17 July, 2024
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Nel ‘900 è iniziata la quarta rivoluzione industriale nata dalla rivoluzione digitale e dallo sviluppo impressionante della “Comunicazione”. In un secolo, dallo scambio di informazioni attraverso i corrieri a cavallo, si è passati al telegrafo, al telefono e, oggi, al computer. L’intelligenza artificiale, attraverso i computer e i social, è il mezzo di comunicazione di massa più veloce e più esteso di sempre. Per il suo basso costo, la “comunicazione digitale” ha dato il via ad un mercato che si sviluppa su una piazza virtuale. In questa piazza tutto è incorporeo: le persone, gli oggetti di scambio, il danaro e presto, col Metaverso di Zuckemberg, che è un universo astratto, parallelo a quello reale, avverranno gli spostamenti virtuali delle persone fisiche. Ciò avverrà attraverso la rete di Internet con un traffico di intensità superiore a quello attuale in Facebook e negli altri social. Non avremo più bisogno di spostarci da casa. Ognuno di noi vivrà le sue giornate seduto, in pantofole, davanti allo specchio del computer ma col suo corpo virtuale, che chiameremo “Avatar”, viaggerà e incontrerà altri milioni di persone in tutti i luoghi del mondo: nelle foreste africane, o nel Tibet, o nel centro di Manhattan per fare acquisti nei suoi favolosi negozi, oppure nei mari di Sardegna a pesca subacquea. Le massaie faranno la spesa girovagando fra le vetrine virtuali a scegliere merce virtuale, e pagheranno con denaro virtuale. I nostri strumenti per le necessità quotidiane saranno il computer e la carta di credito. Le strade verranno percorse prevalentemente da camion per trasporto di merci e molto meno da auto per trasporto umano.

Oggi tutto questo è fantascienza ma, in realtà, con il Lockdown della Pandemia degli anni 2020/2021, abbiamo iniziato a sperimentare una vita sociale incorporea, quindi virtuale, perché da allora le comunicazioni interpersonali avvengono con  riunioni virtuali attraverso ZOOM;

– Acquistiamo le nostre merci con moneta virtuale;

– i nostri soldi virtuali sono conservati in banche virtuali. Gli sportelli bancari con persone fisiche, già fortemente diminuiti, sono destinati a scomparire;

– presto non sapremo più neppure dove si trovano fisicamente le banche e i lori direttori, e non potremo neppure accedervi. I contatti verranno gestiti da voci meccaniche di robot che risponderanno alle nostre domande in base ad algoritmi preimpostati;

– la Giustizia digitale sta avanzando;

– gli uffici sono sempre più vuoti perché ha preso piede il lavoro da casa per via digitale (smart working);

– la scuola ha sperimentato, per ora con dolore, la didattica a distanza; in futuro verrà trovato il modo per renderla più interessante proprio col Metaverso ed allora gli alunni e i docenti si incontreranno, con i loro Avatar, in un’aula virtuale, chiassosa, divertente e interessante senza uscire dal letto alle 6.00 del mattino. Anche le gite di classe all’estero avverranno col Metaverso, stando a casa;

– le riunioni politiche e culturali saranno come oggi: a distanza con Zoom;

– i Consigli comunali avverranno in un’Aula consiliare virtuale, con un pubblico virtuale, e con votazioni virtuali;

– gli amici diverranno esattamente quello che sono già diventati oggi col Lockdown: immagini nelle videochiamate degli smartphone;

– i figli e i genitori saranno esattamente come oggi: voci telefoniche;

– le funzioni religiose, a causa della scarsità di preti, troveranno una loro soluzione nel Metaverso digitale. Un unico officiante virtuale soddisferà le esigenze di una folla di fedeli virtuali.

– i funerali saranno come quelli che vedemmo a Bergamo nei mesi di marzo ed aprile del 2020: bare solitarie seguite da cortei funebri virtuali fino alla cremazione;

– le palestre, che oggi sono le piazze d’incontro dei giovani, si ridurranno a “personal trainer” Avatar che addestreranno gli allievi nei loro domicili;

– anche gli incontri amorosi e la formazione delle coppie, tristemente, avverranno tra Avatar. Già oggi le coppie sono spesso virtuali; spesso non progettano un matrimonio né civile né religioso; spessissimo non progettano figli; di fatto non viene progettata la continuazione delle famiglie.

L’elenco può continuare; si può dimostrare che la società umana, fatta di corporeità, diventerà incorporea e involverà in una entità virtuale che non si riproduce. O meglio, ognuno si potrà riprodurre in uno o più Avatar e potrà vivere con personalità diverse a suo piacimento, fino a confondere la personalità originale con quelle virtuali, in una schizofrenia digitale di massa. Nascerà, per necessità, un nuovo genere di specialista: lo Psichiatra digitale.

Vi sono due settori del mondo reale in cui mi pare impossibile che prevalga il mondo virtuale:

– la Sanità e

– l’ Ambiente.

Per quanto riguarda la Sanità, la “Clinica” dell’Uomo malato è basata fondamentalmente su due pilastri che necessitano del contatto fisico tra medico e paziente, cioè: la Diagnosi e la Cura.

La Diagnosi si basa su cinque momenti:

1 – l’ascoltazione del racconto del paziente;

2 – l’esame fisico;

3 – l’osservazione dell’evoluzione del male;

4 – l’esame chimico, batteriologico e genetico;

5 – gli esami strumentali.

Tutti questi atti vanno compiuti, per ogni singolo paziente, da professionisti sanitari e deve esistere il “Clinico” che, col parere di tutti e con la propria conclusione formulerà convintamente la diagnosi.

L’ASCOLTO del racconto del malato può avvenire via computer, tuttavia soltanto la  presenza fisica del medico ai piedi del letto consente di percepire informazioni che non sono trasmissibili per via computer come: la valutazione della salubrità dell’ambiente che ospita il paziente, l’atteggiamento corporeo, l’igiene della persona, l’assistenza dei familiari l’autosufficienza nella cura di se stessi, l’aspetto fisico, gli odori, la percezione dell’equilibrio dello stato mentale, la fiducia nel medico e l’accettazione delle cure, eccetera.

La VISITA (o esame obiettivo) è basato sulla ispezione della cute, dei capelli, delle mucose, della muscolatura, del decubito obbligato, del trofismo dei tessuti, delle cavità naturali, dei genitali, eccetera. Poi segue la palpazione. Col tatto si valuta l’umidità della cute, la temperatura, l’elasticità, l’edema o la disidratazione, lo spessore del sottocute, il tono dei muscoli, la consistenza degli occhi, il colore delle congiuntive e delle sclere, le tumefazioni della  stazioni linfonodali, le masse superficiali e profonde, la loro dolorabilità, la mobilità, la loro consistenza, la presenza di fremiti trasmessi, la mobilità delle articolazioni e le resistenze muscolari, la dolorabilità nei punti di emergenza dei nervi cranici e spinali. Si cercano le tumefazioni del collo ed i fremiti vascolari delle carotidi. Sul torace si apprezza con le mani l’espansione della cassa toracica, la rettilineità delle spine vertebrali, le anomalie delle curvature in scoliosi o gibbo. Si cerca il fremito vocale tattile trasmesso dalla voce per capire le anomalie del tessuto polmonare e si cerca l’itto cardiaco ed i soffi valvolari. La palpazione dell’addome è poi un’arte complessa, raffinata, e molto, molto, molto difficile. E’ lì che il medico indaga gli stati di emergenza sanitaria più frequenti: palpa le tumefazioni del fegato e della colecistiti, la pancreatite, la splenomegalia, gli aneurismi dell’aorta, il globo vescicale, i tumori del colon e, ascoltando e palpando, diagnostica le peritoniti, l’appendicite acuta, l’ernia strozzata, le occlusioni intestinali, i versamenti ascitici ed emorragici, le gravidanze fisiologiche e quelle extrauterine, il volvolo nei bambini e tanto altro ancora. Nella donna l’esplorazione pelvica bimanuale è imprescindibile per apprezzare le patologie dolorose, infiammatorie o tumorali. E’ inimmaginabile che una macchina digitale supercomputerizzata possa sostituirsi ad una ostetrica che assiste, con le sue mani sapienti, con la sua sensibilità, con la sua esperienza, e la sua tenera dedizione al prossimo, alla nascita di un altro essere umano. 

Questo è solo un breve cenno dei reperti preziosi che il medico ricava dalla visita sul corpo fisico del paziente, e che non sono ottenibili col semplice esame ecografico o TAC o Risonanza, seppure associati agli esami di laboratorio.

