dati che certificano la forte incidenza di malattie da invecchiamento giustificano la forte necessità di assistenza ospedaliera e la più forte mortalità. Va ricordato che la massima percentuale della spesa sanitaria (tra il 70 e 90%) si concentra nel primo e nell’ultimo anno di vita.
Considerata la più alta percentuale di Baby boomers nel nostro territori ne consegue che questo sarà il territorio più gravato in Italia dalla maggiore necessità di fondi per spesa sanitaria. Si tratta del territorio che ha la maggiore urgenza di risolvere il problema della esigibilità dei LEA con un forte finanziamento sia degli ospedali che della sanità territoriale, pena un intollerabile impoverimento delle famiglie.
Quarta questione: il problema dei posti letto in ospedale.
I posti letto attribuiti al Sulcis Iglesiente sono 313 per acuti e riabilitazione (fortemente sottostimati rispetto ai 3,7/1000 prescritti dalla legge Balduzzi). Dovrebbero essere attivi almeno 357 per acuti e 84 per riabilitazione Totale = 441 posti letto.
Consideriamo questi rapporti di disparità di posti letto:
313 posti letto totali nella ASL 7 di Carbonia Iglesias
5.790 in Sardegna (di cui 1.643 pubblici e 1.147 privati)
2.400 a Cagliari (di cui 1.800 pubblici e 600 privati)
E’ evidente il forte spostamento della bilancia a favore della città metropolitana di Cagliari (430.000 abitanti) rispetto alle limitazioni del Sulcis Iglesiente con i suoi 119.000 abitanti.
Da ciò nasce l’urgenza di esigere un riequilibrio territoriale dei servizi sanitari a protezione del territorio più debole, così come prescritto dalla legge n. 42/2009 che imporrebbe la redistribuzione dei finanziamenti regionali e dei fondi perequativi dello Stato.
Quinta questione: realizzare la mission 6 del PNRR nel territorio. Non è noto se esista un progetto approvato per la realizzazione della struttura di Grande Casa della Salute del Santa Barbara per cui dovrebbero essere spesi 5 milioni di euro entro il mese di giugno del 2026 e se esista un progetto da 260.00 euro per le COT.

Gli strumenti da apprestare con urgenza e utilizzare si trovano nelle leggi.
a) E’ necessario che i 23 Sindaci del territorio creino il canale di comunicazione con la Giunta regionale, per avere risposte dalla ARES, deliberando ed eleggendo la “Conferenza territoriale Sanitaria e Socio-sanitaria” della nostra Provincia, così come è prescritto dalla legge 24/2020.
b) Costituire il “Consiglio dei sanitari” della ASL, come previsto nell’atto aziendale e nella L. 24/2020.
c) La Conferenza provinciale deve esigere la delibera di Giunta regionale che definisca le piante organiche degli ospedali e i relativi finanziamenti. Sulla base di queste si potrà procedere alla soluzione del problema del personale. In assenza di queste delibere l’atto aziendale non ha valore.
d) La Conferenza provinciale deve esigere la progettazione della grande casa della salute del Santa Barbara con tutti i servizi previsti nell’atto aziendale, e peraltro già finanziati dal PNRR. Il ritardo nella procedura può comportare la perdita dei fondi europei.
e) Attuare la creazione del “Comitato locale LEA” per la verifica della corretta applicazione della ripartizione dei fondi e della erogazione delle prestazioni incrementando il budget per i laboratori.
f) Finanziare adeguatamente le convenzioni per la medicina specialistica.
g) Finanziare l’apertura di una Scuola per infermieri professionali.
L’esperienza maturata con i LEA insufficientemente finanziati induce ad un controllo serrato.
Ricordiamo che il ministro Francesco De Lorenzo legiferò nell’anno 1992 per la nascita dei LEA simultaneamente alla rinunzia degli italiani alla Grande Riforma di Tina Anselmi. Il primo elenco dei LEA si vide molto tardivamente e ampiamente incompleto dopo 10 anni, nel 2002. Il completamento dell’elenco si raggiunse nell’anno 2017, cioè dopo altri 15 anni. In tutto ci vollero 25 anni. Nonostante ciò il LEA promessi sono ampiamente falliti per scarsità di fondi.
Oggi si affaccia un‘altra promessa in cambio di un’altra rinunzia. E’ quella contenuta nel disegno di legge sull’Autonomia Differenziata. Stavolta si promettono i LEP (livelli essenziali di prestazioni).
I LEP sono stretti parenti dei LEA. Riguardano oltre il servizio sanitario anche l’istruzione, la assistenza sociale, i trasporti locali. In cambio di quest’altra promessa ci chiedono di rinunziare ai finanziamenti per sanità, istruzione, assistenza sociale e trasporti che oggi ci arrivano attraverso il fondo perequativo della fiscalità generale dello Stato. Stavolta, oltre al servizio sanitario, potremmo perdere l’adeguato finanziamento per la scuola, per l’università, per i trasporti e per l’assistenza sociale. Oltre alla sanità pubblica potremmo veder cadere anche altri servizi essenziali.
Timeo Danaos et dona ferentes.

