7 March, 2025
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Il giorno 1 giugno 2023 la Giunta regionale ha deliberato la costruzione di 4 nuovi ospedali in Sardegna. Ne sono stati previsti uno a Cagliari, uno nel Sulcis Iglesiente, uno ad Alghero ed uno a Sassari. Il nuovo “Ospedale della città” di Cagliari dovrà sostituire gli attuali Brotzu, Oncologico, Microcitemico e SS Trinità che verranno chiusi. Similmente l’ospedale nuovo del Sulcis Iglesiente sostituirà il Santa Barbara, il CTO e il Sirai. Così avverrà per Alghero e Sassari.

La delibera, tuttavia, non contiene indicazioni sulle risposte da dare ai seguenti quesiti: “Quando?”, “dove?”, “come?”e “perché?”. Per ora sono in sospeso e non sarà facile definire i Tempi, i Criteri e le Norme.

I “Tempi”.

Se i 4 ospedali sorgessero all’istante sarebbe una bella idea, ma non è così perché nel mondo reale le cose avvengono col “consumo di tempo”. E’ presumibile che per costruire i nuovi ospedali ci vorranno dai 15 ai 25 anni e molti degli attuali sardi sessantenni non ne vedranno l’inaugurazione.

Oggi, con gli incombenti pericoli di nuove epidemie, del cambiamento climatico, di altri shock energetici, di un’immane immigrazione, e di un inedito cambiamento demografico, gli attuali sessantenni dovranno assolutamente assicurarsi che per i prossimi 20 anni gli ospedali continuino a funzionare benissimo. E’ certo che i futuri ospedali saranno destinati alla futura generazione.

Il proposito di costruire nuovi ospedali venne ufficialmente espresso nella legge regionale 24/2020 all’articolo 42. Per produrre la delibera attuativa, pubblicata il 13 giugno 2023, ci son voluti 3 anni. Questi sono i tempi tecnici di qualunque amministrazione pubblica. Ora ci vorranno i tempi necessari per il concorso di idee e per l’individuazione di un’area di almeno 30 ettari adatta dal punto di vista geomorfologico. Altro tempo sarà necessario per la scelta del sito esatto in cui costruire il nuovo ospedale mettendolo al centro delle vie di comunicazione terrestri, marittime e ferroviarie, rispettando la densità della popolazione, la non interferenza con altri interessi, e l’accordo politico che dovrà essere raggiunto con il concorso di un referendum provinciale. Vi saranno i tempi per la progettazione, l’edificazione, l’arredamento, l’impiantistica, le variazioni in corso d’opera, il reperimento del personale e, soprattutto, il reperimento di altri fondi dato che l’inflazione avrà svalutato i finanziamenti attualmente disponibili. Considerato che per porre la prima pietra del nuovo ospedale di San Gavino ci sono voluti 20 anni si può supporre che la previsione di 15-25 anni per vedere costruiti e in funzione i futuri 4 ospedali sia abbastanza realistica.

Le discussioni dei politici riportate dai quotidiani, intanto, continuano senza chiarire bene i termini.

I “Criteri”.

Non si può fare a meno di osservare che in queste pubbliche discussioni manca un fattore ineludibile: i “Criteri” da utilizzarsi per raggiungere lo scopo. In passato per formulare i “Criteri” ci vollero molti secoli.

Ogni periodo storico, da 2.000 anni ad oggi, ha avuto i suoi “Criteri”.

Ai tempi di Cesare Augusto gli ospedali non esistevano.

A Roma, nell’Isola Tiberina, esisteva una “vulneraria” in cui venivano curate le ferite dei gladiatori e degli schiavi. Il criterio per l’esistenza del vulneraria fu: avere un luogo specializzato e isolato per riparare gli strumenti del divertimento e del lavoro.

Ai tempi di San Benedetto e San Basilio, nel quinto secolo d.C.,  gli “hospitalia” servivano a prendersi cura dei “poveri cristi”. Il Criterio era religioso.

Nel Medio Evo, tra il 1.000 e il 1.400, gli “hospitalia” venivano costruiti con fondi donati dai ricchi commercianti. Il loro vero fine era quello di acquisire meriti per essere ammessi in  Paradiso. Il criterio per l’edificazione di quegli ospedali era caritativo.

Quel sistema caritativo dette vita ad un’economia fiorente basata sulle donazioni alle organizzazioni pseudoreligiose che lo dominavano. A Milano nel 1450 esistevano ben 16 ospedali caritativi in mano a “conversi e converse “che agli occhi della chiesa suscitavano scandalo. Il cardinal Enrico Rampini per mettervi ordine dette il via alla costruzione dell’Ospedale Maggiore. Per riuscire nel suo piano ebbe necessità della protezione degli Sforza e del Papa. Così poté chiudere quei 16 ospedali caritativi privati e trasportare i malati nel suo nuovo ospedale. L’Ospedale Maggiore fu destinato ai malati acuti; i malati cronici vennero messi in un altro ospedale alle porte della città.

Con quell’impresa il Cardinale aveva realizzato il primo sistema ospedaliero “per intensità di cure”.

Per costruire l’Ospedale Maggiore (tutt’oggi funzionante) il cardinale Enrico Rampini dettò i suoi criteri:

1 – La  prossimità dell’ ospedale alla popolazione;

2 – L’ amministrazione controllata da rappresentanti popolari.

3 – La vicinanza ai Navigli per le fonti d’acqua;

4 – L’affidamento del progetto al massimo architetto del tempo: il Filarete;

5 – Il servizio d’acqua corrente in camera e nei bagni;

6 – L’ esistenza di una efficace e capillare rete fognaria;

7 – I letti singoli (fino ad allora erano ovunque a 4 e a 8 posti e il fratturato stava coll’appestato);

8 – Gli  armadietti singoli personalizzati (vennero inventati i comodini);

9 – I servizi igienici dovevano essere separati dalle degenze e situati in una corsia parallela;

10 – La cucina in un piano separato;

11 – La corsia maschile  distinta da quella femminile;

12 – I malati chirurgici distinti da quelli internistici;

13 – Le  “Zone filtro” per l’igienizzazione dei  nuovi ricoverati;

14 – Le abitazioni per il personale annesse all’ospedale

15 – Gli Impianti di riscaldamento e di aerazione per tutti gli ambienti.

Il Filarete, progettò l’opera secondo i Criteri dettati dal Cardinale e tale progetto divenne pilota per tutta l’Europa. Egli fu il primo architetto dell’ospedale moderno.

I “Criteri rampiniani” i cui scopi erano l’igiene e l’umanizzazione, rimasero immodificati fino al ventesimo secolo.

Dopo il disastro della Prima Guerra Mondiale e le due epidemie di Spagnola e Tubercolosi che seguirono gli architetti specialisti in ospedali aggiunsero altri “criteri”. Si trattò di Criteri, oltre che di umanizzazione delle cure e di difesa dalle infezioni epidemiche, di buona gestione economica e di risparmio di energia.

Fino ai primi del 1900 gli ospedali furono costruiti su un piano orizzontale e a padiglioni. Poi nei primi decenni del 1900 in America comparvero gli ospedali skyscraper (grattacieli) nella forma di complessi verticali alti fino a 30 piani. Si trattava di strutture in acciaio e calcestruzzo, costruite in moduli prefabbricati, dotate di veloci ascensori. Negli anni ‘20-’30 il modello si diffuse in tutta Europa. L’antesignano di tali progetti fu l’architetto finlandese Alvar Aalto. Il criterio che pilotò verso il monoblocco fu quello della riduzione  dei tempi di percorrenza per favorire la prontezza nel soccorso. Il “Tempo “ è il fattore che condiziona tutta la medicina d’urgenza e ciò ha indotto alla progettazione degli ospedali verticali dotati di trasporti semplificati e veloci. L’altro vantaggio è l’impiantistica comune e facilmente accessibile posta all’interno di colonne in cavedi verticali attraversanti tutti i piani. Il monoblocco di Alvar Aalto venne realizzato nella città di Paimio in Finlandia. Quel progetto di ospedale vinse un concorso internazionale di idee indetto dal Governo americano nel 1930. Fu la vittoria definitiva degli ospedali a monoblocco verticale sui complessi ospedalieri orizzontali a padiglioni. L’ospedale di Paimio aveva la caratteristica d’essere un monoblocco con annesse due “stecche” laterali. Il blocco centrale, destinato alle camere di degenza, aveva ampie fenestrature esposte a sud-sud-est secondo l’arco del sole. Lo scopo era quello di captare il più possibile i raggi solari per l’illuminazione, per il riscaldamento e la salubrità della stanze, secondo il criterio di efficienza e efficacia. La vista riservata ai degenti dava su un grande parco con alberi e prati. Il lato esposto verso occidente era riservato ai servizi. La prima stecca serviva alle camere operatorie, ai laboratori e alle radiologie. La seconda stecca era destinata ai servizi amministrativi e tecnici. Esisteva nel complesso una parte destinata alle residenze del personale sanitario. Il criterio era l’autosufficienza.

Nel periodo fascista in Italia il regime dette notevole impulso alla costruzione di nuovi ospedali. Negli studi tecnici ingegneristici specializzati in architettura ospedaliera nacque un vivace dibattito sulle varie idee di progettazione. Il criterio generale era: ridurre al minimo ingombro i fabbricati sviluppandoli in altezza e accentrando i servizi.

In vari concorsi di idee prevalsero sia i progetti dell’architetto Concezio Petrucci che sviluppò un progetto a “T”, con 4 letti per camera, sia i progetti dell’architetto Giorgio Rossi. Il criterio era l’umanizzazione. Erano gli anni in cui si costruiva la città di Carbonia; nell’originale linea a “T” del suo ospedale si notano tutti gli influssi del pensiero architettonico del tempo.

Quei progetti  rispettavano i criteri di Alvar Aalto:

Nel 1964 il più famoso architetto del ventesimo secolo, Le Corbusiér, ebbe l’incarico di progettare l’ospedale di Venezia. Con quel progetto egli andò contro-corrente e modificò le linee guida di Alvar Aalto: progettò un ospedale orizzontale. Il motivo era legato alla necessità di non erigere un grande edificio al centro di Venezia che col suo corpo di calcestruzzo e acciaio confliggesse con gli antichi edifici in mattoni rossi della città lagunare. L’ospedale fu progettato su tre piani. Il piano terra fu destinato ai servizi per il pubblico; il primo piano per i servizi medici veri e propri sale operatorie e diagnostiche); il secondo piano per le degenze. Si seguì il criterio della efficienza, dell’urbanistica e dell’estetica.

In questo anno 2023 nella città di Cremona è in corso una preselezione per partecipare al concorso per il nuovo ospedale. I criteri dettati dal committente sono:

Strutture modulari e flessibili in grado di adattarsi con facilità agli eventi (vedi nuova epidemia);

La Logistica che dovrà prevedere percorsi interconnessi fra Ospedale, Territorio, casa del paziente;

– L’ Ecosostenibilità che metta al centro la cura del paziente, degli operatori e dei visitatori.

Si tratta con tutta evidenza di nuovi criteri di prevenzione, prossimità e umanizzazione esaltati dall’esperienza Pandemica Covid.

Attualmente esiste, anche in Toscana, il progetto di costruire 4 nuovi ospedali: a Prato, a Pistoia, a Lucca, e nel territorio Apuano. Lo scopo è quello di sostituire i vecchi ospedali nati più di un secolo fa.

Anche qui sono stati individuati alcuni criteri pilota che dovranno essere rispettati dai progettisti:

– La persona e le sue necessità messe al centro del progetto;

– L’assistenza continua personalizzata;

– L’integrazione dei percorsi di cura col territorio;

– percorsi multidisciplinari; modello a “intensità di cure”

Tutto sommato sembrerebbero criteri non molto diversi da quelli del cardinal Enrico Rampini nel 1450 e di Alvar Aalto del 1930.

Le “Norme”.

All’elenco di “criteri” maturati nei secoli oggi se ne potrebbe aggiungere uno specifico per il Sulcis Iglesiente: ritorno al passato restituendo ai nostri Ospedali tutti i Servizi e il Personale cancellati da leggi restrittive. L’unico modo per ottenere quella restituzione consiste nel ridurre la rigidità delle  normative vigenti nate dopo la fine della Grande Riforma Sanitaria del 1978. Esse creano gravi problemi agli ospedali provinciali a tutto vantaggio degli ospedali dei capoluoghi di regione. L’ultima di queste leggi restrittive, il DM 70/2015, ha posto limiti all’attività e alla dimensione agli ospedali provinciali cancellando le speranze di autosufficienza e di ripresa.

Questo ragionamento oggi appare solidamente fondato. Lo conferma una autorevole nota ministeriale che sta sollecitando il riesame di certe leggi. E’ quanto sembrerebbe di capire dal documento emanato il 6 giugno 2023 dal Capo di Gabinetto del Ministero della Salute. Esso decreta “l’istituzione di un tavolo tecnico presso l’Ufficio di Gabinetto per lo studio delle criticità emergenti dall’attuazione del DM 70 e del DM 77”.

Il DM 70 è quel decreto che con le sue regole stringenti, provocò l’ulteriore riduzione dei posti letto e di servizi specialistici nei nostri ospedali di Carbonia e Iglesias.     

Oggi i nostri politici dovrebbero porre attenzione a questo riesame  delle Norme che regolano l’organizzazione dei servizi ospedalieri. Per ora si può già dire che la nota del Capo di Gabinetto del 6 giugno conferma la validità delle nostre segnalazioni sulla disparità di trattamento tra territorio e capoluogo.

Qualora la commissione per il riesame del DM 70 confermasse le nostre ragioni e dettasse Nuovi Criteri per la definizione della rete ospedaliera regionale, forse i nostri ospedali recupererebbero l’efficienza perduta e potremmo aspettare serenamente i 20 anni che ci vogliono per costruire i nuovi 4 ospedali sardi.

L’Autonomia riconosciuta a noi sardi in Costituzione ha ragioni molto diverse da quelle che oggi sono alla base del recente disegno di legge sull’“Autonomia differenziata”. La prima fu approvata per generare coesione nazionale e sussidiarietà. La seconda invece pare avere principi e finalità differenti.

L’Autonomia sarda derivò dall’esperienza di tre secoli di sottomissione alla Spagna, da un secolo di resistenza ai piemontesi e da un altro secolo di guerre e battaglie per fare l’Italia. I sardi inventarono l’“Autonomia” per porre fine alla povertà indotta dal feudalesimo. Nei tre secoli in cui la Sardegna era stata sottoposta al dominio spagnolo, la sua amministrazione era basata su una gerarchia molto semplice.

Esisteva il “vassallo” del re che, per diritto feudale, era proprietario di tutto: delle terre, delle persone, degli animali, dei mari e dei pesci, dei boschi, insomma di tutto. L’economia era semplicissima: dentro il feudo avvenivano la produzione, il consumo e la vendita o lo scambio dei prodotti della terra; il commercio finiva lì. In un sistema economico e culturale chiuso, senza scambi col mondo esterno, la povertà era assicurata. Una siffatta povertà si è poi radicata in modo strutturale e persistente. Fino all’anno 1714 la Sardegna e il ducato di Milano furono parte integrante dell’impero spagnolo. Il regime di controllo politico a cui erano sottoposti i sardi e i milanesi era simile, ma in Sardegna la vita era infinitamente peggiore. Nel 1702, dopo la morte dell’imperatore di Spagna Carlo II, che non lasciava eredi, era scoppiata una guerra di successione terrificante tra la Francia e il resto d’Europa (Inghilterra, Sacro Romano Impero e piccolo Ducato di Savoia). Alla fine, con il trattato di Ramstatt del 1714, l’impero spagnolo venne spezzettato. Con la spartizione la Sardegna venne assegnata al duca di Savoia, il Lombardo-Veneto invece venne assegnato agli Austriaci.