I reperti obiettivi appena descritti sono percepibili solo con gli organi di senso umani come il tatto, la vista, l’olfatto, l’udito.

I reperti sensitivi vengono immediatamente elaborati dalla corteccia cerebrale del medico, confrontati col suo capitale di conoscenza, memorizzati, e poi conservati per ulteriori osservazioni fino a produrre un risultato che sarà la “diagnosi”.

Orbene, nessuno strumento digitale può sostituirsi al medico che visita, all’ostetrica  che pilota un parto, all’infermiere che assiste un essere umano sofferente e morente.

Ne consegue che le macchine (computers che registrano referti di TAC, RMN, ECG, EEG, esami di laboratorio) non possono mai visitare ed assistere il paziente.

La diagnosi tutt’oggi si fa con un’accurata visita corporea, e col supporto di esami tecnologici. Gli esami tecnologici da soli non consentono la formulazione della diagnosi.

La visita medica a distanza non esiste e non è possibile, neppure con gli Avatar e con la fantascienza più acrobatica di Mark Zuckemberg.

Ne consegue che la corretta diagnosi a distanza di una malattia interna non è fattibile. E’ possibile solo un “orientamento” diagnostico strumentale, ma questo non può essere considerato una “diagnosi definitiva”.

E’ stato necessario precisare quanto detto per affermare che l’esame obiettivo e il contatto fisico col medico non può essere sostituito con la tecnologia digitale perché la elaborazione di informazioni della corteccia cerebrale umana, la sua capacità critica, e la sua versatilità nell’elaborare giudizi diagnostici e di prendere decisioni, è immensamente più grande di qualunque cervellone digitale di oggi e di domani. 

E’ necessario prendere atto che la necessità  prioritaria della nostra Sanità è: acquisire personale medico e delle professioni sanitarie, e che questi mettano a disposizione i lori cervelli preparati per dare assistenza ai nostri corpi malati. La seconda priorità sarà la dotazione di macchine da mettere in mano a medici e infermieri. Naturalmente le macchine dovrebbero essere acquistate dopo l’assunzione del personale specializzato che le dovrà manovrare. Quest’ultima sembrerebbe un’affermazione ridondante ma, visti i programmi proposti, non lo è.

L’acquisizione di nuovo personale per il Sistema Sanitario è l’atto imprescindibile che deve precedere tutto.

Ne consegue che le professioni che si occupano di “cura della persona” non saranno mai sostituibili con i robot e saranno sempre più preziose se si pensa al cambio antropologico in corso nella popolazione, e cioè:

– fine della famiglia intesa come consorzio umano organizzato per riprodursi e prendersi cura della prole e degli anziani;

– aumento vertiginosi dei “single”; termine traducibile con l’espressione “persone sole”;

– invecchiamento;

– carenza di figli;

– spesa sociale in vertiginoso aumento;

– riduzione della popolazione attiva.

E’ ineludibile la necessità di orientare il programma Sanitario secondo la bussola della nuova composizione antropologica della società umana. Ecco perché bisogna stare attenti nella fase di realizzazione del nuovo Sistema Sanitario Territoriale e Ospedaliero.

A causa del forte invecchiamento della popolazione, e a causa del Coronavirus che non sparirà, è necessario impedire la concentrazione degli ospedali sardi nei due poli ospedalieri  immaginati da fantasiosi programmatori (Cagliari e Sassari). L’affollamento dei malati in quegli Ospedali, e le distanze da percorrere per raggiungerli, scoraggerebbero i più ad intraprendere i viaggi della speranza e rinuncerebbero ad essere curati in luoghi lontani ed alieni. E’ un programma ottimo per il contabile che cerca l’equilibrio di bilancio dell’Azienda  Sanitaria futura, ma odioso e ingiusto per il malato delle cittadine di provincia che si troverà privato dei suoi storici e efficienti Ospedali. Si dovrà fare esattamente il contrario. La Sanità sarda dovrà essere riorganizzata in Ospedali distribuiti equamente nel territorio. Dovranno tornare gli Ospedali territoriali, ben dotati di Personale, fortemente attrezzati e professionalmente competitivi. Dovrà funzionare una rete sanitaria territoriale adeguata alle esigenze della nuova sarda, e dovrà essere vicina alla gente. 

E’ tempo di invertire la rotta e ricostituire gli Organici dei nostri Ospedali, ed è necessario non cadere nella suggestione che una Sanità digitale possa sostituirsi alla Sanità reale. Può servire solo ad integrarla.