La “rana” di Noam Chomshy non può salvarsi. Se volessimo salvarla bisognerebbe fermare la mano del “cuoco”. Chi volesse salvare gli Ospedali di Carbonia e Iglesias potrebbe farlo leggendo l’articolo di Antonello Cuccuru nella versione online de “la Provincia del Sulcis Iglesiente” e il documento del “Movimento Sanità nel Sulcis” di Tore Arca che analizzano i fatti e propongono percorsi di recupero.
La metafora della rana che viene cotta lentamente affinché non scappi, è nota a tutti, tranne che alle rane. Per un semplice motivo: perché le rane messe in pentola dal cuoco muoiono tutte e nessuna sopravvive per svelare alle altre rane quanto sia subdolo l’inganno dell’acqua che viene scaldata lentamente. Il cuoco fa credere, a te rana, di volerti immergere a sguazzare in un laghetto tiepido, invece ti mette nell’acqua di una pentola e fa salire lentamente la fiamma fino a cucinarti per bene. Siamo tutti rane, bravi a cantare, ma non a reagire. Il cuoco si trova nell’apparato di potere centralizzato della Regione. Noi siamo le vittime, ma anche i colpevoli, perché abbiamo accettato distrattamente di tornare ad una cultura di sudditanza che ingannò i popoli fino al 1789. Fino ad allora ci avevano fatto credere che i re avessero il potere sovrano per incarico divino, e che quel potere non fosse criticabile. I francesi, accortisi dell’inganno, fecero la Rivoluzione, e da allora sono ancora a Place de la Concorde a ribellarsi. Il primo atto della presa di coscienza popolare fu la promulgazione della “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 26 agosto 1789″. Allo articolo 16 di quel documento che svegliò il mondo venne espresso un concetto illuminante: «Ogni società in cui la garanzia dei Diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una Costituzione». Abbiamo sì il testo scritto della Costituzione Italiana del 1° gennaio 1948, ma il suo articolo 32 che dichiara che la Salute è un diritto del Cittadino e interesse della Nazione, pare sia solo formale. Così pure l’articolo 3 sull’uguaglianza fra i cittadini. Per la verità un tentativo eccellente di applicarlo venne fatto nel 1978 con la legge 833 proposta dalla Commissione presieduta da Tina Anselmi. Con quella legge venne garantito un uguale diritto alla Salute a tutti i cittadini indistintamente attraverso l’istituzione del Fondo Sanitario Nazionale e la redazione del primo Piano Sanitario Nazionale. Inoltre, secondo il principio giuridico fondamentale della separazione dei poteri nello Stato di diritto di una democrazia liberale, si stabilì che, riservato il potere legislativo allo Stato, si attribuiva il potere amministrativo esecutivo alle Aziende sanitarie locali (Asl) in qualità di “articolazioni dei Comuni”. Allora la Sanità nazionale fu concepita come una “federazione” di ASL controllate dai Comuni. Gli Italiani erano riusciti ad applicare alla Sanità pubblica lo spirito dell’articolo 16 della “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino” con la separazione dei poteri sul governo della Salute; il metodo fu: Decentralizzazione dei poteri dello Stato e Federazione delle ASL. In quegli anni tutti gli Ospedali delle ASL sarde brillarono per efficienza. Non si era visto mai in tutta la Storia un miglioramento della qualità delle cure al ritmo di allora. Poi noi rane siamo stati messi in pentola dalle leggi di marcia indietro che riformarono la Legge 833 e, infine, i cuochi della politica regionale, dal 2001, sollevarono lentamente la potenza della fiamma finché oggi, dopo 22 anni, siamo all’ebollizione, e le rane sono tutte lesse.
Seguendo l’evoluzione sembrerebbe che gli atti più gravi che hanno portato alla condizione attuale siano stati la legge 229/1999, che trasformava le ASL da articolazioni dei Comuni in articolazioni delle Regioni, e la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 che, messi insieme, ebbero l’effetto di accentrare nelle Regioni tutti i poteri, legislativo, amministrativo ed esecutivo. Venne fatto l’esatto contrario di quel principio della separazione dei poteri proclamato dalla Dichiarazione dei Diritti del Cittadino e poi accettato dalle Costituzioni di tutti gli Stati democratici e liberali. Il potere legislativo ed esecutivo furono assommati, in un unico Ente, la Regione, esattamente come li assommava in sé il re di Francia prima che nel 1789 il popolo glielo contestasse.
Per smontare la centralizzazione monarchica i francesi si rivolsero ad un medico geniale, il dottor Joseph Ignace Guillotin, che inventò uno strumento chirurgico per risanare i mali generati da quel conflitto di interessi legalizzato.
I documenti di Antonello Cuccuru e di Tore Arca vanno letti. Il primo analizza lo stato di grave disagio popolare in sanità riportato da articoli autorevoli. Il secondo, utilizzando le leggi regionali pubblicate dal BURAS, avanza proposte logiche sui provvedimenti riparatori da adottarsi nell’immediato, non cadendo nelle illusioni prospettate da piani sanitari regionali belli ma fantasiosi.
La fotografia dello stato sanitario pubblico che ne risulta è questa: annullamento quasi completo degli splendidi ospedali iglesienti di 20 anni fa; degrado fino all’impotenza funzionale dell’apparato ospedaliero di Carbonia; mancanza di un efficiente sistema sanitario pubblico nel territorio; impossibilità a realizzare il sogno della medicina di prossimità con case della salute e ospedali di comunità per la mancanza del personale che dovrebbe operarvi.
