17 July, 2024
HomePosts Tagged "Mario Marroccu" (Page 4)

Nel leggere con piacere l’illuminante articolo “L’anatra zoppa” del Sulcis Iglesiente, di Mario Marroccu, che richiama al “buon senso e all’unità”, contro “le surreali vicendevoli accuse di campanilismo”, sono più che mai convinto che sia necessario sperimentare un nuovo approccio strategico integrato, finalizzato a condividere, organizzare, rendere accessibile, utilizzare e capitalizzare il vasto patrimonio di competenze presenti nella ASL Sulcis, attraverso la creazione di Comunità di Pratica (CdP).
Il termine comunità di pratica, o “Community of practice“, compare agli inizi degli anni ’90, a opera di Étienne Wenger, ma la sua origine è molto più lontana nel tempo, basti pensare alle botteghe artigiane. Il fine della comunità è il miglioramento collettivo. Chi aderisca a questo tipo di organizzazione, mira ad un modello di intelligenza condivisa, non esistono spazi privati o individuali, in quanto tutti condividono tutto.
Chi ha conoscenza e la tiene per sé è come se non l’avesse. Le Comunità di Pratica tendono all’eccellenza, a scambiarsi reciprocamente ciò che di meglio produce ognuno dei collaboratori. Questo metodo costruttivista punta a costruire una conoscenza collettiva condivisa, un modo di vivere, lavorare e studiare, una concezione che si differenzia notevolmente dalle società di tipo individualistico, dove prevale la competizione.
L’idea di CdC è veramente rivoluzionaria. Siamo in un momento storico e in un territorio, dove ci si unisce per togliere ad altri i diritti acquisiti. Ci si unisce in manifestazioni non per la conquista di un diritto, per il mantenimento di un servizio. No. Ci si unisce per andare contro altro ed altri. L’identità degli assistiti della ASL Sulcis non può essere ancora quella dell’appartenenza a questo o a quel Comune.
Le Comunità di Pratica non sono un fenomeno nuovo. Già dalla fine del secolo scorso possono rilevarsi esperienze intese a costituire Comunità di Pratica in ambito sanitario.
Le CdP costituiscano un valido strumento per fronteggiare efficacemente le sfide della sanità moderna, caratterizzata da complessità, specializzazione e personalizzazione delle cure. Nelle CdP l’apprendimento si realizza attraverso l’esperienza sul campo (apprendimento situato) consentendo ai suoi membri, grazie alle interazioni reciproche, di acquisire competenze che possono essere immediatamente verificate nella pratica.
L’apprendimento nella CdP è sia processo individuale e mentale del singolo, che fenomeno sociale e di gruppo dell’intera comunità. La comunità è necessaria ed indispensabile per la condivisione della conoscenza e fornisce un ambiente sicuro dove cimentarsi nell’apprendimento, attraverso l’osservazione e l’interazione con i colleghi più esperti.
L’informalità nelle interazioni è l’elemento che più assicura una buona riuscita della collaborazione ed un atteggiamento propositivo, incoraggiando il confronto, migliorando la pratica e contribuendo a sviluppare nuove soluzioni per affrontare i problemi.
Nello specifico le dinamiche di interazione delle CdC sono riassumibili in quattro fasi essenziali:
• La comunicazione – fase in cui ci si scambia domande e risposte supportandosi reciprocamente nel lavoro quotidiano, solitamente ci si trova nello stesso ambito professionale con una certa eterogeneità del livello di esperienza. In questa fase iniziale si sviluppa un senso di “aiuto reciproco” nel breve periodo.
• La condivisione – fase in cui si hanno interessi comuni (ad es: problema di salute specifico) per i quali si hanno risorse comuni alle quali far riferimento per risolvere ciascuno i propri problemi, interagendo con persone che provengono da ambiti disciplinari simili si migliora la formazione personale. In questa fase si sviluppa l’“apprendimento individuale” nel lungo periodo.

• La collaborazione – fase in cui si ha un problema comune da risolvere separatamente (ad esempio: creare un percorso diagnostico terapeutico assistenziale (PDTA), percorsi integrati, etc.), ma avvalendosi del supporto reciproco, solitamente si è tutti attori dello stesso processo e la finalità è quella di migliorare continuamente le prestazioni del processo. In questa fase si sviluppa il “supporto ai processi” aziendali nel breve periodo.
• La cooperazione – fase in cui si lavora per produrre un unico “prodotto” (che può identificarsi in un prodotto, un servizio, un progetto, ecc.) e il risultato dovrà essere il migliore da ogni punto di vista, scartando le proposte inadeguate, così facendo si sviluppano le capacità innovative dell’impresa. In questa fase si sviluppa l’”apprendimento organizzativo” nel lungo periodo.
Per fare un esempio, le insufficienze riportate nel PNE 2022 (dati 2021 sugli indicatori di Colecistectomia laparoscopica: ricoveri con degenza post operatoria < a 3 giorni, Colecistectomia laparoscopica: interventi in reparti con volume > 90 casi/anno o sulla Frattura del collo del femore: intervento chirurgico entro 48 ore), per essere modificate potrebbero essere analizzate in una CdP condividendo le diverse competenze possedute da ortopedici, anestesisti, chirurghi e direzione strategica, pena la possibile riduzione di Unità Operative.
Per quanto concerne il governo della sanità territoriale e della cronicità, oltre gli adempimenti normativi previsti dal DM 71, sarà necessario costruire CdP attraverso la partecipazione dei MMG, PLS, Medici Specialisti Ospedale/Territorio, Specialisti della fragilità (Fisiatri e Geriatri), ADI, UVMD ed équipe itineranti, comunità protette, i referenti dei servizi di dimissioni ospedaliere, Assistenti sociali e Psicologi della ASL e dei Distretti Sociali/Ambiti territoriali, rappresentanti delle Associazioni dei malati.
Il Ruolo del Management (Direttori dei Distretti Sanitari e del Presidio Ospedaliero, gli altri Dirigenti delle strutture aziendali, Formazione, Professioni sanitarie, Controllo di Gestione, Farmacisti, e servizi informatici, etc.), dovrà essere quello di incoraggiare, supportare, incentivare e indirizzare la Comunità di Pratica verso il raggiungimento degli obiettivi aziendali, stimolando la creazione di un senso di appartenenza, facilitando la comunicazione e la condivisione di informazioni e conoscenze, incoraggiando l’utilizzo della tecnologia a disposizione per la comunicazione e agendo in collaborazione con i servizi degli Enti locali per una piena integrazione multidisciplinare.

Antonello Cuccuru

 

Nel loro gergo i broker chiamano “anatra zoppa” i titoli quotati in Borsa non appetibili per gli investitori ed i giornalisti americani indicano con questa immagine figurata il Presidente degli Stati Uniti costretto a “volare basso” quando perde la maggioranza in Parlamento alle elezioni di Midterm. Gli appassionati di “bird watching” sanno che quando un’anatra perde l’uso di una zampa non riesce a spiccare il volo dalle acque dello stagno. Come descrivono gli osservatori l’uccello, nel momento in cui si appresta a decollare, inizia a correre sull’acqua con i suoi piedi palmati e, una volta aumentata la portanza delle ali, con la spinta di quella corsa convulsa, riesce a staccarsi dall’acqua e librarsi in volo.

Se l’anatra fosse zoppa non potrebbe decollare, con il solo battito delle ali, riuscirebbe solo a bagnarsi di più, col risultato di appesantirsi ed affondare. L’anatra zoppa non può sopravvivere.

La ASL di Carbonia, con i suoi ospedali di Iglesias e Carbonia è un’anatra zoppa da almeno 20 anni.

E’ un’immagine triste.

E’ la stessa tristezza che prende il viaggiatore che, di notte, tornando in auto da Cagliari verso Iglesias e Carbonia vede la strada impoverirsi, progressivamente, di luci e di indicazioni man mano che si allontana dal capoluogo. Appena usciti dal circondario di Cagliari, che ha una esagerata rete stradale illuminata come un Luna Park da una straordinaria ricchezza di fari, da cartelli indicatori, da guard rail con catarifrangenti, e si entra nel nostro territorio, si assiste alla trasformazione progressiva delle strade: si rarefanno sia i cartelli indicatori che le luci stradali poi, anche quel poco che rimane di indicazione dei bordi stradali, una volta arrivati all’altezza di Villamassargia, scompare e si entra nel buio totale. Dopo Villamassargia la strada è talmente buia d’avere la sensazione di cadere in un abisso. Si riesce appena a riconoscere la carreggiata seguendo da vicino le macchine che procedono in fila indiana, nella speranza che la prima della colonna abbia individuato, facendo da scout, il sentiero giusto. Quella strada, privata dei sistemi di sicurezza luminosi, è la metafora dei rapporti di ricchezza tra il capoluogo e la provincia.

Dopo esserne uscito, tiri un sospiro di sollievo e puoi immaginare l’apprensione dell’anatra zoppa che non riesce a staccarsi dall’acqua, libera di volare in un cielo più sicuro.

Si ha la stessa sensazione di incertezza leggendo il Piano sanitario Regionale del 2017, e quello già approvato dalla Giunta per il triennio 2022-2024. Nella premessa c’è scritto che la popolazione della città di Cagliari è quasi 5 volte la popolazione della provincia del Sulcis Iglesiente. Alla nostra Asl, con i suoi circa 120mila abitanti e 3 Ospedali, il Piano destina 313 posti letto, pari a 2,4 posti letto per 1.000 abitanti. In altri tempi, quando i nostri Ospedali erano tutti operativi, avevamo 700 posti letto. Oggi il Piano destina agli Ospedali cagliaritani un numero di circa 2.600 posti letto, che equivalgono a 4,5 posti letto per 1.000 abitanti. La logica matematica, che è l’unico parametro capace di definire il principio di Universalità, di Uguaglianza e di Equità, declamati dalle leggi, non è propriamente rispettata.

Anche ammesso che Cagliari abbia bisogno di un numero di posti letto maggiore per l’Università, e per i Servizi sanitari di rango regionale, come la Cardiochirurgia, la Neurochirurgia, la Chirurgia Vascolare e Toracica, la chirurgia plastica, il centro grandi ustionati, il centro trapianti (che in tutto necessitano di circa 150 posti letto), non si capisce come si giustifichino i 1.000 posti letto in più che le sono stati assegnati rispetto ai numeri attesi. Certamente c’è da capire la esigenza delle case di Cura Private, e questo non si discute, ma c’è anche da capire l’esigenza di servizi sanitari che dovrebbero essere proporzionali alla popolazione del nostro territorio.

La ridondanza di ricchezza Ospedaliera del Cagliaritano, confrontata alla nostra povertà sanitaria, assomiglia molto all’esiguità della nostra scarna rete stradale. Non si tratta solo di povertà di posti letto; si tratta anche della proporzionale diminuzione di posti di lavoro in campo sanitario, ricollocati in altre sedi, con una perdita mensile di molti milioni di euro a danno della nostra rete commerciale.

Bisogna prenderne atto: la Sanità del Sulcis Iglesiente è già debole da molto tempo e corre il rischio di non sostenere lo sforzo per decollare. Le scelte da fare oggi sono vitali; esse devono riparare le falle strutturali rimaste aperte e ci servono più che mai il buon senso e l’unità.

Attualmente i nostri Distretti sanitari sono impegnati ad approvare il Nuovo Piano del Sistema Sanitario del Sulcis Iglesiente in cui il pezzo forte è rappresentato dagli Ospedali esistenti. La riorganizzazione della sanità territoriale è per ora un progetto, invece sugli Ospedali si devono prendere, oggi stesso, decisioni concrete. Non si può sbagliare. La pena di un eventuale errore sarà, come è stato scritto dai giornali, il fallimento. Il piatto da dividere è povero e vi è il pericolo che si scateni una competizione fra poveri.

Sono già nate incomprensioni e si leggono, sui quotidiani, surreali vicendevoli accuse di campanilismo.

E’ un’accusa infondata e fa perdere di vista le vere cause.

Tale atteggiamento è da archiviare subito.

Invece, dobbiamo riconoscere che la sanità non appartiene a nessuno dei distretti ma ai 125mila abitanti del Sulcis Iglesiente. Esattamente appartiene a 23 Comuni della provincia. 23 comuni sono una forza contrattuale importante, per peso elettorale, meritevole di molto rispetto. Si dovrebbe sommessamente riconoscere che anche questi 23 Comuni sono parimenti responsabili per mancato controllo di quanto avveniva sui tavoli dove si suddividevano i fondi del Piano sanitario Regionale, sia durante le precedenti Amministrazioni sia durante l’attuale.

Ciò premesso, la solidarietà impone che si approvino senza alcun dubbio tutte le richieste avanzate sia dal Distretto di Iglesias che dai Distretti di Carbonia e delle Isole. Richieste che appaiono fra loro compatibili e complementari.

Ora c’è da chiedersi: i nostri Ospedali riusciranno a far funzionare bene tutte le Unità Operative richieste? La risposta dipende dall’entità dei finanziamenti, dal numero dei posti letto messi a disposizione, dal personale che potrà essere assunto e anche dalle reali richieste avanzate dall’utenza. Se vi sarà un eccesso di richiesta sanitaria da parte della popolazione rispetto alla possibilità di offerta, si andrà incontro al fallimento, e i cittadini continueranno ad andare a Cagliari per ottenere le cure. In caso contrario, se vi sarà poca richiesta di certi servizi, le Unità Operative che resteranno sottoutilizzate e non garantiranno la produttività prevista dalla legge, verranno cassate dal piano di Ferruccio Fazio del 2010 e dalla legge del 2012 del Ministro Renato Balduzzi. Se non bastassero quelle leggi, le Unità operative inefficienti verranno chiuse in esecuzione del DM 70/ 2015 di Beatrice Lorenzin. Ne consegue che non ci conviene assolutamente fare programmi impossibili da rispettare. Se andassimo fuori dalle previsioni di produttività imposte dalle leggi rischieremmo di predisporci a diventare anatre zoppe per errore di valutazione. In previsione di questa evenienza il Piano Regionale già dispone che i posti letto delle Unità Operative soppresse debbano essere trasferiti nella ASL più vicina, che ne diverrà la titolare definitiva. Ci troveremmo nella condizione del vecchio adagio per cui “fra due litiganti il terzo gode”.

Esistono anche altri aspetti a cui prestare attenzione. Prendiamo il caso del Sirai che deve assolutamente essere adeguato all’aumento di richiesta dalla parte dell’utenza. Questo Ospedale è destinato alle Urgenze ed Emergenze per tutt’e tre i Distretti: quello del Sulcis, quello delle Isole, e quello dell’Iglesiente. Tutte le Unità operative dovranno obbligatoriamente essere sufficienti per soddisfare le richieste di trattamenti in urgenza tutti i giorni, 24 ore su 24, senza interruzioni durante l’anno né per le feste, né per le ferie, né per le epidemie.

L’organizzazione che stiamo dando a questo Ospedale è adeguata alle richieste di tutto il territorio?

I reparti d’urgenza hanno il numero di posti letto sufficiente ad accogliere tutti i richiedenti?

Sono stati predisposti i Servizi Specialistici che devono fisicamente affiancarsi alle Unità Operative?

Il Personale Medico ed Infermieristico è sufficiente per coprire i turni, in presenza, sia del mattino, che della sera, che della notte, compresi i festivi? è necessario che tutti i cittadini entrino in sintonia con questi problemi perché se non li risolviamo adesso avremo tutti da soffrirne, prima o poi.