Mario Marroccu

Nel 1890 il dottor Paul Ehrlich coniò l’espressione “proiettili magici” per indicare i farmaci che uccidono i microbi.
Venerdì scorso, centotrent’anni dopo Ehrlich, Anthony Fauci, il massimo consulente medico della Casa Bianca, ha comunicato che l’Azienda Farmaceutica americana “Merk” ha concluso la sperimentazione di Fase III del “Molnupiravir”. Così è stato presentato al mondo il nuovo “proiettile magico” contro il Coronavirus. Si tratta di una molecola sintetica che ha la capacità di uccidere e bloccare la replicazione del Coronavirus sostituendo, con l’inganno, lo zucchero Ribosio dello RNA virale, con uno zucchero analogo, molto somigliante (insomma. una specie di polpetta avvelenata da mettere nella “pancia” del virus). Se la molecola viene assunta entro i primi 5 giorni dall’ infezione la malattia si ferma nel 50% dei casi e, comunque, si attenua fino ad impedire il ricovero e la morte del malato. Le sperimentazioni sono state condotte in “doppio cieco”, cioè: preso un campione di pazienti volontari e consenzienti, alla metà di questi, scelti a caso, viene somministrato il farmaco, mentre all’altra metà viene somministrato un placebo inefficace. E’ risultato che nel gruppo trattato col “Molnupiravir” nessuno è deceduto mentre nel secondo gruppo, quello non trattato, sono deceduti il 14 % dei pazienti. Inoltre i sopravvissuti del secondo gruppo hanno manifestato gravi patologie respiratorie, circolatorie e neurologiche nel periodo post-Covid.
Il risultato è stato talmente vistoso che la prosecuzione della sperimentazione sarebbe stata immorale.
L’Azienda, visti i risultati, ha interrotto la sperimentazione per non lasciar morire inutilmente quelli del secondo gruppo. Si sa che la MERK ha già chiesto alla FDA americana (FOOD and DRUGS Administration), e all’EMA europea European Medicines Agency) l’autorizzazione straordinaria alla messa in commercio del farmaco, passando così alla FASE IV. Pare che finora non si siano visti effetti tossici di rilevo.
Questa notizia è grandiosa.
Abbiamo tutt’oggi tre strumenti per proteggerci dal Covid-19, che continueremo ad usare, e cioè:
1° – la prevenzione: distanziamento, mascherina, lavaggio delle mani.
2° – la profilassi: i vaccini.
3° – La terapia farmacologica e l’ossigenoterapia.
La prevenzione e la profilassi vaccinica hanno mostrato i loro eccellenti risultati, ma anche il prezzo da pagare in termini di fatica organizzativa, di gravame economico mondiale, di immane danno sociale. Questi costi sociali resteranno nella storia.
La terapia è un problema assai complicato perché la malattia ha almeno tre fasi molto diverse, e per ogni fase esiste una terapia diversa.
La prima fase è costituita dai fenomeni collegati all’inizio dell’infezione che avviene subito dopo il contagio. E’ la fase in cui il paziente perde l’olfatto (anosmia) ed il gusto (ageusia), e sta relativamente bene.
In questa prima fase vi è una intensa moltiplicazione del virus dentro le cellule del contagiato. In questa fase il paziente è molto contagioso. Dato che sta benino, continua le sue attività limitandosi ad assumere Tachipirina, o Aspirina, o Nimesulide. Per questa fase, fino a poco tempo fa, non esisteva una terapia antivirale vera e propria. Poi sono diventati disponibili gli Anticorpi Monoclonali; ricordiamo quelli prodotti dalla Regeneron americana sul presidente Trump. Il problema nell’impiego degli anticorpi
monoclonali sta nell’impossibilità del loro utilizzo generalizzato. Infatti possono essere usati esclusivamente in fleboclisi, i pazienti ricoverati in Ospedale. Oltretutto, sono costosissimi.
Nella seconda fase della malattia la moltiplicazione virale rallenta, però si innesca la reazione infiammatoria con attivazione dei Macrofagi dei tessuti, e dei Linfociti del sangue: inizia la produzione massiva delle Interleukine. In questa fase si utilizzano gli antiinfiammatori come l’Aspirina, i Fans e, alla fine, il Cortisone e gli Antiossidanti.
La terza fase è quella del disastro. In questa fase compare la “tempesta citochinica”, provocata dalle Interleukine. Le Interleukine provocano gravissimi danni sia alle cellule infettate che a quelle sane dei polmoni, del cervello, del fegato, del sistema nervoso, del cuore, dei reni e del sistema circolatorio dei grandi vasi e del microcircolo (vasculiti). Muoiono tessuti interi e organi interi, come avviene nel caso dei polmoni. Le parti di polmone, fegato, reni o midollo o cervello colpiti e distrutti, vengono sostituite da tessuto fibroso cicatriziale che, per sua natura, è incapace di funzionare. Così avviene che i polmoni, diventati fibrotici, non riescono più a scambiare ossigeno. Per questo l’ossigenazione del sangue non è più possibile, neppure collegando il paziente al respiratore automatico e alla bombola di ossigeno. A questo punto non c’è più scampo: il paziente deve morire.
Nel passaggio dalla seconda alla terza fase della Covid-19 e in tutta la terza fase, si impiegano il cortisone e gli antiinfiammatori monoclonali, come il Tocilizumab, e l’Ossigenoterapia. Attualmente si usa con successo anche la Anakrina; un farmaco già impiegato da 20 anni per dominare l’infiammazione della artrite reumatoide in forma grave.
Da quanto appena descritto risulta evidente che l’unico modo di sperare di sfuggire alla distruzione dei tessuti degli organi vitali consiste nel bloccare la malattia già alla prima fase.
Fino ad oggi l’unico modo di fermare la malattia alla prima fase consisteva nella infusione precoce endovena degli Anticorpi Monoclonali. Cura poco disponibile per la generalità dei casi.
La notizia che il “Molnupiravir Merk” può bloccare la malattia già nella prima fase è importante quanto la scoperta dei vaccini a mRNA. C’è una grande differenza: chiunque al mondo potrà avere le capsule del farmaco e usarle immediatamente al primo sospetto di contagio. Questo farmaco sarà disponibile in farmacia come lo è l’Aspirina. Proprio la “disponibilità” è l’arma vincente. Cosa non così semplice con il vaccino: abbiamo visto i problemi organizzativi, sociali, politici, e ideologici connessi.
Attenzione: le norme di prevenzione come il distanziamento ed il lavaggio delle mani saranno sempre indispensabili; così pure lo sarà il vaccino. Tuttavia, presto col nuovo farmaco ci troveremo in una situazione più semplice, simile a quella che sperimentiamo quando, in corso di tonsillite streptococcica febbrile, prendiamo l’antibiotico in capsule o in sciroppo prescritto dal medico.
Il farmaco “Molnupiravir” della Merk parla americano, esattamente come i vaccini Pfizer, Moderna e Johnson e Johnson. L’Europa dovrebbe pensare di più a capire le motivazioni per cui l’America stia vincendo la “medaglia d’oro” nella gara alla scoperta delle cure contro il Coronavirus.
In verità, in passato il linguaggio scientifico internazionale era il tedesco e i primi farmaci antibatterici salvavita del 1900 parlavano tedesco.
Il dottor Paul Ehrlich, un prussiano, che negli ultimi decenni del 1800 aveva frequentato e assistito Robert Kock, aveva anche partecipato alla messa a punto dei sieri contro la difterite e il tetano. Aveva capito che in quei “sieri” vi erano gli “anticorpi specifici” capaci di uccidere gli agenti infettanti e le loro tossine senza fare danni. Per questo elaborò l’espressione “proiettili magici” in quanto gli anticorpi erano capaci di uccidere i microbi senza fare danni collaterali. Il dottor Ehrlich, che aveva assistito alla nascita della “sieroterapia” si era convinto che fosse possibile identificare sostanze chimiche capaci di uccidere i microbi senza uccidere le cellule dell’organismo. Coltivava questa idea da un paio di decenni quando gli si presentò l’occasione adatta per mettere alla prova la sua teoria. Nell’anno 1905 i dottori Scheudin e Hofmann scoprirono la spirocheta pallida, l’agente della terribile Lue. La Lue era già da secoli una malattia temutissima ed estremamente diffusa. L’aveva porta dall’America Cristoforo Colombo, al ritorno dal Nuovo Continente nel 1492. Il suo equipaggio era stato contagiato dalle popolazioni centroamericane e i marinai diffusero subito il contagio in Spagna e Portogallo. Poi il contagio si estese alla Francia, all’Italia e a tutta Europa. Da qui si diffuse in Asia ed Africa attraverso le navi commerciali e gli eserciti. La Spirocheta dapprima dava manifestazioni cutanee, poi si localizzava in tutti gli organi (fegato, reni, cervello, ossa, ecc.). Le sequele erano gravi e definitive, spesso si moriva. Si inventarono le cure più fantasiose ma senza risultati. Ne furono vittime i ricchi banchieri, i re, i nobili, gli artisti, gli intellettuali e i miserabili. Nessuno escluso.
Il dottor Paul Ehrlich, convinto della sua teoria del “proiettile magico” e avendo a disposizione tanto materiale umano disperato, avviò l’impresa di una nuova sperimentazione terapeutica. Dapprima tentò le cure somministrando coloranti derivati dall’Anilina, poi si cimentò con il mercurio e, infine, iniziò a somministrare arsenico ai poveri malati. Dava il nome alle sostanze chimiche somministrate con i numeri in sequenza. Quando arrivò alla 606° sostanza chimica ebbe le prime soddisfazioni: la Spirocheta moriva e il paziente guariva dalla Lue. Chiamò il composto “Salvarsan”. La soddisfazione fu grande però comparve subito un problema. I pazienti guarivano dall’infezione ma diventavano ciechi per danno tossico del nervo ottico. Ehrlich non si arrese e continuò a sperimentare sul vivente nuove sostanze derivate dal Salvarsan finché arrivò alla sostanza chimica numero 914°. Era meno efficace del Salvarsan ma i pazienti non perdevano la vista. La chiamò Neosalvarsan. Aveva trovato il vero “proiettile magico” contro la Lue.
Fu un successo mondiale e a Paul Ehrlich venne assegnato il Nobel per la Medicina. Paul Ehrlich aveva messo le basi della “chemioterapia”, sia antibatterica che antitumorale, ed aveva aperto la strada ad un altro grande tedesco: il dottor Gerhard Domagk.
Gerhard Domagk scoprì, nel 1932 i sulfamidici, mettendo a disposizione del mondo il primo farmaco chemioterapico ad ampio spettro attivo contro i microbi: il Prontosil.
I sulfamidici hanno un meccanismo d’azione per cui si possono considerare i precursori del “Molnupiravir” dell’Azienda farmaceutica Merk contro il Coronavirus.
Essi agiscono danneggiando il DNA batterico. Il codice genetico contenuto nel DNA di tutte le forme viventi è formato da una catena di elementi che si chiamano “nucleotidi”. I nucleotidi sono come i “mattoni”, messi in fila uno sull’altro, che strutturano una colonna portante di un edificio. Perché la colonna del DNA regga bisogna che i mattoni siano integri. I mattoni  nucleotidi) sono composti da “basi puriniche” (Adenina, Guanina, Citosina, Timina), e da uno “zucchero” che si chiama desossiribosio. I sulfamidici agiscono con un inganno: essi sono simili al PABA, che è un componente strutturale delle “basi puriniche”. Le cellule batteriche, che non riconoscono la differenza tra “sulfamidico” e PABA sbagliano e usano il sulfamidico, per costruire i “mattoni” della colonna di DNA.
Ne consegue che la colonna di DNA, costruita con materiale sbagliato, diventa fragile e si rompe. Col crollo dell’edificio del DNA il microbo muore ed il paziente è salvo.
Tutte queste cose il dottor Gerhard Domagk non le sapeva perché ancora non si conosceva la struttura chimica del DNA. Oggi è tutto chiaro: Gerhard Domagk aveva modificato il DNA microbico senza saperlo.
I “ No-Vax” non sanno che da quasi un secolo la chemioterapia modifica il DNA per vincere contro i microbi ed i virus senza il fine nascosto di un complotto internazionale per il potere.
La tecnica utilizzata dalla multinazionale farmaceutica Merk per sintetizzare il “Molnupiravir” è derivata dall’idea di Gerhard Domagk, d’un secolo fa. C’è da sapere che esiste una piccola differenza tra “microbi” e “virus”: il Coronavirus ha lo RNA al posto del DNA, ma la loro struttura è molto simile. Anche lo RNA virale è formato da tanti “mattoni” chiamati “nucleotidi”. Anche questi sono formati dalle “basi puriniche“ e da uno zucchero chiamato “Ribosio”. La Merk ha pensato di “guastare” lo RNA virale sostituendo lo
“zucchero” con una molecola molto simile: il “Molnurinavir”. Il gioco è fatto. Ne consegue che, avendo costruito la colonna di “mattoni” nucleotidici, con materiale sbagliato, lo RNA crolla ed il virus è destinato a morire.
Questo è il motivo per cui il “Molnurinavir” deve essere utilizzato subito, nelle prime fasi dell’infezione, quando il virus si moltiplica velocemente.
L’era della chemioterapia anti-Coronavirus è iniziata e la storia del disastro Pandemico sta per cambiare radicalmente. Inoltre presto compariranno altre molecole che renderanno le cure ancora più potenti ed efficaci.