Chi pratica la professione sanitaria sa che, sia durante l’epidemia Covid che oggi, le uniche strutture ospedaliere che sono in grado di prendere in cura in tempi ragionevoli i malati sono le case di cura convenzionate. Per capire questo fenomeno esiste un motivo ben preciso: le case di cura non sono soggette al dovere di ricevere malati in stato di urgenza ed emergenza. L’urgenza assorbe totalmente le energie dell’ospedale pubblico e gli impone un impegno ad altissima intensità. E’ un impegno faticosissimo, fortemente coinvolgente sul lato emotivo e medico-legale, inoltre non è remunerativo. Le case di cura private invece hanno il vantaggio di potersi dedicare esclusivamente alle malattie d’elezione. Ciò consente una facile programmazione del lavoro con turni di piena attività nelle ore del mattino, mentre la sera, la notte e nei giorni prefestivi e festivi il lavoro si riduce alle guardie interne e al controllo. Per tale differenza di impegno del personale, ne consegue l’esistenza di organici più ridotti nelle case di cura. Inoltre i turni di lavoro così agevolati attirano i medici specialisti esperti, messi in quiescenza dagli ospedali pubblici, facendo loro guadagnare senza sforzo un capitale culturale e di esperienza impareggiabile. Detto questo si capisce il motivo per cui le case di cura private sono state una manna per la Sanità durante il Covid, quando gli ospedali pubblici erano in profonda crisi. Precisato l’aspetto positivo esiste tuttavia un altro aspetto che riguarda la Medicina in generale: il pericolo che si passi dalla attuale assistenza sanitaria pubblica ad una forma di Sanità del tutto privatizzata, all’americana, in cui, al posto dello Stato, si finisca nel dover acquistare a caro prezzo la salute dalle assicurazioni private. Questa sarebbe una svolta preoccupante.
Da queste osservazioni ne discende l’urgenza di risolvere il problema del cuoco instancabile che continua a immergere le rane in pentola. Il cuoco è l’apparato regionale che ha concepito un sistema sanitario duro da digerire in un regime democratico: il sistema di conduzione della sanità pubblica “centralizzato”, senza contrappesi politici a rappresentare gli interessi del territorio. La “centralizzazione”, per definizione, è quel fenomeno politico basato sull’accentramento dei poteri in un unico gruppo di entità governative e amministrative connesse fra di loro nel capoluogo, e ne esclude la provincia. La conseguenza della mancata separazione tra potere legislativo e amministrativo in Sanità si è tradotto in un comportamento da conflitto di interessi, che porta a vantaggi per abuso di potere, per cui assistiamo ad una vera e propria “obesità” sanitaria del capoluogo che è avvenuta per prosciugamento di risorse dal territorio provinciale. All’eccesso di posti letto, di ospedali, di medici e infermieri nel centro regionale, corrisponde un vistoso stato miserevole delle deperite strutture sanitarie della periferia. E’ stata un’operazione lenta durata vent’anni e le popolazioni si sono adattate al peggio non accorgendosi che, intanto, venivano svuotate del diritto d’accesso alla Sanità, alla Giustizia, e anche all’Istruzione, nelle città provinciali. Lo sbilanciamento è estremo.
E’ un fatto gravissimo ed è ancora più grave che i politici regionali siano ciechi davanti al fatto che l’accentramento dei poteri e dei servizi è la causa dello spopolamento del Sulcis Iglesiente, ed è gravissimo che nessuno dei governanti abbia prestato attenzione al fatto che nel nostro territorio stia avvenendo un crollo demografico per cui oggi, abbiamo un indice di invecchiamento del 293%, e mentre in Francia nascono 12 bambini ogni 1.000 abitanti, e in Nord Africa una media di 40 bambini ogni 1.000 abitanti, nel Sulcis Iglesiente sta avvenendo esattamente il contrario. Questo fatto gravissimo sta avvenendo a noi, e solo a noi, in tutta la Sardegna. Nessuno si assume la responsabilità della fuga delle giovani coppie in età fertile dal Sulcis Iglesiente, avvenuta per mancanza di servizi e prospettive per i figli, per cui nel 2021 abbiamo avuto 5,2 nati ogni 1.000 abitanti: la più bassa natalità del mondo. E’ talmente grave che il patron di Tesla e Twitter, il magnate Elon Musk, ha voluto rilasciare su tale anomalia una dichiarazione ai giornali sostenendo che di questo passo in pochi decenni scompariremo. Ci ha ridotto in questo stato demografico un tipo di cattiva politica molto simile a quella che venne applicata nella “fattoria degli animali” di George Orwell. Ricordiamoci a chi finì il potere.
Bellissimo il documento di Tore Arca che fa alcune considerazioni e perviene a conclusioni concrete. Le sue considerazioni mettono in dubbio le promesse di costruzione di un “ospedale unico” e il funzionamento di quelle strutture territoriali di medicina di prossimità proposte nel PNRR, nel piano ospedaliero regionale e nelle bozze rese pubbliche di atto aziendale della ASL 7. Molto concretamente, glissando le illusioni, egli propone:
– che si proceda alla definizione, con delibera, del numero esatto degli organici di medici e infermieri che servono per far funzionare davvero gli ospedali e le strutture distrettuali;
– che la nostra ASL sia libera di assumere senza interferenze regionali;