Per entrare nell’emozione del dramma che accompagna tutte le emergenze, fatta di ansia, di solitudine e di speranze destinate spesso ad essere disattese, senza distinzione di censo, di genere, o d’età, racconto un episodio. Un paziente di rango politico rilevante ebbe un ittero ostruttivo gravissimo; di quel tipo che porta a morte in poco tempo. L’ittero, come è noto, è quel colore giallo della pelle che compare a causa della ostruzione della via biliare, il canalicolo che porta la bile dal fegato all’intestino. Se il canalicolo non viene disostruito il paziente muore. Per fortuna può essere disostruito con una procedura endoscopica inserendovi un tubino che si chiama stent. Il paziente si rivolse a Carbonia ma non trovò quel servizio in funzione, poi andò ad Iglesias ma non venne accolto. I nostri Servizi erano deficitari ed incapaci di prendersi cura di lui. Allora chiese l’intervento di un suo amico che in quel tempo era a capo di una struttura ospedaliero-universitaria di Cagliari. Attraverso quell’interessamento trovò un posto nell’Ospedale di San Gavino Monreale. Là venne trattato e, in pochi, giorni tornò a casa in buone condizioni. Quel che ho descritto successe ad un uomo conosciuto e importante. Se fosse capitato ad un cittadino comune del Basso Sulcis, o di Carloforte, o di Buggerru, senza conoscenze in alto loco, coma sarebbe finita? Non lo so. Certamente avrebbe avuto ancora più difficoltà ed una sorte molto diversa.

In passato il problema dell’ittero ostruttivo sarebbe stato risolto subito, e bene, in casa nostra.

Debbo dire che nella Chirurgia Generale di Carbonia esisteva una Endoscopia digestiva di livello avanzato che per 20 anni eseguì tali procedure, ad ogni ora del giorno e della notte, salvando molte vite.

Non si limitava solo a questo. Con grande frequenza quei bravi colleghi trattavano pazienti emorragici che perdevano sangue in quantità inimmaginabili da varici esofagee rotte o da ulcere o da cancri dello stomaco; riuscivano a fermare l’emorragia con le procedure endoscopiche e spesso li salvavano.

Oggi, questo servizio non esiste più. Tuttavia può essere ricostituito immediatamente e reso operativo all’interno della Chirurgia Generale d’Urgenza che si organizzerà al Sirai.

E’ immaginabile l’esistenza di un Ospedale d’Urgenza che non può disostruire una via biliare ostruita o non può fermare un’emorragia irrefrenabile del tubo digerente? Assolutamente no.

Un Ospedale così sarebbe un’anatra zoppa e finirebbe la sua corsa prima di iniziarla.

Perdere la vocazione ospedaliera delle città di Carbonia e Iglesias sarebbe grave: metterebbe ancora di più i nostri malati nelle condizioni umilianti ed impietose di chi soffre e viene rifiutato.

E’ necessario proteggere subito il territorio dal pericolo di perdere altra sanità.

Questi nostri ospedali potrebbero risalire ad alta quota se, senza indugio, si dovessero soddisfare tutte le richieste avanzate dai Sindaci dei 23 Comuni, ad una condizione imprescindibile: che si proceda immediatamente alla definizione di un atto che descriva con precisione numerica la dotazione degli Organici del Personale dei vari Servizi. Senza tale atto, che deliberi l’assunzione immediata di tutto il Personale che serve, la riforma degli Ospedali è solo “chiacchiera”. Ciò che sta succedendo alla Dialisi del Sirai, ne è un monito. Dopo la Dialisi, come birilli, cadrebbero anche tutti gli altri reparti.

E’ un momento cruciale e dobbiamo stare uniti.

E’ necessario che i Politici guardino al Sulcis Iglesiente come ad un’unica entità indivisibile e solidale.

In tal modo, forse, eviteremo che altri reparti ospedalieri vengano chiusi ed i loro posti letto (ed i proporzionali posti di lavoro che assicureremmo per il Personale) trasferiti in altre città, distanti poche decine di chilometri.

I Sindaci chiedono ogni giorno, per la nostra Sanità, servizi concreti come:

– I “Pronto soccorso” funzionanti

– L’azzeramento delle “liste d’attesa”

– Ospedali attivi e con posti letto sufficienti

– Medici di base presenti “qui e subito”.

Fino ad ora le risposte dei Governanti sono apparse irrealizzabili, con un linguaggio burocratico poco accessibile, basate su schemi di progetti-tipo, come:

– Reti ospedaliere.

– Reti territoriali.

– Allegati vari.

Siamo nella nebbia.

Finalmente, in questa nebbia fitta, si vede una tenue indicazione che ha dell’incredibile: nell’ultima legge di riforma, che si chiama “DM 77”, nell’introduzione dell’allegato “1” viene riportato in auge il principio su cui si basò la Grande Riforma sanitaria 833/78 di Tina Anselmi.

Per intenderci, è quella Riforma che assicurava l’assistenza sanitaria gratuita a tutti “dalla culla alla tomba”. Quella Riforma fu un successo perché funzionò. E qui sta il mistero: perché funzionò?

Funzionò perché si pensò di affidare la concretizzazione del Piano sanitario nazionale ai sindaci dei vari territori. I Sindaci divennero Presidenti delle ASL e dei Comitati di gestione; i consiglieri comunali divennero componenti delle Assemblee generali delle ASL. Cosa fecero per rendere concreto il disegno della nuova Sanità? Utilizzarono i soldi del Fondo sanitario nazionale, suddivisi equamente fra tutte le ASL, per raggiungere gli obiettivi della legge di riforma. Vennero costruiti nuovi ospedali e nuovi reparti specialistici usando il buon senso: puntarono tutto sui professionisti strategici che avrebbero trainato il sistema sanitario nel futuro. Così ogni ASL cercò di accaparrarsi i primari migliori e gli specialisti più motivati e più capaci; vennero assunti contabili eccellenti e furono istituite scuole per la formazione di infermieri.

La strategia contenuta nella legge prevedeva che il Direttore sanitario potesse essere eletto fra i primari dei reparti; ad eleggerlo erano i rappresentanti dei medici, degli infermieri e dei tecnici. Ne conseguiva che il Direttore sanitario era un vero leader. La sua autorevolezza era indiscussa; l’obbedienza era certa; il controllo che esercitava era potente e ben accetto. Tutti sostenevano lo scopo del Direttore sanitario che era quello di far funzionare bene l’Ospedale. Il Direttore sanitario aveva lo scopo di soddisfare i desiderata del Presidente e del Comitato di gestione che provenivano dalle istanze democratiche della popolazione.

Questa fu la strategia.

Poi la legge 833/78 venne affondata dal ministro Francesco De Lorenzo nel 1992 e dal ministro Rosy Bindi nel 1995-1999. Questi due ministri trasformarono la ASL da aziende di Diritto pubblico in Aziende di Diritto privato. Le Aziende sanitarie privatizzate cambiarono la”mission” della legge 833 . Quella legge era basata sulla “solidarietà” che si esprimeva nell’idea di “dare il servizio sanitario secondo tre principi fondamentali: universalità, uguaglianza, equità”. Con le nuove Aziende pubbliche di Diritto privato la nuova mission fu: la “contabilità”.

La sostituzione della solidarietà con la contabilità finanziaria comportò un’altra sostituzione: i sindaci ed i primari vennero espulsi dalla funzione di controllo e di direzione del Sistema sanitario nazionale e al loro posto vennero nominati i “manager”, apolitici.

Lo scopo era quello di passare da una “costosa” amministrazione pubblica ad una (supposta) “meno costosa” amministrazione privata. Si voleva estendere all’Italia intera la riforma sanitaria della regione Lombardia che negli anni ’90 aveva affidato la cura della popolazione al sistema delle Case di cura.

Però, c’è un “però”. Mentre il padrone della Casa di cura privata produce Sanità a pagamento per trarne un utile, e per avere questo utile deve trasformare i cittadini-pazienti in suoi “clienti” attraendoli con servizi efficienti, i manager pubblici, che non hanno gli interessi di un padrone di clinica, hanno un solo fine: ottenere l’equilibrio di bilancio, anche a costo di ricorrere alla riduzione della spesa. La richiesta di spendere poco in Sanità divenne esplicita col governo Berlusconi del 2003 che con legge vietò nuove assunzioni negli ospedali, impose il blocco dei turn-over di chi andava in pensione e la riduzione dello 0,4% annuo della spesa sanitaria. Il risparmio della spesa sanitaria venne attenuto riducendo: il personale, l’acquisto di farmaci e l’aggiornamento tecnologico e strutturale.

In quegli anni la Sanità privata migliorava se stessa assumendo i migliori specialisti ed acquisendo le migliori tecnologie. Con ciò diventava l’oggetto del desiderio dei pazienti, mentre la Sanità pubblica diventava sempre più grigia, professionalmente e strutturalmente.

Maturò nella mentalità collettiva un effetto respingente della Sanità pubblica. Così, mentre la Sanità privata faceva un balzo in avanti, quella pubblica faceva molti passi indietro. Nel 2012 vi fu un potente salto all’indietro con ministro della Salute Renato Balduzzi, essendo presidente del Consiglio Mario Monti. In quell’anno, quel ministro emanò un decreto con cui imponeva la drastica riduzione dei posti letto ospedalieri a 2,7 posti letto per 1.000 abitanti. Tutti i manager si precipitarono al taglio dei posti letto, alla chiusura di reparti specialistici e di Ospedali.

Nell’anno 2015 venne emanato il DM 70 che è una legge di Riforma della rete ospedaliera voluta dalla ministra Beatrice Lorenzin ed approvata dal Governo di Matteo Renzi. Quella legge pose condizioni capestro ai piccoli Ospedali che non avessero raggiunto un certo numero di procedure chirurgiche e di alte indagini specialistiche, senza curarsi di verificare se i risultati fossero stati indotti dal declassamento delle strutture ospedaliere, impoverite dalle leggi di risparmio emanate dai Governi precedenti. Dato che i piccoli ospedali sono nelle province ed i grandi ospedali, con i loro grandi numeri, sono nelle città capoluogo, ne consegue che gli Ospedali territoriali (provinciali) vennero ulteriormente ridotti e messi nelle condizioni di chiudere, mentre i grandi ospedali dei capoluoghi crebbero ulteriormente in dimensioni e ricchezza.

In queste condizioni di depauperamento la nostra rete ospedaliera nazionale e la Sanità territoriale sono giunte ad affrontare lo tsunami dell’epidemia di Covid-19 del 2020. Il risultato è stato disastroso ma molto istruttivo. Si è visto come la Sanità privata sia inefficiente nell’affrontare i grandi problemi di salute pubblica. Infatti, soprattutto la Lombardia ed il Veneto, che sono state le regioni iniziatrici della privatizzazione della Sanità pubblica, sono state all’inizio del tutto incapaci ad affrontare l’epidemia. Il disastro fu tale che vennero in soccorso medici dalla Cina, dalla Russia, da Cuba, dalla Romania e gli Ospedali tedeschi e francesi misero a disposizione i loro posti letto per accogliere i nostri malati per aiutare il nostro sistema al collasso.

L’insufficienza sanitaria italiana fu talmente grave e penosa che la Unione europea concesse all’Italia un super-fondo, in parte regalato, in parte in prestito, per ricostruire la Sanità e il sistema produttivo.

Il Governo Draghi ha pubblicato il progetto per la spendita di 230 miliardi – Recovery Fund – per la ripresa e resilienza. Il Piano è distinto in sei “mission”. La “mission n° 6” è destinata alla Sanità. Saranno spesi per la Sanità 16 miliardi di euro. Quei fondi verranno spesi in preponderanza per la medicina territoriale e di prossimità.

Per spiegare come spendere quei soldi il Governo ha emanato il DM 71 e il DM 77 /2022. Mentre il DM 70 del 2015 dava disposizioni per la Riforma degli Ospedali, i DM 71 e 77 rappresentano la Riforma della medicina territoriale.

Il 22 giugno 2022, cioè pochi giorni fa la Gazzetta ufficiale fa pubblicato il DM 77 (decreto 23 maggio 2022).

Cosa contiene? Contiene il Piano di riforma sanitaria del territorio, quindi la medicina di prossimità.

Dal 26 giugno 2022 il Decreto è legge e quindi già da oggi dovremmo vedere realizzato il Piano. Esso contiene il progetto di:

– il Distretto sanitario

– le Case della Comunità

– gli Ospedali di Comunità

– la COT (Centrale Operativa Territoriale)

– gli IfoC (infermieri di famiglia o comunità)

– i LEPS (livelli essenziali delle prestazioni sociali)

– il Nea (numero europeo armonizzato 116117)

– il PAI (progetto di assistenza individuale integrato)

– il PNC (piano nazionale cronicità)

– il PNP (piano nazionale prevenzione)

– il PRI (piano riabilitativo individuale)

– il PUA (punto unico di accesso)

– il PDTA (percorso diagnostico terapeutico individuale) e tante altre cose.

In quel Piano c’è tutto il desiderabile. E’ un grande progetto. A leggerlo si rimane ammirati, tuttavia c’è una assenza importante: manca la strategia.

E’ come ricevere dall’architetto il progetto per costruirsi la casa. Si ha in mano un bel disegno ma ci manca l’ingegnere che realizzi la costruzione dell’edificio. Mancano i muratori, gli elettricisti, gli idraulici, il materiale da costruzione con porte e pavimento compresi.

Ecco. Manca la strategia di realizzazione della Riforma. Per questo, dalla riforma Balduzzi del 2012, e dalla riforma Lorenzin del 2015 in Sardegna abbiamo assistito alla demolizione di Aziende ospedaliere ma nessuna ricostruzione. Stesso destino, probabilmente, spetta alla Riforma dell’assistenza territoriale.

A questa immensità di progetti, ben disegnati ma talmente belli da sembrare irrealizzabili, fa da contraltare la realtà quotidiana del pensionato sulcitano o iglesiente che manda in piazza i propri sindaci e sindacalisti per chiedere almeno un medico di base che fornisca le ricette periodiche dei farmaci.

La situazione della Sanità reale è questa:

1 – Pochissimi posti letto negli Ospedali pubblici per effetto delle leggi dal 2003 ad oggi. Quelle leggi per la riduzione della spesa sanitaria vennero applicate, paradossalmente, solo negli Ospedali pubblici ma non negli Ospedali privati. Nell’ultimo anno in Italia sono stati inaugurati 12 Ospedali di cui solo uno è pubblico.

2 – Gravissime carenze nei Pronto Soccorso che, ricordiamolo, si trovano solo negli Ospedali pubblici.

3 – L’attribuzione ai medici del territorio di funzioni complesse che hanno l’effetto di complicare le procedure di assistenza al paziente.

4 – La persistenza della dualità fra medicina degli Ospedali e del territorio. Ne deriva l’assenza di un raccordo razionale, immediato ed efficiente, fra reparti ospedalieri, Pronto soccorso e medici del territorio.

Oggi il DM 77 merita attenzione e curiosità per un motivo singolare: perché dopo che i vari Governi che si sono succeduti hanno distrutto la Legge di Riforma sanitaria 833/78, il Governo attuale in premessa al decreto scrive: «Il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), uno dei primi al mondo per qualità e sicurezza, istituito con la Legge n. 833 del 1978, si basa su tre principi fondamentali: universalità, uguaglianza, ed equità».

Per chi legge queste righe sulla Gazzetta Ufficiale, la frase equivale ad un atto di dolore per aver affondato la Legge 833/78. A questo punto, se questa premessa fosse una sincera dichiarazione di pentimento per aver prodotto, negli ultimi 30 anni, leggi sanitarie affette da “aborto abituale”, potremmo sperare nella comprensione di quanto sarebbe utile riportare in vita la strategia di applicazione che venne adottata per rendere reale la Riforma 833/78.

In particolare la Regione Sardegna dovrebbe prendere atto che l’istituzione di un Ente di diritto privato che gestisce la Sanità pubblica corrisponde alla rinuncia dell’autorità politica alla gestione diretta della Sanità regionale.