Oggi, 23 settembre 2021, vi è stata ad Iglesias una manifestazione popolare contro il tradimento dei LEA ( i Livelli Essenziali di Assistenza), garantiti dallo Stato ai cittadini.
Un qualche “scienziato pazzo”, uscito da un incubo, ha inserito il territorio del Sulcis Iglesiente in un marchingegno che ci sta respingendo nel passato. Il “passato” deve essere conosciuto, sopratutto nelle sue atrocità, allo scopo di non farlo rivivere.
Nel 1700 il filosofo britannico Edmund Burke formulò un aforisma di saggezza che dice: «Chi non conosce la Storia è condannato a ripeterla».
La frase di Burke ha fatto il giro del mondo e si trova scritta, in trenta lingue diverse, in un monumento nel campo di concentramento di Dachau.
Filosofi e scrittori, grandi e piccoli, hanno scritto libri sull’aforisma di Burke. Due anni fa è stato ripreso in un libro dallo scrittore filosofo George Santayana che ha scritto contro quelli che “non sanno ricordare il passato”, e pochi giorni fa lo stesso concetto è stato ripreso dalla scrittrice sarda Dolores Deidda (“La signora della stazione”), che racconta la saga di una famiglia di Serri tra le due guerre mondiali ed il primo dopoguerra. La scrittrice vi riporta la grande storia a cui sono collegati fatti di vita famigliare variamente influenzati dal fascismo, dalle guerre, dalla cultura tradizionale contadina, e dalla nuova modernità della città.
Fra i tanti episodi, ve n’è uno da cui si può desumere lo stato dell’organizzazione sanitaria del tempo. Alla “signora della stazione”, nel 1940-42, accadde di dover assistere, come levatrice, una passeggera del treno che veniva da Sorgono diretto a Cagliari. La stazione si trovava a Corte, una località a pochi chilometri da Desulo, da Atzara e da Tonara. Il motivo per cui la gravida a termine viaggiava tutta sola per Cagliari era dovuto alla necessità di consegnarsi nelle mani degli Ostetrici specialisti dell’Ospedale Civile San Giovanni di Dio in quanto nel suo territorio non esistevano Ospedali attrezzati. Il motivo del viaggio della speranza era da ricercarsi in un sua malformazione del bacino che avrebbe ostacolato un parto naturale. La donna sapeva benissimo che, se non fosse riuscita a partorire, il bambino si sarebbe incastrato nel canale del parto e lei sarebbe morta assieme al figlio. Questo era il destino di tutte le donne che non riuscivano a partorire naturalmente. La poveretta stava tanto male che non sarebbe mai arrivata a Cagliari. Venne fatta scendere e fu accompagnata nella casa di Eva (la signora che dirigeva la stazione) dove miracolosamente avvenne un parto regolare e mamma e bambino si salvarono.
Questo racconto fa entrare la micro-storia della stazione ferroviaria di Corte nella Grande Storia dell’Umanità.
In quegli anni, a Carbonia, esisteva un ospedaletto in piazza Cagliari, destinato all’assistenza dei minatori per gli incidenti in galleria e, per necessità, venne messo a disposizione anche della popolazione. Allora era giovanissimo medico il dottor Renato Meloni che era chirurgo generale e, in quanto tale, si intendeva anche di ostetricia. Il primario era il professor Ignazio Scalone, patologo chirurgo esperto in chirurgia del cervello per causa traumatica; era esperto in tecnica chirurgica per ferite da guerra del cranio e del cervelletto. L’esperienza l’aveva acquisita al fronte della Prima Guerra Mondiale. Era il chirurgo adatto per assistere i frequenti traumi cranici che avvenivano in miniera a causa del franamento di massi sulla testa degli operai. Chirurghi di questo genere erano idonei ad operare il cesareo, quindi il Sulcis era sicuramente più fortunato, dal punto di vista sanitario, della popolazione del centro Sardegna. Simile fortuna toccava anche ad Iglesias dove operava un ospedale che secondo le cronache del tempo, già nel 1904, in occasione della rivoluzione operaia di Buggerru si occupava di chirurgia complessa.
Nel 1904, ad Iglesias, non si eseguiva ancora il parto cesareo perché quella tecnica era stata ideata da poco e non era ancora stata standardizzata sul territorio nazionale. Infatti la tecnica del cesareo classico venne sistematizzata nell’anno 1900 dal dottor Luigi Mangiagalli di Milano. In realtà il primissimo cesareo venne eseguito a Pavia nel 1876 dal dottor Bianchi Porro, maestro di Mangiagalli. Ma la tecnica di Porro era distruttiva per l’apparato riproduttivo femminile.
Fino all’avvento del taglio cesareo messo a punto dagli italiani le donne morivano in tutto il mondo; nulla le poteva salvare da un parto distocico, né i soldi né il potere. E’ stata recentemente pubblicata una serie televisiva dedicata alla vita della zarina di Russia Caterina la Grande. La ricostruzione storica è accuratamente documentata. In un frammento del film si vede chiaramente l’immagine della giovane moglie dello Zar Paolo I adagiata su un tavolo autoptico, nuda e totalmente eviscerata. Accanto era adagiato il cadavere del neonato. La donna aveva avuto una buona gravidanza ma un parto impedito da un’anomalia del bacino. Nonostante lo stuolo di medici reali indaffarati per salvare la regina ed il principino, la poveretta era comunque morta. Appena spirata le era stato aperto l’addome e l’utero per estrarne il bambino forse ancora vivo. Ma fu tutto inutile. Era già morto.
Era l’anno 1793, l’anno in cui due donne monarca reggevano due imperi: Elisabetta prima d’Inghilterra e Caterina la Grande di Russia. Eppure non bastava essere regine per salvarsi dal destino mortale di un parto distocico.
In quell’anno 1793 Giorgio Washinghton governava gli Stati Uniti d’America e dopo breve tempo moriva per un salasso eccessivo di sangue praticato per curare una faringite febbrile.