– che si deliberi l’entità della somma destinata ai lavori di adeguamento dell’ospedale Santa Barbara per tutti i servizi promessi;
– che si proceda ad istituire una scuola provinciale di formazione per infermieri professionali;
– che si metta a punto il piano operativo per la realizzazione delle strutture distrettuali descritte nel PNRR specificando l’entità dei finanziamenti realmente stanziati per le strutture, gli strumenti e il personale da assumere a tempo indeterminato;
– che il personale certamente destinato al Sulcis Iglesiente, non ci venga più sottratto a beneficio del capoluogo regionale già abbondantemente dotato;
– che si chieda l’immediata attivazione della Commissione provinciale sanitaria dei 23 sindaci per rapportare il nostro territorio direttamente con il centro di potere regionale.

L’esame sulla gravità in cui versa Il Sistema Sanitario dei tre distretti del Sulcis Iglesiente e le semplici ma efficaci proposte avanzate necessitano di un grande sostegno politico. Finora nessun politico del posto, delegato dai cittadini alla Regione, è riuscito a fermare il crollo degli ospedali delle due città.
Per le prossime elezioni regionali dovremmo contrattare bene il nostro voto con i candidati che verranno a chiedercelo. Non importa di quale parte politica saranno o quale sarà la città del Sulcis Iglesiente da cui proverranno. Ci servono tutti, Ci interessa che siano consapevoli della colpa che abbiamo tutti insieme indistintamente per non aver fermato la predazione attuata sui nostri reparti ospedalieri e sugli altri servizi pubblici essenziali. Il successo non è assicurato ma, se non ci riusciranno, il Sulcis Iglesiente si svuoterà, non per infertilità, ma per una penuria di sicurezza sanitaria, sistematicamente indotta dal centro che ci governa, che non vuole fermarsi.