La nobiltà sarda, di genealogia spagnola, mantenne in vita il regime feudale con le note conseguenze sociali, economiche e culturali di arretramento. Il Lombardo-Veneto invece fu molto più fortunato perché, nonostante mancasse la libertà politica, il regime feudale finì e l’economia, la burocrazia, la cultura e l’organizzazione sociale si adeguarono all’evoluzione post-feudale di tutta l’Europa.

Fino al 1730 circa il duca di Savoia evitò di interessarsi di Sardegna ignorando lo stesso titolo di re che gli era piombato addosso. Dal 1730, con l’intervento del primo viceré sabaudo barone di Saint Remy e, soprattutto, dal 1756 con l’opera riformatrice del conte Lorenzo Bogino, iniziarono i cambiamenti. Fu soprattutto con la nuova cultura illuminista, che proveniva dalla Francia, che i sardi cominciarono a prendere coscienza dei diritti naturali dell’Uomo e del Cittadino. A Cagliari, alla fine del 1700, nel rione di Stampace, si formarono in segreto circoli illuministi di stampo giacobino e iniziò a prendere corpo l’idea di autogovernarsi secondo i principi di uguaglianza e di libertà. Contemporaneamente esisteva un vasto movimento autonomista in Corsica alimentato da Pasquale Paoli e si instaurarono contatti fra i movimenti delle due isole. Pasquale Paoli dapprima combatté i Genovesi per liberare la Corsica dal loro dominio, poi si ribellò anche ai Francesi, divenuti i nuovi padroni. Quella ribellione non si è mai spenta completamente tanto che Paoli tutt’oggi è considerato il padre della patria corsa. Similmente anche i sardi rifiutarono di finire sotto il nuovo padrone francese, e successivamente cacciarono i Piemontesi maturando l’idea di Autonomia del popolo sardo. Tutto iniziò nel 1793. A gennaio di quell’anno le navi da guerra francesi inviate dal Comitato rivoluzionario di Salute pubblica di Parigi, al comando dell’ammiraglio Truguet, occuparono le isole di Carloforte e Sant’Antioco. Come primo atto gli occupanti-liberatori vi fondarono la prima repubblica italiana: “La Rèpublique de la Libertè”. I Carlofortini, dapprima accettarono, ma i Calasettani e gli Antiochensi no.

Una volta occupate militarmente le due isole sulcitane, le truppe francesi iniziarono la marcia su Cagliari passando dall’istmo di Santa Caterina. Allorché le truppe si inoltrarono nell’istmo vi fu un’incredibile reazione da parte di sei abitanti della zona che, saltati a cavallo e caricati gli schioppi, attaccarono i soldati francesi e in men che non si dica ne uccisero 20. Il fatto interruppe l’avanzata francese e dette tempo al cavalier Camurati, piemontese, di organizzare le sue truppe nella terraferma e di ricevere l’appoggio di armati inviati dalla curia di Iglesias. Questi erano una milizia privata bene armata e, infervorati fa un frate guerriero, un tal padre Arrius, erano pronti a tutto, pur di fermare i francesi rivoluzionari anticlericali. L’ammiraglio francese, vista quella micidiale resistenza, dimise subito l’idea di raggiungere Cagliari per quella via, reimbarcò le truppe sulle navi ancorate nel Golfo di Palmas e procedette per via mare. Dopo pochi giorni la flotta da guerra francese cannoneggiò Cagliari e sbarcò le sue truppe d’assalto nella marina di Quartu. Le guardie svizzere che proteggevano il Castello di Cagliari, si asserragliarono chiudendo i ponti levatoi. Il popolo, lasciato solo, si armò e, organizzato da leaders improvvisati come Vincenzo Sulis e Girolamo Pitzolo, sorprese i soldati invasori nelle paludi di Quartu e del Poetto e ne fece strage. I Francesi rinunciarono e ripartirono. In quelle due battaglie, quella di Santa Caterina nel Sulcis e quella di Quartu, si era manifestata, dopo molti secoli di rassegnato torpore medioevale, un nuova entità guerriera che avrebbe fatto la storia: il “popolo sardo”.

Il re piemontese in tutta risposta premiò le guardie svizzere che si erano asserragliate in Castello e ignorò il popolo che aveva difeso sé stesso e anche la sede del viceré Balbiano. I coscritti dei circoli stampacini, approfittando dei meriti maturati in quel momento, organizzarono un Commissione per chiedere udienza al re a Torino e proporgli le cosiddette “cinque domande”. Si trattava di richieste apparentemente molto semplici ma che contenevano fondamentalmente il riconoscimento e la legittimazione del “popolo sardo” come nuovo soggetto da prendere in considerazione e introdurre nell’apparato per l’amministrazione e la difesa della Sardegna. Si trattava, di fatto, del primo abbozzo scritto dell’idea di “Autonomia” sarda. Il re Vittorio Amedeo III, molto regalmente, ignorò la Commissione e la lasciò in attesa fuori dal suo palazzo per 6 mesi, poi respinse le “5 domande”. Fu una grande umiliazione.

A Cagliari, nel quartiere di Stampace, per reazione fervèttero ancor di più le riunioni dei circoli giacobini allo scopo di creare una coscienza popolare rivoluzionaria. Qui, un anno dopo le battaglia contro i francesi, maturarono i fatti di “Sa Die de Sa Sardigna”: il 28 aprile 1794. Quel giorno, non potendone più degli arresti e delle provocazioni delle guardie del Viceré, il popolo si rivoltò e puntò armi e cannoni contro Castello. La battaglia fu intensa, con morti da ambo le parti, è finì con la conquista della piazzaforte e con lo “Scommiato”, cioè la cacciata da Cagliari dei Piemontesi che vennero imbarcati su navi dirette a Genova. Con questi eventi violenti il popolo sardo entrò nel vortice delle rivoluzioni della fine del 1700 e con la sua rivolta contro i Savoia divenne attore di primo piano nello stesso violento scenario storico per portò all’Indipendenza degli Stati Uniti di America con Giorgio Washington e al Terrore di Parigi con Robespierre. Il re di Sardegna si trovò all’improvviso dentro la Rivoluzione che stava agitando l’Europa; capì la situazione e accettò immediatamente le “5 domande”. Fu la prima pietra storica dell’edificio giuridico che in 150 anni avrebbe sancito l’Autonomia Speciale della Sardegna. In quella storia di rivoluzione e riscossa avvenne un triste fatto emblematico dell’insofferenza del popolo sardo. Due dei Commissari sardi, rappresentanti del movimento patriottico, che si erano recati a Torino e avevano concordato i termini della compartecipazione della Sardegna alla nuova gestione, il marchese della Planargia e Girolamo Pitzolo, accettarono dal re incarichi e privilegi personali, diventando di fatto collaborazionisti dell’apparato di controllo politico straniero. Furono cioè cooptati nel sistema di potere piemontese. Tale posizione era in netto contrasto con le idee più radicali di Autonomia rappresentate da Giovanni Maria Angioy. Ciò creò nei sardi, che si sentirono traditi, un forte risentimento che esplose in una rivolta sanguinosa con il massacro dei due, avvenuto a Cagliari nel luglio 1795.

Il sogno dell’autonomia coltivato dai sardi con “Sa Die de sa Sardigna del 1794” non fu facile da realizzare; dopo l’accettazione delle “5 domande” quel sogno fu represso da frustrazioni dolorose che andarono avanti per tutto il 1800. I sardi, per le doti guerriere che avevano dimostrato, erano diventati, per il re di Sardegna, un esercito di soldati professionisti, fedeli, coraggiosi e micidiali, da utilizzarsi in battaglia. Furono impiegati efficacemente a fianco dei Francesi contro i Russi in Crimea nel 1853-56. Subito dopo Napoleone III accettò di aiutare il regno Sardo nella Seconda guerra d’Indipendenza. Da allora i sardi rappresentarono il nerbo delle forze speciali in tutte le guerre che seguirono. Questo non fu dimenticato.

Fin dall’inizio del 1800, al centro dell’interesse, nella vita civile dei sardi, vi era sempre stata la rinascita dell’Isola, partendo dall’agricoltura. Il dibattito che ne era seguito in sede di governo aveva generato l’editto delle “chiudende”, nella convinzione che la distribuzione al popolo delle terre dei Salti o ademprivi, avrebbe favorito una nuova economia imprenditoriale.

Tale metodo di distribuzione del latifondo reale era stato sperimentato nel regno Unito con qualche successo. In Sardegna fu un fallimento, perché le terre finirono nelle mani dei più ricchi e i poveri rimasero senza pascoli e senza terra libera da coltivare, perché i salti vennero inglobati nel latifondo privato. L’uscita dalla mentalità feudale si rivelò difficilissima. Durante tutto il secolo vennero istituite diverse commissioni parlamentari che svolsero inchieste per trovare una soluzione alla cronica povertà dell’Isola. Nel 1897 venne approvata la prima legge speciale per la Sardegna. Ad essa seguirono le leggi speciali del 1902 e 1914. Alla fine si approdò alla legge nota come “Legge del Miliardo” con cui si disposero spese per l’esecuzione di opere pubbliche finalizzate ad ottenere una maggiore produzione e migliorare il tenore di vita della popolazione.

L’Italia neonata aveva continuato ad utilizzare i sardi in prima linea in tutte le guerre che seguirono. Da quelle in Africa a quelle in Europa. I sardi furono messi al centro del fronte di tutte le battaglie dell’Isonzo nella prima Guerra mondiale, e furono essi, con la Brigata Sassari, i temuti “diavoli rossi”, che protessero le truppe italiane in fuga dai cacciatori austriaci nella ritirata di Caporetto. Dai reduci di quella guerra nacque il Partito sardo d’Azione con un programma Autonomistico. L’Autonomia sarda non fu bene accetta dal Fascismo ma riprese vigore alla fine della Seconda Guerra Mondiale, con la richiesta di introdurre in Costituzione il riconoscimento della Sardegna come regione ad Autonomia Speciale.

Il riconoscimento avvenne il 26 febbraio 1948, con la legge n. 3. I padri Costituenti che presentarono le motivazioni per la concessione dell’“Autonomia Speciale” alla Sardegna furono Emilio Lussu e Renzo Laconi. La sintesi delle motivazioni fu: «Povertà secolare per una storica sottomissione che ne ha impedito lo sviluppo economico».

I Costituenti Repubblicani tennero conto delle diverse istanze provenienti dalle regioni e optarono per concede ad alcune di esse l’Autonomia speciale, nel rispetto del principio di indivisibilità della Repubblica e della sussidiarietà tra le regioni.

Vennero riconosciute “Regioni a Statuto speciale” la Sicilia, la Sardegna, la Val d’Aosta, il Trentino alto Adige ed il Friuli Venezia Giulia.

Le motivazioni erano basate su ragioni storiche, geografiche, economiche, per contenere spinte autonomistiche e per la tutela delle minoranze linguistiche.

Ai Consigli regionali delle regioni elencate venne riconosciuto potere legislativo con la possibilità di produrre leggi concorrenti con lo Stato. Fu altresì riconosciuta a tali regioni la competenza ad imporre tributi propri e la capacità di trattenere per i propri bisogni una percentuale del gettito fiscale di alcune imposte statali che poteva essere anche del cento per cento (per esempio sulla produzione e consumo di energia).

Ora questo privilegio, che fu concesso per necessità, è in pericolo.

Una trentina d’anni fa un nostro conterraneo sulcitano, rappresentante sardista, venne invitato ad una cena politica organizzata dal leghista Roberto Maroni in una città del Nord. In quella cena i leghisti vantarono la loro superiorità morale, economica e politica rispetto al Sud. Il nostro uomo prese la parola e rispose: «…evidentemente non sapete che se voi oggi esistete come popolo libero e ricco lo dovete a noi sardi che nel 1859, quando voi eravate l’estrema periferia dell’impero austro-ungarico, con le battaglie di Solferino, di San Martino e di Magenta, vi liberammo dall’oppressore e vi facemmo assaporare l’indipendenza; con la libertà conquistata da noi avete potuto diventare quello che oggi siete».

Questa fu la posizione del sardo quel giorno. Oggi è vecchio e continua a pensare allo stesso modo; non so se le nuove generazioni abbiano la stessa consapevolezza della nostra storia.