Di necessità la corretta impostazione della riforma, per funzionare, dovrebbe comportare:

1 – Il conferimento del potere di Presidenza, dell’Azienda regionale sanitaria, all’assessore regionale competente. La gestione al Direttore generale.

2 – la delega delle attribuzioni e dei poteri di Presidenza delle ASL ai Sindaci del territorio e, l’attribuzione dei poteri di gestione, ai Direttori generali.

3 – La suddivisione equa del fondo sanitario regionale fra le ASL.

4 – l’indicazione inequivocabile degli Ospedali di base e quelli di I livello.

5 – l’interpretazione autentica delle funzioni attribuite alle tre tipologie di ospedali. Identificazione del personale e dei reparti coinvolti nel DEA.

6 – La centralità ed il potenziamento dei Pronto Soccorso sia come sede di valutazione dell’urgenza, sia come raccordo immediato fra i servizi chirurgici e medici d’urgenza, e i medici del territorio.

7 – l’ampliamento degli organici dei Pronto soccorso.

8 – l’ampliamento dei posti letto per le degenze ordinarie e le terapie intensive.

9 – Sanità territoriale ed ospedaliera fusi e interconnessi in un unico sistema di servizio continuo e complementare. Il Pronto Soccorso inteso come estensione dell’Ospedale nel territorio con l’intento di superare la dualità esistente.

10 – Attribuzione di un nuovo ruolo strategico ai Primari delle Unità Operative specialistiche intesi some figure strategiche della ASL.

11 – Direzione Sanitaria costituita dal Direttore Sanitario eletto, fra i Primari, dalla Commissione dei Sanitari, e coadiuvato da un ufficio di Direzione costituito da medici legali, specialisti in igiene ospedaliera, avvocati, amministrativi e ingegneri sanitari. Queste strutture burocratiche sono già esistenti.

Per procedere in questa direzione le leggi attuali (legge regionale n. 24/2020) devono essere adeguatamente implementate. L’unica modifica sostanziale consiste nell’introduzione dell’assessore regionale alla Presidenza dell’ARES e dei sindaci del territorio alle Presidenze delle ASL, con funzioni di controllo e deliberanti, coadiuvati dai Direttori generali per la gestione.

Riferimenti:

Legge 833/78

Riforma Balduzzi 2012

Riforma Lorenzin 2015

DM 71;

DM 77

FOSSC (Forum delle società scientifiche dei clinici ospedalieri e universitari italiani).

I nostri Ospedali sono in stato di solitudine. Molti cittadini del Sulcis Iglesiente stanno perdendo il diritto a godere dei “Livelli Essenziali di Assistenza”.

Leggendo i titoli di apertura dei giornali di queste settimane si ha la sensazione che la storia, non solo quella sanitaria contemporanea, vada proprio male. Oltre alla vicenda della Salute pubblica ci angoscia la questione della guerra, dell’approvvigionamento di gas e benzina, del grano, e della corsa dell’inflazione. In realtà la Storia non è impazzita, è solo un “Sistema Complesso”, apparentemente caotico.

Il professor Giorgio Parisi ha meritato il Nobel della Fisica, dimostrando che anche il “caos” ha un suo ordine prevedibile nella ripetizione delle sue imprevedibilità. Noi ci siamo dentro.

Se osserviamo, nella storia dell’ultimo secolo, come si sono sviluppati i servizi sanitari locali del Sulcis Iglesiente ci accorgiamo che tra guerre, spopolamenti, epidemie, inflazioni, sconvolgimenti politici, la nostra storia sanitaria ha un suo percorso logico. Storicamente il Sulcis Iglesiente non ha mai avuto una sua Sanità ospedaliera. Questa è stata un miracolo sociale nato nel ventesimo secolo, e oggi è insensato pensare di perderla. Sappiamo che nell’anno 1904 esisteva un ospedaletto a Buggerru, voluto dalle Società minerarie francesi, per curare gli operai sardi vittime di incidenti in galleria. Allora esisteva anche un ospedale un po’ più attrezzato ad Iglesias. Carbonia non esisteva ancora. L’unico ospedale degno di questo nome si trovava a Cagliari: il San Giovanni di Dio. Era lontanissimo, e le strade per arrivarci erano adatte ai carri trainati da animali. I treni comparvero dopo. Erano anni in cui l’assistenza sanitaria si limitava a legare i “matti”, a isolare i lebbrosi, ad amputare gli arti, a raddrizzare le ossa ai fratturati, e basta. Non esisteva la chirurgia ginecologica, e la chirurgia ostetrica si limitava al cesareo a ”mamma morta”. Le donne del Sulcis che avevano un parto difficile dovevano morire in casa, col bambino dentro, consolate dall’affetto dei parenti. La comparsa degli ospedali di Iglesias e di Carbonia fu un improvviso miracolo della storia.

Quegli ospedali non sorsero per noi. Sorsero per una combinazione di interessi. Furono il risultato di una trattativa della Storia: Sulcis vs/ Stato italiano. Il Sulcis voleva lavoro e servizi, e lo Stato voleva il sottosuolo del Sulcis. Il cuore dello Stato cominciò a battere per il Sulcis quando si scoprì che qui c’era il carbone. Eravamo entrati nell’era dei combustibili fossili. Vi eravamo entrati già nel 1800, però l’importanza del carbone arrivò ai vertici della classifica quando, nel corso della Prima Guerra Mondiale, si capì che l’avrebbe vinta chi aveva più benzina per i mezzi corazzati. Nel 1918, in piena offensiva tedesca, la società petrolifera americana Standard Oil interruppe le sue consegne di carburante alle parti in conflitto. La Germania per un po’ ebbe la meglio perché dall’anno 1913 aveva iniziato a produrre benzina sintetica estratta dal carbone. Poi le cose si invertirono quando gli americani intervennero portando la loro benzina estratta dal petrolio. Questo fatto costrinse i futuri protagonisti della Seconda Guerra Mondiale ad ideare possibili alternative alla benzina estratta dal petrolio. Era chiaro che da allora in poi tutti gli scontri bellici sarebbero stati decisi, soprattutto, dalla disponibilità di fonti di combustibili fossili e quindi dall’approvvigionamento di benzina e gasolio.

Nell’intervallo fra le due guerre le nazioni che detenevano il commercio del petrolio erano gli Stati Uniti, l’Inghilterra, la Francia e la Russia. La Germania, l’Italia ed il Giappone non possedevano risorse proprie di petrolio e dovevano acquistarlo proprio dai potenziali avversari. La Germania continuò ad approvvigionarsene dagli Stati Uniti fino al 1940, mentre il Giappone continuò a comprarlo dagli Stati Uniti fino alla battaglia di Pearl Harbor nel 1941. La fornitura di petrolio poteva essere interrotta in qualsiasi momento dai paesi produttori. L’Italia aveva vissuto quell’esperienza nel 1936, con le “inique sanzioni”. Le sanzioni all’Italia, volute da Francia ed Inghilterra, consistettero proprio nell’interruzione di fornitura di combustibili fossili.

L’Italia era colpevole per aver avviato la O.M.S. (Operazione Militare Speciale) contro l’Etiopia, membro della Società delle Nazioni. Per questo motivo già un anno prima, in previsione dell’annessione dell’Etiopia, e della sanzione energetica, Benito Mussolini visitò la miniera di Bacu Abis. Da quella visita nacque il progetto di produrre carburanti per la Nazione dal carbone del Sulcis. L’interesse per il nostro carbone derivava dal fatto che in Germania già si produceva benzina sintetica dal carbone dalla Ruhr. Anzi, si faceva di più. Nel 1913 il dottor Bergius aveva messo a punto un metodo di raffinazione del carbone ottenendone benzina sintetica, gasolio, olio per motori e catrame.

Nell’Alta Slesia erano sorte raffinerie che avevano lo scopo di rendere la Germania indipendente dal petrolio americano e russo. Nel 1939 l’azienda tedesca IG Farben era già arrivata al massimo della produzione di carburante sintetico. Tuttavia, allo scopo di aumentare la disponibilità di carburante per la guerra i nazisti avevano predisposto un piano per occupare i pozzi petroliferi di Baku in Azerbaijan. Un metodo simile per l’ottenimento dell’autonomia energetica venne adottato dal Giappone. Qui si distillò benzina dal carbone e si predispose un piano per l’occupazione dei pozzi petroliferi in Manciuria. L’Italia aveva il più vasto bacino carbonifero nel Sulcis ed allestì a Sant’Antioco, in località Ponti, gli impianti per una raffineria di benzina a partire dal carbone. Il direttore generale del progetto fu l’ingegner Guido Segre.

Il Sulcis divenne la nuova frontiera per l’Italia. Guido Segre progettò la miniera di Serbariu, l’ampliamento del porto di Sant’Antioco, un vasta rete ferroviaria, la raffineria della A.Ca.I.* a Ponti, una rete stradale efficiente, la centrale elettrica di Santa Caterina, la città di Carbonia con tutti i Servizi adeguati ad una nuova città industriale. Tra essi spiccò l’Ospedale Sirai. Il Sulcis, che per secoli era stato lontano dagli interessi dei Governi, improvvisamente divenne il luogo fisico più vicino al cuore dello Stato. Il potere politico volle una città modernissima ed una Sanità eccellente. Il merito di questo forte interesse stava nel progetto di fare del Sulcis la fonte di energia per una Nazione che entrava in guerra.

Data l’enorme importanza strategica dell’approvvigionamento energetico, il porto Ponti, lo stabilimento dell’A.Ca.I., e la centrale di Santa Caterina divennero ripetutamente bersaglio dei bombardieri della RAF, alla pari delle città tedesche di Bleckammer e di Oderstal, in alta Slesia, anche esse sedi di raffinerie di benzina sintetica.

Nel 1943, dopo l’Armistizio, l’amministrazione militare americana e inglese decisero la chiusura dello stabilimento della benzina sintetica a Ponti. Ciò fu deciso per un motivo puramente commerciale. Il consumo della benzina italiana doveva dipendere dall’esclusivo mercato anglo-americano. Con la fine dell’economia mineraria del Sulcis, iniziò il decadimento del sistema sanitario locale. Per un paio di decenni questo venne attenuato dalla nuova industrializzazione di Portovesme e dalla legge di riforma sanitaria n. 833 del 1978. Caduto anche il polo industriale, cadde l’interesse per il Sulcis Iglesiente.

La Storia non è mai uguale a se stessa, tuttavia esistono dinamiche socio-economiche che, seppur apparentemente caotiche, possono essere utilizzate come esempio, col rischio di sbagliare, per interpretare il presente ed il futuro possibile. Ecco alcune similitudini storiche da cui vale la pena attingere informazioni per tentare di capire cosa sta avvenendo.

Dopo la fine dell’Impero Romano d’Occidente iniziò il decadimento politico e iniziò la povertà secolare dell’Italia. Durante la dominazione bizantina in Sardegna nacquero i Giudicati altomedioevali. Il Medio-Evo portò lo spopolamento dei territori, la nascita di piccoli potentati locali, e l’accentramento della scarsa popolazione nei borghi intorno ai castelli. Ciò avveniva perché il popolo aveva necessità sia della giustizia che della sicurezza sociale, dei commerci e di alcuni servizi basilari.

Quanto sta avvenendo oggi non è una replica della Storia passata, tuttavia esistono gli elementi che stanno alla base dello spopolamento dei territori e del loro impoverimento: sono i fattori politico-sociali che esercitano una spinta verso l’accentramento dei Servizi nelle città capoluogo. Principalmente vengono accentrati i Servizi della Sanità, dell’Istruzione, della Giustizia, dei Trasporti, e dei posti di lavoro nella Pubblica Amministrazione.

La storia ci insegna che i territori per contare debbono essere necessari nella dinamica economica ed incidere negli equilibri della geopolitica.

Oggi stiamo tornando al centro dell’attenzione e forse potremmo contare. Siamo nelle condizioni di contrattare i Servizi ed altri vantaggi in cambio di energia. E’ già successo. Oggi tutti vogliono – in particolare da noi del Sulcis Iglesiente -: energia eolica (campi di torri per pale eoliche off-shore nei nostri mari), energia solare (campi di impianti fotovoltaici a terra), percorsi per condotte di gas, disponibilità di spazi nei mari della nostra fascia costiera per rigassificatori galleggianti e porti per navi da rigassificazione a bordo banchina), impianti per la produzione di idrogeno verde ottenuto da elettrolisi con energie rinnovabili, elettrodotti di energia rinnovabile per altre regioni e, forse, benzina sintetica a bassissima emissione di CO2 e olii per motori.

Nonostante l’opposizione che sta crescendo in Sardegna contro tali progetti nati al di fuori della Regione, è ragionevole supporre che, comunque non usciremo indenni da tutte le richieste e qualcosa dovrà essere ceduto.

A questo punto, tanto varrebbe avviare una trattativa per subire il minor danno possibile ed ottenere il maggior vantaggio possibile.

Forse potremmo ancora invertire la rotta dell’accentramento dei Servizi nei capoluoghi, e riportarli indietro nel Sulcis Iglesiente. Nel frattempo è necessario proteggere la Sanità che abbiamo.

Mario Marroccu

* Le notizie sullo stabilimento A.Ca.I., per la produzione di benzina sintetica a Ponti, sono tratte dal libro “Sant’Antioco nel ventennio sardo fascista”, di Gabriele Loi.