Crediamo che curare sia un atto finalizzato a far cessare una malattia, ma questo è solo un aspetto tecnico. Il significato vitale è più ampio. La cura in realtà è un “prendersi cura”, cioè un interessarsi al benessere di se stessi, della comunità e dell’ambito in cui si vive. Questo è quanto si comprende leggendo l’opera antropologica di Paola Atzeni “Corpi gesti stili”. Per corpi intende i corpi fisici che si prendono cura del sé. Per gesti e stili intende le attività svolte da quei corpi che vivono, desiderano, programmano, valutano e poi si prendono cura di tutto quanto li circonda. L’opera è una ricerca del significato ontologico della “cura”; significato che può essere sintetizzato nell’affermazione: curo, quindi sono. è un’affermazione simile al “dubito e quindi sono” di Sant’Agostino, o al “penso e quindi sono” di Cartesio.

Corpi gesti stili” è una ricerca scientifica del 1986 ed esamina un mondo “ marginale” vissuto da quattro donne delle periferie rurali del Sulcis. Non parla mai del mondo industriale, parallelo e “privilegiato”, che le ha escluse, però ne fa sentire la presenza incombente.

Nel mondo privilegiato esiste una società ricca, organizzata e altera che, chiusa in un ambito impenetrabile e respingente, ha sottomesso, abbandonato e poi espulso da sé quelle donne del mondo rurale. Il mondo rurale, a sua volta esiste inferiorizzato, senza protezioni fuori dai confini del mondo tecnologico che, al contrario, è racchiuso in un guscio di sicurezze.

I casi delle donne studiate riguardano una prima donna che sa macinare il grano con un’antica macina mossa da un asino; sa cernere la crusca dalla semola e dalla farina fine, e ne fa scambio con i prodotti di altre donne assicurando una riserva alimentare alla comunità. La seconda donna sa impastare e panificare in un forno a legna e rifornisce settimanalmente la piccola comunità; la terza donna sa potare le palme nane per farne scope per l’igiene delle abitazioni, e le vende e scambia in un vasto territorio. Il quarto gruppo di donne si occupa della raccolta dello olive per la fornitura di olio alla comunità.

L’organizzazione sociale in queste comunità di donne è basata su criteri di rispetto, di tutela del prossimo e di democrazia da fare invidia ai filosofi greci del quinto secolo avanti Cristo ad Atene.

Seguendo l’iter dello studio osservazionale, protratto per circa 40 anni, si scopre che le donne del mondo rurale, nel tempo, hanno maturato un duraturo sistema di sopravvivenza superiore a quello del mondo industrializzato, creando un’organizzazione sociale tale da metterle autonomamente al sicuro dai rischi di vita per penuria alimentare, sanitaria e di difesa dalle violenze. I casi studiati dimostrano come quelle donne si siano messe al sicuro prendendosi cura ognuna di sé, della propria famiglia, e delle altre donne della comunità, attraverso l’esercizio della solidarietà.

Questo ambiente antropologico è collocato storicamente negli anni ‘80 del 1900 e, come si vedrà, ha avuto la capacità di saper sopravvivere integro dalla sua origine fino ad oggi.

Gli anni d’inizio dello studio erano quelli in cui nel Sulcis era già avvenuta la transizione dall’economia agricola a quella industriale. I maschi negli anni ‘60-’70 erano stati selezionati per il passaggio dal mondo rurale all’industria mentre le donne degli abitati rurali erano state progressivamente marginalizzate dalla società tecnologica che si stava instaurando, ed erano state costrette a sopravvivere riprendendo metodi produttivi ancestrali basati sulla cura della terra.