Ieri, 6 giugno 2023, l’assessore sardo della Sanità, il professor Carlo Doria, sassarese, ha fatto dichiarazioni da cui si desume che avrebbe deciso di costruire un nuovo mega-ospedale nella Città metropolitana di Cagliari.
Merita molta attenzione. La provincia di Cagliari oggi si chiama “Città metropolitana”, è composta da 12 Comuni ed ha 550.000 abitanti. In essa sono accentrati il potere e i servizi regionali: la struttura politico amministrativa, l’aeroporto, il porto, l’Università, il Tribunale e i grandi Ospedali. Ha una rete ospedaliera esagerata formata da: l’Università di Medicina, il Brotzu, il Microcitemico, il SS Trinità, l’Oncologico, il Policlinico di Monserrato, 8 ospedali privati, numerose RSA, molte Case della salute, Ospedali di comunità e Hospice. In tutto sono circa 2.500 posti letto ospedalieri. Se si considera che in tutta la Sardegna sono presenti poco più di 5.000 posti letto, ne consegue che Cagliari accentra in sé circa la metà dei posti letto ospedalieri di tutta le regione.
La provincia del Sulcis Iglesiente ha 120.000 abitanti. In essa esistono due “ospedaletti” in estremo stato di miseria. Il piano contenuto nell’“atto aziendale” accettato dal professor Carlo Doria attribuirà in futuro alla nostra provincia, complessivamente, 313 posti letto. In questo momento non ne abbiamo attivi neppure 200. Per legge ce ne spetterebbero 414. Praticamente stiamo assistendo ad una distribuzione del Servizio Sanitario di Stato in modo assolutamente iniquo. E’ come se avessimo davanti ai nostri occhi un immaginario signore ricco, obeso, ingordo, opulento grassone che viaggia in Maserati con autista dopo essersi appropriato di fondi presi a due barboni costretti a vivere sotto un ponte. I barboni sono Carbonia e Iglesias. Eppure la legge madre di tutte le leggi, la Costituzione, impone il principio dell’equa distribuzione dei servizi in tutto il territorio. C’è anche una legge dello Stato, nota col nome di legge n. 42 del 2009, che dovrebbe proteggere i due barboni obbligando il ricco Epulone a smetterla di appropriarsi anche delle briciole. La legge, infatti, dice: «La presente legge costituisce attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, assicurando autonomia di entrate di spesa di Comuni, Province, città metropolitane e regioni, e garantendo i principi di solidarietà e di coesione sociale […] garantisce la trasparenza del controllo democratico […] e disciplina il funzionamento del fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante […] secondo l’articolo 119 della Costituzione perseguendo lo sviluppo delle aree sottoutilizzate[…] per il superamento del dualismo economico del Paese…». In sostanza, questa legge costituzionale afferma che non si possono arricchire territori già ricchi e impoverire ulteriormente territori già poveri. Invece, esistono decisori pubblici che ignorano ospedali già feriti da pregresse inaccettabili deliberazioni.
Lo stato miserando dell’Ospedale di Carbonia si vedrà nella sua interezza fra poco. Di fatto il bellissimo reparto specialistico di Urologia è messo nelle condizioni di non funzionare più secondo l’esigenza. Sono stati trasferiti in altre sedi il primario e quattro specialisti urologi, lasciando da soli due medici specialisti col compito enorme di presidiare un territorio con 120.000 abitanti. E’ possibile che il reparto venga soppresso o disperso all’interno di un altro reparto chirurgico. Sarebbe la fine dell’Urologia. La Rianimazione sta per perdere per quiescenza un altro specialista che ha rappresentato la colonna portante della struttura per molti anni. A questa perdita si assocerà la perdita di un altro specialista anestesista per altri motivi. Resteranno in attività per tutto l’ospedale solo quattro anestesisti, contro i 16 anestesisti di 15 anni fa. Ciò renderà inevitabile la chiusura della Rianimazione. I quattro anestesisti superstiti saranno appena sufficienti per le sale operatorie. Dopo la chiusura dell’ostetricia e dell’Anatomia patologica, dell’ospedale resta poco.
La Sanità di Iglesias è allo stremo e quasi annullata, come si legge nei giornali. Ormai si può dire che i nostri due ospedali sono finiti sotto i ponti come barboni. Forse c’è possibilità di ripresa ma, a questo punto, non basta la promessa di soldi. Ci serve immediatamente il personale medico e infermieristico. Purtroppo, questo personale scarseggia e nessuno vuole imbarcarsi in una nave che sta affondando. I pochi specialisti disponibili in campo regionale stanno pensando alla loro salvezza e al futuro delle loro famiglie. Non accettano di venire sotto il ponte dei barboni e si precipitano verso la casa del ricco Epulone, a Cagliari. E’ là che si sta pensando di realizzare a proprio vantaggio l’articolo 42 della legge 24/2020 di istituzione della ARES. E’ la legge che prevede la costruzione di nuovi ospedali in Sardegna. Il problema nasce nel momento dell’interpretazione autentica della legge. Esiste un conflitto di interessi fra chi ha scritto la legge e chi la interpreta, poiché l’autore e l’interprete sono la stessa persona. Così i nuovi ospedali invece che andare al territorio continuano ad essere costruiti a Cagliari.
L’andamento di questa storia sta scorrendo tumultuosamente verso il basso, facendo danni come quei fiumi che hanno sommerso disastrosamente l’Emilia Romagna. Eppure è necessario sognare che l’acqua dei fiumi cammini contro corrente verso l’alto. A tentare di invertire la direzione del torrente ci ha provato il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza).
L’Europa ci ha destinato una valanga di finanziamenti. Con questi, potremmo invertire il corso della Storia. Invece no. I soldi si fermano a Cagliari e lì l’assessore Carlo Doria vuole costruire un nuovo mega-ospedale aggiungendo altri posti letto ad una città che ne ha quasi 2.500. Le città che fino ad oggi hanno visto aumentare i propri posti letto ospedalieri sono state Cagliari e Olbia. Tali posti letto sono stati ricavati dal trasferimento degli stessi posti letto che si trovavano negli ospedali territoriali come quelli di Carbonia e Iglesias. Ciò che sta pensando il professor Carlo Doria è un lusso oggi del tutto esorbitante e ingiustificato davanti alla povertà della vicina provincia del Sulcis Iglesiente.
Ciò che a Cagliari si sta tentando di fare, sarà possibile attraverso il travisamento dello spirito della legge sul PNRR, la quale prevede la “medicina di prossimità”, cioè di quella medicina che deve esistere nei territori in vicinanza dei luoghi dove si trova il malato: si tratta dello stravolgimento interpretativo della legge. Il potere vero è esattamente questo: il possedere la capacità di “interpretare” le leggi. Il vero potente è colui che “interpreta” a proprio favore i sacri testi. Ne deriva che i soldi per la Sanità, invece che distribuirli equamente ai territori, verranno concentrati all’interno del solo Comune metropolitano di Cagliari. Tale concentrazione di risorse a favore di un solo territorio, già di per sé ricco, è esattamente il contrario di ciò che afferma la legge costituzionale n. 42 del 2009. Essa legge all’articolo 2, paragrafo “e” impone che si debba «attribuire risorse ai Comuni, alle province, alle città metropolitane e alle regioni […] secondo il principio di territorialità e nel rispetto del principio di solidarietà e dei principi di sussidiarietà e adeguatezza di cui all’articolo 118 della Costituzione».
Ciò che è contenuto nella dichiarazione di Carlo Doria è esattamente il contrario di quei principi costituzionali. Se si va a leggere la bellissima legge 42/2009, che impone ai politici il rispetto della Costituzione, si scopre che vi sono descritte precise disposizioni sulla distribuzione dei fondi per la Sanità e per tutti i servizi pubblici necessari ai territori. Per esempio dispone di: «…determinare il costo del fabbisogno standard». Non dice che devi dare servizi eccezionali; dice che devi dare almeno i servizi di base, «valorizzando l’efficienza e l’efficacia» che è l’unico «indicatore rispetto al quale comparare e valutare l’azione pubblica» nel rispetto dei “Livelli Essenziali di Prestazione”.
Orbene, quali sono i “Livelli Essenziali di Prestazione”? Con questa espressione si indicano tutte le prestazioni di pubblica necessità e in particolare indicano: l’Istruzione, la Sanità, la Giustizia, i trasporti pubblici locali, la cura dell’Ambiente.
Questi sono i servizi pubblici che mantengono le popolazioni radicate nel loro territorio; senza di essi avviene lo spopolamento. Il territorio è quello che produce il reddito nazionale. Se il territorio si spopolerà, mancheranno coloro che coltivano i campi, che allevano il bestiame, che pescano, che lavorano nelle fabbriche e nelle miniere, che raffinano il petrolio per produrre tutta la benzina nazionale e si inquinano per gli altri, che tengono viva la produzione artigianale e l’industria manifatturiera, che danno assistenza al turismo, eccetera. Il reddito nazionale non viene prodotto nelle sedi del potere politico ma nel territorio. Ne consegue che le amministrazioni centrali che tengono per sé i “Fondi perequativi” immiserendo il territorio sono insensate. E’ da chiarire il significato dei “fondi perequativi”. Si tratta di quei soldi residui che incamera lo Stato dopo che le Regioni hanno trattenuto, per le propri e necessità, i fondi provenienti dalla raccolta fiscale regionale. Quei soldi che eccedono vengono raccolti dallo Stato in un “fondo perequativo” Tale fondo viene poi distribuito, per equità, ai territori meno ricchi, al fine di creare un’uguaglianza nazionale secondo i principi di sussidiarietà e unitarietà della Nazione.
Proprio quei fondi perequativi sono la fonte del finanziamento che garantisce ai sardi la Sanità, l’istruzione e i trasporti pubblici locali. Su quei fondi, che potrebbero essere la salvezza di molti ospedali provinciali, ha puntato i suoi occhi l’assessore Carlo Doria.
Negli ultimi mesi quei fondi sono diventati il bersaglio a cui puntano anche le mire di altri. Si tratta del tentativo di portarli in riduzione secondo il disegno di legge dell’“Autonomia Differenziata” preparato dal ministro Calderoli. Con questo doppio attacco a quei fondi, i nostri ospedali sono entrati in una china pericolosa. Le ricche regioni del Nord chiedono di avere maggiore mano libera nell’attribuire a sé stesse una superiore quota delle entrate fiscali regionali. In tal modo, il fondo perequativo dello Stato si impoverirà drasticamente. Ne conseguirà che la Sanità, l’Istruzione, i servizi di trasporto locale, l’ambiente, eccetera, avranno meno finanziamenti statali a disposizione. Quella legge sancirà la fine della sussidiarietà nazionale.
A conclusione di questo ragionamento, suscitato dalle dichiarazioni dell’assessore sardo della Sanità, potremmo dire che oggi abbiamo due potenti ostacoli alla rinascita degli ospedali di Carbonia e Iglesias.
Il primo ostacolo è rappresentato dalla manifestazione dell’intenzione di aumentare ulteriormente le struttura sanitarie a Cagliari, ignorando le nostre carenze.
Il secondo ostacolo è il disegno di legge Calderoli che ci priverà dei fondi che ci spettano per diritto costituzionale.
La Sanità del Sulcis Iglesiente sta correndo fra due poderosi elefanti e rischia di restarne schiacciata.

Mario Marroccu

E’ sotto gli occhi di tutti l’esistenza di lunghe file di pazienti che si formano davanti ai laboratori diagnostici nella prima metà di ogni mese prima che si esaurisca il magro bubget e la nostra impotenza davanti alle prenotazioni di visite tanto lontane nel tempo da dover ricorrere a specialisti privati a pagamento.
La colpa è nostra. A causa della nostra disattenzione abbiamo lasciato crescere il disservizio sanitario senza prendere provvedimenti.
Quando ci lamentiamo contro le liste d’attesa per ottenere i ricoveri, le visite specialistiche, gli esami diagnostici, ci stiamo lamentando per la nostra incapacità ad esigere i LEA ì. I LEA sono i Livelli Essenziali di Assistenza che la legge garantisce a tutti gli italiani. Si tratta del minimo assistenziale per le nostre necessità di cura. I LEA sono le prestazioni sanitarie finanziate dallo Stato e descritte in un lunghissimo elenco: dall’estrazione dei denti cariati al trapianto cardiaco; dalla pastiglia della pressione alla protesi d’anca; dagli antibiotici ai vaccini, eccetera. Inoltre vi sono descritte tutte le visite specialistiche erogabili da Medici Specialisti dello Stato, i ricoveri, gli interventi chirurgici, eccetera. I LEA erano nati nella pancia di un “cavallo di Troia” (la legge 502/1992) che era stato fabbricato dal ministro Francesco De Lorenzo per far cadere la Grande Riforma Sanitaria 833/78, rinunziando alla assistenza sanitaria gratuita per tutti.
A quella ingenua rinunzia seguì la privatizzazione progressiva delle USL (Unità Sanitarie Locali) che forse ci porterà alla sanità a pagamento all’americana. Lo strumento legale che venne approvato per trasformare le USL in Aziende Sanitarie Locali (ASL) di diritto privato fu l’esclusione degli Enti locali (Comuni) dal controllo delle USL. I Sindaci non poterono più nominare il presidente della USL e i poteri vennero assunti dallo assessore della Sanità della Giunta regionale. Questi piazzò al vertice della ASL un uomo di sua scelta: il Direttore generale. Il Direttore generale a sua volta ebbe il potere insindacabile di nominare un Direttore sanitario e un Direttore amministrativo legati a lui da un contratto privato. Così un Ente di diritto pubblico venne amministrato da una triade di diritto privato del tutto svincolata dalle amministrazioni comunali.
Le cose cambiarono ancora dopo la modifica del Titolo V della Costituzione del 2001 quando lo Stato rinunciò alla esclusiva del potere legislativo in Sanità e lo cedette alla Regioni ordinarie.
Le Regioni acquisirono la capacità di produrre leggi in materia sanitaria e procedettero a riorganizzare le ASL. Quella riorganizzazione amministrativa basata sulla “efficienza ed efficacia”, cioè il massimo risultato con la minima spesa, mandò le ASL in coma profondo. Era successo che per pagare l’aumento di spesa imprevisto essi dovettero compensare le spese con la chiusura di reparti, di interi ospedali e il blocco delle assunzioni dei medici e Infermieri. Ne derivò la “mobilità passiva” e l’ulteriore indebitamento. A questo punto da poveri corpi comatosi delle ASL si procedette al prelievo di tutti gli organi amministrativi vitali per trasferirli in un nuovo mega-corpo amministrativo centralizzato nel capoluogo chiamato dapprima ATS e oggi ARES (Agenzia Regionale Sanità). Si tratta di un ente di diritto privato che ha assorbito le funzioni delle ASL territoriali ed ha assunto l’esclusiva sugli acquisti, le assunzioni del Personale e gli appalti per tutta per tutta la rete sanitaria della Regione. Le ASL, nonostante nominalmente esistano ancora, di fatto oggi lo sono solo virtualmente perché sono state svuotate del potere di iniziativa amministrativa.
La ARES ha acquisito tutti i fondi regionali destinati alla Sanità e da allora li utilizza a sua discrezione senza vincoli di destinazione.
Da allora la storia dei LEA è peggiorata perché i LEA costano e senza soldi non si può distribuire assistenza in proporzione alle richieste dei cittadini. Di conseguenza sono stati inventati i “budget” mensili che per motivi di risparmio sono poveri, sono aumentate le liste d’attesa per le visite specialistiche, sono diminuiti i ricoveri e gli interventi. Chi arriva ai laboratori d’analisi quando il budget è finito deve pagarsi l’esame. Si pagano gli esami di laboratorio, le ecografie, i colordoppler, le TAC, le Risonanze magnetiche e, a causa della carenza di specialisti dello Stato, si pagano le visite specialistiche.
A questo punto si può concludere che l’istituto dei LEA è fallito perché non è sufficientemente finanziato dallo Stato. E’ tutta una questione di soldi. Si tratta esattamente di quei soldi che arrivano alle Regioni dai cosiddetti fondi di perequazione. In base alla legge 42/2009 quei soldi dovrebbero essere distribuiti fra i territori al fine di pareggiare le differenze di assistenza tra territori ricchi e territori poveri. Mancando quei soldi chi vuole curarsi deve pagare. E’ l’esplosione della privatizzazione forzata della sanità pubblica. Questo è il percorso che porta obbligatoriamente alle assicurazioni sanitarie per coprire le deficienze dello Stato erodendo ulteriormente il potere d’acquisto delle pensioni e stipendi e impoverendo le famiglie.
Siamo stati tutti distratti. Non ci siamo accorti di cosa stesse succedendo. Oggi la nostra impotenza è dovuta ai seguenti motivi:
– Non abbiamo rappresentanti politici delle nostra comunità all’interno della ARES e delle ASL per poter esprimere le nostre istanze.
– Non abbiamo canali per comunicare con la ARES perché la ARES è volutamente strutturata come una fortezza impenetrabile a chiunque, tranne che al presidente della Giunta regionale che ne nomina il Direttore generale;
– Possiamo comunicare con la Giunta regionale solo attraverso la “ Conferenza territoriale sanitaria e sociosanitaria” formata dai Sindaci quando, una volta l’anno, esprimono un giudizio sul Direttore della ASL valutandone l’efficienza nella realizzazione del piano sanitario annuale. E’ l’unico momento in cui i Sindaci sono ascoltati (articolo 11, comma 9 e 10 della legge regionale n. 24 del 2020; legge di istituzione della ARES).
– Il personale sanitario non ha canali per comunicare se non attraverso il “Consiglio dei sanitari”, che peraltro non ha alcun potere e forse neppure esiste se non formalmente.
A questo punto, visto che l’enorme deficit di assistenza è direttamente proporzionale alla povertà economica della ASL, è necessario sapere se siamo in condizioni di negoziare con ARES i fondi per l’assistenza sanitaria che ci necessitano.
Per farlo dobbiamo sapere quali siano i nostri diritti e quali strumenti abbiamo per esigerli.
Gli strumenti disponibili sono quelli deliberati dalla Giunta Regionale e dal PNRR. Essi sono:
1 – Il piano ospedaliero regionale del 2017;
2 – la legge 24/2020 che ha istituito la ARES e le ASL;
3 – il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza);
4 – l’atto aziendale.
Utilizzando questi strumenti prodotti con valore di Legge è possibile esigere i fondi per finanziare i LEA.
Per quanto riguarda il territorio del Sulcis-Iglesiente si pongono alcune questioni:
Prima questione: l’Ospedale Unico.
Se al Giunta Regionale decide di realizzarlo deve fare tutti i passaggi necessari conseguenti all’articolo 42 della legge regionale 24/2020, cioè deve:
– deliberare la costruzione l’ospedale Unico,
– ordinarne il progetto,
– finanziarne la costruzione,
– arredarlo e dotarlo degli strumenti necessari ai servizi,
– assumere il personale.
– E’ una questione di finanziamento. Senza soldi si tratta solo di chiacchiere.
Per ora la ARES ha escluso il presidio ospedaliero unico e prevede per la ASL 7 tre strutture ospedaliere.
Il primo ospedale è il CTO di Iglesias, dotato di 127 posti letto e destinato alle patologie d’elezione. L’ARES e l’atto aziendale non hanno ancora preso in considerazione l’obbligo di deliberare l’organico del personale per il CTO, il finanziamento in spesa corrente per gli stipendi e le assunzioni. Inoltre, non è stata ancora considerata la specifica destinazione del personale medico e sanitario al CTO.
Il secondo ospedale è il Sirai di Carbonia, dotato di probabili 187 posti letto e deliberato come DEA di I livello per l’Urgenza e Emergenza. La ARES dovrebbe deliberare tutte le Unità Operative presenti nell’atto aziendale e dotarle di pianta organica. Non esiste la delibera sulle piante organiche e il relativo finanziamento nella spesa corrente. Senza una pianta organica adeguata alle funzioni di DEA (Dipartimento di Emergenza e Accettazione) dotata di un adeguato finanziamento l’ospedale non può esistere. Per ora è soltanto una intenzione scritta nell’atto aziendale.
Il terzo ospedale è la “Grande Casa della Salute” del Santa Barbara di Iglesias. E’ stata dichiarata nell’atto aziendale la destinazione del Santa Barbara a contenere la Casa della salute , l’ospedale di comunità, l’Hospice, il Centro Diabetologico e la Endocrinologia, la Neuropsichiatria infantile, il Centro di salute Mentale, la Nefrologia, la Psicologia, la medicina dello Sport, tutti i servizi Distrettuali; la riabilitazione (codici 56-60) la riabilitazione post Covid e la terapia intensiva Covid correlata. Tutti questi servizi hanno bisogno di finanziamenti. Alcune strutture sono finanziate attraverso il PNRR.
Molti altri servizi non hanno un esplicito finanziamento. Pertanto, non sono credibili se questo non esiste.
Seconda questione: problemi della medicina del territorio risolvibili con adeguati fondi.
– Carenza di Medici di medicina generale e pediatri.
– Liste d’attesa troppo lunghe.
– Insufficienza del budget per i laboratori analisi e radiologie.
– Fuga dei pazienti verso le ASL vicine più dotate.
-Recupero della autosufficienza specialistica perduta.
Terza questione: il problema demografico, dovuto a.
– forte invecchiamento della popolazione certificato da questi dati
a) numero degli ultrasessantacinquenni in Italia = 21 %
b) “ “ in Sardegna = 24 %
c) “ “ nel Sulcis = 28,5%
Numero assoluto di ultrasessantacinquenni nel Sulcis Iglesiente = 34.000 ( su 119.000 abitanti)
Nota Bene : Con questi dati demografici esiste un diretto rapporto con le malattie cardiovascolari,
tumorali , degenerative, demenze, insufficienze renali, eccetera.
Esiste inoltre una grave denatalità. L’ISTAT certifica che la nostra è la natalità più bassa del mondo
Natalità nell’Africa (Nigeria) = 44 nati per 1.000 abitanti
“ Francia = 12 “ “ “
“ Italia = 8 “ “ “
“ Sulcis = 5,2 “ “ “ La più bassa nel mondo