In passato, davanti ad un paziente con mal di stomaco, si pensava a 6 possibilità diagnostiche:
– che fosse una gastrite
– un’ulcera gastroduodenale
– un cancro dello stomaco
– una colecistite calcolosa
– un calcolo del coledoco
– un tumore della testa del pancreas
– una pancreatite
Ma poteva essere anche un aneurisma dell’aorta o un infarto del miocardio, o tutt’altro, come un Herpes Zooster del settimo-ottavo nervo toracico. Era una trappola diagnostica che richiedeva molto tempo, impegno e fortuna.
Oggi la diagnosi esatta è abbastanza veloce e precisa. Si può capire molto con l’esame obiettivo e l’ecografia, seguite da elettrocardiogramma e gastroscopia, e si può raggiungere una ragionevole certezza diagnostica con la TAC e la Risonanza Magnetica Nucleare.
Prima del 1980, erano pochissimi in Sardegna ad avere un gastroscopio ed un ecografo, e nessuno sapeva fare le colangiografie endoscopiche. In quel tempo non esistevano ancora né la TAC, né la Risonanza Magnetica. La diagnosi era affidata all’ascolto del paziente, e all’esame fisico dell’addome. Poi si continuava lo studio eseguendo la “gastrografia con mezzo di contrasto” facendo bere al paziente un bicchiere di liquido radio-opaco. Il radiologo studiava le “lastre” cercando l’ulcera, o il cancro, ma i dubbi diagnostici erano molti.
In rarissimi casi, si eseguiva un primordiale esame endoscopico con uno strumento rigido, che si introduceva attraverso la bocca fino allo stomaco, costituito da un tubo d’acciaio cromato, del diametro di 2-3 centimetri che si chiamava esofagogastroscopio e aveva in punta una lampadinetta ad incandescenza per far luce nel buio delle cavità interne. L’esame era difficile, pericoloso e raramente utile.
Quindi, restava a disposizione per la diagnosi soltanto la gastrografia fatta dal radiologo. Se neppure il Radiologo riusciva a vedere l’ulcera o il cancro allora restava una sola opzione: addormentare il paziente sul tavolo operatorio, aprire la pancia col bisturi dallo sterno all’ombelico; esplorare con gli occhi e con la palpazione lo stomaco, il duodeno, la testa del pancreas, le vie biliari. Se si vedeva un’area sospetta per ulcera si procedeva, seduta stante, alla resezione di tre quarti dello stomaco e alla sua anastomosi col digiuno.
Il dottor Gaetano Fiorentino, a Carbonia, nella sua carriera aveva fatto circa 3.000 di queste procedure. Il professor Mario Sebastiani della Patologia Chirurgica della Università di Cagliari raccontava d’averne fatte 2.000.
Le complicazioni di tale chirurgia avevano una certa frequenza e, non raramente, il paziente moriva.
Quegli iter diagnostico-terapeutici persistettero fino alla prima metà degli anni ‘70. Nell’anno 1973 venne messa in commercio in Italia la “Cimetidina”, nome commerciale “Tagamet”. Fu il primo inibitore capace di bloccare la produzione dell’acido cloridrico nello stomaco. Bloccando l’acido, curava l’ulcera. Era nato il progenitore di tutti i gastroprotettori attuali.
Nel 1979 entrarono definitivamente in commercio i “gastroscopi a fibre ottiche” ed il Sirai ne comprò uno. L’associazione fra Cimetidina e Gastroscopio fu una rivoluzione. Si imparò a diagnosticare con rapidità e certezza le ulcere e a distinguerle dal cancro; il chirurgo endoscopista poteva finalmente vedere con i propri occhi la fonte delle emorragie gastriche , e a trattarle per tempo. Si vide che il “Tagamet” funzionava e si poteva seguire col gastroscopio la guarigione delle ulcere. Immediatamente l’incidenza dell’intervento chirurgico esplorativo per cercare l’ulcera crollò e le resezioni gastroduodenali scomparvero.
Quel primordiale gastroscopio a fibre ottiche acquistato dalla Chirurgia del Sirai, salvò migliaia di vite nel Sulcis e l’ulcera, da dramma, si trasformò in un “fastidioso bruciore allo stomaco” curabile con una pastiglietta.
Nell’Ospedale di Carbonia, in Chirurgia, si formò un’èquipe di chirurghi che si perfezionò nell’endoscopia digestiva. Contemporaneamente, la tecnologia offerta dall’industria migliorò e comparvero i gastroduodenoscopi a “visione laterale” che furono essenziali per condurre lo studio della “papilla di Vater” nel duodeno. Questa piccolissima struttura anatomica, posta in un luogo veramente difficile da raggiungete, rappresenta un incrocio letale: è lo sbocco comune della bile e del succo pancreatico. La sua ostruzione è una tragedia: provoca sia l’ittero ostruttivo sia della pancreatite acuta.
La bile è un liquido giallognolo, denso, viscoso, ricco di “bilirubina”, che ha molte funzioni come: digerire i grassi, mobilizzare la peristalsi intestinale, e adsorbire la vitamina K, che è essenziale per la coagulazione del sangue.
Il fegato produce e riversa nel duodeno 600-800 cc di bile al giorno.
Se la papilla si ostruisce succede che la bile ristagna nelle vie biliari intraepatiche. Il fegato se ne imbibisce tanto che ad un certo punto la bilirubina trabocca nel sangue e si diffonde ovunque nel corpo.
Allora avviene un cambiamento nel colore della cute e degli occhi che diventano gialli: è l’ittero colostatico. Le urine diventano scure come Coca-Cola per eccesso di bilirubina, mentre le feci diventano chiare per mancanza della bile nell’intestino.
Man mano che cresce la quantità di bile nel sangue, il colore giallo della cute e degli occhi diventa sempre più intenso, mentre gli organi nobili come il cervello i reni e il midollo osseo se ne impregnano intossicandosi. Il danno cerebrale porta al coma; il danno renale porta alla insufficienza renale acuta; il danno midollare porta al blocco di produzione di sangue, mentre i muscoli, compreso il cuore vanno incontro alla degenerazione delle fibre e allo scompenso. L’arresto di assorbimento della vitamina K provoca emorragie spontanee.
I microbi si accorgono del grave degrado dell’organismo e del sistema immunitario e partono all’attacco provocando infezioni. Questo disastro totale di tutti gli organi (MOF) innesca la CID (coagulazione intravasale disseminata) e compaiono sia tromboembolie che emorragie irrefrenabili e mortali. Si scatena una “tempesta citochinica” simile a quella che abbiamo sentito tanto descrivere per i malati terminali di Covid-19. Il paziente non ha scampo: l’ittero ostruttivo è una via senza ritorno. Un intervento chirurgico di salvataggio eseguito tardivamente è spesso senza risultati.
Fino al 1980 gli ospedali videro moltissimi pazienti morire così, sia a Carbonia che in tutto il mondo. Tali malati muoiono anche oggi, però in certi casi si riesce a prevenire questa evoluzione, a rallentarla e, qualche volta, a fermarla. Questo vero e proprio miracolo, è avvenuto con l’impiego tempestivo del “gastroduodenoscopio” a visione laterale che ha consentito la disostruzione precoce delle vie biliari con l’impiego di sonde, elettrobisturi endoscopici e stent per il coledoco. I colleghi chirurghi endoscopisti all’arrivo di un paziente itterico si allertavano come ci si allerta all’arrivo di un grande traumatizzato per incidente della strada. Immediatamente, con l’assistenza esterna di un apparecchio radiologico portatile procedevano alla introduzione del gastroduodenoscopio, individuavano la via biliare ostruita, introducevano al suo interno sonde per gli esami radiologici di dette vie ed estraevano i calcoli dal coledoco. In altri casi, dilatavano la stenosi della via biliare dovuta ad un tumore, e sistemavano uno Stent per tenerla aperta e consentire lo sbocco della bile nell’intestino. Una volta messo lo Stent, col passare delle ore e dei giorni, tutta la bile che impregnava gli organi veniva ripresa dal fegato e scaricata nell’intestino. Il paziente tornava alla vita.
Il dramma descritto è avvenuto migliaia di volte e continuerà ad avvenire in futuro. Chiunque è candidato a simili eventi.

Oggi l’Ospedale di Carbonia non ha più in sede specialisti per l’Endoscopia Digestiva, né per le gastroscopie e le colonscopie, né per la colangiografia retrograda ed il trattamento dell’ittero ostruttivo da calcoli o da tumore della testa del Pancreas. E’ necessario costruire l’équipe di chirurghi endoscopisti esattamente come si fece nel 1980. Allora, sotto la spinta di una politica sanitaria gestita dai Sindaci, avevamo raggiunto livelli tecnologici sul trattamento delle più gravi patologie ostruttive biliari e pancreatiche, che ancora oggi sarebbero all’avanguardia. In quegli anni nella Chirurgia Generale del Sirai era stata messa a punto una tecnica svedese-americana per trattare la patologia biliare ostruttiva: la “colangiografia transepatica e il drenaggio biliare transepatico”. Era una tecnica radioguidata in anestesia locale. Sotto i raggi-X i chirurghi infiggevano un ago di 20 centimetri nella base toracica destra, fino a penetrare in un vaso biliare dilatato nella profondità del fegato. Attraverso quell’ago si introduceva un lungo tubino che pescava nella via biliare estraendone la bile accumulata. Già dopo poche ore il paziente migliorava.
Uno di questi pazienti fu poi operato dal professor Dante Manfredi, Direttore Chirurgo dell’Istituto dei Tumori Regina Elena di Roma. Questi aveva lavorato nella clinica chirurgica di Hanoi col collega vietnamita professor Thou That Tung. Il chirurgo vietnamita aveva inventato la tecnica della resezione dei tumori epatici con le dita (“digitoclasia”) e Manfredi l’aveva importata a Roma. Era l’unico in Europa capace di affrontare il caso del paziente di Carbonia. Lo operò e l’intervento andò benissimo, ma dopo 10 giorni di perfetto decorso postoperatorio vi fu una deiscenza delle anastomosi e il paziente morì. Il professor Manfredi attraverso il figlio del paziente fece pervenire ai chirurghi di Carbonia un suo commento: era stupito che in un ospedale sardo così piccolo si facessero procedure così avanzate.
Questo era lo stato delle cose sulla endoscopia digestiva e la diagnostica e trattamento delle ostruzioni biliari a Carbonia 40 anni fa.
Purtroppo, oggi un servizio così felice non esiste più.
Solo chi finisce nel tunnel delle suddette patologie sa quanto sia ingiusto costringere questi malati gravissimi e le loro famiglia a migrare in ospedali lontani che , in assoluto, non garantiscono nulla di più di quanto hanno sempre ottenuto a Carbonia negli ultimi 40 anni.
Il dottor Enrico Pasqui, grande esperto di storia della Medicina, raccontava che fino a 50 anni fa la gente del Sulcis curava l’ulcera gastroduodenale ingoiando lumache vive, e usava trattare l’ittero immergendo il malato nel letame.
Il salto in avanti dalla Medicina dal Medio Evo ad oggi è durato 50 anni.
Prima che si faccia un salto indietro, dobbiamo pensare molto bene a come prevenirlo.

Mario Marroccu

 

L’incidenza della calcolosi urinaria fra noi sardi è altissima. Sarà la genetica, o il metabolismo, o l’alimentazione, o l’esposizione solare e la produzione di vitamina D? Fatto sta che, soprattutto noi del Sud Sardegna, abbiamo un’incidenza di calcolosi come non si vede in nessuna parte d’Italia. Per tale ragione i chirurghi sardi sono stati sempre esperti nel trattamento delle malattie ostruttive delle vie urinarie provocate da calcoli. Già ai primi del 1900, al San Giovanni di Dio, i chirurghi avevano grande esperienza in questo campo. Durante la Prima Guerra Mondiale ebbero stretti rapporti professionali negli ospedali da campo, con i colleghi di Trento, Trieste e Udine che erano di scuola austriaca. Il chirurgo triestino Giorgio Nicolich, specializzato a Vienna attrezzò il primo reparto d’Urologia in Italia. Tra i chirurghi sardi che operavano in quel fronte vi era il dottor Nino Lasio di Serramanna, che proveniva dal San Giovanni di Dio; questi fu molto apprezzato per le sue capacità professionali nel trattamento delle malattie urinarie e, alla fine della Guerra, venne trattenuto all’Università di Milano dove gli venne conferito l’incarico di direttore della nuova scuola di specializzazione in Urologia. Tale specialità ancora non esisteva come branca indipendente in nessuna Università italiana. Dopo Milano la scuola di specializzazione di Urologia venne aperta anche a Cagliari. Un primo caposcuola fu il professor Rodolfo Redi, direttore patologo chirurgo. I suoi aiuti erano il dottor Gaetano Fiorentino ed il dottor Mario Sebastiani.
Il dottor Gaetano Fiorentino fu il primo sardo a specializzarsi in quella scuola.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, il dottor Gaetano Fiorentino fu arruolato nell’Armir e destinato alla campagna di Russia. Tornò con un’enorme esperienza maturata operando traumi di guerra. Per le sue doti chirurgiche, il dottor Gaetano Fiorentino venne precettato dal Governo ed inviato a dirigere la Chirurgia Generale dell’Ospedale Sirai di Carbonia, dove affluivano i minatori traumatizzati dagli incidenti nel sottosuolo.
Quando Gaetano Fiorentino occupò il suo posto nella nuova sede dell’Ospedale Sirai, ebbe l’opportunità di conoscere il comandante della Sesta Flotta americana che gli fece dono dell’intera sala operatoria di una corazzata. I vari strumenti vennero utilizzati fino agli anni ‘80; tra questi vi erano un letto operatorio, una lampada scialitica, un respiratore automatico complesso, un broncoscopio, un esofagogastroscopio rigido, un sigmoidoscopio, l’attrezzatura da craniotomia, un cistoscopio ed un rarissimo elettroresettore, prodotti dalla ACMI del Minnesota, illuminati in punta da una minuta lampadina ad incandescenza. In quei tempi, all’ospedale Sirai le operazioni urologiche e, soprattutto, quelle per calcolosi urinaria, erano all’ordine del giorno.
Con l’andata in pensione del dottor Gaetano Fiorentino, il posto di primario chirurgo venne occupato dal professor Lionello Orrù, urologo, professore di Anatomia Umana normale all’Università di Cagliari, professore di Anatomia Chirurgica nella scuola di specializzazione. Anche col professor Lionello Orrù le operazioni per calcolosi urinaria furono molto frequenti. Il motivo di tale frequenza, era dovuto sia all’alta incidenza di calcolosi nel Sulcis Iglesiente, sia al fatto che, quando la calcolosi dell’uretere era irrimediabilmente ostruente, si doveva sempre procedere all’asportazione chirurgica del calcolo, pena la morte del rene. In quei tempi non era raro trovare pazienti con un solo rene funzionante, perché l’altro aveva cessato di funzionare a causa di un calcolo. Dato che chi produce un calcolo in un rene, prima o poi, potrà produrlo anche nell’altro rene, poteva capitare che all’improvviso, con una nuova colica dal lato opposto, anche il rene superstite cessasse di funzionare. Allora non esisteva la dialisi sostitutiva della funzione renale ed i poveretti morivano se non si procedeva ad una nuova operazione. Questo valeva in tutto il mondo.
Le cose cambiarono nella Primavera del 1986, quando comparve un articolo nella rivista francese “Le Journal d’Urologie”, a cui venne dato poco risalto dalle riviste italiane. L’autore del lavoro si chiamava Enrique Perez Castro Ellendt. Egli sosteneva d’aver messo a punto un metodo endoscopico per asportare i calcoli dagli ureteri senza ricorrere all’operazione classica di lombotomia, con grande taglio dalla base del torace prolungato in basso in addome. Ciò che descriveva era fantascienza. Sosteneva d’aver costruito con la ditta Storz tedesca, uno strumento ottico molto lungo, fatto come un sottilissimo cannocchiale d’acciaio di 55 centimetri, diametro 4 millimetri, che, passando dall’uretra e dalla vescica, poteva penetrare nell’uretere fino a raggiungere il calcolo per romperlo, asportare i frammenti, e liberare il passaggio alle urine, arrestando così le coliche e salvando il rene. Tutto questo senza operazione.
Nel mese di luglio, avvenne un fatto che segnò il cambiamento nella storia della calcolosi per l’ospedale di Carbonia.