Mentre nel mondo “privilegiato” si creava una gerarchia comunitaria basata sullo scambio di danaro e in fabbrica si instaurava una gerarchia del lavoro basata sulla logica della ingegneria sociale, nel mondo “marginalizzato” rurale si creava una convivenza basata sullo scambio di valori. Si trattava di valori non monetizzabili come la capacità e l’abilità nel produrre sicurezza alimentare per sé e per gli altri, lo scambio democratico di privilegi basato sull’alternanza nelle posizioni gerarchiche, il riconoscimento del merito e lo scambio di rispetto e di cura, generatori di felicità. Si erano instaurati due mondi, uno privilegiato e l’altro marginalizzato, con due sistemi etici divaricanti fra essi.

Il contenuto del libro è ben rappresentato nella figura di copertina. Si tratta di un affresco in cui donne, disposte in riga, hanno il busto piegato in avanti e flesso sulle gambe diritte, nell’atteggiamento di chi sta svolgendo un lavoro in basso.

E’ un’immagine ancestrale, già vista molte volte. Rappresenta le raccoglitrici di olive in Sardegna, ma può rappresentare anche le mondine delle risaie, le raccoglitrici del cotone e del tabacco, le cernitrici delle miniere, le raccoglitrici di arselle in laguna, le vendemmiatrici, le potatrici di palme nane per ottenerne scope. Sono tutte immagini di donne al lavoro per portare nutrimento alla famiglia. Quell’affresco ricorda anche la postura delle donne degli asili infantili che assistono i bambini, le donne in divisa da infermiera inchinate sugli ammalati negli ospedali, le assistenti delle RSA chine sui pazienti non autosufficienti. Sono immagini di cura di corpi umani.

Questa immagine di donne chine al lavoro nella cura della terra e degli altri è probabilmente l’immagine più antica della storia dell’Uomo. Nel Mesolitico, al tempo in cui i cacciatori-raccoglitori migravano dal continente africano a quello asiatico ed europeo, ad un certo punto, mentre gli uomini si allontanavano per la caccia, le donne si fermarono per dedicarsi alla cura dei figli e alla produzione di alimenti coltivando cereali e allevando animali addomesticati. Furono le prime immagini di donne chine verso terra per raccogliere o coltivare qualcosa che assicurasse la famiglia dal pericolo di morte per penuria di alimenti. Lì nacquero i primi aggregati di abitazioni rurali e lì si formarono i primi villaggi. Lo fecero per prendersi cura di quei corpi che i loro corpi avevano generato, e lo fecero con gesti e stili che hanno attraversato il tempo fino a noi. Gesti e stili sempre uguali: chine, flesse ad accudire la famiglia e la comunità delle altre donne in un interscambio di cure.

Nella stesura del libro l’autrice non nomina mai la città tecnologica e l’enorme sviluppo industriale del Sulcis di 40 anni fa, tuttavia si percepisce che, col passare dei decenni, in quel mondo sono sopravvenute le crisi: quelle crisi che avvengono «quando il vecchio è morto e il nuovo non riesce a nascere».

Dopo la crisi dell’economia agricola del Sulcis, conseguente al richiamo degli uomini dalla terra all’industria, si passò in pochi anni ad una nuova crisi delle attività produttive; stavolta toccò agli operai delle industrie.

Le industrie vennero delocalizzate in altre aree dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa e il Sulcis de-ruralizzato si trovò in breve tempo anche de-industrializzato. Quell’ambito sociale, che era stato privilegiato dallo sviluppo industriale, venne a sua volta “marginalizzato”. Ripresero le emigrazioni degli operai e dei tecnici più giovani. Rimasero i vecchi e i pensionati.

Gli effetti si fecero sentire anche sul Sistema Sanitario Ospedaliero.

Negli anni ‘90 la spesa sanitaria degli Ospedali venne dichiarata insostenibile. Allora ci vennero inviati economisti di stampo bocconiano che ci insegnarono i metodi per ottenere “efficienza ed efficacia” facendoci credere che si potessero ottenere gli stessi risultati di cura riducendo, però, il personale e il finanziamento della sanità.

A causa della riduzione del personale e del mancato aggiornamento degli strumenti, avvenne il calo delle operazioni chirurgiche e dei ricoveri in medicina interna. Comparve per la prima volta la parola “doppioni”, usata per indicare i reparti ospedalieri simili fra Carbonia e Iglesias. Con la motivazione degli “inutili doppioni” si procedette alla soppressione di alcuni reparti a Carbonia e alla chiusura di interi ospedali ad Iglesias; per di più non si tenne conto che nella curva demografica stava avvenendo uno scompenso provocato dalla forte crescita delle età avanzate e, nonostante il forte aumento di tumori e di malattie vascolari, si chiusero posti letto di chirurgia e di Medicina. Fu un’euforia autodistruttiva e gli Ospedali, che sono il fulcro del sistema di cura, entrarono in crisi.