Questi dati che certificano la forte incidenza di malattie da invecchiamento giustificano la forte necessità di assistenza ospedaliera e la più forte mortalità. Va ricordato che la massima percentuale della spesa sanitaria (tra il 70 e 90%) si concentra nel primo e nell’ultimo anno di vita.
Considerata la più alta percentuale di Baby boomers nel nostro territori ne consegue che questo sarà il territorio più gravato in Italia dalla maggiore necessità di fondi per spesa sanitaria. Si tratta del territorio che ha la maggiore urgenza di risolvere il problema della esigibilità dei LEA con un forte finanziamento sia degli ospedali che della sanità territoriale, pena un intollerabile impoverimento delle famiglie.
Quarta questione: il problema dei posti letto in ospedale.
I posti letto attribuiti al Sulcis Iglesiente sono 313 per acuti e riabilitazione (fortemente sottostimati rispetto ai 3,7/1000 prescritti dalla legge Balduzzi). Dovrebbero essere attivi almeno 357 per acuti e 84 per riabilitazione Totale = 441 posti letto.
Consideriamo questi rapporti di disparità di posti letto:
313 posti letto totali nella ASL 7 di Carbonia Iglesias
5.790 in Sardegna (di cui 1.643 pubblici e 1.147 privati)
2.400 a Cagliari (di cui 1.800 pubblici e 600 privati)
E’ evidente il forte spostamento della bilancia a favore della città metropolitana di Cagliari (430.000 abitanti) rispetto alle limitazioni del Sulcis Iglesiente con i suoi 119.000 abitanti.
Da ciò nasce l’urgenza di esigere un riequilibrio territoriale dei servizi sanitari a protezione del territorio più debole, così come prescritto dalla legge n. 42/2009 che imporrebbe la redistribuzione dei finanziamenti regionali e dei fondi perequativi dello Stato.
Quinta questione: realizzare la mission 6 del PNRR nel territorio. Non è noto se esista un progetto approvato per la realizzazione della struttura di Grande Casa della Salute del Santa Barbara per cui dovrebbero essere spesi 5 milioni di euro entro il mese di giugno del 2026 e se esista un progetto da 260.00 euro per le COT.

Gli strumenti da apprestare con urgenza e utilizzare si trovano nelle leggi.
a) E’ necessario che i 23 Sindaci del territorio creino il canale di comunicazione con la Giunta regionale, per avere risposte dalla ARES, deliberando ed eleggendo la “Conferenza territoriale Sanitaria e Socio-sanitaria” della nostra Provincia, così come è prescritto dalla legge 24/2020.
b) Costituire il “Consiglio dei sanitari” della ASL, come previsto nell’atto aziendale e nella L. 24/2020.
c) La Conferenza provinciale deve esigere la delibera di Giunta regionale che definisca le piante organiche degli ospedali e i relativi finanziamenti. Sulla base di queste si potrà procedere alla soluzione del problema del personale. In assenza di queste delibere l’atto aziendale non ha valore.
d) La Conferenza provinciale deve esigere la progettazione della grande casa della salute del Santa Barbara con tutti i servizi previsti nell’atto aziendale, e peraltro già finanziati dal PNRR. Il ritardo nella procedura può comportare la perdita dei fondi europei.
e) Attuare la creazione del “Comitato locale LEA” per la verifica della corretta applicazione della ripartizione dei fondi e della erogazione delle prestazioni incrementando il budget per i laboratori.
f) Finanziare adeguatamente le convenzioni per la medicina specialistica.
g) Finanziare l’apertura di una Scuola per infermieri professionali.
L’esperienza maturata con i LEA insufficientemente finanziati induce ad un controllo serrato.
Ricordiamo che il ministro Francesco De Lorenzo legiferò nell’anno 1992 per la nascita dei LEA simultaneamente alla rinunzia degli italiani alla Grande Riforma di Tina Anselmi. Il primo elenco dei LEA si vide molto tardivamente e ampiamente incompleto dopo 10 anni, nel 2002. Il completamento dell’elenco si raggiunse nell’anno 2017, cioè dopo altri 15 anni. In tutto ci vollero 25 anni. Nonostante ciò il LEA promessi sono ampiamente falliti per scarsità di fondi.
Oggi si affaccia un‘altra promessa in cambio di un’altra rinunzia. E’ quella contenuta nel disegno di legge sull’Autonomia Differenziata. Stavolta si promettono i LEP (livelli essenziali di prestazioni).
I LEP sono stretti parenti dei LEA. Riguardano oltre il servizio sanitario anche l’istruzione, la assistenza sociale, i trasporti locali. In cambio di quest’altra promessa ci chiedono di rinunziare ai finanziamenti per sanità, istruzione, assistenza sociale e trasporti che oggi ci arrivano attraverso il fondo perequativo della fiscalità generale dello Stato. Stavolta, oltre al servizio sanitario, potremmo perdere l’adeguato finanziamento per la scuola, per l’università, per i trasporti e per l’assistenza sociale. Oltre alla sanità pubblica potremmo veder cadere anche altri servizi essenziali.
Timeo Danaos et dona ferentes.

La “rana” di Noam Chomshy non può salvarsi. Se volessimo salvarla bisognerebbe fermare la mano del “cuoco”. Chi volesse salvare gli Ospedali di Carbonia e Iglesias potrebbe farlo leggendo l’articolo di Antonello Cuccuru nella versione online de “la Provincia del Sulcis Iglesiente” e il documento del “Movimento Sanità nel Sulcis” di Tore Arca che analizzano i fatti e propongono percorsi di recupero.
La metafora della rana che viene cotta lentamente affinché non scappi, è nota a tutti, tranne che alle rane. Per un semplice motivo: perché le rane messe in pentola dal cuoco muoiono tutte e nessuna sopravvive per svelare alle altre rane quanto sia subdolo l’inganno dell’acqua che viene scaldata lentamente. Il cuoco fa credere, a te rana, di volerti immergere a sguazzare in un laghetto tiepido, invece ti mette nell’acqua di una pentola e fa salire lentamente la fiamma fino a cucinarti per bene. Siamo tutti rane, bravi a cantare, ma non a reagire. Il cuoco si trova nell’apparato di potere centralizzato della Regione. Noi siamo le vittime, ma anche i colpevoli, perché abbiamo accettato distrattamente di tornare ad una cultura di sudditanza che ingannò i popoli fino al 1789. Fino ad allora ci avevano fatto credere che i re avessero il potere sovrano per incarico divino, e che quel potere non fosse criticabile. I francesi, accortisi dell’inganno, fecero la Rivoluzione, e da allora sono ancora a Place de la Concorde a ribellarsi. Il primo atto della presa di coscienza popolare fu la promulgazione della “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 26 agosto 1789″. Allo articolo 16 di quel documento che svegliò il mondo venne espresso un concetto illuminante: «Ogni società in cui la garanzia dei Diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una Costituzione». Abbiamo sì il testo scritto della Costituzione Italiana del 1° gennaio 1948, ma il suo articolo 32 che dichiara che la Salute è un diritto del Cittadino e interesse della Nazione, pare sia solo formale. Così pure l’articolo 3 sull’uguaglianza fra i cittadini. Per la verità un tentativo eccellente di applicarlo venne fatto nel 1978 con la legge 833 proposta dalla Commissione presieduta da Tina Anselmi. Con quella legge venne garantito un uguale diritto alla Salute a tutti i cittadini indistintamente attraverso l’istituzione del Fondo Sanitario Nazionale e la redazione del primo Piano Sanitario Nazionale. Inoltre, secondo il principio giuridico fondamentale della separazione dei poteri nello Stato di diritto di una democrazia liberale, si stabilì che, riservato il potere legislativo allo Stato, si attribuiva il potere amministrativo esecutivo alle Aziende sanitarie locali (Asl) in qualità di “articolazioni dei Comuni”. Allora la Sanità nazionale fu concepita come una “federazione” di ASL controllate dai Comuni. Gli Italiani erano riusciti ad applicare alla Sanità pubblica lo spirito dell’articolo 16 della “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino” con la separazione dei poteri sul governo della Salute; il metodo fu: Decentralizzazione dei poteri dello Stato e Federazione delle ASL. In quegli anni tutti gli Ospedali delle ASL sarde brillarono per efficienza. Non si era visto mai in tutta la Storia un miglioramento della qualità delle cure al ritmo di allora. Poi noi rane siamo stati messi in pentola dalle leggi di marcia indietro che riformarono la Legge 833 e, infine, i cuochi della politica regionale, dal 2001, sollevarono lentamente la potenza della fiamma finché oggi, dopo 22 anni, siamo all’ebollizione, e le rane sono tutte lesse.
Seguendo l’evoluzione sembrerebbe che gli atti più gravi che hanno portato alla condizione attuale siano stati la legge 229/1999, che trasformava le ASL da articolazioni dei Comuni in articolazioni delle Regioni, e la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 che, messi insieme, ebbero l’effetto di accentrare nelle Regioni tutti i poteri, legislativo, amministrativo ed esecutivo. Venne fatto l’esatto contrario di quel principio della separazione dei poteri proclamato dalla Dichiarazione dei Diritti del Cittadino e poi accettato dalle Costituzioni di tutti gli Stati democratici e liberali. Il potere legislativo ed esecutivo furono assommati, in un unico Ente, la Regione, esattamente come li assommava in sé il re di Francia prima che nel 1789 il popolo glielo contestasse.
Per smontare la centralizzazione monarchica i francesi si rivolsero ad un medico geniale, il dottor Joseph Ignace Guillotin, che inventò uno strumento chirurgico per risanare i mali generati da quel conflitto di interessi legalizzato.
I documenti di Antonello Cuccuru e di Tore Arca vanno letti. Il primo analizza lo stato di grave disagio popolare in sanità riportato da articoli autorevoli. Il secondo, utilizzando le leggi regionali pubblicate dal BURAS, avanza proposte logiche sui provvedimenti riparatori da adottarsi nell’immediato, non cadendo nelle illusioni prospettate da piani sanitari regionali belli ma fantasiosi.
La fotografia dello stato sanitario pubblico che ne risulta è questa: annullamento quasi completo degli splendidi ospedali iglesienti di 20 anni fa; degrado fino all’impotenza funzionale dell’apparato ospedaliero di Carbonia; mancanza di un efficiente sistema sanitario pubblico nel territorio; impossibilità a realizzare il sogno della medicina di prossimità con case della salute e ospedali di comunità per la mancanza del personale che dovrebbe operarvi.
Chi pratica la professione sanitaria sa che, sia durante l’epidemia Covid che oggi, le uniche strutture ospedaliere che sono in grado di prendere in cura in tempi ragionevoli i malati sono le case di cura convenzionate. Per capire questo fenomeno esiste un motivo ben preciso: le case di cura non sono soggette al dovere di ricevere malati in stato di urgenza ed emergenza. L’urgenza assorbe totalmente le energie dell’ospedale pubblico e gli impone un impegno ad altissima intensità. E’ un impegno faticosissimo, fortemente coinvolgente sul lato emotivo e medico-legale, inoltre non è remunerativo. Le case di cura private invece hanno il vantaggio di potersi dedicare esclusivamente alle malattie d’elezione. Ciò consente una facile programmazione del lavoro con turni di piena attività nelle ore del mattino, mentre la sera, la notte e nei giorni prefestivi e festivi il lavoro si riduce alle guardie interne e al controllo. Per tale differenza di impegno del personale, ne consegue l’esistenza di organici più ridotti nelle case di cura. Inoltre i turni di lavoro così agevolati attirano i medici specialisti esperti, messi in quiescenza dagli ospedali pubblici, facendo loro guadagnare senza sforzo un capitale culturale e di esperienza impareggiabile. Detto questo si capisce il motivo per cui le case di cura private sono state una manna per la Sanità durante il Covid, quando gli ospedali pubblici erano in profonda crisi. Precisato l’aspetto positivo esiste tuttavia un altro aspetto che riguarda la Medicina in generale: il pericolo che si passi dalla attuale assistenza sanitaria pubblica ad una forma di Sanità del tutto privatizzata, all’americana, in cui, al posto dello Stato, si finisca nel dover acquistare a caro prezzo la salute dalle assicurazioni private. Questa sarebbe una svolta preoccupante.
Da queste osservazioni ne discende l’urgenza di risolvere il problema del cuoco instancabile che continua a immergere le rane in pentola. Il cuoco è l’apparato regionale che ha concepito un sistema sanitario duro da digerire in un regime democratico: il sistema di conduzione della sanità pubblica “centralizzato”, senza contrappesi politici a rappresentare gli interessi del territorio. La “centralizzazione”, per definizione, è quel fenomeno politico basato sull’accentramento dei poteri in un unico gruppo di entità governative e amministrative connesse fra di loro nel capoluogo, e ne esclude la provincia. La conseguenza della mancata separazione tra potere legislativo e amministrativo in Sanità si è tradotto in un comportamento da conflitto di interessi, che porta a vantaggi per abuso di potere, per cui assistiamo ad una vera e propria “obesità” sanitaria del capoluogo che è avvenuta per prosciugamento di risorse dal territorio provinciale. All’eccesso di posti letto, di ospedali, di medici e infermieri nel centro regionale, corrisponde un vistoso stato miserevole delle deperite strutture sanitarie della periferia. E’ stata un’operazione lenta durata vent’anni e le popolazioni si sono adattate al peggio non accorgendosi che, intanto, venivano svuotate del diritto d’accesso alla Sanità, alla Giustizia, e anche all’Istruzione, nelle città provinciali. Lo sbilanciamento è estremo.
E’ un fatto gravissimo ed è ancora più grave che i politici regionali siano ciechi davanti al fatto che l’accentramento dei poteri e dei servizi è la causa dello spopolamento del Sulcis Iglesiente, ed è gravissimo che nessuno dei governanti abbia prestato attenzione al fatto che nel nostro territorio stia avvenendo un crollo demografico per cui oggi, abbiamo un indice di invecchiamento del 293%, e mentre in Francia nascono 12 bambini ogni 1.000 abitanti, e in Nord Africa una media di 40 bambini ogni 1.000 abitanti, nel Sulcis Iglesiente sta avvenendo esattamente il contrario. Questo fatto gravissimo sta avvenendo a noi, e solo a noi, in tutta la Sardegna. Nessuno si assume la responsabilità della fuga delle giovani coppie in età fertile dal Sulcis Iglesiente, avvenuta per mancanza di servizi e prospettive per i figli, per cui nel 2021 abbiamo avuto 5,2 nati ogni 1.000 abitanti: la più bassa natalità del mondo. E’ talmente grave che il patron di Tesla e Twitter, il magnate Elon Musk, ha voluto rilasciare su tale anomalia una dichiarazione ai giornali sostenendo che di questo passo in pochi decenni scompariremo. Ci ha ridotto in questo stato demografico un tipo di cattiva politica molto simile a quella che venne applicata nella “fattoria degli animali” di George Orwell. Ricordiamoci a chi finì il potere.
Bellissimo il documento di Tore Arca che fa alcune considerazioni e perviene a conclusioni concrete. Le sue considerazioni mettono in dubbio le promesse di costruzione di un “ospedale unico” e il funzionamento di quelle strutture territoriali di medicina di prossimità proposte nel PNRR, nel piano ospedaliero regionale e nelle bozze rese pubbliche di atto aziendale della ASL 7. Molto concretamente, glissando le illusioni, egli propone:
– che si proceda alla definizione, con delibera, del numero esatto degli organici di medici e infermieri che servono per far funzionare davvero gli ospedali e le strutture distrettuali;
– che la nostra ASL sia libera di assumere senza interferenze regionali;