In quel mese dell’estate del 1986 si presentò nel reparto Chirurgia, al secondo piano del Sirai, un elegante signore attempato che riferì d’aver urinato sangue. Venne sottoposto a cistoscopia e fu diagnosticato un tumore maligno della vescica. Il signore aveva un problema: la premura di rientrare nella sua città di residenza, Madrid. Ci chiese consiglio sul centro madrileno a cui rivolgersi e ne approfittammo per indirizzarlo alla clinica “La Luz”, dove operava il dottor Enrique Perez Castro Ellendt. La clinica era peraltro già famosissima in tutto il mondo, perché vi era stato operato il “caudillo” Francisco Franco, e lì era deceduto per complicazioni emorragiche. Enrique Perez Castro Ellendt fece, al nostro paziente, una resezione vescicale asportando tutto il tumore con successo. Incuriosito dal racconto del paziente inviato da Carbonia, indagò sul nostro interesse per lui. Il paziente gli riferì che i chirurghi di Carbonia erano a conoscenza del nuovo metodo per asportare i calcoli dagli ureteri inventato da lui e gli trasmise il nostro desiderio di conoscerlo. Enrique Perez Castro Ellendt immediatamente ci invitò a Madrid nella sua Clinica. Fino ad allora aveva mostrato la procedura di asportazione dei calcoli ureterali, senza operazione, soltanto ad altri due italiani: il dottor Francesco Rocco dell’Università di Milano, ed il dottor Michele Gallucci dell’Università di Roma. Il nostro paziente-intermediario generosamente si offrì di ospitare noi chirurghi di Carbonia nella sua casa a Madrid e decidemmo di partimmo. All’arrivo, avemmo una prima sorpresa: la casa si trovava in “Calle Urola”, la via delle ambasciate. Si scoprì in quel momento che il nostro ospite era stato ambasciatore d’Italia in Spagna. La casa, ora di sua proprietà, era una villa divisa in due parti. L’altra metà era appartenuta al presidente argentino Juan Peron e alla moglie Evita Peron. Si capì allora il motivo della grande disponibilità del chirurgo madrileno ad accoglierci nella sua clinica e mostrarci i segreti della sua metodica. Il nostro ospite in Spagna era un personaggio illustre. Così pure lo erano la moglie spagnola ed il cognato che facevano parte dello staff medico della famiglia reale.
Furono giorni densi di studio ed esperienza. Carpimmo i segreti della tecnica di “ureterolitotrissia endoscopica” che consentiva, per la prima volta nella storia, di polverizzare i calcoli dentro l’uretere ed estrarli senza operazione.
Tornati a Carbonia, facemmo un accurato rapporto al presidente dell’Ospedale: il sindaco Pietro Cocco. Egli ascoltò con molta attenzione e accolse la nostra richiesta di acquistare l’attrezzatura necessaria. L’ordine partì pochi minuti dopo il colloquio.
Il materiale richiesto era tanto e costoso. Si trattava di un ureteroscopio Storz da 12 Charrière (3 Ch = 1 mm) quindi del diametro di 4 mm, progettato da Enrique Perez Castro Ellendt e realizzato dalla ditta tedesca. Ad esso si associava un’ottica lunga 55 centimetri. Dentro la camicia d’acciaio vi erano tre canalicoli paralleli destinati ad ospitare l’ottica, costituita da una serie di microscopiche preziosissime lenti, una via per l’acqua, una via per introdurre le sonde da ultrasuoni per rompere i calcoli, e le pinzette per estrarne i frammenti. L’acqua che si pompava dentro il canalicolo serviva a creare una camera liquida che consentiva di dilatare il sottile lume ureterale, penetrarvi, e procedere dentro l’uretere fino a raggiungere il calcolo.
L’operazione più difficile era la penetrazione della punta dello strumento nel meato ureterale. Il meato è il punto in cui l’uretere, che arriva dal rene, penetra in vescica. Per fare questa procedura, fino ad allora ritenuta impossibile alle ottiche in uso in quel tempo, il dottor Enrique Perez Castro Ellendt aveva pensato di aprire la strada utilizzando una sottile sonda flessibile che aveva in punta un palloncino gonfiabile. Introdotta la sonda nel meato ureterale e gonfiato il pallone, si otteneva l’apertura del tratto finale dell’uretere e del suo sbocco in vescica, sufficiente per introdurvi l’ureterorenoscopio. La progressione dello strumento dentro l’uretere veniva agevolata dal getto d’acqua ad alta pressione, prodotto dalla pompa Ureteromat inventata, anch’essa, da Enrique Perez Castro Ellendt.
Una volta giunti sul calcolo si procedeva alla sua frammentazione con la sonda ad ultrasuoni; i frammenti venivano asportati con la pinza a “bocca di caimano”. Tutta la procedura veniva controllata al monitor di un apparecchio radioscopico; era, pertanto, inevitabile che l’intera équipe medica e infermieristica presente, assumesse notevoli quantità di radiazioni nonostante i grembiuli piombati. Furono tante le procedure eseguite, e tante le radiazioni assunte dagli operatori che i fisici nucleari della Commissione regionale di controllo definirono l’Ospedale di Carbonia la “zona nera” dei raggi X della Sardegna. Oltre al monitoraggio radiologico l’intervento veniva controllato da una telecamera endoscopica Storz che mostrava le immagini della procedura in uno schermo televisivo.
Quando il presidente Pietro Cocco, nel 1986, fece l’ordine d’acquisto dell’ureterorenoscopio per ureterolitotrissia alla ditta Sanifarm di Cagliari, nessuno ancora lo possedeva in tutta Italia. Lo stesso direttore della Storz Italia, che aveva sede a Torino, l’ingegner Boggio Marzet, non ne conosceva ancora l’esistenza.

Da quell’anno 1986, a Carbonia, i calcoli ureterali non vennero più operati con il taglio lombare o addominale, e molte centinaia di pazienti vennero trattati col nuovo metodo endoscopico. I pazienti entravano in ospedale con le coliche renali ed i reni ostruiti, e ne uscivano entro 24-48 ore sani e pronti a riprendere la vita normale. A Carbonia arrivavano pazienti da ovunque. Venne prodotto un filmato endoscopico che mostrava il difficile metodo usato per introdurre lo strumento nell’uretere. Dopo cinque anni di attività, mostrammo le immagini endoscopiche alla fine di un convegno tenutosi a Cagliari, sulla calcolosi urinaria, nell’aula convegni posta al sesto piano del Banco di Sardegna. Nessuno degli astanti aveva mai visto immagini del genere. Dopo quella data altri iniziarono ad apprendere la tecnica.
Quanto raccontato avvenne quando l’Ospedale di Carbonia cresceva in efficienza, qualità e passione. Era il tempo in cui quasi 2.000 bambini l’anno nascevano nel suo reparto di Ostetricia, quando si eseguivano più di 1.000 interventi chirurgici l’anno, in Chirurgia vi erano 84 posti letto ed esistevano due reparti di Medicina Interna; l’Ospedale allora aveva 384 posti letto, contro gli attuali 120, e non vi erano ancora le liste d’attesa mostruose che oggi affliggono gli ospedali italiani.
Perché vi fu tanta crescita professionale e tecnologica in quel periodo? Certamente avvenne per coincidenze storiche. L’avere avuto ricoverato nel 1986 un signore che in tempi lontani era stato ambasciatore italiano in Spagna, mentre a Madrid si metteva a punto quel metodo rivoluzionario fu fortuito. Un elemento sicuramente determinante fu l’avere in quel momento come presidente della ASL un uomo come il sindaco Pietro Cocco. Erano anche gli anni in cui nascevano la Dialisi, la Cardiologia, la Medicina Nucleare, la Psichiatria, l’Endoscopia Digestiva. La coincidenza di più elementi eccezionali, coerenti con la missione pubblica data agli Ospedali dalla legge di Riforma Sanitaria 833 del 1978, produsse il terreno adatto per far sviluppare quelle particolari crescite professionali in quella particolare generazione di medici e di infermieri.
Successivamente, cosa è cambiato? I cambiamenti che hanno portato gli ospedali allo stato attuale, avvennero in progressione. Nel 1987 Il ministro Carlo Donat Cattin iniziò ad intaccare il potere di controllo dei Sindaci sulle ASL, abolendo l’istituto delle Assemblee Generali che rappresentavano i Consigli comunali del territorio. Poi nel 1992 il ministro Francesco di Lorenzo introdusse il concetto dell’“Aziendalizzazione delle ASL”, con principi gestionali privatistici. Come primo atto di quella riforma, i presidenti delle ASL, nominati dai Sindaci, vennero affiancati dai “Commissari straordinari”, nominati dalla regione. In seguito  con le riforme del 1995 e 1999, nel periodo del ministro Rosi Bindi, i presidenti delle ASL vennero eliminati e sostituiti dai manager. Questi erano nuove figure di amministrativi indipendenti dai sindaci e rientranti nella stretta gerarchia della burocrazia regionale.
Con questo atto i sindaci vennero totalmente estromessi dal controllo politico e amministrativo delle ASL. Dopo i manager, negli anni 2000, comparvero i direttori generali di nomina regionale. Così, con la centralizzazione politica ed amministrativa arrivò a compimento la “centralizzazione” dei servizi sanitari. Il centro fisico della Sanità cominciò a coincidere con le sedi del potere regionale: le città di Cagliari e Sassari. L’idea di centralizzare i servizi sanitari di altissima specializzazione, come la cardiochirurgia, la neurochirurgia, i trapianti d’organo, è corretta. Invece, non è corretta la centralizzazione del servizio sanitario di base che la legge assicura equamente a tutti i cittadini, proporzionalmente alla consistenza demografica delle popolazioni provinciali. Purtroppo, però, nel nostro caso, è avvenuta la centralizzazione anche della sanità di base, con il conseguente svuotamento del territorio provinciale.
Oggi, l’unificazione di tutte le ASL in un’unica ASL regionale, ha creato un unico centro di potere amministrativo. Ciò ha sottratto anche ai nuovi direttori generali delle ASL quella libertà di gestione che avevano i presidenti ai tempi di Pietro Cocco. Ora che gli ospedali provinciali sono usciti dal centro del potere sanitario stiamo vedendone gli effetti: i cittadini sono scontenti e si rivolgono ai propri sindaci che, per essi, incarnano lo Stato; ormai tutti i giorni vediamo nei notiziari, immagini di sindaci che prendono dure posizioni nei confronti di quella struttura burocratica centralizzata che li ha sostituiti.

Mario Marroccu

La “tempesta perfetta” è un evento naturale catastrofico che si verifica raramente e che deriva dalla somma di più fenomeni meteorologici che si potenziano a vicenda.
Anche nella Storia della civiltà umana sono avvenute “tempeste perfette” dovute a fattori politici, economici, sociali che si sono concluse con catastrofi.
Nel Medioevo, per spiegare l’origine di queste grandi disgrazie, si evocava l’intervento negativo dei Quattro cavalieri dell’Apocalisse” della profezia di Giovanni.
– Primo cavaliere: la conquista militare.
– Secondo: violenza e stragi.
– Terzo: carestia.
– Quarto: pestilenza.
Gli uomini del Medioevo, vedendo i fatti di oggi, attribuirebbero la colpa al primo, al secondo ed al quarto cavaliere.
Il terzo cavaliere, quello della carestia, nella visione laica del 21° secolo lo possiamo identificare con la paura del:
– crollo della produzione industriale e agricola,
– caduta del valore dei salari e redditi,
– svalutazione dei risparmi,
– paura di investire.
Nei decenni ‘20, ‘30, ‘40 del secolo scorso, avvenne una tempesta perfetta che iniziò con la“speculazione” in borsa che intaccò la fornitura delle materie prime e si concluse con le bombe nucleari in Giappone.
A settembre 2021, finita la pausa estiva dei mercati, assistemmo all’improvviso raddoppio del prezzo dei legnami e dei metalli. Negli ultimi mesi del 2021 iniziò l’ascesa del prezzo dei carburanti liquidi e del gas. A dicembre la svalutazione del dollaro in America raggiunse il 7% annuo, mentre in Italia la svalutazione era ancora sotto il 2%. Oggi, a fine marzo apprendiamo che si prevede per i prossimi mesi una svalutazione in Italia intorno al 6% annuo.
Le cose si sono iniziate a complicare a gennaio, quando fu chiaro che il prezzo del gas e del petrolio era universalmente salito con l’impulso iniziale dato dalla riduzione delle forniture dalla Russia.
L’aumento del prezzo del grano, mais e fertilizzanti è un altro segno che, oltre alla guerra, anche laspeculazione” è in movimento.

La speculazione in momenti di gravi crisi internazionali non è un fatto nuovo. I nostri nonni videro, quasi un secolo fa, fenomeni speculativi basati sull’accaparramento delle materie prime e l’intoppo alla catena di approvvigionamento. Gli esiti allora furono disastrosi.
Negli anni ‘60 a noi studenti liceali si spiegava, nelle lezioni di storia contemporanea, come l’origine della “Grande Depressione” del 1929 fosse da attribuirsi alla speculazione finanziaria esplosa in America e, per contagio, in Europa. Gli studiosi avevano accertato che la disoccupazione, la povertà e la fame che in quegli anni uccidevano la gente per strada avveniva proprio quando i magazzini americani erano strapieni di grano e mais.
Premettendo che la sintesi di fatti estremamente complessi ha sempre carenze, si può tentare di riassumere i fenomeni economici e sociali degli anni ‘30 facendo alcune considerazioni. Subito dopo la Prima Guerra Mondiale vi fu una fortissima ripresa dell’economia americana con una iper-produzione industriale di beni durevoli come le macchine. Fin dal 1922 le banche concedevano prestiti a bassissimo interesse per stimolare gli investitori. Ben presto, per rendere più veloci i guadagni, i prestiti erogati vennero investiti sopratutto giocando in Borsa nella compravendita di titoli e non investendo nelle imprese produttive. Con i meccanismi della contrattazione di Borsa si ottenne una moltiplicazione del valore dei titoli rispetto al valore reale dei prodotti che rappresentavano. Allo scopo di far salire il valore dei titoli si arrivò ad accaparrare il grano destinato al mercato e a stoccarlo in magazzini senza immetterlo nel mercato. Con questo metodo si spuntarono prezzi di vendita del grano altissimi. Gli agricoltori, per poter acquistare il grano per la semina, si indebitarono con le banche accettando tassi di interesse molto alti, nella speranza di ottenere un raccolto vendibile agli stessi prezzi elevati indotti dalla speculazione.
Contemporaneamente i capitani dell’industria meccanica e automobilistica americana iniziarono ad applicare le regole del “Taylorismo”. Ciò produsse conseguenze inaspettate. I Taylorismo era l’applicazione pratica di una teoria nata per ottenere l’aumento della produzione industriale nelle catene di
montaggio, dando un ritmo scientifico al metodo di lavoro senza aumentare i salari agli operai. I capitani d’industria guadagnarono molto ma gli operai impoverirono mentre i costi per vivere salivano. Di quella aberrazione della qualità di vita degli operai fece una descrizione magistrale Charlie Chaplin nel film-parodia “Tempi Moderni”.