Circa quattro decenni dopo, con l’indagine antropologica di “Corpi gesti stili” siamo ad un’ulteriore svolta storica: siamo definitivamente entrati nella de-globalizzazione degli scambi commerciali e nella globalizzazione della minaccia nucleare. Questo nuovo stato di cose ci trova impreparati e non abbiamo idea di come evolverà la condizione dell’economia in questo angolo di Sardegna.

La citata opera antropologica, che fu portata a termine nel 2019, ci offre, nella terza parte del libro, riflessioni che oggi possono rappresentare un indirizzo per affrontare l’ incerto futuro economico che incombe. A tal fine, l’autrice chiama in causa tre donne scienziate, esperte di organizzazione sociale in condizioni critiche, femministe, filosofe e antropologhe: Carol Gilligan, Judith Butler e Maria Puig de la Bellacasa.

Confrontando le sue ricerche con quelle delle tre scienziate giunge alle stesse conclusioni suggerendo il recupero dei valori del mondo rurale basati sulla “cura della famiglia, del prossimo e dell’ambiente”.

Le quattro scienziate concludono in sintonia che si deve ricostruire una società umana e politica basata sulla “cura vicendevole”, la “buona cura” e la “cura orientata”, cioè deve trattarsi di un rapporto di cura interscambiabile ed esteso all’Ambiente. La Gilligan suggerisce la costituzione di un sistema di cura autoprodotto, autosufficiente e indipendente. Sostiene che l’autonomia della cura è fondamentale per assicurarsi la libertà e la sicurezza; inoltre introduce un principio innovativo con cui avverte che si deve avere la certezza che nessuno possa utilizzare il bisogno di “cura” al fine di instaurare un rapporto di dipendenza a danno di chi usufruisce di quella “cura”. Per non cadere nella soggezione di nessuno essa afferma che le comunità devono esercitare un serrato controllo sull’apparato che elargisce la “cura” e afferma: «Non mettetevi nelle condizioni di dover accettare delle cure che non siano sotto il vostro controllo, pena la dipendenza, la carenza di cure, la mancanza totale di cure o anche l’abbandono».

Sembra una premonizione di quello che sta avvenendo oggi a danno dell’apparato sanitario del Sulcis Iglesiente che a causa della dipendenza da altri è entrato in sofferenza.

Questa lezione dovrebbe costituire la base antropologico-filosofica da cui non possono prescindere i nostri sindaci, nel momento in cui si confrontano con i poteri regionali, perché i poteri sovraordinati sono difficilmente controllabili e, soprattutto, potrebbero essere “interessati ad accrescere se stessi” come afferma Judith Butler citando Nietzsche.

Dopo quasi 40 anni dall’inizio dello studio, e dopo i rivolgimenti politico-economici del pianeta, la nostra studiosa ha verificato che la società tecnocratica, a sua volta emarginata dalla globalizzazione e dalla fine delle industrie, per la propria sussistenza ha nuovamente necessità della terra per l’agricoltura, per l’allevamento, per fini di autoconsumo, e anche per fini turistici.

L’autrice, seguendo le osservazioni della filosofa-antropologa Maria Puig de la Bellacasa, che sostiene la “Permacultura” (equilibrio permanente fra Uomo e Ambiente) invita a porre attenzione sulla “Biopolitica”, e sui “Biopoteri” (quei poteri che condizioneranno la vita sulla Terra oggi che il pianeta, con suoi quasi 9 miliardi di abitanti, ha un forte bisogno di terra utile).

Per sopravvivere in questo contesto umano e planetario ella suggerisce una politica di sviluppo culturale ed economico indirizzato verso la cura di quei luoghi che prima chiamavamo “abitati rurali sparsi” che nello studio sono gestiti da donne. Essi oggi potrebbero essere una via necessaria per la futura “cura” di noi stessi e per sfuggire alla penuria di alimenti e di sicurezza che dovremmo attenderci.

Mario Marroccu