– che si deliberi l’entità della somma destinata ai lavori di adeguamento dell’ospedale Santa Barbara per tutti i servizi promessi;
– che si proceda ad istituire una scuola provinciale di formazione per infermieri professionali;
– che si metta a punto il piano operativo per la realizzazione delle strutture distrettuali descritte nel PNRR specificando l’entità dei finanziamenti realmente stanziati per le strutture, gli strumenti e il personale da assumere a tempo indeterminato;
– che il personale certamente destinato al Sulcis Iglesiente, non ci venga più sottratto a beneficio del capoluogo regionale già abbondantemente dotato;
– che si chieda l’immediata attivazione della Commissione provinciale sanitaria dei 23 sindaci per rapportare il nostro territorio direttamente con il centro di potere regionale.

L’esame sulla gravità in cui versa Il Sistema Sanitario dei tre distretti del Sulcis Iglesiente e le semplici ma efficaci proposte avanzate necessitano di un grande sostegno politico. Finora nessun politico del posto, delegato dai cittadini alla Regione, è riuscito a fermare il crollo degli ospedali delle due città.
Per le prossime elezioni regionali dovremmo contrattare bene il nostro voto con i candidati che verranno a chiedercelo. Non importa di quale parte politica saranno o quale sarà la città del Sulcis Iglesiente da cui proverranno. Ci servono tutti, Ci interessa che siano consapevoli della colpa che abbiamo tutti insieme indistintamente per non aver fermato la predazione attuata sui nostri reparti ospedalieri e sugli altri servizi pubblici essenziali. Il successo non è assicurato ma, se non ci riusciranno, il Sulcis Iglesiente si svuoterà, non per infertilità, ma per una penuria di sicurezza sanitaria, sistematicamente indotta dal centro che ci governa, che non vuole fermarsi.

Crediamo che curare sia un atto finalizzato a far cessare una malattia, ma questo è solo un aspetto tecnico. Il significato vitale è più ampio. La cura in realtà è un “prendersi cura”, cioè un interessarsi al benessere di se stessi, della comunità e dell’ambito in cui si vive. Questo è quanto si comprende leggendo l’opera antropologica di Paola Atzeni “Corpi gesti stili”. Per corpi intende i corpi fisici che si prendono cura del sé. Per gesti e stili intende le attività svolte da quei corpi che vivono, desiderano, programmano, valutano e poi si prendono cura di tutto quanto li circonda. L’opera è una ricerca del significato ontologico della “cura”; significato che può essere sintetizzato nell’affermazione: curo, quindi sono. è un’affermazione simile al “dubito e quindi sono” di Sant’Agostino, o al “penso e quindi sono” di Cartesio.

Corpi gesti stili” è una ricerca scientifica del 1986 ed esamina un mondo “ marginale” vissuto da quattro donne delle periferie rurali del Sulcis. Non parla mai del mondo industriale, parallelo e “privilegiato”, che le ha escluse, però ne fa sentire la presenza incombente.

Nel mondo privilegiato esiste una società ricca, organizzata e altera che, chiusa in un ambito impenetrabile e respingente, ha sottomesso, abbandonato e poi espulso da sé quelle donne del mondo rurale. Il mondo rurale, a sua volta esiste inferiorizzato, senza protezioni fuori dai confini del mondo tecnologico che, al contrario, è racchiuso in un guscio di sicurezze.

I casi delle donne studiate riguardano una prima donna che sa macinare il grano con un’antica macina mossa da un asino; sa cernere la crusca dalla semola e dalla farina fine, e ne fa scambio con i prodotti di altre donne assicurando una riserva alimentare alla comunità. La seconda donna sa impastare e panificare in un forno a legna e rifornisce settimanalmente la piccola comunità; la terza donna sa potare le palme nane per farne scope per l’igiene delle abitazioni, e le vende e scambia in un vasto territorio. Il quarto gruppo di donne si occupa della raccolta dello olive per la fornitura di olio alla comunità.

L’organizzazione sociale in queste comunità di donne è basata su criteri di rispetto, di tutela del prossimo e di democrazia da fare invidia ai filosofi greci del quinto secolo avanti Cristo ad Atene.

Seguendo l’iter dello studio osservazionale, protratto per circa 40 anni, si scopre che le donne del mondo rurale, nel tempo, hanno maturato un duraturo sistema di sopravvivenza superiore a quello del mondo industrializzato, creando un’organizzazione sociale tale da metterle autonomamente al sicuro dai rischi di vita per penuria alimentare, sanitaria e di difesa dalle violenze. I casi studiati dimostrano come quelle donne si siano messe al sicuro prendendosi cura ognuna di sé, della propria famiglia, e delle altre donne della comunità, attraverso l’esercizio della solidarietà.

Questo ambiente antropologico è collocato storicamente negli anni ‘80 del 1900 e, come si vedrà, ha avuto la capacità di saper sopravvivere integro dalla sua origine fino ad oggi.

Gli anni d’inizio dello studio erano quelli in cui nel Sulcis era già avvenuta la transizione dall’economia agricola a quella industriale. I maschi negli anni ‘60-’70 erano stati selezionati per il passaggio dal mondo rurale all’industria mentre le donne degli abitati rurali erano state progressivamente marginalizzate dalla società tecnologica che si stava instaurando, ed erano state costrette a sopravvivere riprendendo metodi produttivi ancestrali basati sulla cura della terra.

Mentre nel mondo “privilegiato” si creava una gerarchia comunitaria basata sullo scambio di danaro e in fabbrica si instaurava una gerarchia del lavoro basata sulla logica della ingegneria sociale, nel mondo “marginalizzato” rurale si creava una convivenza basata sullo scambio di valori. Si trattava di valori non monetizzabili come la capacità e l’abilità nel produrre sicurezza alimentare per sé e per gli altri, lo scambio democratico di privilegi basato sull’alternanza nelle posizioni gerarchiche, il riconoscimento del merito e lo scambio di rispetto e di cura, generatori di felicità. Si erano instaurati due mondi, uno privilegiato e l’altro marginalizzato, con due sistemi etici divaricanti fra essi.

Il contenuto del libro è ben rappresentato nella figura di copertina. Si tratta di un affresco in cui donne, disposte in riga, hanno il busto piegato in avanti e flesso sulle gambe diritte, nell’atteggiamento di chi sta svolgendo un lavoro in basso.

E’ un’immagine ancestrale, già vista molte volte. Rappresenta le raccoglitrici di olive in Sardegna, ma può rappresentare anche le mondine delle risaie, le raccoglitrici del cotone e del tabacco, le cernitrici delle miniere, le raccoglitrici di arselle in laguna, le vendemmiatrici, le potatrici di palme nane per ottenerne scope. Sono tutte immagini di donne al lavoro per portare nutrimento alla famiglia. Quell’affresco ricorda anche la postura delle donne degli asili infantili che assistono i bambini, le donne in divisa da infermiera inchinate sugli ammalati negli ospedali, le assistenti delle RSA chine sui pazienti non autosufficienti. Sono immagini di cura di corpi umani.

Questa immagine di donne chine al lavoro nella cura della terra e degli altri è probabilmente l’immagine più antica della storia dell’Uomo. Nel Mesolitico, al tempo in cui i cacciatori-raccoglitori migravano dal continente africano a quello asiatico ed europeo, ad un certo punto, mentre gli uomini si allontanavano per la caccia, le donne si fermarono per dedicarsi alla cura dei figli e alla produzione di alimenti coltivando cereali e allevando animali addomesticati. Furono le prime immagini di donne chine verso terra per raccogliere o coltivare qualcosa che assicurasse la famiglia dal pericolo di morte per penuria di alimenti. Lì nacquero i primi aggregati di abitazioni rurali e lì si formarono i primi villaggi. Lo fecero per prendersi cura di quei corpi che i loro corpi avevano generato, e lo fecero con gesti e stili che hanno attraversato il tempo fino a noi. Gesti e stili sempre uguali: chine, flesse ad accudire la famiglia e la comunità delle altre donne in un interscambio di cure.

Nella stesura del libro l’autrice non nomina mai la città tecnologica e l’enorme sviluppo industriale del Sulcis di 40 anni fa, tuttavia si percepisce che, col passare dei decenni, in quel mondo sono sopravvenute le crisi: quelle crisi che avvengono «quando il vecchio è morto e il nuovo non riesce a nascere».

Dopo la crisi dell’economia agricola del Sulcis, conseguente al richiamo degli uomini dalla terra all’industria, si passò in pochi anni ad una nuova crisi delle attività produttive; stavolta toccò agli operai delle industrie.

Le industrie vennero delocalizzate in altre aree dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa e il Sulcis de-ruralizzato si trovò in breve tempo anche de-industrializzato. Quell’ambito sociale, che era stato privilegiato dallo sviluppo industriale, venne a sua volta “marginalizzato”. Ripresero le emigrazioni degli operai e dei tecnici più giovani. Rimasero i vecchi e i pensionati.

Gli effetti si fecero sentire anche sul Sistema Sanitario Ospedaliero.

Negli anni ‘90 la spesa sanitaria degli Ospedali venne dichiarata insostenibile. Allora ci vennero inviati economisti di stampo bocconiano che ci insegnarono i metodi per ottenere “efficienza ed efficacia” facendoci credere che si potessero ottenere gli stessi risultati di cura riducendo, però, il personale e il finanziamento della sanità.

A causa della riduzione del personale e del mancato aggiornamento degli strumenti, avvenne il calo delle operazioni chirurgiche e dei ricoveri in medicina interna. Comparve per la prima volta la parola “doppioni”, usata per indicare i reparti ospedalieri simili fra Carbonia e Iglesias. Con la motivazione degli “inutili doppioni” si procedette alla soppressione di alcuni reparti a Carbonia e alla chiusura di interi ospedali ad Iglesias; per di più non si tenne conto che nella curva demografica stava avvenendo uno scompenso provocato dalla forte crescita delle età avanzate e, nonostante il forte aumento di tumori e di malattie vascolari, si chiusero posti letto di chirurgia e di Medicina. Fu un’euforia autodistruttiva e gli Ospedali, che sono il fulcro del sistema di cura, entrarono in crisi.

Circa quattro decenni dopo, con l’indagine antropologica di “Corpi gesti stili” siamo ad un’ulteriore svolta storica: siamo definitivamente entrati nella de-globalizzazione degli scambi commerciali e nella globalizzazione della minaccia nucleare. Questo nuovo stato di cose ci trova impreparati e non abbiamo idea di come evolverà la condizione dell’economia in questo angolo di Sardegna.

La citata opera antropologica, che fu portata a termine nel 2019, ci offre, nella terza parte del libro, riflessioni che oggi possono rappresentare un indirizzo per affrontare l’ incerto futuro economico che incombe. A tal fine, l’autrice chiama in causa tre donne scienziate, esperte di organizzazione sociale in condizioni critiche, femministe, filosofe e antropologhe: Carol Gilligan, Judith Butler e Maria Puig de la Bellacasa.

Confrontando le sue ricerche con quelle delle tre scienziate giunge alle stesse conclusioni suggerendo il recupero dei valori del mondo rurale basati sulla “cura della famiglia, del prossimo e dell’ambiente”.

Le quattro scienziate concludono in sintonia che si deve ricostruire una società umana e politica basata sulla “cura vicendevole”, la “buona cura” e la “cura orientata”, cioè deve trattarsi di un rapporto di cura interscambiabile ed esteso all’Ambiente. La Gilligan suggerisce la costituzione di un sistema di cura autoprodotto, autosufficiente e indipendente. Sostiene che l’autonomia della cura è fondamentale per assicurarsi la libertà e la sicurezza; inoltre introduce un principio innovativo con cui avverte che si deve avere la certezza che nessuno possa utilizzare il bisogno di “cura” al fine di instaurare un rapporto di dipendenza a danno di chi usufruisce di quella “cura”. Per non cadere nella soggezione di nessuno essa afferma che le comunità devono esercitare un serrato controllo sull’apparato che elargisce la “cura” e afferma: «Non mettetevi nelle condizioni di dover accettare delle cure che non siano sotto il vostro controllo, pena la dipendenza, la carenza di cure, la mancanza totale di cure o anche l’abbandono».