Tra il 1926 e 1929 la produzione agricola in Europa imprevedibilmente migliorò, e comparve sul mercato una grande offerta di grano europeo. Ciò provocò la caduta del prezzo del grano americano e di altri prodotti agricoli.
Gli speculatori americani, per risollevare il prezzo dei prodotti agricoli stoccati nei loro magazzini, distrussero, gettandole in mare, o bruciandole, migliaia di tonnellate di cereali e caffè. Lo scopo era creare un squilibrio, tra domanda e offerta, a loro vantaggio. Commisero però un grave errore di calcolo. Non avevano previsto che il prezzo elevato dei cereali e le ridotte capacità di acquisto degli operai mal pagati, avrebbero raffreddato il mercato. I cereali rimasero invenduti. Anche il nuovo raccolto, per cui gli agricoltori si erano indebitati, rimase invenduto e non fu possibile pagare gli alti interessi richiesti dalle banche e fu fallimento. Il crollo delle vendite dei prodotti industriali e agricoli fece crollare i relativi titoli in Borsa. Gli investitori si precipitarono a vendere i titoli ormai svalutati e a ritirare dalle banche i liquidi rimasti. Le banche, private dei liquidi, dovettero chiudere. Al fallimento delle industrie e delle aziende agricole seguirono i licenziamenti, la disoccupazione e la chiusura delle fabbriche.
La speculazione finanziaria in breve tempo aveva attribuito ai titoli delle materie prime un valore fittizio tre volte superiore al loro valore reale e l’economia americana era finita in un vortice di regresso. La povertà gettò nella disperazione tutti: i capitani d’industria, l’alta e media borghesia e gli operai.
La crisi durò quattro anni. Iniziò la sua fine quando il Governo Statunitense prese drastiche decisioni; la prima fu la svalutazione di quasi il 50 per cento del valore del dollaro, allo scopo di abbattere i debiti. Ciò ebbe conseguenze in tutto il mondo. L’Europa subì il contraccolpo di quella svalutazione ed entrò in un vortice recessivo. I Paesi maggiormente indeboliti dalla Grande Guerra e dal ritiro dei capitali americani investiti, come Germania e Austria, ebbero una svalutazione mostruosa delle loro monete nazionali. Il disastro economico della Repubblica di Weimar spinse il popolo a sostenere il movimento estremistico di Adof Hitler la cui ideologia si basava sui capisaldi del complotto mondiale e della superiorità razziale.
All’acme della crisi politica il cancelliere Hindenburg affidò a Hitler il compito di formare il governo tedesco il 30 gennaio 1933. Si sa come finì.
In Italia la forte disoccupazione e la inarrestabile spinta emigratoria, esacerbate dalla crisi economica, portarono alla necessità di procurarsi colonie in Africa. Nel 1935 venne conquistata l’Etiopia. Nel 1936 la Società delle Nazioni reagì con le “Inique Sanzioni” contro l’Italia applicando l’embargo sul petrolio e sul carbone. La grave sanzione energetica gettò l’Italia fascista tra le braccia dei nazisti. A noi sardi portò il beneficio della nascita di Carbonia con le sue miniere.
Il seguito è noto: arrivò la “tempesta perfetta” della Seconda Guerra Mondiale.
Noi oggi non sappiamo cosa conseguirà alle speculazioni sulle materie prime in atto da alcuni mesi.
Conoscere fatti simili, sperimentati dai nostri padri e nonni nella prima metà del 1900, può tornare utile.
Il secondo fattore che può portare alla tempesta perfetta è la “minaccia nucleare” udita più volte nei telegiornali dal 24 febbraio ad oggi. Le origini di quest’altra piaga della storia si possono individuare nella seconda metà degli anni ‘30.
Un italiano fuggito in America a causa delle discriminazioni razziali, capì che la “teoria della relatività ristretta” di Albert Einstein, estesa alle leggi della elettromagnetica, conteneva il segreto per estrarre l’energia dal nucleo atomico. Era Enrico Fermi. Il metodo per raggiungere l’obiettivo venne ideato da Robert Oppenheimer.
La teoria di Einstein aveva loro suggerito la possibilità di poter trasformare la materia in energia e, viceversa, quegli scienziati convinsero il presidente Franklin Delano Roosvelt che c’era la possibilità ipotetica di costruire una bomba utilizzando il principio della fissione nucleare ed ottennero finanziamenti per il “Progetto Manhattan”.

Fermi, usando l’isotopo “uranio 235”, nel 1942 assemblò a Chicago la prima “pila atomica” o “ reattore nucleare a fissione” e Oppenheimer capì che si poteva ottenere una bomba che sfruttasse la reazione di fissione a catena”. Bastava produrre uranio “arricchito” fino ad ottenere una “massa critica” efficace.
Gli studi e la produzione finale della bomba avvennero a Los Alamos, nel deserto del Nuovo Messico.
La prima bomba venne fatta esplodere nel poligono di Alamogordo il 16 luglio 1945.
La seconda bomba venne fatta esplodere su Hiroshima appena 20 giorni dopo: il 6 agosto 1945.
La bomba di Hiroshima aveva una potenza compresa fra i 12,5 e 18 chilotoni.
Un chilotone equivale alla potenza della esplosione di 1000 tonnellate di tritolo.
Pertanto, la bomba di Hiroshima aveva la potenza di 12mila- 18 mila tonnellate di tritolo.
Il nucleo di Uranio entrò in reazione nucleare in un millesimo di secondo. Venne sprigionata istantaneamente un’immane quantità di energia elettromagnetica che dette origine ad una palla di fuoco luminosissima (fire ball). L’intensa luce dell’esplosione diffuse intorno una energia tale da incenerire all’istante qualsiasi corpo vivente (flash) per molte centinaia di metri. Lo spostamento d’aria fece crollare gli edifici della città polverizzandoli per alcuni chilometri di raggio (vento atomico). Intanto, si sollevava per 12 chilometri d’altezza, nella troposfera, il fungo atomico. La massa d’aria calda che ascendeva verso l’alto in forma di una immane colonna creò a terra una corrente d’aria di risucchio che provocò un vento, stavolta di direzione contraria, che portava al centro dell’esplosione tutto ciò che incontrava. La distruzione fu immensa. Morirono all’istante dagli 80.000 ai 120.000 abitanti.
Nelle ore successive avvenne la caduta dal cielo delle polveri più pesanti radioattive (fall out) per diversi chilometri intorno. Le polveri radioattive leggere, trasportate dai venti d’alta quota, si diffusero per molte centinaia di chilometri in tutto il Giappone e sul mare. I morti si moltiplicarono nei decenni successivi per effetti legati alle radiazioni ionizzanti. Parte delle polveri salite ad altissima quota si dispersero in tutto il mondo aumentando la radioattività dell’atmosfera.
Dopo 3 giorni, il 9 agosto 1945, una bomba simile venne fatta esplodere sulla città di Nagasaki e la Guerra Mondiale finì all’istante. Da allora nessuno più ha utilizzato ordigni nucleari strategici sull’Uomo.
Poi seguirono anni terribili la cui descrizione più accurata si trova nei testi di Medicina. Si capirono in pieno le relazioni esistenti tra radiazioni ionizzanti, le leucemie, i linfomi, i carcinomi, i melanomi, le malformazioni congenite e il danno al DNA di uomini, piante e pesci. Nei decenni successivi nacquero esseri mostruosi. Non fu solo una violenza contro il nemico, ma una atrocità contro la Natura. Nonostante ciò, i fabbricatori di ordigni nucleari aumentarono.
Nel 1949 si dotò di bombe atomiche l’Unione Sovietica. Nel 1952 l’Inghilterra. Nel 1960 la Francia, Nel 1964 la Cina. Nel 1966 Israele. Nel 1974 l’India. Nel 1979 il Nord Africa. Nel 1983 il Pakistan. Nel 2006 la Nord-Corea. L’unica nazione a rinunciare, dopo l’allarme dato dagli Scienziati di tutto il mondo, compreso Albert Einstein, fu il Sud Africa.
Il genere di ordigni nucleari di Hiroshima non viene più prodotto. Oggi vengono prodotte bombe di potenza enormemente maggiore. La loro potenza viene misurata in megatoni.
Un megatone è pari a 1.000 chilotoni, cioè pari a un milione di tonnellate di tritolo.
Apprendiamo dai giornali che la Russia ha minacciato di mettere in campo il Poseidon. Si tratta di un ordigno termonucleare di una potenza che va dai 20 ai 40 megatoni. Arma un drone sottomarino telecomandato. Se dovesse esplodere nella Baia di Hudson provocherebbe uno tsunami con onde alte 100 metri. L’onda sommergerebbe la città e lo Stato di New York distruggendo tutto al suo passaggio.
L’onda, si dirigerebbe anche verso il mare aperto in Atlantico e raggiungerebbe le coste dell’Europa.
La Russia possiede 6.500 ordigni nucleari di questa potenza.
Stesso armamentario lo possiedono gli Stati Uniti.
Si sta parlando con incredibile leggerezza della possibilità che venga impiegata una bomba termonucleare tattica nel conflitto di questi giorni.
Cosa succederebbe?
Mettiamoci nei panni dei Generali. Come rispondere a quell’attacco? Esiste un’unica opzione utile: lanciare in risposta un attacco nucleare totale con l’intento di distruggere radicalmente il nemico in modo che non possa reagire. Una guerra del genere, dall’inizio alla fine durerebbe pochi minuti e i vincitori sparirebbero con i vinti.
Pochi giorni fa il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha ipotizzato di impiegare il First nuclear strike.
Cioè ha teorizzato la possibilità di sferrare l’attacco nucleare totale prima che lo faccia l’altro.

Sarebbe una decisione talmente grave che l’unica possibilità di salvezza che abbiamo è sperare che non succeda mai.
Dato per scontato che l’ordigno nucleare non verrà mai usato, rimane però l’altro ordigno a reazione “a catena”: quello gettato nel cuore dell’Economia mondiale, innescato con la Speculazione e l’Accaparramento delle fonti di energia, delle materie prime e dei prodotti agricoli.
L’innesco è stato attivato alcuni mesi fa, quando vennero chiusi molti rubinetti del gas, del petrolio, del grano e dei fertilizzanti.
Le anime belle si aspetterebbero solidarietà mondiale ed aiuto reciproco, invece si è scatenata immediatamente la speculazione sulle materie prime.
Anche se non venisse usata la guerra nucleare, basterebbero questi fattori economici per innescare una reazione a catena” che porterebbe alla “tempesta perfetta”.

Mario Marroccu

Molti italiani si sentono abbastanza distanti dalla guerra in Ucraina e pare che la “distanza” li renda irraggiungibili tanto da restarne indenni. La verità è che i rapporti tra il nostro lato del Mar Mediterraneo ed il Mar Nero hanno una storia antichissima, millenaria.
Abbiamo la prova certa che la rotta che conduce dal Mar Mediterraneo occidentale al Mar Nero è la rotta navale più antica della storia. Esiste una via d’acqua, nota come la “rotta delle isole” che metteva in comunicazione le coste della penisola iberica alle isole Baleari, alla Corsica, alla Sardegna, alla Sicilia, a Malta, a Creta, a Cipro, all’arcipelago del Mar Egeo, al Mar di Marmara, allo Stretto dei Dardanelli, al Bosforo e, infine, il Mar Nero e alle coste della Crimea e dell’Ucraina. La percorrevano con certezza la navi nuragiche, nel 1600-1200 avanti Cristo, per vendere il bronzo sardo alle città antistanti quei mari lontani. Gli archeologi hanno trovato panetti di bronzo nuragico in fondo al mare delle coste turche lungo il percorso per il Mar Nero. Il bronzo sardo era allora molto appetibile per la produzione di armi. Gli storici sostengono che esiste una sequenza logica tra l’era dei metalli, la produzione di armi, la costituzione di eserciti e l’inizio dell’era delle grandi guerre fra popoli organizzati in confederazioni alleate. Nel 1200 avanti Cristo avvenne la prima Guerra Mondiale della Storia: la Guerra di Troia. Pare che molto bronzo nuragico abbia alimentato la produzione delle armi che vi vennero impiegate.
Quella guerra avvenne per un motivo molto concreto: il controllo della rotta commerciale verso il Mar Nero attraverso i Dardanelli. Si ritiene che l’ostilità che unì i popoli mediterranei contro la città di Troia derivasse dai dazi che essa imponeva alle merci delle navi che dal Mar Egeo al Mar Nero e, viceversa, dovevano passare in quegli stretti.
Il commercio era basato sullo scambio di manufatti prodotti dalle città mediterranee con i cereali coltivati dagli agricoltori della pianura ucraina. Essa ai tempi dei Romani veniva chiamata Pianura Sarmatica.
Con questo nome si indica tutt’oggi il vasto “bassopiano Sarmatico” di cui fanno parte l’Ucraina, la Bielorussia, la Moldavia e le tre Repubbliche Baltiche (Lituania, Lettonia, ed Estonia). E’ una vastissima distesa di fertilissimo terreno pianeggiante, senza montagne, irrigato dai due fiumi tra i più grandi d’Europa, il Dniepr ed il Danubio, che sfociano nel Mar Nero, contornando la penisola di Crimea.
Già allora questa vasta pianura era il più grande produttore di cereali del mondo conosciuto. Lo sbocco commerciale si trovava, e si trova tutt’oggi, negli approdi della Crimea e della costa ucraina sul Mar Nero. Il controllo di quei porti e di quel mare equivaleva al controllo del commercio dei prodotti alimentari più richiesti: i cereali, appunto. Le guerre per il controllo di quelle rotte commerciali dovettero essere numerose visto che l’archeologo Heinrich Schliemann contò ben nove strati sovrapposti di città di Troia.
Con i suoi scavi del 1872 egli dimostrò che la Troia dell’Iliade non era stata distrutta una sola volta ma era stata rasa al suolo con almeno nove guerre distinte e avvenute in tempi diversi; tutte le volte era stata ricostruita nello stesso posto. Questi eventi bellici per il controllo delle rotte per il Mar Nero avvennero oltre mille e duecento anni prima dell’Era Cristiana e dell’Impero Romano. Il poema eterno di Omero conferma quanto importante fosse per tutto il mondo allora conosciuto il controllo di quei commerci.
Dopo 1200 anni dalla vicenda omerica Roma imperiale conquistò i territori corrispondenti alla attuale Romania, alla Bielorussia, all’Ucraina e alla Crimea, e fece di quell’area il granaio dell’Impero.
Successivamente, con la fine dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 dopo Cristo, il controllo delle rotte verso il Mar Nero toccò ai Bizantini. Alla dominazione bizantina della pianura Sarmatica, si alternarono le dominazioni dei Goti, dei Mongoli e di altri ancora. Seguirono poi i regni di etnia slava, polacca, lituana.
Intorno all’anno 1000 i Bizantini, per proteggersi dagli invasori, assoldarono guerrieri mercenari provenienti dalle coste del Mar Baltico. Erano uomini alti, biondi, dagli occhi chiari, che chiamavano “Variaghi”. I Variaghi erano il corrispondente dei “vichinghi” che , a Ovest dell’Europa si erano espansi lungo le coste atlantiche e si erano addentrati nel Mediterraneo. Giunti in Sicilia, vi costituirono il regno Normanno.

I Variaghi che si erano installati a Est dell’Europa vennero chiamati anche col nome di “Rus”. Nei secoli successivi all’anno 1000, al tempo delle Repubbliche Marinare italiane, le coste della Crimea sul Mar Nero vennero dominate per secoli da Veneziani e Genovesi. I porti italiani in Crimea e Ucraina servivano per ospitarvi grandi magazzini del grano prodotto nella grande pianura a Nord.
Tutto il Mar Nero, nell’Alto e Basso Medioevo, è stato un grande emporio per i cereali. I clienti dell’emporio erano l’Europa e l’Asia, compresa la Cina.
I porti fra l’attuale Odessa e la Crimea erano lo snodo internazionale per il commercio di prodotti alimentari. Una funzione così appetibile, per millenni, non poteva sfuggire alle mire di tutti i potenti delle varie epoche storiche e le guerre per il loro controllo furono molte. Una di quelle guerre cambiò le sorti del mondo: fu la guerra condotta dai mongoli contro i genovesi per la conquista della città di Caffa.