Nello stesso anno Robespierre decapitava la regina Maria Antonietta e Luigi XVI.
In quell’anno la Sardegna vide i tentativi dei francesi di invaderla, ma furono fermati dapprima all’istmo di Santa Caterina a Sant’Antioco e poi nella spiaggia di Quartu da truppe raccogliticce guidate dal notaio Vincenzo Sulis, A ciò seguì la cacciata del viceré piemontese dal Castello di Cagliari. In quell’anno a Cagliari non esisteva l’Ospedale civile ma vi erano perlopiù strutture caritative religiose destinate ad ospitare poveri e incurabili. Il Cesareo non si praticava e, anche in Sardegna, le donne gravide con anomalie del canale del parto morivano. Queste anomalie erano frequenti perché erano molto diffusi il rachitismo, la tubercolosi ossea, ed i deficit alimentari.
Bisogna precisare che esisteva una tecnica chirurgica che si eseguiva esclusivamente a mamma morta nel tentativo di estrarne il bambino che poteva essere ancora vivo.
Tutto il mondo cristianizzato si adeguava alla bolla papale emanata da Paolo V nel 1615. In essa si disponeva che nella circostanza di un parto distocico il medico stava in presenza fino alla morte della donna. Appena certificata la morte egli doveva procedere all’apertura dell’addome ed estrarne il bambino. Il prete doveva procedere all’immediato battesimo. In assenza del medico questa funzione chirurgica veniva assunta dalla levatrice. In assenza della levatrice la procedura doveva essere portata a termine del prete che, estratto il bambino, doveva affrettarsi a battezzarlo.
Poi nel 1876 il dottor Bianchi Porro di Pavia ebbe una illuminazione: eseguì l’asportazione dell’utero intero a “madre viva” per estrarne il bambino senza traumatizzarlo. La tecnica che aveva ideato non prese piede ma fu utile al suo allievo Luigi Mangiagalli per mettere a punto la sua nuova tecnica nel 1900.
Fino ad allora la prospettiva di salvezza per le donne di tutto il mondo era identica, sia che fossero delle povere popolane o potenti regine.
In quell’anno 1900 il dottor Luigi Mangiagalli dimostrò che con la sua nuova tecnica di cesareo, eseguito a “madre viva”, poteva salvare sia la madre che il bambino e consentiva di salvare anche l’utero per future gravidanze.
Questa lunga premessa serve a dimostrare quanto, fino a poco tempo fa, fosse terrificante il destino delle madri con difetti del canale del parto. Questo orrore si concluse in Sardegna negli anni a ridosso della Prima Guerra mondiale con la diffusione degli Ospedali territoriali. Fino ad allora l’assenza di una valida rete ospedaliera imponeva alle donne della provincia di imbarcarsi sul treno, in pieno travaglio, per arrivare a Cagliari dopo molte ore di viaggio.
La nascita degli Ospedali territoriali fu un miracolo. Da allora il terrore è cessato, ma un pericolo nuovo incombe: la destrutturazione degli Ospedali con la chiusura di reparti.
Nel Sulcis Iglesiente, nella ASL 7, sta avvenendo un fenomeno che ci sta respingendo nel passato. Si stanno impoverendo gli Ospedali sia di Medici che di Infermieri e strumenti.
A Carbonia, dopo la chiusura della Pediatria si è proceduto alla chiusura della Ostetricia e Ginecologia. E’ stata chiusa l’Anatomia Patologica impedendo la diagnosi immediata in corso di un intervento chirurgico programmato con l’intento di escidere radicalmente un tumore.
L’Emodinamica in Cardiologia è chiusa al 70 per cento e durante la sera, la notte, e nei giorni festivi non si possono operare gli infarti. Chi arriva in Ospedale fra le 8.00 e le 16.00 può essere operato. Chi ha l’infarto durante la notte o il sabato e la domenica e nei festivi deve essere trasferito a Cagliari e sperare che ci arrivi vivo.
La Radiologia è ridotta ai minimi termini sia in specialisti che in tecnici. Similmente avviene per la Dialisi. I sei Medici in organico sono ridotti a tre. Questo bassissimo numero genera eroi (i Medici) e pericoli (per i malati).
La Chirurgia Generale ha dovuto subire la chiusura dell’Endoscopia digestiva che è imprescindibile per l’individuazione della fonte di emorragie dal tubo digerente e la crescita dei tumori maligni (che possono trovarsi in tutto il percorso dall’esofago all’ano); per non parlare poi della riduzione dei posti letto resasi necessaria per la scarsità di personale.
Le stesse difficoltà soffrono l’Anestesia e la Rianimazione. Ne consegue la drastica riduzione delle sedute operatorie (una la settimana) per mancanza di Specialisti e Infermieri.
Ad Iglesias il disastro è immane. Oltre alla chiusura di servizi e alla riduzione dei posti letto, avverrà presto la messa in pensione del Primario di Chirurgia Generale. Con la sua uscita di scena quel reparto cesserà di funzionare.
Per effetto di questo insieme di carenze adesso esiste la pericolosissima condizione per cui l’Ostetricia di Iglesias è privata del supporto della Chirurgia generale. Supporto che è assolutamente necessario nel caso in cui un parto cesareo venga complicato dalla insorgenza di lesioni arteriose e viscerali mortali.
Questa coesistenza di deficit strutturali dovrebbe immediatamente indurre a riorganizzare con urgenza la Chirurgia generale con un Primario, oppure a trasferire la Ostetricia al Sirai di Carbonia dove è ancora libera l’antica sede posta al III piano. Così le pazienti operate in Ostetricia, in caso di complicazioni chirurgiche, verrebbero messe sotto la protezione della Chirurgia generale che è ancora bene organizzata ed è in grado di dare immediata assistenza in caso di patologie ginecologiche associate a malattie chirurgiche addominali, o urologiche o vascolari.
Le vicende politiche ed amministrative pubbliche che si sono succedute dal 1992 ad oggi hanno precipitato il territorio del Sulcis Iglesiente in un passato di oscurantismo sanitario che ci fa vivere in uno stato di pericolo incombente.
La facilità con cui siamo arretrati così pericolosamente fa supporre che questo degrado non sia solo derivato da incapacità amministrativa centrale ma anche da una assurda inconsapevolezza popolare di questi fatti.
E’ necessario ripartire dalla Storia passata e conoscere le atrocità in campo sanitario perpetrate nei secoli passati per capire quali strumenti abbiamo per non doverle rivivere.
Aveva ragione Edmund Burke: «Chi non conosce la Storia è condannato a riviverla» con tutti i suoi risvolti disumani. E’ necessario farsi promettere dai politici del futuro la restituzione di tutto il maltolto.
Oggi, a conclusione della enorme manifestazione popolare incoraggiata dalle componente dei pensionati di SPI CGIL, CISL, UIL, ad Iglesias, il sindaco Mauro Usai ha sintetizzato le ragioni della protesta in alcuni precisi punti:
1 – Il degrado degli Ospedali e della sanità territoriale.

2 – La sottrazione di personale sanitario a favore del centro Covid del Santissima Trinità, che dovrebbe rientrare immediatamente nei nostri Ospedali subito dopo la chiusura del Centro Covid cagliaritano.

Inoltre:
3 – ha dichiarato chiuso il tempo dell’invio di istanze a protezione della nostra sanità perché tutte le formalità procedurali presso le istituzioni regionali sono state già esperite. In mancanza di provvedimenti soddisfacenti si passerà a proteste direttamente nel capoluogo.
4 – Ha poi dichiarato testualmente: «E’ finito il tempo dei campanili, uniti saremo più forti».
5 – E ha concluso dicendo «Non ci interessa avere tre Ospedali non funzionanti; ce ne basta uno, ma che funzioni».
Tale discorso è stato tenuto in rappresentanza dei 23 sindaci del Sulcis Iglesiente, che hanno sottoscritto il “Patto per la Salute” formulato dai tre sindacati CGIL, CISL, UIL, e che è stato inviato al presidente della Giunta regionale Christian Solinas ed al Commissario dell’ARES Massimo Temussi.

Mario Marroccu

 

Alcune settimane fa due chirurghi, il dottor Antonio Macciò, ginecologo-oncologo al Businco, e il dottor Stefano Camparini, chirurgo vascolare al Brotzu, hanno eseguito un intervento eccezionale su una donna affetta da tumore maligno. Si trattava di un cancro dell’utero invadente la parte sinistra della vescica, i grossi vasi arteriosi e venosi del bacino e i muscoli pelvici di sinistra.

La paziente versava in condizioni gravissime, da morte imminente. La febbre era persistentemente alta e dagli esami del sangue risultava uno squilibrio dei globuli bianchi simile a quello che si vede nei pazienti con Covid-19 in fase terminale. La paziente non aveva contratto il Covid; era invece in preda ad una “tempesta citochinica” indotta dal cancro.

Gli americani chiamano questo genere di chirurgia: “Interventi commando”. La definiscono come le operazioni di guerra particolarmente rischiosa.

L’intervento è stato distinto in due fasi: la parte demolitiva e la parte ricostruttiva. La “fase demolitiva” ha comportato l’escissione in blocco di quasi tutto il contenuto del bacino. Sono stati asportati: l’utero e annessi, la parte sinistra della vescica e un segmento terminale dell’uretere sinistro, la grande vena iliaca comune sinistra e la vena iliaca esterna che drenano il sangue venoso della gamba sinistra, la vena iliaca interna sinistra, il muscolo otturatorio interno sinistro (che serve a muovere la coscia), tutto il contenuto della fossa otturatoria costituito da ghiandole, grasso, nervi e vasi.

E’ stata una demolizione radicale.

Nella “fase ricostruttiva” il chirurgo vascolare ha ricreato un tratto venoso protesico per scaricare il sangue venoso della gamba sinistra. Il chirurgo ginecologo-oncologo ha proceduto a ricostruire la vescica e ad impiantarvi l’uretere sinistro.

L’intervento è durato 8 ore.

E’ noto che in Italia questa chirurgia così difficile viene eseguita al Policlinico Gemelli di Roma, ma non è noto come meriterebbe che il dottor Antonio Macciò fa questa chirurgia da molti anni, e la iniziò quando lavorava all’Ospedale Sirai di Carbonia. Negli stessi anni in cui apriva la strada a questa chirurgia al Sirai, egli aveva iniziato gli studi sul comportamento delle cellule Macrofagi nel cancro dell’ovaio. I Macrofagi sono cellule tissutali addestrate alla difesa dalle aggressioni batteriche, virali e tumorali.