Sembra una premonizione di quello che sta avvenendo oggi a danno dell’apparato sanitario del Sulcis Iglesiente che a causa della dipendenza da altri è entrato in sofferenza.

Questa lezione dovrebbe costituire la base antropologico-filosofica da cui non possono prescindere i nostri sindaci, nel momento in cui si confrontano con i poteri regionali, perché i poteri sovraordinati sono difficilmente controllabili e, soprattutto, potrebbero essere “interessati ad accrescere se stessi” come afferma Judith Butler citando Nietzsche.

Dopo quasi 40 anni dall’inizio dello studio, e dopo i rivolgimenti politico-economici del pianeta, la nostra studiosa ha verificato che la società tecnocratica, a sua volta emarginata dalla globalizzazione e dalla fine delle industrie, per la propria sussistenza ha nuovamente necessità della terra per l’agricoltura, per l’allevamento, per fini di autoconsumo, e anche per fini turistici.

L’autrice, seguendo le osservazioni della filosofa-antropologa Maria Puig de la Bellacasa, che sostiene la “Permacultura” (equilibrio permanente fra Uomo e Ambiente) invita a porre attenzione sulla “Biopolitica”, e sui “Biopoteri” (quei poteri che condizioneranno la vita sulla Terra oggi che il pianeta, con suoi quasi 9 miliardi di abitanti, ha un forte bisogno di terra utile).

Per sopravvivere in questo contesto umano e planetario ella suggerisce una politica di sviluppo culturale ed economico indirizzato verso la cura di quei luoghi che prima chiamavamo “abitati rurali sparsi” che nello studio sono gestiti da donne. Essi oggi potrebbero essere una via necessaria per la futura “cura” di noi stessi e per sfuggire alla penuria di alimenti e di sicurezza che dovremmo attenderci.

Mario Marroccu

Lo spopolamento delle nostre città e la crisi della Sanità hanno una stessa origine che va combattuta. Analizzando le cause potremmo scoprire di non essere così impotenti come appare. In ogni centro urbano vi sono edifici pubblici o monumenti in cui i cittadini riconoscono la loro appartenenza perché hanno un valore storico, affettivo e esistenziale. Se quei luoghi vengono modificati avviene un danno nella struttura stessa del proprio vissuto. Luoghi come il Comune – sede del potere politico-amministrativo, la chiesa – sede della religione, il tribunale – sede della giustizia e l’ospedale – sede della sanità, sono l’anima vitale della città.
Se in una città viene cancellato il centro urbano, avviene un pericoloso vulnus dell’identità collettiva e sorge nel cittadino un senso di disagio, di frustrazione che sono premessa alla disaffezione, alla fuga e allo spopolamento. Ciò succede quando la città ha insufficiente potere politico e quando ha per vicino un’altra città molto più forte che si appropria di quelle funzioni urbane esistenziali.
Alcuni mesi fa un ex-presidente del Censis spiegò che lo spopolamento delle città di provincia iniziò negli anni ‘90 del Novecento quando l’esercizio della politica negli Enti locali divenne meno appetibile per i cittadini più vocati ad essa. Il fenomeno prese avvio a causa di alcune leggi. La prima fu la legge 142/90 che sottrasse agli organi politici locali il potere di amministrare gli uffici comunali.
A quell’epoca i consiglieri comunali avevano ancora il potere della gestione della Sanità attraverso le USL. Allora la legge istitutiva del Sistema sanitario nazionale dichiarava che le USL erano “articolazioni” dei Comuni, e che i Comuni dovessero esserne gli amministratori. L’assemblea dei sindaci portò gli ospedali al loro periodo d’oro. Ma durò poco. Nel 1992 iniziò la spoliazione dei Comuni. I ministri Francesco Di Lorenzo, Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi approvarono tre leggi (502-517- 229) che tolsero i poteri sulla Sanità ai politici degli enti locali e li consegnarono alle Regioni.
Fu un’opera di “centralizzazione” radicale. Finì il tempo in cui i sindaci assicuravano ai propri ospedali i migliori medici strategici per conquistarsi un prestigio sanitario. L’esclusione dalle decisioni politiche indusse la demotivazione progressiva dei cittadini all’interesse alla politica. La città maggiore che assorbiva le funzioni di gestione della cosa pubblica divenne attraente. Ne conseguì che i cittadini della provincia persero la passione per la partecipazione alla politica nella propria città, svuotata di servizi, e cominciarono a trasferirsi nelle nuove sedi del potere centrale. Cessò l’epoca del fervore per la partecipazione attiva alla politica negli enti locali e, da allora, è cresciuto il disinteresse al dibattito e alle candidature. Alla carenza di potere decisionale nonostante progetti lungimiranti conseguirono il disinteresse degli elettori e l’astensionismo.
Con un’altra legge, varata nel 2001, nota col nome di “Riforma del titolo V della Costituzione”, la centralizzazione dei poteri nella Regione aumentò ulteriormente. Contemporaneamente dallo stesso periodo iniziò il degrado della rete ospedaliera e della medicina territoriale.
A conferma di questa tendenza ad accentrare servizi sociali fondamentali nel 2011, per effetto di una rigida legge di risparmio del Governo Monti, vennero chiusi i tribunali periferici, ed anche la giustizia fu centralizzata. Secondo i sociologi del Censis lo spopolamento, l’immiserimento di servizi e l’impoverimento dell’economia, sono strettamente connessi alla “centralizzazione” voluta da un chiaro progetto che viene da lontano. Anche la salute entrò in quel meccanismo.

Mentre la salute in sé è una competenza della medicina, la “Sanità” intesa come organizzazione per dare salute al popolo è una competenza della politica. Il senso di scoramento che ci prese nel vedere l’impreparazione ad affrontare il Covid nei tre anni passati è ben motivato da quella distruzione delle gerarchie politiche locali. Oggi ci saremmo aspettati che il Sistema sanitario nazionale e quello regionale, con l’esperienza della pandemia, si fossero attrezzati meglio sia per contenere il probabile arrivo di altri virus, sia per l’epidemia demografica in atto.
E’ evidente che il problema sociale futuro sarà l’enorme aumento di richiesta di assistenza sanitaria dovuta al forte invecchiamento della popolazione e alla mancanza di progetti di “presa in carico”. In contrasto con questa evidenza, negli ospedali stanno diminuendo sia i posti letto che il personale nelle Terapie intensive e nelle Rianimazioni; nel contempo, è in campo il progetto di costruire nuove strutture murarie, che chiameremo ospedali, le quali dovranno funzionare senza il personale necessario per lavorarci.
Negli ultimi 20 anni abbiamo assistito alla distruzione del sistema ospedaliero di Iglesias, al decadimento progressivo dell’ospedale Sirai di Carbonia e alla rarefazione dei medici di base.
La Regione, un volta esclusi i Comuni, ha creato una nuova entità amministrativa di tipo privatistico che ha il compito di governare tutte le Aziende Sanitarie Locali. Tale entità si chiama ARES (Azienda Regionale Salute). Le ASL hanno oggi perso una reale autonomia di gestione: non hanno veri poteri di iniziativa e sono di fatto strutture acefale. L’unica testa pensante è ARES regionale. I poteri decisionali di questa nuova entità sovrana della Sanità pubblica sono assoluti. Per “assoluto” si intende esattamente la definizione del vocabolario: “assoluto = che non ammette limitazioni, restrizioni o condizioni, relativamente a se stesso, alla propria volontà o alle proprie attribuzioni”.
Ciò avviene perché la legge istitutiva della ARES non prevede i contrappesi della politica territoriale. Pertanto, si tratta di un’entità che non può essere scalfita dalla critica né può essere influenzata da alcunché se non dalla sua sola volontà. La legge, che ha costituito questo ente regionale, consente alla “Conferenza sanitaria provinciale dei Sindaci” la sola possibilità di esprimere pareri sul programma sanitario annuale. Ma tali pareri non sono vincolanti. Ciò significa che la volontà dei sindaci, se in contrasto con ARES, non ha mezzi per penetrarne la corazza di potere in cui è racchiusa.
La ARES venne istituita dalla regione Sardegna con la legge 24/2020, in piena pandemia, e fu progettata affinché avesse una struttura perfetta, monolitica, come un purissimo cristallo profondamente antidemocratico, impenetrabile alle influenze esterne. Il potere sanitario è tutto contenuto in questa entità e noi, popolo, siamo prigionieri all’esterno.
Mentre assistiamo al collasso della Sanità, scopriamo dalla stampa le notizie su innovazioni che dovrebbero avvenire nelle strutture ospedaliere di Iglesias, di Carbonia e dei Distretti. Si tratta di un bel disegno legato ai fondi messi a disposizione dal PNRR missione 6. Ma si tratta solo di un bel disegno, molto simile a un libro dei sogni.
Il quadro reale dello stato della nostra sanità è invece quello descritto dalle cronache dei quotidiani. Di Iglesias sappiamo molto perché è una cittadina che si lamenta puntualmente, e fa bene, attraverso gli organi di informazione. Di Carbonia sappiamo meno. Tuttavia dalle notizie che trapelano si sa che all’ospedale Sirai il corpo degli anestesisti è allo stremo. Una volta vi erano in dotazione dai 15 ai 20 anestesisti; oggi sono 6. Tre di questi sono in Rianimazione; gli altri tre assistono le sale operatorie.
Uno specialista anestesista-rianimatore è giunto all’età della pensione, pertanto, dovrebbe mancare presto per messa in quiescenza. I due restanti non sono sufficienti per un lavoro che impegna 24 ore su 24, senza interruzioni, tutto l’anno. I tre anestesisti dedicati alle sale operatorie devono assicurare l’urgenza ed emergenza e, pertanto, non possono sempre essere disponibili per le sedute operatorie di chirurgia programmata.

Di fatto, la situazione è gravissima e può portare, essa da sola, alla chiusura dell’Ospedale. La persistenza di queste condizione immobilizzerebbe la Chirurgia Generale. L’Ortopedia ha i limiti della Chirurgia Generale. L’Urologia sarà presto senza primario e probabilmente perderà 4 medici per trasferimento in altri Ospedali. Ne resteranno due che eroicamente dovranno prendersi cura dei problemi urologici dei 119.000 abitanti della ASL 7. Impossibile.
La Medicina è presa tra Covid e malattie non-Covid. Il Pronto Soccorso è ora senza primario; ha pochi medici di ruolo e deve ricorrere a convenzioni con esterni. Inoltre, deve assicurare tutte le urgenze del Sulcis Iglesiente. La Cardiologia è sovraccarica di lavoro ed è fortemente impegnata nel settore dell’urgenza. Il Laboratorio non esiste più in sede da nove mesi. Ora pare che debba riaprire la notte. La Radiologia ha l’organico del personale sottodimensionato. La Dialisi per i nefropatici è ridotta a tre medici e presto ne perderà uno. Come faranno a lavorare anche la notte, il sabato e la domenica, Estate e Inverno, sempre, e per tutto il Sulcis Iglesiente in urgenza, non si sa.
Questo quadro descrive uno stato di necessità sanitaria che, così grave, non si era mai visto. Sembra d’essere alle porte della caduta dell’Ospedale. Tutti i professionisti che lavorano nella struttura amministrativa dell’ospedale manifestano competenza e buona volontà. Se ne avessero i poteri, sicuramente affronterebbero i problemi della carenza di personale e li risolverebbero. Purtroppo, non hanno i poteri né di assumere liberamente il personale che necessita né di procedere liberamente agli acquisti. Tutti i meccanismi amministrativi per il funzionamento della sanità provinciale sono stati trasferiti dai nostri uffici di Carbonia e Iglesias quelli della ARES (vedi le competenze nell’articolo 3 della legge di istituzione).
A chi possono rivolgersi i dirigenti della ASL 7 per procedere alla soluzione dei problemi, senza vincoli, e secondo le necessità? Ai sindaci? Sarebbe la soluzione migliore, ma i sindaci sono stati estromessi dalla gestione della Sanità. Il problema è nato dalla centralizzazione dei poteri a Cagliari; non esistono responsabilità di questo disastro né ad Iglesias né a Carbonia.
Esiste una sola soluzione: cambiare la legge 24/2020 della regione Sardegna. Non è necessario cambiare tutta la legge, è sufficiente attenuare l’articolo 3 e aggiungere una riga dell’articolo 9 per iniziare a tornare alla partecipazione democratica nella sanità, questa (al punto – a -):

Articolo 9
Organi dell’azienda Sanitaria.

Sono organi delle Asl e dell’Azienda ospedaliera:
a) il presidente della ASL, che sarà un eletto tra i componenti della Conferenza provinciale sanitaria dei sindaci.
b) il direttore generale
c) il collegio sindacale”

Dando la carica di presidente a un sindaco si stabilirebbe perlomeno un controllo degli Enti locali all’interno della ASL. Con questo provvedimento si consentirebbe ai sindaci di svolgere realmente le funzioni loro attribuite dal Testo unico degli Enti locali, e salveremmo subito gli ospedali e la medicina di base.
Dai quotidiani apprendiamo che stanno nascendo Comitati per la difesa delle sanità territoriale in tutte le province della Sardegna. Questo movimento popolare in supporto ai sindaci è un bene perché i sindaci non possono essere lasciati soli ad affrontare l’ignoto che sta arrivando sul nostro futuro sanitario.

E’ tempo che tutti, maggioranze e opposizioni, parti sociali e enti locali di tutta la Provincia, comincino a discuterne. Il Sistema Salute è da ripensare prima che lo spopolamento e l’inerzia chiudano le città.