Caffa era una città portuale della Crimea e faceva parte di un insieme di sette porti appartenenti all’impero marittimo della Repubblica di Genova. Il motivo della guerra tra orientali e occidentali era quello classico: si trattava di una guerra economica.
A causa di una prolungata siccità, la Cina e tutto l’Impero Mongolo, così come l’Europa, avevano i granai vuoti e le popolazioni alla fame. I potenti d’Oriente inviarono l’“Orda d’Oro” a Caffa per impadronirsi dei suoi granai. Al seguito dell’orda mongola arrivarono anche i ratti dalla Cina e dall’India, anch’essi alla ricerca di cibo. I ratti portarono con sé le pulci, e le pulci furono il vettore della Yersinia Pestis, l’agente della Peste Nera.
Dopo due anni d’assedio i mongoli, decimati dalla peste, abbandonarono la città, ma prima vi scagliarono con le catapulte i cadaveri degli appestati.
Così la peste si diffuse fra gli italiani di Crimea. Quando le navi genovesi partirono da Caffa verso Messina, Genova e Marsiglia, portarono i topi, e la peste si diffuse in tutta Europa. In due anni morirono in Europa un terzo degli abitanti. Ne morirono 20 milioni.
Dopo un’epidemia di tale gravità tutto cambiò: i rapporti umani, le credenze, l’immaginazione, i desideri, la letteratura, le leggi, la politica, l’economia, i trasporti, la struttura sociale, il diritto di proprietà, i commerci, e altro ancora. Era cambiato l’animo umano.
La Civiltà mutò ed il Medioevo si avviò verso le rivoluzioni sociali, culturali, economiche, religiose e scientifiche del 1400. 1500, 1600. Da quel mondo intellettualmente trasformato si crearono le premesse delle rivoluzioni industriali e politiche del 1700, 1800. 1900.
Quella guerra in Crimea del 1346 cambiò la rotta delle civiltà di tutto il mondo. I popoli latini mediterranei e, sopratutto, gli Italiani, furono al centro di quelle vicende.
Nonostante i cambiamenti dei governi che dominarono quell’area, la scomparsa dell’Impero Bizantino e la sua sostituzione nel 1455 con l’Impero Turco, e nonostante la nascita di altri dominatori che inglobarono la pianura Sarmatica, come i regni mitteleuropei e nord europei, gli italiani, per motivi commerciali non abbandonarono mai la Crimea e il Mar Nero.
Camillo Benso, conte di Cavour, per gli interessi dei Savoia, si fece facilmente coinvolgere nella guerra di Crimea. Fu un conflitto combattuto dal 1853 al 1856 fra l’Impero Russo da un lato e l’alleanza composta da Impero Ottomano, Francia, Inghilterra e Regno di Sardegna. Il casus belli fu la disputa tra Francia e Russia sul controllo dei “luoghi santi” della cristianità in territorio turco. In realtà, sopratutto la Gran Bretagna temeva l’espansione russa verso il Mediterraneo. Vinse l’alleanza e la Russia fu respinta dalla Crimea e dal Mar Nero.
In quella guerra i sardi combatterono in prima linea e furono essenziali per la vittoria nella battaglia della Cernaia. Il comandante in capo dell’esercito sardo fu il generale Alfonso Lamarmora, fratello di Alberto Lamarmora che allora comandava la flotta navale e spesso risiedeva in Sardegna sia per il governo sia per i suoi studi geologici, antropologici e geografici. I Sardi combatterono a fianco dei Francesi e furono molto ammirati da quel Comando per il modo in cui respinsero l’attacco della cavalleria cosacca.
L’eroismo dei Sardi in Crimea valse a Cavour l’alleanza dei Francesi nelle battaglie della Seconda Guerra d’Indipendenza dell’Italia dall’Impero Austroungarico.
Quella guerra dei sardi in Crimea ebbe come risultato l’estensione del Regno Sardo a tutte le ragioni italiane, eccettuato lo stato Pontificio e il Nord-Est.
Poi il risultato finale dell’unificazione nazionale avvenne con la Terza Guerra d’Indipendenza e si concretizzò il 17 marzo 1861 con la proclamazione del Regno d’Italia e la contestuale cessazione del Regno di Sardegna, con cui Vittorio Emanuele II assunse per sé e per i suoi successori il titolo di re d’Italia.
La presenza degli italiani nelle città portuali dell’Ucraina è documentata dai molti edifici in stile italiano che ne abbelliscono le strade e le piazze. Ne sono un esempio, a Odessa, il Teatro dell’Opera e del Balletto costruito con la classica architettura ottocentesca italiana. Chi ricorda il film muto di Eisenstein, “la corazzata Potemkin” ricorderà la famosa “scalinata” della carrozzina che precipita sotto il fuoco dei soldati russi in assetto antisommossa. Quella scalinata fu costruita da architetti italiani.
L’italianità di Odessa è certificata anche dall’origine della canzone napoletanissima “O sole mio” che venne scritta da Eduardo di Capua, proprio a Odessa, nel 1897.
In un altro contesto tristissimo vi fu un rapporto ravvicinato fra italiani ucraini e russi: fu nel 1941 in occasione della campagna di Russia della Seconda Guerra Mondiale. A Donetsk combatterono i soldati della “Celere”, mentre a Gorlovka combattè il reggimento “Pasubio”. Il fatto d’arme più grave avvenne a Lugansk, durante la controffensiva dell’Armata Rossa. I nostri “Alpini” in ritirata dal Don vennero chiusi in una sacca mortale dai russi e furiosamente sterminati. In quella battaglia morirono molti soldati sardi, e tante tombe del Sulcis espongono foto di “Alpini” mai tornati e classificati “dispersi”. Non si è ancora conosciuto il luogo della loro sepoltura.
Questa sintesi dei rapporti, commerciali e bellici, fra sardi, italiani ed ucraini, è utile per comprendere che fin da un tempo molto antico, siamo stati spesso coinvolti nelle vicende di quei luoghi apparentemente lontani.
Sarebbe bene prenderne atto e guardare negli occhi una realtà a cui non siamo preparati.

Mario Marroccu

Giovedì 3 febbraio 2022 l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha dichiarato che la pandemia in Europa sta rallentando e che forse presto l’emergenza sanitaria sarà finita. Nello stesso giorno Letizia Moratti, assessore della Sanità della Regione Lombardia, se ne è rallegrata e ha dichiarato che si dedicherà a creare un apparato “Infettivologico” per affrontare la prossima emergenza pandemica. L’esempio di questo assessore dovrebbe essere seguito.
La gerarchia mondiale della organizzazione anti-pandemica è una piramide. Al vertice c’è il Segretario Generale dell’OMS. In Europa la Commissione sanitaria deve vigilare sulla preparazione dei Piani pandemici nazionali degli Stati membri. Recentemente essa è stata ritenuta responsabile di omissione per mancato intervento nei confronti dell’Italia che non aveva rinnovato il proprio Piano pandemico, fermo al 2006.
Il Piano Pandemico è competenza del SSN e degli apparati militari per la Sicurezza nazionale. Non va dimenticato che gli strateghi prevedono che la prossima guerra, la più distruttiva, sarà una guerra batteriologica. I centri studi strategici militari di tutto il mondo sono particolarmente addestrati per allestire le difese delle Nazioni da un attacco batteriologico. Per la stessa ragione, a capo della organizzazione vaccinale italiana è stato posto un esperto militare di logistica: il Generale Francesco Figliuolo.
Gli scienziati militari della Sicurezza Pandemica Nazionale Statunitense, con sede al Pentagono, prevedono che in futuro arriverà una pandemia incontenibile, che chiamano “Pandemic X”, e si stanno preparando ad essa. Sarà dovuta ad un virus, o a un batterio, resistente a tutti i farmaci noti e determinerà la fine dell’Umanità. Per questi motivi l’America rispose con una prontezza ed una violenza inaudita al semplice sospetto che Saddam Hussein possedesse un armamento batteriologico costituito da colture di Bacillus Anthracis resistenti agli antibiotici e fosse pronto a diffonderle. La gravità del potenziale pericolo fa capire il motivo per cui l’OMS costrinse alle dimissioni il Commissario italiano quando ci si accorse che non era stato aggiornato il nostro Piano pandemico nazionale dal 2006. All’inizio della pandemia da Coronavirus ci trovammo senza un piano adeguato e corremmo gravi pericoli. La sofferenza nazionale degli ultimi due anni è una lezione che ci induce a non essere sprovveduti. Oggi l’OMS invita ad un cauto ottimismo perché il numero dei contagi sta diminuendo, ma ci chiede anche di non ad abbassare la guardia.
Vista la grave situazione degli ospedali sardi questa dichiarazione autorevole ci rasserena. Sarà tutto finito? Facciamo qualche riflessione aiutandoci con le informazioni che ci fornisce la storia delle pandemie.
Nel passato storico tutte le pandemie venivano chiamate “peste”, pes -pestis. Il termine deriva da “peius” che vuol dire “il peggio”. Anche se tutte le epidemie venivano chiamate “peste”, in realtà l’agente infettivo non era quasi mai la “yersinia pestis” ma si trattava di batteri, virus o parassiti di svariata natura che si trasmettevano all’uomo da animali, da insetti o da altri uomini infetti.
Quanto duravano le epidemie? Era molto raro che durassero solo due anni. La “peste Antonina” venne dall’Asia nel 165 dopo Cristo, durò 25 anni. La pandemia di Giustiniano iniziò nel 545 dopo Cristo e durò 45 anni. Si ripresentò ad ondate fino al 750 d.C., quindi per 200 anni. La “Peste nera” del 1347-48, descritta dal Boccaccio durò a Firenze due anni ma si ripresentò in 5 ondate nei 50 anni successivi; poi si ripresentò ad ondate successive fino al 1700 in tutta Europa.
Napoleone venne perseguitato dalla “peste di Alessandria d’Egitto” e perdette la guerra; poi venne afflitto dall’epidemia di “tifo petecchiale” durante la campagna di Russia e gli convenne ritirarsi disastrosamente. Nel 1853-56 la “Guerra di Crimea” fu funestata da un’epidemia di tifo petecchiale e da una mortifera epidemia di colera che uccise 3.000 dei 15.000 soldati sardi inviati da Cavour contro i russi. Nel 1600 imperversarono, soprattutto in Inghilterra le epidemie di vaiolo e di colera che decimarono la popolazione di Londra, e durarono molti anni. Nel 1700 nell’isola di Sant’Antioco avvenivano epidemia di vaiolo che comparivano ad ondate ogni 5 anni e si portavano via tutti i bambini nati nel quinquennio precedente. La comunità di Calasetta, appena formata nel 1761, stava per essere sterminata da quelle epidemie. Nel 1800 il forte inurbamento di operai, che vivevano ammassati negli affollati quartieri sorti intorno alle industrie, facilitò alla tubercolosi la sua diffusione mortifera; le epidemie di tisi polmonare e ossea durarono fino a metà del 1900. Le cose cominciarono a cambiare dopo il 1950, quando comparvero sul mercato l’antibiotico streptomicina, le penicilline, le cefalosporine e le Tetracicline ad adiuvare i sulfamidici comparsi 20 anni prima.
Contro i virus sono stati messi a punto vaccini molto efficaci. Basti pensare al vaccino antivaioloso, all’antipolio, al vaccino contro il morbillo, la varicella, la parotite, la rosolia, la difterite. Questi vaccini dovrebbero dare una immunità perenne. In realtà non è così perché s’è visto che tutte le immunità invecchiano e, col tempo, diventano meno protettive. Lo scoprirono i russi quando nel 1988 si ritirarono dall’Afghanistan e da quel paese portarono con sé, in Georgia, una epidemia di difterite che uccise in breve tempo decine di migliaia di cittadini, sopratutto adulti già vaccinati in tenera età.
Di tutti gli agenti virali e batterici nominati, nessuno è mai scomparso dalla terra. Forse solo il virus del vaiolo. Il virus polio è ancora presente in Siria, in Somalia e in paesi asiatici. In Africa imperversano sia l’AIDS, che la malaria, e la tubercolosi, e si affaccia episodicamente il virus ebola. Nessuna malattia contagiosa è diventata un “raffreddore”. Tra gli animali imperversano il virus della blue-tongue delle pecore e il virus della peste suina africana; nonostante le campagne vaccinali veterinarie e lo sterminio dei capi infetti, le epidemie si ripresentano regolarmente. Anche queste malattie sono dovute a due virus RNA simili al Coronavirus SARS-Cov-2.
La difesa più efficace è data dai vaccini, tuttavia i vaccini non sono tutti uguali. Vi sono quelli che conferiscono un’immunità perenne, e quelli che danno una immunità di breve durata. Vi sono poi infezioni da batteri e virus che non danno nessuna immunità. Per esempio non danno immunità l’escherichia coli, lo streptococco e lo stafilococco, o i virus del raffreddore, se non di durata ultrabreve.
Fortunatamente esiste la difesa farmacologica, che però non è efficace al 100 per cento, ed esistono la prevenzione ed il contenimento del contagio.
Visto che la storia insegna che questi ospiti patogeni durano secoli, che si sono sempre mantenuti aggressivi con l’uomo e quindi il pericolo di epidemia è sempre immanente, esaminiamo cosa fecero i nostri antenati per sopravvivere.
Già Ippocrate e Galeno consigliavano, davanti all’epidemia, “fuge, longe, tarde”, che vuol dire «fuggi subito, vai il più lontano possibile, torna il più tardi possibile». In sostanza la prima forma di “distanziamento” era la fuga. Tra il 1300 ed il 1400 si capì l’importanza anche dello “isolamento” degli infetti; nel 1377 a Milano i Visconti dettero ordine di inchiodare le porte delle abitazioni dei contagiati. Nel 1423 il Doge di Venezia ordinò che i contagiati venissero racchiusi nell’isola di San Lazzaro, dove esisteva una chiesetta dedicata a santa Maria di Nazareth. Da quell’“isola” nacque il termine “isolamento” e gli edifici di ricovero presero il nome di “Lazzaretti”. I drastici metodi di “distanziamento” e di “isolamento” italiani si rivelarono efficaci e vennero imitati in tutto il mondo. Nei porti, frontiere dei nostri mari, sono ancora presenti sia i “Lazzaretti” sia i “moli Sanità” dove gli ufficiali di igiene ispezionavano le navi che provenivano da Paesi sospetti di epidemia. Dopo l’ispezione i marinai, i viaggiatori e le merci, ricevevano un lasciapassare di sanità che attestava l’autorizzazione ad entrare in città. Il green pass è un’invenzione italiana di molti secoli fa.
La più grave pandemia a noi più vicina nel tempo, con cui possiamo confrontarci, fu quella dell’influenza detta “Spagnola”.
La pandemia “Spagnola” del 1918-19 è paragonabile a quella attuale da Coronavirus? Sì. In ambedue i casi il contagio avviene da uomo a uomo per via respiratoria. Colpisce, soprattutto, i polmoni, ma danneggia anche gli altri organi.
La mortalità da “Spagnola” fu in Italia pari a 600.000 morti su quasi 5.000.000 di infettati.
Morirono il 12 per cento dei contagiati in due anni. Oggi, col Coronavirus, siamo arrivati a circa 150.000 morti su 11.000.000 di contagiati. Apparentemente c’è una differenza abissale nella mortalità ma, a ben vedere non è così.
Durante la prima ondata della pandemia, a marzo-aprile del 2020 avemmo 236.000 contagiati e 29.000 morti. La mortalità fu del 12 per cento. Esattamente come al tempo della “Spagnola”. Se la velocità dei decessi avesse proceduto alla stessa velocità con cui crebbe in Lombardia tra marzo ed aprile 2020 avremmo avuto, fino ad oggi, 1 milione e 300mila morti. Invece nella seconda, terza e quarta ondata, nonostante il numero dei morti totali sia aumentato, abbiamo avuto, in realtà, una straordinaria diminuzione percentuale di mortalità. A cosa dobbiamo questo risultato?
– alle misure di distanziamento,
– alle mascherine,
– al lavaggio delle mani,
– ai lockdown,
– alla comprensione del meccanismo della infiammazione e all’uso di farmaci antinfiammatori adeguati,
– ai vaccini,
– agli anticorpi monoclonali,
– agli antivirali,
– ai tamponi antigenici,
– ai tamponi molecolari,
– alle Terapie Intensive,
– alle campagne vaccinali condotte con disciplina militare,
– ai DPCM governativi,
– all’Informazione capillare data dai giornali, dalle radio, dalle televisioni e dai social.
Ora si pone il problema: cosa fare se il virus rimane fra noi e continua a contagiare?
I provvedimenti presi fino ad ora sono stati emergenziali a “breve termine” e a “medio termine”. Se il virus resterà a lungo non potremo permettergli di tenere bloccati i nostri Ospedali generali. Bisogna che i nostri Ospedali riprendano a lavorare per le malattie tumorali, cardiovascolari, neurologiche internistiche, etc. Un tale problema si pose ai tempi delle epidemie di tubercolosi. Allora si procedette alla costruzione, ex-novo di ospedali dedicati che vennero chiamati “tubercolosari”, “Preventori anti-TBC”, “Ospedali Marini”, “Stazioni climatiche di montagna”. La costruzione di tali ospedali, paragonabili ai “Covid Hospital”, ai “Covid Hotel” avvenne in periodi storici in cui l’Italia era veramente povera, ma tutti capirono l’importanza di quell’investimento pubblico che avrebbe salvato l’economia. Era a tutti chiaro che quei malati non potevano essere ricoverato negli Ospedali civili generali perché avrebbero diffuso il contagio tra gli altri pazienti e, attraverso essi, lo avrebbero diffuso alle famiglie e a tutta la comunità.
Oggi ci troviamo in una situazione paradossale. Proprio adesso che viviamo nel periodo più ricco della nostra storia economica non sappiamo dove ricoverare questi pazienti e siamo costretti a sistemarli negli Ospedali generali mettendo a rischio l’intero sistema ospedaliero, strutturalmente inadatto e adeguato ad altri impieghi. Abbiamo visto quanto è avvenuto recentemente al Brotzu, che ha dovuto fermare le sue attività di Cardiochirurgia, Neurochirurgia, Chirurgia generale, etc. Per la presenza di troppi contagiati tra gli operatori sanitari.
La visibilità della rotta da seguire in questo momento, nella politica sanitaria, è obiettivamente scarsa; un percorso ragionevole è stato indicato da Letizia Moratti quando ha detto, dopo la dichiarazione dell’OMS, «è il momento di creare una struttura Infettivologica Ospedaliera dedicata alle malattie contagiose epidemiche».
Questo è un “programma a lungo termine”, adatto anche a noi.
A Carbonia vivemmo un momento simile nei primi anni ‘90 quando il Governo, davanti al pericolo di diffusione della AIDS, preparò un “Piano nazionale per le epidemie” e in quel piano inserì la costruzione di un Ospedale per malattie contagiose a Carbonia. La scelta della sede cadde in un sito a circa 100 metri dall’Ospedale Sirai. La struttura venne concepita come un bunker attrezzato per essere autonomo dall’Ospedale generale, con un ingresso separato, impianti separati, una sterilizzazione separata, una sala attrezzata per procedure invasive, ambienti sotterranei adatti ad ospitare laboratori ed attrezzature diagnostiche indipendenti dall’Ospedale generale. Probabilmente questo edificio, con quella specifica destinazione d’uso, è ancora iscritto fra le strutture strategiche del “Piano pandemico nazionale”. Se così fosse sarebbe ancora d’interesse per la “Commissione sanitaria europea” e per l’“OMS”.