Per capire come ci difenda questo esercito di “soldatini cellulari”, iniziò a raccoglierli nel liquido ascitico delle donne affette da cancro dell’ovaio, e iniziò a coltivarli. Con il suo “gruppo di studio” fin dal 1999 pubblicò osservazioni interessanti. Aveva verificato che queste “cellule soldato” producono una sostanza denominata Interleukina-6, e prese a dosarla in tutti i casi di tumore.

Tale mediatore chimico è un’arma potentissima che attiva altre cellule, i Linfociti. A loro volta, il Linfociti producono Interleukine di varie categorie, e scatenano un attacco difensivo multiplo per fermare l’invasore.

Si scoprì che queste cellule fanno una battaglia senza pietà nei confronti di chiunque sia coinvolto nello scontro. Ricorda l’impiego del gas Iprite nel fronte della prima guerra Mondiale: i tedeschi lanciavano il gas contro i francesi facendo strage ma, se per caso il vento cambiava direzione, il gas tornava indietro intossicando soldati del fronte tedesco facendo molte vittime. Infatti, invece di limitarsi ad uccidere il nemico (virus, batterio, tumore), le Interleukine dei linfociti massacrano anche le cellule amiche intaccate dall’infezione. In sostanza le cellule del rene, del polmone, del fegato, del cuore, eccetera, che sono state aggredite dall’infezione vengono uccise dal “fuoco amico” dei Macrofagi e Linfociti. Questa è la tempesta citochinica dell’infiammazione.

In questa guerra fratricida avviene il blocco della produzione di Linfociti, pertanto, diminuiscono di numero nel sangue. Al contrario, le altre cellule infiammatorie del sangue, i Granulociti, aumentano.

Antonio Macciò verificò e pubblicò, dal 1999 in poi, diversi articoli nelle riviste internazionali di Oncologia, di Ematologia, e di Immunologia. In Italia, la conferma ai suoi studi, proveniva dalla scuola universitaria milanese del professor Alberto Mantovani, immunologo.

Tutte le ricerche sull’infiammazione portavano a far ritenere che il grave deperimento del paziente con cancro fosse in ampia parte dovuto al meccanismo infiammatorio autoaggressivo.

Così si spiega il dimagramento, l’inappetenza e l’anoressia, la perdita di massa muscolare, l’astenia, l’anemia, l’insufficienza epatica, il danno renale, i disturbi della coagulazione (trombosi e emorragie) dovuti al danno epatico e al danno dell’endotelio dei vasi, le trombo-embolie, la febbre, la cachessia ed il decesso.

Tutto il disastro è dovuto all’infiammazione.

Ora, il suddetto intervento ginecologico e vascolare per un cancro invasivo dell’utero allo stadio T4, consente una verifica importante, cioè: la paziente, prima dell’escissione radicale del tumore, aveva febbre persistente, un numero molto alto dei granulociti neutrofili e un numero molto basso dei linfociti nel sangue. Si tratta di un quadro di laboratorio simile a quello che si trova nel Covid-19 in fase avanzata, premortale.

Dopo la rimozione della causa dell’infiammazione (in questo caso il cancro della paziente) la conta dei Granulociti e dei Linfociti è tornata rapidamente alla normalità; il motivo del miglioramento è legato al ritorno ai livelli normali delle Interleukine. Quando il tumore non c’è più, i Linfociti si riprendono. è il segno certo che la tempesta citochinica è finita. La vita può tornare.

Il caso descritto è una prova e controprova, col metodo galileiano, che i sintomi di decadimento profondo ed i dati di laboratorio su linfociti e citochine, sia nel cancro che nel Covid-19 sono fortemente legati all’infiammazione.

Questa pista, indicata da Antonio Macciò ed Alberto Mantovani in Italia, ed approvata dal mondo scientifico internazionale, è ormai una certezza, e su di essa sono state messe a punto terapie mirate.

Questa bellissima storia, nonostante la tristezza della vicenda umana della paziente, obbliga noi Sulcitani ed Iglesienti a rigorose riflessioni:

1 – Gli Ospedali di Carbonia e Iglesias 20 anni fa stavano molto bene. Questo significa che il decadimento organizzativo a cui assistiamo oggi non è dovuto a questioni di periferia geografica ma ad altre forme di periferia culturale e politica da individuare.

2 – La buona Sanità è legata alla corretta dotazione di personale Medico e Sanitario. Questo è il settore più colpito.

3 – L’ottima Sanità è dovuta alla competenza e alle qualità personali. Quell’intervento è stato eseguito in 8 ore. Significa che è stato fatto con l’intento della perfezione e della accuratezza, ignorando il tempo che scorre. Su questo bisogna riflettere molto.

4 – I programmi sanitari negli ultimi 20 anni sono stati concepiti per soddisfare algoritmi con finalità amministrative. Il caso descritto ci insegna invece che la componente umana professionale e individuale è centrale per spiegare il buon risultato, e la bravura non è inseribile in un algoritmo.

Ne consegue l’imprescindibile necessità di ripristinare e curare il personale degli Ospedali.

Mario Marroccu

Le riflessioni dell’amico Mario Marroccu, sul PNRR e sul ruolo e competenze che gli infermieri dovranno possedere, mi hanno sollecitato questo contributo, che riprende un interessante lavoro pubblicato dalla Redazione della prestigiosa Rivista del pensiero Scientifico “Assistenza Infermieristica e Ricerca”.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) rappresenta un’opportunità imperdibile di investimenti, sviluppo e riforme per affrontare le sfide dei prossimi anni, con pacchetti di misure e interventi complementari tra di loro. Il PNRR è articolato in 16 componenti, raggruppate in 6 missioni:

Missione 1. digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura;

Missione 2. Rivoluzione verde e transizione ecologica;

Missione 3. Infrastrutture per una mobilità sostenibile;

Missione 4. Istruzione e ricerca;

Missione 5. Coesione e inclusione;

Missione 6. Salute.

Le misure previste sono in linea e rafforzano quanto previsto dalla Missione 5: Inclusione e coesione (Componente 2: Infrastrutture sociali, famiglie, comunità e terzo settore). Infatti – come dichiarato nel PNRR – solo attraverso l’integrazione dell’assistenza sanitaria domiciliare con interventi di tipo sociale si potrà realmente raggiungere la piena autonomia e indipendenza della persona anziana/disabile presso la propria abitazione,  riducendo il rischio di ricoveri inappropriati, anche grazie all’introduzione di strumenti di domotica, telemedicina e telemonitoraggio.
Nel testo della Missione 6 si riconoscono le disparità territoriali nell’erogazione dei servizi, in particolare di prevenzione e assistenza sul territorio; la mancata integrazione tra servizi ospedalieri, territoriali e sociali; i tempi di attesa elevati per alcune prestazioni; una scarsa sinergia nella risposta ai rischi ambientali, climatici e sanitari; l’importanza delle competenze digitali, professionali e manageriali e di un maggiore uso dei dati disponibili per poter migliorare la pianificazione sanitaria.
Il piano è indubbiamente un documento di grande respiro: la presenza degli infermieri è tangibile e nodale, soprattutto, nelle parti del Piano che orientano il futuro SSN verso la prossimità e la domiciliarità, aspetti che dovranno obbligatoriamente  prevedere una presa in carico della persona assistita, della famiglia, del reticolo sociale di sostegno e della comunità di riferimento, contestualizzata e personalizzata. Ruolo e spazi saranno figli delle competenze.
Nella Componente 1 della missione 6 (Salute) del PNRR è evidente il ruolo numericamente e qualitativamente significativo assegnato agli infermieri e gli investimenti, anche di notevole entità sulla professione infermieristica facendo riferimento ai progetti relativamente alle case di comunità 2 miliardi, al potenziamento dell’assistenza domiciliare 2.7 miliardi, istituzione di centrali operative territoriali (C.O.T.) finanziate con 280 milioni, 381 ospedali di comunità con un miliardo.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che arriva dopo una serie di decreti nazionali e regionali atti a potenziare l’assistenza sul territorio (Decreto Rilancio del 19 maggio 2020; Piano pandemico influenzale 2021-23 per citarne solo due), rappresenta sicuramente un’opportunità per la professione infermieristica. Infatti, mai si erano visto esplicitare in una norma fabbisogni e relativi finanziamenti per portare, nelle case e sul territorio, professionisti, assistenza di base e specialistica, tecnologia e supporti informatici.
Nello specifico la Missione 6 del PNRR “Realizzare una nuova salute territoriale” si propone di:

– dare risposte integrate socio sanitarie a una domanda di salute costituita da bisogni complessi;
– potenziare l’assistenza domiciliare Integrata (ADI);
– garantire omogeneità di risposte tra regioni;
– potenziare infrastrutture tecnologiche e digitali;
– implementare competenze professionali, sia avanzate che specialistiche, di diversi professionisti sanitari: medici, con particolare riguardo alle cure primarie ma anche infermieri, fisioterapisti, assistenti sanitari e sociali;
– incrementare in termini assoluti il numero di infermieri, passando dall’attuale rapporto di 5,8 infermieri ogni 1.000 abitanti a 8,8 dello standard dell’Unione Europea.
Realizzare quanto previsto nel PNRR si scontra però con alcuni problemi che vanno affrontati nell’immediato: la carenza di infermieri, le competenze da garantire e l’organizzazione dei servizi.
I decreti legislativi che daranno applicazione alla riforma sicuramente daranno alcune risposte: è bene però sin da ora sollevare alcuni problemi e domande per tenere alta l’attenzione su aspetti che dovranno necessariamente trovare una riposta in modo tale che il PNRR diventi effettivamente operativo e non una dichiarazione di principi e una destinazione di fondi a strutture che non saranno poi in grado di operare.
Dove si reperiranno gli infermieri?
Il PNRR disegna un modello che dovrebbe portare a un riequilibrio dei luoghi di cura e dei modi di presa in carico dei bisogni dei cittadini, spostando l’asse degli interventi dall’ospedale al territorio. Per raggiungere questo obiettivo si punta a rafforzare l’assistenza domiciliare (con la presa in carico di almeno il 10% della popolazione ultrasessantacinquenne con problemi di cronicità o dipendenza), l’istituzione di 602 Centrali Operative Territoriali (COT) per il raccordo tra i diversi servizi sanitari e sociali, l’istituzione di 1.288 Case di comunità e 381 Ospedali di comunità. In ciascuno di questi contesti sarà presente la figura dell’infermiere: con competenze cliniche avanzate nell’assistenza domiciliare, con competenze di presa in carico dei problemi della famiglia e della comunità per l’infermiere di famiglia, con competenze cliniche e manageriali per gli infermieri degli ospedali di comunità, che saranno a gestione prevalentemente infermieristica.
È un piano che prevede un notevole incremento numerico che dovrà essere quantificato a breve termine.
Ci sono, però, diversi aspetti problematici, omessi o lasciati sottintesi, da affrontare e risolvere con urgenza.
Per illustrare meglio questi aspetti, ritengo opportuno far riferimento ad alcune considerazioni inviatemi dal Segretario Nazionale dell’Associazione Nazionale Dirigenti Professioni Sanitarie – affiliata COSMED, di cui faccio parte.
“Le Case di Comunità” – (ma non avevamo già le “case della salute”?) – assolutamente condivisibile il principio enunciato “dove il cittadino può trovare una risposta adeguata alle diverse esigenze sanitarie o socio-sanitarie, con la presenza di MMG/PLS/Infermieri … omissis…Ne vengono previste 1.288 (1/50.000 abitanti)!

Da capire:
a. i criteri distributivi, tenuto conto delle variabili “di contesto”, riportate nella tabella seguente ed i possibili accordi inter comunali;

b. i modelli organizzativi ed i sistemi di cura ed assistenza (non è “un’attività in tandem” come sostenuto da alcuni, ma una integrazione inter-professionale, con un impianto organizzativo interamente da ri-costruire, insieme al sistema delle cure primarie). Il fine è quello di implementare le attività di assistenza domiciliare (rif. DL 34/2020) e a favorire la presa in carico sia delle persone a rischio fragilità / disabilità / cronicità (il 3,7% delle persone da 65 a 74 aa e il 7% della popolazione con età > 75 aa – rif. Scaccabarozzi) per un totale  di 745.889 persone su 13.859.090), sia i circa 14 mln di persone, al momento in salute, ricomprese nella fascia di età > 65 aa, per le attività di promozione ed educazione alla salute e agli stili di vita sani, nell’ambito di progetti, percorsi e processi, definiti e condivisi con i MMG/PLS). Sta qui la differenza tra “prendersi cura” e “prendersi in carico”;
c. le necessità di risorse assistenziali (9.600 infermieri di comunità e famiglia, che vanno ad aggiungersi ai 10.500 infermieri necessari per l’implementazione dei pl di TI ed ai circa 3.100 infermieri necessari per la riqualificazione dei pl di SI, per un totale di oltre 23.000 infermieri – rif. DL 34/2020);
d. l’ipotesi di 96.088 infermieri disponibili dal 2027 rimane solo una ipotesi (il dato non è corretto in quanto il totale dei laureati non può scaturire dalla sommatoria dei posti messi a bando fino all’abilitazione del 2027, in quanto ci sono gli abbandoni, i fuori corso, etc.);
e. la stima di 26.018 infermieri pensionandi nel periodo 2020/2026 – I valori stimati presumibilmente sono in difetto, tenuto conto anche del fatto che il pensionamento non avviene all’età di 67 anni, come riportato, bensì ad una età più bassa di circa 4 anni; inoltre al 1 gennaio 2018 risultano n. 18.617 infermieri ricompresi nella fascia di servizio da 35 a 40 anni (i 2/3 – circa 13.000 già in quiescenza) e 65.000 ricompresi nella fascia di servizio da 26 a 35 anni (per una stima di circa 35.000 infermieri in quiescenza nel periodo 2020/2026 – fonte: min Salute);
f. a titolo conoscitivo (e per le necessarie comparazioni) nel periodo 2014-2018 sono usciti per pensionamento (SSN) 37.744 infermieri e ne sono stati assunti 37.731 (fonte MEF);
g. i neo-laureati (circa 50.000 nel periodo 2014-2018) hanno garantito il turnover e la copertura dei posti nelle strutture private (ospedaliere e residenziali);
h. potrebbe risultare utile conoscere i dati precisi relativamente alle assunzioni collegate al DL 34/2020 (TI/SI/Infermiere di comunità) e alle relative destinazioni, con la forte possibilità di riscontrare un utilizzo privilegiato per parziali compensazioni delle carenze di organici accumulate negli anni;
i. prima ancora è necessario definire le reali necessità criteri e standard per la determinazione delle dotazioni organiche (ospedali / territorio / residenzialità) e per la strutturazione degli staffing assistenziali, tenuto conto dei nuovi bisogni della popolazione e delle nuove esigenze di funzionamento delle strutture;
j. servono dati certi e non “ipotesi” ed è necessario affrontare la questione in maniera completa, evitando gli errori del passato (mettere “toppe” non serve a nulla … e spesso è maggiormente oneroso!), tenendo ben presente che ad un sistema assistenziale carente corrisponde sempre un grosso rischio per i pazienti.
Bozzi M. Il Pnrr va sostenuto, ma servono dati certi e rigore metodologico. Quotidiano Sanità 13 giugno 2021http://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=95678
Oltre tali considerazioni, bisognerà, ulteriormente, chiarire se l’importante incremento numerico di infermieri sarà “sottratto” alla compensazione del turn over del personale ospedaliero che andrà in pensione. Difficile pensare che al momento questa sia una decisione realistica, perché gli ospedali sono già in sofferenza di personale. Bisognerebbe, perciò, riprogrammare l’offerta formativa dei prossimi anni, tenendo ben presente che l’eventuale sforzo per l’aumento di questi numeri richiede congrui investimenti economici per aumentare le risorse umane (docenti, tutor, ecc.) e strutturali anche nelle sedi formative
universitarie e delle Aziende sedi di corso.
Sul versante delle risorse non vengono formulati parametri di riferimento. Non ci sono numeri ma un generico impegno “è stato previsto un incremento strutturale delle dotazioni di personale”. Un già sentito che non rinforza quanto al contrario è descritto in altre parti della Missione 6.