Mario Marroccu

Stiamo tornando talmente indietro nella Sanità che ormai potremmo arrivare al III secolo dopo Cristo. Allora il tempio della Medicina e della Chirurgia era in quella costa di Turchia e di Siria che lambisce il Mar Mediterraneo. In quei tempi esisteva un problema che esiste ancora oggi: le donne con gravidanze difficili a termine spesso morivano col loro bambino. Narra una “Passio” del terzo secolo, che la giovane cristiana Margherita d’Antiochia fosse stata ingoiata viva da un mostro, in un sol boccone. La Santa, avendo in pugno la croce, che usò come tagliente, aprì il ventre al mostro e uscì dalla sua pancia viva e sana. In questa “Passio” viene descritto un fantastico parto cesareo con salvataggio del nascituro.
Per tale ragione Margherita, una volta martirizzata con la decollazione per ordine dall’imperatore Massimiano, venne dichiarata “santa protettrice delle donne in travaglio”. Da quasi 2.000 anni Santa Margherita viene venerata in tutto il mondo cristiano con lo scopo di rendere il parto più protetto. e le puerpere che si ritengono miracolate, impongono il nome di Margherita alle neonate. Questo ne spiega l’enorme diffusione tra umili e regine. Tra gli anglosassoni il nome Margherita viene contratto nelle ultime due sillabe: “Rita”. La persistenza del nome e la sua diffusione corrispondono alla persistente paura che avvolge tutt’oggi le donne a termine di gravidanza, nel momento più bello.
Non si era mai trovato, in nessuna parte del mondo, il modo di mettere in sicurezza le donne con travaglio difficile fino al 1876. In quell’anno a Pavia il dottor Edoardo Bianchi Porro, per porre fine alle stragi da parto complicato, ideò un metodo chirurgico per salvare le mamme ed i nascituri: inventò il parto cesareo a “madre viva”. La sua idea geniale consisteva nel sedare la donna con protossido d’azoto e cloroformio, aprire velocemente l’addome, legare strettamente il collo dell’utero gravido con un fil di ferro, escidere l’utero totalmente, metterlo su un tavolo, aprirlo ed esporre all’aria il bambino vivo.
Per la prima volta nella storia si salvarono la mamma, Giulia Cavallini, ed il bambino. Però c’era un problema: quella mamma, con quel tipo d’intervento, non avrebbe avuto più figli. Tuttavia, fu un grandioso successo perché fino ad allora morivano il cento per cento delle donne con parto distocico. In pochi decenni con quella tecnica, che venne adottata in Europa, Stati Uniti, Sudafrica ed Australia, la mortalità di donne e neonati calò al venti per cento. I tedeschi apportarono modifiche al metodo ma la tecnica definitiva, in uso ancora oggi, venne messa a punto dal dottor Luigi Mangiagalli dell’Ospedale Cà Granda di Milano. Era l’anno 1900. In Sardegna, per alcuni decenni il cesareo si eseguì solo al San Giovanni di Dio di Cagliari. Le donne sarde in difficoltà, da qualunque parte della Sardegna, venivano trasferite a Cagliari con viaggi avventurosi e dolorosi in treno o in automobile. Esiste un bel libro di Giacomo Mameli “Hotel Nord America” che racconta le peripezie di un gruppo di ostetriche novelle che, intorno agli anni trenta, vennero inviate in Sardegna per abbattere l’altissima mortalità di donne e bambini legata al parto e descrive i dolorosi trasferimenti delle donne di Perdas de Fogu che, per parti complicati, dovevano essere portate a Cagliari.
Negli anni ‘40 del ‘900 gli allievi chirurghi della scuola cagliaritana vennero inviati ad operare negli ospedali provinciali. Allora le città minerarie di Carbonia e Iglesias erano popolosissime e vi nascevano molti bambini. A Carbonia venne inviato il dottor Renato Meloni, che era sia chirurgo generale, che specialista in Urologia, in Oncologia ed Ostetricia. Ad Iglesias, uno dei primi a fare cesarei fu il dottor Salvatore Macciò, anch’egli chirurgo generale ed ostetrico. Questi uomini formarono numerosi allievi di valore che hanno operato nei nostri ospedali fino a poco tempo fa.
Nonostante la bravura di questi grandi chirurghi e dei loro allievi, la pericolosità del cesareo è tutt’oggi incombente.
Il problema sta nella possibile insorgenza di emorragia dalle grosse arterie uterine.
Il dottor Giòmmaria Doneddu, ostetrico al Sirai, per sdrammatizzare invitava le pazienti in attesa di partorire a rivolgere una preghiera a Santa Rita, che era esattamente la stessa Santa Margherita del terzo secolo dopo Cristo.
Non va dimenticato che il momento del parto è, comunque, un dramma che in genere si risolve con sorrisi, ma che può talvolta trasformarsi, in pochi minuti, in una tragedia. Questo è vero sempre, anche oggi, nonostante l’evoluzione tecnologica.
Le cronache giornalistiche delle prime settimane di gennaio 2023 hanno riferito di un evento tragico avvenuto nell’ospedale “Perrino” di Brindisi. Una donna di 41 anni è deceduta per complicazioni legate al cesareo. Era portatrice di una gravidanza gemellare. L’ostetrico di turno, il giorno 17 dicembre 2022 procedette al cesareo e mise al mondo i neonati. Purtroppo, dall’incisione uterina iniziò subito una imponente emorragia. L’ostetrico, davanti all’impossibilità di fermarla, chiamò in aiuto il chirurgo d’urgenza dell’ospedale e gli chiese di asportare l’utero in toto per fermare il sanguinamento. Questo fu fatto. L’emorragia si fermò ma la paziente finì in Rianimazione dove il 22 dicembre morì.
Per salvare la paziente venne utilizzato lo stesso principio ideato dal dottor Edoardo Bianchi Porro un secolo e mezzo prima a Pavia, ma con minor fortuna.
Nel caso della donna di Brindisi l’ostetrico non riuscì ad asportare l’utero perché l’infarcimento emorragico degli organi pelvici gli impediva di riconoscerne l’ anatomia e non riusciva più a distinguere, nella massa emorragica intorno all’utero, la vescica, gli ureteri, il sigma, le grosse arterie e le vene pelviche e il retto. Egli si sentì perso in quel guazzabuglio anatomico e non si sentì competente a procedere oltre. Giustamente chiamò d’urgenza un chirurgo generale, esperto in chirurgia della vescica, degli ureteri, e dell’intestino; solo così fu possibile portare a termine l’isterectomia con tecnica di dissezione anatomica. Per chi non è del mestiere, è bene spiegare che tale dissezione richiede conoscenze ed esperienza in più specialità chirurgiche. Esistono ostetrici esperti anche di chirurgia generale che lo sanno fare, ma sono dei fuoriclasse non comuni. In questi casi è necessario che il chirurgo abbia competenze in chirurgia vascolare, in chirurgia urologica, in chirurgia intestinale: tutte specialità che esulano da quelle dell’ostetrico che è un chirurgo dedicato per l’apparato riproduttore femminile. Si conclude che una paziente con un livello di gravità di questa portata ha necessità di una struttura d’urgenza adatta al trattamento dei traumi dell’addome.
Una volta fermata l’emorragia il problema non è concluso. C’è ancora da controllare lo shock emorragico e traumatico. A questo punto, entrano in gioco il reparto di Rianimazione, quello di Nefrologia – Dialisi e quello di Cardiologia.
Questo ci dice che in un ospedale dove si esegue un cesareo complicato devono essere presenti una decina di specialisti diversi tra medici, infermieri e tecnici. Si tratta di un’organizzazione che esiste esclusivamente in una struttura ospedaliera che opera ininterrottamente h24 e 7 giorni su 7, in emergenza.
Se un parto ha una dinamica fisiologica, è sufficiente l’assistenza di un’ostetrica, ma se insorgono complicazioni diventa necessario disporre di un apparato d’urgenza piuttosto complesso. La sicurezza è l’imperativo assoluto. Quando il parto si complica si scopre che in pochi minuti si può passare dai sorrisi rilassati per il lieto evento alla tragedia più insopportabile nel campo della medicina. La morte è in agguato, e strapparle mamma e bambino è difficile.
Il caso raccontato dai giornali è emblematico. La paziente si dissanguò e le vennero trasfuse 17 sacche di sangue. Ora bisogna sapere che per ogni due sacche di sangue si deve aggiungere una sacca di plasma. Se si tiene conto che una persona adulta ha in circolazione, in media, 3.800 cc di sangue, si deve concludere che alla poveretta vennero trasfusi ben 8 litri di solo sangue, oltre alle altre soluzioni in flebo.
Questo significa che la paziente aveva perso più del doppio della sua massa sanguigna totale. Pertanto, si deve concludere che tutto il suo sangue le era stato sostituito almeno due volte. Molti possono pensare che la sostituzione del sangue perso sia sufficiente a salvare la paziente. Invece, non è così. Da subito compaiono fenomeni biochimici che alterano il metabolismo delle cellule dei tessuti di tutti gli organi nobili e queste cellule iniziano a produrre mediatori chimici alterati. Tali anomali mediatori chimici disturbano profondamente la circolazione sanguigna dei capillari e la nutrizione delle cellule dei tessuti. Il loro metabolismo peggiora ulteriormente perché le cellule iniziano a metabolizzare senza ossigeno. Ciò peggiora ancor più la loro capacità di sopravvivenza e, in tutti i tessuti, inizia una specie di “suicidio di massa” delle cellule: si scatena una “tempesta citochinica” simile a quella che fa morire i malati terminali di Covid. Si tratta dello Shock per crisi del microcircolo sanguigno. Il paziente non risponde alle terapie ed è candidato a morire. Qui intervengono gli specialisti in Rianimazione. Talvolta, fanno il miracolo di fermare lo Shock, ma non ci riescono se lo shock è già in fase irreversibile. Il dramma è tremendo per il paziente ed è angosciosissimo per il chirurgo ed i rianimatori. E’ una fase in cui il paziente spesso è ancora vigile, respira e parla, e dà la sensazione che vi sia ancora speranza ma non c’è niente da fare: muore, comunque. I polmoni non scambiano più ossigeno; i reni si fermano; il fegato non lavora più; il midollo non produce più le cellule del sangue; iniziano le emorragie, le trombosi da Cid (Coagulazione intravasale disseminata) e le tromboembolie polmonari e sistemiche. Il cuore, infine, si ferma e non riparte neppure con il defibrillatore.
E’ brutto fare queste descrizioni, ma è necessario per far capire l’enormità delle difficoltà nel parto complicato.
Quale sarebbe stata la soluzione migliore che avrebbe dovuto adottare quell’Ostetrico che aveva eseguito il cesareo? Aveva adottato esattamente l’unica soluzione percorribile: chiamare il chirurgo generale d’Emergenza ed i Rianimatori.
Il chirurgo fermò l’emorragia asportando l’utero, ma lo Shock era già in fase irreversibile. Ora si può porre la domanda: in quanto tempo si passa dallo shock reversibile allo shock irreversibile? Talvolta, in poche ore, talaltra in pochi minuti.
Se l’ospedale è dotato di una Chirurgia d’urgenza ultrarapida, una Rianimazione, una Nefrologia, una Cardiologia un Centro trasfusionale con un ricco organico di personale sempre presente, vi sono speranze. Altrimenti no.
Il caso raccontato dai giornali è diventato famoso perché la paziente morì sotto Natale e perché Papa Francesco il 25 dicembre 2022 chiamò al telefono il marito della poveretta per confortarlo. Purtroppo, questi eventi non sono rari: avvengono tutto l’anno e ovunque. L’ospedale dove si consumò quel dramma è un grande ospedale regionale della Puglia paragonabile al Brotzu di Cagliari. Se il chirurgo generale d’urgenza fosse intervenuto all’inizio dell’emorragia forse avrebbe potuto salvare la poveretta perché l’ospedale era bene attrezzato per le urgenze. Scorrendo le cronache della Puglia si troverà che nei giorni precedenti era avvenuto un fatto simile nell’Ospedale regionale di Taranto.
Drammi come questo, che non si risolvono colla isterectomia, in genere vengono affrontati dai chirurghi d’Urgenza nelle ostetricie di tutto il mondo e spessissimo le pazienti vengono salvate.
Il motivo della necessità che siano immediatamente disponibili i chirurghi d’Urgenza sta proprio nella loro specifica competenza nelle emorragie traumatiche dell’addome, nei traumi vascolari e urologici.
Considerata la gravità e l’importanza sociale di questi eventi è stato istituito un Ufficio apposito del ministero della Sanità e di Agenas che monitora tali tragedie connesse al parto, i cosiddetti “eventi sentinella”. Esattamente questo ufficio ha proposto leggi speciali per regolamentare gli ospedali che hanno il servizio ostetrico e per certificarne la sicurezza.
Comunque, in mancanza d’altro ci rimane sempre Santa Margherita, la protettrice a cui ricorrevano anche le regine, basti pensare al successo che hanno in tutte le città le vie principali intitolate alla Regina Margherita di Savoia, la cui madre, nel momento cruciale della sua nascita invocò la santa e ne ebbe la protezione. Ne era molto devota la laicissima Florence Nightingale, la leggendaria fondatrice dell’Ordine internazionale delle infermiere. Quando morì volle essere sepolta nel cimitero di St Margaret of Antioch. Speriamo che alla protezione di santa Margherita si associ quella dello Stato. Probabilmente, con due protettori, le cose andrebbero meglio.

Mario Marroccu

Il castello dei valori umani su cui si basava la Sanità Ospedaliera del Medioevo si sgretolò durante l’epidemia del 1347-48 : l’etica del sistema di mutua assistenza si era infranta davanti all’incapacità di affrontare la peste. La gente moriva in massa nelle proprie case, nelle campagne e per le strade.
L’apparato sanitario, governato dagli Ufficiali di Sanità, gestì il problema dei morenti e dei morti con metodi spicci. Li caricava sui carretti e li smaltiva in fosse comuni. Questo fu il massimo del “prendersi cura”. I medici , pochi, spaventati e impotenti, seguivano i consigli di Galeno: «Fuge, longe, tarde» («fuggi lontano e torna il più tardi possibile»). L’inconsistenza del sistema di sicurezza prodotto dai governanti generò, nel popolo, odio contro i medici. Il disprezzo per i medici fu tale che per un secolo persero credibilità e scomparvero dalla storia. Nel 1348 il più grande odiatore dei medici fu Francesco Petrarca, il poeta. La sua amata, la bella Laura De Sade, morì di peste, nonostante le cure dei migliori specialisti di Avignone. Per offendere i medici del tempo li chiamò “maccanici”. Con questo termine, che di per sé non è offensivo, voleva dire: «La vostra professione è senza spiritualità; curate i corpi malati come se fossero macchine rotte e non vedete che dentro hanno un’anima carica di valori etici».
La medicina era caduta talmente in disgrazia che per un secolo i malati trovarono conforto soltanto in ricoveri gestiti da personale di assistenza, fratres et sorores, che agivano autonomamente e si mantenevano con le donazioni dei benefattori. Tali strutture erano destinate al ricovero dei vecchi non autosufficienti, dei poveri, dei folli, dei bambini abbandonati e degli infettivi. Anche in questi ricoveri la spiritualità si deteriorò davanti alla tentazione di arricchimenti personali con le donazioni incamerate.
A Milano un secolo dopo, nel 1448, vi fu un duro intervento di  ri-spiritualizzazione” degli ospedali caritativi del tempo. L’arcivescovo della città degli Sforza, Enrico Rampini, sostenuto dal Papa Nicolò V, fece demolire 16 di questi infami ricoveri e costruì il Grande Ospedale dell’Annunciata che poi venne chiamato  Ospedale Maggiore”. Fu una rivoluzione. La gestione sanitaria dell’ospedale venne affidata ai medici, per la prima volta assunti in pianta stabile, e quella amministrativa fu affidata ad una commissione cittadina di persone di fiducia. Con l’intervento dell’architetto Filarete fu progettato un ospedale in cui i letti erano singoli, avevano un armadietto esclusivo per ogni malato e un sistema igienico di scarichi che allontanava i residui di umanità direttamente nei navigli. Si concordò che quello fosse l’“Ospedale per acuti”, da dove i malati dovevano essere dimessi dopo poco tempo guariti o morti. Alle porte di Milano fu costruito l’“Ospedale per i cronici”, destinato ai vecchi, ai folli e agli incurabili. Non se ne usciva mai se non da morti.
L’Ospedale Maggiore di Milano era costruito a “crociera”. Due ali della croce erano destinate alle donne; le altre due agli uomini. Al centro, dove si incrociavano le quattro corsie dell’ospedale, era posto un altare col Santissimo esposto, a significare: «Noi vi curiamo ma è Lui che vi salva». Fu chiara a tutti l’equa divisione delle responsabilità.
Il Sistema Sanitario Milanese attirò la curiosità di tutta l’Europa e molti Governi inviarono i loro medici e architetti per copiarlo. Così si diffusero gli “Ospedali Maggiori” nel mondo occidentale.
La Riforma Sanitaria dell’arcivescovo Rampini fu fondamentalmente una “ riforma etica©. Quella concezione di Ospedale, in Italia e in Europa, rimase fino alle riforme sanitarie sperimentate dopo la Seconda Guerra Mondiale.
La stessa eticità venne ripresa nella Riforma Sanitaria allestita dalla Commissione ad hoc presieduta da Tina Anselmi. Fu lei a presentare il testo della legge n° 833 del 1978 alle Camere. In un’intervista raccontò al giornalista che le idee fondanti erano emerse dalle discussioni fra partigiani nei bivacchi di montagna. Raccontò che fu lì che si decise di introdurre nella riforma i tre valori guida: l’Universalità delle cure, l’Equità e l’Uguaglianza. Lo slogan che sintetizzava lo spirito della nuova sanità fu: «Dalla culla alla tomba, gratuita per tutti». Fu il trionfo della solidarietà.