Mario Marroccu

La fine degli Ospedali Provinciali non è stata ordinata dallo Stato. E’ iniziata nel 2001 quando, con la modifica del Titolo V della Costituzione, lo Stato cedette i suoi diritti di supremazia legislativa sanitaria alle Regioni. Da allora prese piede un programma di impoverimento progressivo della Sanità provinciale per concentrarla nei due poli sanitari di Cagliari e Sassari.
Lo strumento utilizzato fu uno slogan burocratico che suona così: “Hub and Spoke”.
Questo slogan seguiva ad altri slogan non meno insidiosi come “efficienza ed efficacia” che vuol dire “ottenere gli stessi risultati spendendo di meno” e “valorizzazione e razionalizzazione” che vogliono dire “sfruttare il più possibile gli organici e le strutture sanitarie senza aumentare le spese”.
I termini contenuti nello slogan “Hub and spoke” hanno questi significati: “Hub” è il nome inglese che si dà al mozzo della ruota del carro, cioè il centro della ruota. Gli “Spoke” sono i raggi della ruota del carro. Cosa significa? Significa che così come i raggi scaricano tutte le loro forze sul mozzo della ruota così pure lo stesso meccanismo di travaso di energie deve avvenire nella Sanità. In sostanza significa “centralizzazione”, cioè “trasferimento” degli impegni di spesa dalla periferia al centro. Il “centro” sono le due città di Cagliari e Sassari. I raggi sono gli Ospedali Provinciali.
Questa idea non è né del tutto nuova né del tutto sbagliata. Infatti, quando nel 1968 venne varata la Legge n° 128, si convenne che gli Ospedali dovessero essere differenziati in: “Zonali”, “Provinciali” e “Regionali”. Gli Ospedali “Regionali” si trovavano a Cagliari e Sassari, ed erano, rispettivamente, il San Giovanni di Dio ed il S.S. Annunziata. In tutti gli Ospedali. Provinciali e Regionali, si curavano, alla pari, le malattie internistiche dell’adulto e del bambino, le malattie chirurgiche, sia quelle pediatriche che dell’adulto; si dava assistenza ostetrica e ginecologica di ottimo livello; si curavano i traumi e si eseguivano interventi ortopedici. Ciò che differenziava gli Ospedali Regionali era che, oltre ai servizi dati anche negli ospedali provinciali, si ricoveravano le malattie poco frequenti e complesse, che erano oggetto di studio dei Centri Universitari come: la Neurochirurgia, la Chirurgia toracica, la Psichiatria (i Manicomi), la Anatomia Patologica, le cura delle Malattie tropicali, quelle delle malattie rare come la Lebbra e la Dermosifilopatica. Negli Ospedali Provinciali, alla pari con quelli Regionali, si curavano le malattie gravi ma molto diffuse come la Tubercolosi polmonare e ossea (il CTO di Iglesias, il Marino di Cagliari ed il Marino di Alghero).
In sostanza la suddivisione non era in base alla “tipologia comune”, ma alla “rarità” e all’area di “ricerca universitaria”.
A Carbonia, fino agli anni ‘60, si eseguivano anche interventi di Neurochirurgia del cranio, mentre ad Iglesias si eseguivano interventi di neurochirurgia della colonna vertebrale e tutte le nuove tecniche di riparazione delle malformazioni ossee, competendo con la migliore chirurgia Ortopedica dell’Istituto Rizzoli di Bologna. Inoltre si curavano le malattie respiratorie da miniera (silicosi e pneumoconiosi rare).
Con questo si vuole dire che le cure delle malattie venivano fornite in egual misura ai cittadini nei propri territori di appartenenza.
Questo spiega la differenza tra Ospedali di interesse Regionale e quelli Provinciali così come la si intendeva fino all’inizio del 2000. Nei primi anni 2000 , per identificare il livello di importanza degli Ospedali, si operò una sostituzione di linguaggio: comparve per la prima volta l’espressione che indicava Ospedali “Hub” e Ospedali “Spoke”. Cioè “Ospedali destinati a ricevere pazienti dalla periferia” e “Ospedali di periferia che dovevano trasferire i propri pazienti agli Ospedali dei Centri Capoluogo”. Così la bilancia democratica della Sanità cominciò a pendere verso Cagliari e Sassari.
Perché la burocrazia Sanitaria iniziò ad utilizzare l’inglese visto che esisteva una valida espressione italiana per indicare centro e periferia? Perché con questa nuova formula si voleva dire una cosa nuova, ben diversa. Non si voleva dire più che gli Ospedali Provinciali dovevano trasferire a Cagliari solo casi di Neurochirurgia e di Cardiochirurgia, ma iniziò a voler dire che anche tutti gli altri Servizi Sanitari per patologie comuni (addominali, traumatiche , tumorali, ostetrico-ginecologiche, etc.) dovevano essere trasferiti presso gli Ospedali di Cagliari e Sassari. Ne nacque il progressivo svuotamento degli Ospedali Provinciali perché l’espressione “Hub and spoke”, nelle mani degli interpreti degli uffici programmatori, aveva assunto il significato estremo di “travaso totale della Sanità” a Cagliari e Sassari, destinate a diventare, con maggiori finanziamenti, “città ospedaliere”.
Non solo Carbonia ed Iglesias ma anche altri grandi Ospedali provinciali, come quelli di Oristano e Nuoro, finirono nello ingranaggio dello “Hub and Spoke” e iniziò il loro degrado a vantaggio delle città capoluogo. Il tempo dirà se si è trattato di un meccanismo antidemocratico di “abuso di posizione dominante”.
Per effetto di quel depauperamento sanitario territoriale, nei mesi di Febbraio, Marzo, Aprile e Maggio avemmo in Italia la più alta mortalità da Covid19 del mondo e un lunghissimo Lockdown di 68 giorni (dal 10 Marzo al 18 Maggio 2020). Per questo evento sanitario storico così grave l’Europa deliberò di destinare all’Italia un finanziamento umanitario storico (in parte sussidio e in parte prestito) per riavviare la ripresa economica e ricostituire la Sanità Ospedaliera e territoriale pubblica. E’ stato un richiamo dell’Europa a riparare gli errori che generarono la disfatta sanitaria.
Oggi stanno comparendo nuove disposizioni regionali che attribuiscono ai Sindaci e ai Presidenti di Provincia più chiare e decise funzioni di controllo sul Sistema Sanitario territoriale. Uno di questi è l’articolo 11 della legge regionale 24/2021 in cui si attribuisce alla “Conferenza provinciale Sanitaria”, composta dai Sindaci, la possibilità di accedere alla verifica della attuazione del “Programma Sanitario Regionale” con la possibilità di formulare osservazioni sulla pianificazione, e anche di chiedere la decadenza dei Direttori Generali in caso di inadempienze.
La legge suddetta distingue le competenze delle ASL in due settori: quello Ospedaliero e quello territoriale. Il territorio si articola in Distretti Sanitari.Nel Sulcis Iglesiente i Distretti sono tre: quello di Iglesias, quello di Carbonia e quello delle Isole. Il “Comitato di Distretto” è formato dai Sindaci. Essi devono controllare l’efficacia dell’azione amministrativa del Direttore di Distretto e devono intervenire per le eventuali correzioni di rotta.
In sostanza, dopo l’espulsione dei Sindaci dalle ASL, avvenuta negli anni ‘90, oggi i Sindaci sono nuovamente destinati ad occupare un posto nella cabina di regia della Sanità territoriale.
Quali obiettivi immediati possono porsi i Sindaci?
– Possono concordare con la Regione quale debba essere l’interpretazione autentica dell’espressione “Hub and Spoke” cercando di riottenere per gli Ospedali Provinciali (oggi con DEA di I livello) le funzioni storiche, chiarendo che agli Ospedali regionali sono riservate soltanto le attività complesse, rare, costose, delle seguenti specialità:
– Cardiochirurgia,
– Neurochirurgia,
– Trapianti d’Organo,
– Centro grandi Ustionati e chirurgia plastica,
– Chirurgia maxillofaciale,
– Tumori infantili e leucemie,
– Radioterapia.
Ricordiamo che anche Cagliari e Sassari sono sedi, oltre che di due ospedali regionali, anche di Ospedali provinciali. Gli Ospedali di Carbonia, Nuoro, Olbia, Oristano, San Gavino, Lanusei devono essere dotati di posti letto, di personale, di strumenti e di finanziamenti come gli Ospedali provinciali di Cagliari e Sassari. E tra questi non ci può essere travaso di pazienti e servizi perché tutti devono essere esattamente alla pari in qualità professionale e strumenti.
Secondo la revisione del DM 70 del 2021 si deve prevedere di sviluppare e trasformare le aree di degenza in aree di livelli di intensità di cure più alti. I reparti devono essere destinati ad un alto standard di qualità.
Gli Ospedali provinciali con DEA di primo livello possono essere dotati dei seguenti servizi:
– Medicina Interna
– Cardiologia e Emodinamica h 24
– Neurologia
– Pneumologia
– Angiologia
– Nefrologia e Dialisi
– Ostetricia e Ginecologia
– Pediatria Generale

– Psichiatria
– Chirurgia Generale (addominale, toracica, laparoscopica robotica, vascolare)
– Urologia
– (ORL e Oculistica)
– Ortopedia e Traumatologia
– Rianimazione e terapia intensiva
– Endoscopia Digestiva h 24
– Oncologia medica
– Unità Operativa complessa per Infettivi
– Hospice
– Dipartimento per Immagini (TAC, PET, RMN)
– DEA di I livello
– Laboratorio Analisi con Unità operativa semplice di Virologia e di Biologia Molecolare
– Anatomia Patologica
– Centro Trasfusionale
– Fisioterapia e riabilitazione
– Reparto di Semintensiva critica
– Reparto infettivi
– Servizio di riabiltiazione anti Covid (nuovi 15 posti letto)
– 0,14 posti letto d Terapia intensiva/1.000 abitanti (nuovi 20 posti letto).
– Medicina Nucleare
– Servizio di malattie endocrine e del ricambio
– Il numero dei posti letto e la dotazione del personale Medico, Tecnico, Infermieristico, Amministrativo, deve essere adeguato secondo le disposizioni di legge vigenti a livello nazionale per procedere al recupero della mobilità sanitaria passiva indotta dalla precedente “centralizzazione sanitaria”.
Anche questa è una disposizione del DM 70.
Gli obiettivi sono raggiungibili con:
– il rispetto dei LEA ( Livelli Essenziali di Assistenza)
– il recupero dei reparti specialistici (Unità Operative Complesse e Semplici)
– l’osservanza dei DM 70 (dal 2015 al 2021), della Legge Balduzzi 189/ 2012, e della legge 24/2020.

L’attuazione delle suddette Leggi dello Stato sarebbe un buon esercizio di democrazia. Se si va a leggere la struttura sia dei LEA che delle Leggi appena nominate si osserva una caratteristica costante che restituisce a tutti gli Ospedali una parità di trattamento:
– La “Neutralità” .
Tale valore democratico, affidato agli algoritmi tecnologici delle burocrazie regionali, è stato variamente interpretato.
Non diversamente avviene con la dinamica tra l’interesse di un gruppo contrapposto a quello di un altro gruppo, soprattutto, se minoritario. Ne può derivare una distorsione della democrazia applicata. Questo fenomeno distorsivo tra il momento di generazione di una legge ed il momento della sua applicazione lo abbiamo vissuto tutti proprio nella Sanità. La progressiva espulsione dei Sindaci dai Consigli di Amministrazione delle ASL, iniziata negli anni’90, e continuata negli anni 2000, abolì l’organismo di controllo che doveva esercitare il diritto di critica sui tanti provvedimenti di controriforma, motivati da esigenze contabili. Ne derivò la centralizzazione progressiva della Sanità nei capoluoghi, l’impoverimento della Sanità territoriale e l’annientamento di interi Ospedali (leggi Iglesias) o di reparti specialistici (leggi Carbonia).
Nel 2010 scomparvero 70.000 posti letto per acuti dagli Ospedali italiani. Avvenne in modo “soft”, con una pressione burocratica costante, senza ostacoli.
L’effetto di quella povertà strutturale indotta, fu drammatico nei primi mesi di Pandemia. Il Governo, con i DPCM del 7-8-11-16 Marzo 2020 dovette porvi riparo assumendo con urgenza 5mila Medici e 15mila Infermieri. La disfatta sanitaria obbligò al richiamo dei Medici messi in quiescenza e alla messa in campo, in prima linea, dei Medici-ragazzini. Nè più né meno di quanto si fece nel 1918 per porre riparo alla disfatta di Caporetto col richiamo dei “riservisti” e dei ragazzini del ‘99, come racconta nel suo libro il nostro storico Gabriele Loi.
E’ strano. Nessuno ha fatto un pubblico esame di coscienza.
Adesso stiamo vedendo entrare in campo i nostri Politici. L’articolo 11 della Legge regionale 24/2020 li mette in condizioni di esercitare le loro attribuzioni di controllori sugli atti burocratici riguardanti il nostro Sistema Sanitario del Sulcis Iglesiente, e di richiamare gli Organismi Amministrativi sovraordinati della Regione ai doveri democratici di una equa distribuzione del Servizio Sanitario.
Quest’anno abbiamo novità importanti: la ARES, i nuovi Direttori Generali e la presa di coscienza dei Sindaci sulle loro attribuzioni nel controllo della Sanità.

Mario Marroccu