Recentemente uno dei massimi chirurghi viventi in Italia ha ricevuto l’incarico da un’importante rivista medica americana, di scrivere un articolo sulla “spiritualità” nella chirurgia del cancro in stadio avanzato. Per chi opera negli ospedali di questo tempo, l’articolo commissionato al chirurgo, è stupefacente.
L’obiettivo di chi ha commissionato l’articolo è quello di ridare all’ospedale il significato di “luogo etico” in qualità di contenitore di “valori”. Ciò contrasta con l’idea dell’ospedale come semplice luogo di produzione aziendale secondo calcoli economici di tipo privatistico. Quel chirurgo sicuramente esplorerà l’angoscia di chi non ha più speranza e che non si sente ancora pronto alla fine, e discuterà la “compassione” del medico in questo passaggio. Nella stessa “compassione” che letteralmente significa “sentire la sofferenza insieme all’altro” è coinvolto il personale infermieristico e chi svolge il ruolo di care-giver.

Oggi lo Stato, con il PNRR missione 6, certifica un altro “valore”: il diritto del malato alla “prossimità” del luogo di cura e di chi lo cura. Il luogo più prossimo è la propria casa, poi vengono la
Casa della salute e gli Ospedali.
Negli Atti aziendali di varie ASL qualcuno ha cercato di definire quanto deve essere vicina questa “prossimità”. Vi è chi suggerisce che i luoghi di cura debbano essere distanti non più di un chilometro e mezzo dal luogo in cui sorge l’improvviso bisogno di cure; vi sono altri che invece quantificano la distanza in tempi di percorrenza non superiori ai 15 minuti. Secondo questa visione della “prossimità” si esclude l’accentramento esasperato dei servizi ospedalieri nelle grandi città e cresce l’idea che l’ospedale debba tornare alla sua dimensione etica mantenendo il suo radicamento nel territorio.
Il problema è come fare a tornare allo spirito della legge 833 di Tina Anselmi superando le riforme fallimentari che si sono succedute.
In questo periodo storico di indeterminatezza della percezione del senso del diritto, della giustizia e della politica, è stata citata una dichiarazione del giurista Carlo Arturo Jemolo. Egli ha sostenuto che la Carta costitutiva dell’ONU, così come la Costituzione Italiana, pur piene di buoni principi, sono destinate a rimanere “pezzi di carta” se non esiste un’Istituzione che le faccia rispettare.
La differenza tra quella prima riforma e le successive sta nel fatto che la 833/78 conteneva al suo interno un Istituto di controllo con funzioni assimilabili all’idea di Jemolo.
L’Istituzione in oggetto era rappresentata dal Presidente della ASL e dal Comitato di gestione. Nella nostra esperienza i componenti erano tutti consiglieri comunali delle 23 città del Sulcis e dell’Iglesiente. Gli assistiti allora erano abbastanza soddisfatti dei loro ospedali. Eppure allora avevamo meno medici di oggi. Al Sirai c’erano una trentina di medici contro il centinaio degli attuali. Ad Iglesias i rapporti erano simili. Si dovrebbe concludere che quei consiglieri comunali fossero dei geni del management sanitario. Invece no. Non avevano alcuna formazione in sanità, però avevano una grande capacità politica di interpretare i bisogni del personale sanitario e dei malati. Essi non si sostituivano al personale dell’apparato amministrativo ma facevano rispettare i valori umani di cui erano rappresentanti: la dignità, la sicurezza, la speranza, la condivisione, il coraggio, la compassione e, soprattutto, avevano l’umiltà di ascoltare. Quella capacità di “ascolto” in seguito si attenuò fino a scomparire. Dall’umanizzazione della Sanità pubblica si passò all’ingegnerizzazione della Sanità.
La lettura accurata delle leggi sanitarie di oggi fa emergere la centralità di un nuovo complicatissimo apparato burocratico. Vi si possono leggere centinaia di pagine che descrivono processi, uffici e commissioni, senza mai incontrare le parole: medico, infermiere, malato. Queste tre figure che dovrebbero essere centrali, si trovano invece alla periferia dei programmi; talvolta non sono neppure alla periferia, sembra che proprio non ci siano.
La sede di comando del potente apparato burocratico centrale è un luogo indefinibile della mente, impenetrabile, distante fisicamente e psicologicamente. E’ avvolto da una forma di indeterminatezza e di estraneità per cui è difficile instaurare quei sentimenti empatici che invece con i politici locali erano la norma. La sensazione che ne risulta è che il nuovo sistema sia respingente, come se si trattasse di una corazzata impenetrabile che non lascia spiragli per accedervi.
Leggendo gli atti, si ha la sensazione che tale apparato sia inaccessibile ed escludente pure per i Direttori generali, a cui sono preclusi tutti i poteri essenziali per la reale gestione della ASL, come la facoltà di assumere personale ed acquistare strumentazione con decisioni indipendenti.
Perdendo i nostri sindaci e i nostri politici locali alla guida della sanità, abbiamo perso la cinghia di trasmissione che ci faceva entrare in contatto con i vertici. Ormai siamo al di fuori della possibilità di controllo di questa entità superiore.
Sicuramente non è un’esperienza nuova nella storia dell’uomo.

Nel 15° secolo un rappresentante dell’Aragona davanti alla Cortes catalana espresse al re un giuramento di obbedienza in questi termini: «Noi che siamo leali come lo sei tu, giuriamo a te, che non sei migliore di noi, di accettarti come nostro re e signore sovrano, purché tu rispetti le nostre libertà e le nostre leggi; ma se non le rispetti, non ti riconosciamo». Da “La Spagna imperiale. 1469-1716” di John Elliott.

Mario Marroccu

Sarà che ho appena sentito di un paziente, operato al cervello, che ha perso la PEG (il tubino per nutrirsi) e gli è stato negata l’assistenza immediata in una struttura ospedaliera. Sarà che tutti abbiamo appena sentito che sono stata chiuse le Rianimazioni del Sirai e del CTO. Sarà che con questa storia del disegno di legge sull’“autonomia differenziata” si ha la sensazione che alcune ricche regioni vogliano rompere i ponti di condivisione della Sanità pubblica e dell’Istruzione con le altre regioni meno forti. Saranno solo suggestioni ma la sensazione che intorno ai nostri Ospedali sia stia facendo terra bruciata è forte.
Tutto iniziò nel 1992 quando il ministro Francesco De Lorenzo fece approvare una legge che avrebbe trasformato gli Ospedali da Aziende sanitarie pubbliche in Aziende sanitarie di Diritto privato. Quella legge allontanò i Sindaci dalla gestione diretta della Sanità dei loro territori per darla in gestione ad apparati di tipo privatistico, con tanto di Manager, finalizzati al freddo controllo del bilancio. Non si tenne conto che la sola cura del Bilancio, confliggeva con il fatto che l’oggetto amministrato non era fatto di soli numeri ma, sopratutto, di “valori umani” contenuti dentro esseri umani.
Questa trasformazione in pura macchina burocratica dello stabilimento ospedale si aggravò ulteriormente rispetto al peggioramento che aveva sofferto tra il 1992 ed il 2020, con l’avvento del Covid, e fece definitivamente terra bruciata tra l’utenza umana bisognosa di cure ed il Sistema sanitario.
Abbiamo visto la disumanizzazione rappresentata dalle file di persone respinte fuori dagli ospedali durante la pandemia. Certamente era necessario frapporre distanziamenti tra utenti ed apparato sanitario per motivi di igiene, ma non abbiamo visto l’umanizzazione del rigore, anzi abbiamo visto l’assenza di un reale isolamento dal contagio, di sbarramenti al virus, e la messa in pericolo degli altri malati inermi e del personale d’assistenza. Secondo certi calcoli pare che il numero di morti/anno in più per malattie non-Covid, come tumori ed infarti, sia stato pari alle morti da Covid. Eppure la valutazione contabile del Sistema sanitario, basato su una complessa macchina fatta di leggi, regolamenti, norme, piani nazionali e regionali ed un’immensa, complessa burocrazia amministrativa, ha dimostrato con formule matematiche che i risultati sono stati soddisfacenti. E’ necessario precisare che la soddisfazione si divide in due varianti; esiste la soddisfazione dell’apparato contabile e quella ben diversa dei cittadini. Mentre la prima è basata su “numeri”, la seconda è basata sulla percezione del rispetto di “valori”.
Questa differenza, insistentemente ignorata, è all’origine dei fallimenti delle numerose riforme nazionali e regionali della Sanità. Oggi sta per giungere una nuova riforma: quella della digitalizzazione della Sanità. Va molto bene ma ha un difetto: non è stato previsto, nel PNRR missione 6, un capitolo per l’assunzione di personale Medico, Infermieristico e Tecnico degli ospedali. Cioè sono state previste macchine e strutture ma non è stata prevista la ricostituzione della componente umana della Sanità che deve utilizzare quelle macchine e quelle strutture.
La Sanità è un grande contenitore formato dalla tecnostruttura degli ospedali e dall’apparato burocratico che, sebbene fatto di persone, risponde a rigide esigenze di leggi e strumenti digitali. Tale contenitore, tuttavia, dovrà contenere persone con il loro carico di valori. I valori non sono misurabili né monetizzabili. Sono un’entità prodotta dal cervello umano: si tratta di ragionamenti, sentimenti, istinti, che vengono integrati insieme per produrre “giudizi” e i giudizi regolano la vita dell’Uomo, il quale agisce di conseguenza, allo scopo di raggiungere la “felicità”. Il sistema digitale tecnocratico non può capire il sistema delle astrazioni valoriali umane come: la paura, la fiducia, l’ansia, la solidarietà, la compassione, il desiderio, la giustizia, l’equità, il rispetto, l’uguaglianza e la democrazia; quest’ultima è la somma dei valori e rappresenta il riconoscimento condiviso dei valori che una comunità deve rispettare. In questo momento, non ci sono intermediari fra il “sistema dei valori” e l’apparato tecnoburocratico che governa la Sanità. Ecco perché i sindaci, che sono l’entità da tutti riconosciuta come intermediaria fra noi e la macchina amministrativa dello Stato, sono oggi gli unici referenti delle comunità destinati a mantenere i valori umani indenni da ogni forma di offesa. L’offesa nel nostro caso consiste nel non rispondere con empatia al sofferente che si rivolge con animo empatico alla struttura sanitaria chiedendo d’essere preso in cura. Se ai valori non si risponde con altri valori nascono la frustrazione ed il conflitto.
Dagli anni ‘90, con la fine della legge 833/78, esiste l’errore di considerare l’ospedale come un’officina che ripara malati. Ma c’è differenza. Le macchine guaste possono essere sistemate in attesa nel parcheggio al di fuori dell’officina, in una lista d’attesa senz’anima, ma ciò non vale per l’uomo. Il malato non ha bisogno solo d’essere curato; ha bisogno che altri esseri umani se ne “prendano cura”. La materia di cui è costituito il “prendersi cura dell’altro” è formata dal “tempo di dedizione”, dall’“empatia” e dalla “comunicazione”. Proprio questo è il punto: la macchina amministrativa di diritto privato e la macchina tecnologica supportata dall’intelligenza artificiale, ma con deficit di umanità, obbedisce ad algoritmi regolati dalla matematica e non entra in “comunicazione” con il sistema dei valori umani. Stiamo vedendo come siano ignorati.
L’incontro tra chi “si prende cura” e colui che viene “preso in cura” è un fenomeno estremamente complesso ed ha lo scopo di generare “soddisfazione”. La soddisfazione verrà a sua volta elaborata dai centri cerebrali della “ricompensa”, attraverso molecole chimiche dedicate. Questo sistema complesso della “ricompensa” è stato elaborato in milioni di anni, attraverso mutazioni genetiche molecolari, tutt’oggi in corso, che sono capaci di cambiarci ad ogni secondo che passa.
E’ un argomento estremamente difficile che riguarda il quesito del perché esistiamo e come comunichiamo, e che oggi è oggetto di studio delle Neuroscienze. Un quesito che 2.500 anni fa indusse i primi filosofi ad identificare l’esistenza di tre fattori della natura umana che non possono esistere in nessuna macchina, cioè: il Pathos, il Logos, l’Ethos (il sentimento, la conoscenza, e l’etica). Su questi elementi il primo medico, Ippocrate, formulò il suo giuramento.
Dopo filosofi e medici dei primi secoli intervenne il Cristianesimo, che assimilò i corpi dei malati al corpo martoriato di Cristo e sul concetto di “compassione” dette inizio alla fondazione degli ospedali in tutto il mondo occidentale. Millecinquecento anni dopo, gli scienziati Galileo, Cartesio e Leibniz posero le basi del calcolo matematico infinitesimale e furono i progenitori dell’odierna tecnologia digitale.
Uno di questi, Cartesio, oltre al calcolo matematico condusse studi sul significato ontologico del “prendersi cura di se stessi e dell’altro” sviluppando concetti messi a punto da Sant’Agostino. Nei secoli successivi, fino ad oggi, i filosofi-antropologi hanno elaborato il concetto che l’“essere” ed il “prendersi cura” sono fra loro indissolubili, e l’esistenza dell’“essere” è sintetizzato nella formula: «Io esisto perché mi prendo cura». Questo è l’essenza del significato dell’esistere degli ospedali pubblici e della stessa comunità umana.

E’ stato recentemente pubblicato un libro su questo tema straordinario scritto dalla scienziata antropologa Paola Atzeni. Il problema è talmente complesso che si comprende come non possa essere risolto da banali tecnici dell’ingegneria sociale. Platone, che fu il primo a scriverlo su “La Repubblica”, concluse che il governo delle cose umane dovesse essere affidato ai filosofi (escludendo i burocrati).
Questa digressione serve a dimostrare ciò che stiamo vedendo, e cioè che l’uomo malato non è amministrabile con la sola contabilità burocratica potenziata dall’apporto della migliore tecnologia dell’intelligenza artificiale, necessita dell’intervento della parte umana del sistema politico sanitario, con tutti i suoi valori.
E’ necessario prenderne coscienza e tornare allo spirito della legge di riforma sanitaria 833/78 che conteneva tre principi ampiamente inapplicati: Universalità, Uguaglianza, Equità. Tutti valori umani non trasferibili alla tecnocrazia.
Bisogna farlo prima che si faccia terra bruciata intorno agli ospedali di Carbonia e di Iglesias. Soprattutto, bisogna farlo prima che un’inopportuna legge in gestazione sull’“autonomia differenziata” tagli i ponti fra noi e la Nazione.
Bisogna che la Politica, stimolata dall’opinione pubblica, e tramite i sindaci capaci, riprenda in mano la gestione della Sanità ed impedisca che il mercato della salute senza Stato prenda il sopravvento.

Mario Marroccu