Continuare a proporre uno sviluppo formativo, tra l’altro necessario e condivisibile, senza però essere recepito dal mondo del lavoro attraverso un adeguato sviluppo di carriera e una remunerazione più consona causerebbe una ulteriore frattura all’interno della professione. Nei progetti che dovrebbero riorganizzare il nostro SSN non vi è traccia di tutto ciò.
L’analisi e le proposte inerenti la gestione della attuale scarsità di infermieri presenti sul mercato sono carenti nel PNRR: senza infermieri diventa impossibile non solo mantenere lo status quo ma anche avviare eventuali progetti innovativi. L’attuale carenza di infermieri resterà cronica se non si consentirà:
– un superamento del vincolo di esclusività dei dipendenti pubblici, resi finalmente liberi di portare la propria esperienza e competenza in quei settori dell’assistenza (domiciliare e residenziale) che maggiormente ne beneficerebbero. Si possono valutare possibili proposte quali collaborazioni con infermieri Libero Professionisti (esempio: infermieri di famiglia comunità contrattualizzati al pari dei MMG/PDLS e altri rapporti di lavoro in consulenza).
– un incremento delle retribuzioni, sia in termini assoluti che per il riconoscimento di responsabilità e competenze messe in campo. Oggi esistono sperequazioni che non valorizzano professionalità e retribuzioni.
Lo sblocco delle assunzioni nella pubblica amministrazione, per esempio, ha comportato una grave “emorragia” di infermieri che si sono dirottati verso Ospedali pubblici, sguarnendo le RSA e il territorio, laddove gestito tramite Cooperative. Le RSA sono in grave sofferenza per la carenza di infermieri e di conseguenza, gli standard assistenziali rischiano di non essere garantiti.
Gli investimenti proposti nel PNRR permettono alla stampa di titolare che verranno fatti maggiori investimenti sugli infermieri, dimenticando che tali provvedimenti sono necessari per la maggioranza dei casi per la carenza attuale e non tanto per un miglioramento qualitativo dei processi di cura.
Quale formazione e per quale infermiere
Leggendo orizzontalmente le Azioni 4, 5 e 6 si delinea uno scenario affascinante ma nel contempo altrettanto ricco di insidie. Quando nell’Azione 4 si parla di “ecosistemi dell’Innovazione (…) luoghi di contaminazione e collaborazione tra università, centri di ricerca, società e istituzioni local” e nell’Azione 5 si declina la Coesione e l’Inclusione affrontando “la qualità dell’abitare”, “la prevenzione dell’istituzionalizzazione degli anziano  autosufficienti”, “strategie per le aree interne” e i “servizi sanitari di prossimità”;, si viene a creare un processo che sfocia fisiologicamente nelle articolazioni dell’Azione 6 quali “casa come primo luogo di cura, assistenza domiciliare e telemedicina” e ancora nello “sviluppo delle cure intermedie”.
Per dare gambe alla professione perché sappia garantire un supporto consapevole e competente a quanto previsto dal PNRR si dovranno, sin da ora, rivedere i piani di studio, a partire dalla laurea triennale.
Colpisce in maniera preoccupante che non siano richiesti obbligatoriamente per i ruoli previsti requisiti di competenze specifiche avanzate e non siano previsti investimenti di formazione per gli infermieri domiciliari, di famiglia e di comunità e degli ospedali di comunità. Ancora più evidente risulta questa lacuna leggendo che, nella componente 2 della Missione Salute, è invece previsto (giustamente) il potenziamento delle borse di studio in medicina generale ma non avviene altrettanto per altri professionisti, limitando l’impegno alla realizzazione di percorsi di formazione su specifiche tematiche: un programma di corsi di formazione sulle infezioni ospedaliere (è ormai tanto tempo che il nome è stato modificato in Infezioni Correlate all’Assistenza (ICA), una formazione per figure manageriali per lo sviluppo della digitalizzazione del servizio sanitario.

Sembra trasparire la convinzione che un infermiere, con la sola formazione triennale, possa andare a ricoprire sul territorio ruoli di responsabilità clinica, assistenziale e manageriale, sia nell’assistenza diretta, sia nella prevenzione delle malattie, sia nella promozione della salute. L’Osservatorio nazionale delle professioni sanitarie istituito presso il Ministero dell’Università ha già dato indicazioni sulla necessità di formazione di competenze avanzate con master specialistici anche nelle realtà territoriali, come, peraltro, era già previsto dal profilo professionale del 1994.
È necessario modificare un approccio che rispecchia una cultura organizzativa risalente agli anni Settanta del Novecento, quello di un infermiere polivalente “adatto” (nel senso di adattabile) a qualunque contesto clinico assistenziale con la sola formazione di base. Approccio che poteva andare bene in un contesto di “responsabilità limitata” in quanto professionista sanitario ausiliario che doveva applicare correttamente in maniera intelligente le prescrizioni di altri professionisti. Oggi non solo è cambiata la normativa che assegna all’infermiere (e altri professionisti) una completa responsabilità nel proprio campo di azione professionale, ma sono cambiate soprattutto la natura e la complessità dei problemi e dei bisogni dei cittadini che rendono necessaria una formazione avanzata che renda possibile un’assunzione di responsabilità decisionale.
Naturalmente questo è un problema che riguarda tutti gli ambiti in cui l’infermiere svolge la propria professione, ma la riorganizzazione della sanità in senso territoriale pensata in generale nel PNRR può essere l’occasione per iniziare questa trasformazione. Senza la quale il raggiungimento degli obiettivi della prima parte della Missione 6 è destinato a fallire.
Il ruolo della tecnologia
Gli investimenti sono per lo più assegnati a riorganizzazioni che affidano alla tecnologia il governo dell’assistenza. Se da una parte la digitalizzazione e la teleassistenza sono elementi fondamentali, la reale presa in carico sembra sfumata in elementi tecnico-gestionali e non di centralità dei bisogni delle persone.
Anche se, chiaramente, è il bisogno di salute che anima l’erogazione dei servizi. Una fetta degli investimenti veramente importante è dedicata alle tecnologie e alla informatizzazione: sarebbe stato auspicabile investire su di essi ma a fattori inversi. Il fattore professionale legato alle competenze alle abilità e alle capacità relazionali rappresenta il motore trainante di tutto il processo di cura. Da sempre è noto che non sono le strutture né tantomeno le tecnologie e fare la differenza ma piuttosto i professionisti e le loro abilità professionali e la capacità di leadership dei team hanno sempre consentito all’organizzazione  di essere resilienti ed efficaci. Evidentemente le numerose prove offerte dai nostri professionisti durante questa pandemia non sono state sufficienti per convincere ad investire su queste dimensioni in modo più rilevante. È più semplice investire sulle tecnologie ma esse sono solo un mezzo non di certo un fine capace di garantire cure efficaci alla nostra comunità.
Pur consapevoli che l’alleanza con la telemedicina sia irrinunciabile, per evitare il venirsi a creare di nuove marginalità, in questo caso digitali, oltre alla ineludibile implementazione strutturale della connettività, servirà un intervento di affiancamento e di sostegno capace di evitare la spersonalizzazione della presa in carico.
Organizzazione dei servizi
Un altro degli aspetti da esplicitare è legato al tipo di organizzazione ed ai rapporti tra i servizi. Mancano il modello organizzativo e la governance dei processi. I progetti sembrano più una necessità formale da diffondere su tutto il territorio nazionale come strutture di frontiera, come prova della loro esistenza e non tanto della loro efficacia. L’analisi quantitativa del numero di infermieri da assegnare sembrerebbe far intendere questo e non altro. Dovrebbe esserci una maggiore consapevolezza dell’esiguità dell’incremento del numero x rispetto all’effettiva necessità ed ai criteri di dimensionamento degli operatori e alla necessità di pianificare i servizi in base agli esiti da raggiungere e non per prestazioni. Nei progetti di assistenza domiciliare si possono leggere indicatori di questo tipo: almeno una visita al mese fino ad un massimo di 15 giorni al mese nel caso di cure palliative. Non si trovano indicazioni di presa in carico e personalizzazione delle cure in base alla complessità assistenziale al nucleo familiare. Ancora, gli ospedali di comunità sono proposti con dotazione di organici infermieristici verosimilmente con rapporti pazienti/infermieri che al massimo potranno soddisfare il 10/1, in assenza di una riflessione sui modelli organizzativi, sulle competenze degli OSS (Operatori Socio Sanitari).
In un percorso di cambiamento, è fondamentale un ruolo forte di coordinamento centrale, per evitare la frammentazione dei servizi socio sanitari alla persona sul territorio: va strutturata una chiara cabina di regia che riconosca ruoli e processi che la garantiranno, altrimenti il grosso timore è che l’attuale strategia di progetto lasci autonomie operative regionali che se non ben governate porteranno ad ampliare ulteriormente la frammentazione dei servizi perdendo l’occasione, con le cure infermieristiche, di identificare questo ruolo come collettore dei bisogni di salute del singolo e della comunità. Nelle Regioni esiste troppa difformità in proposito e questo rappresenta un rischio anche per la gestione dei finanziamenti da destinare all’implementazione dei nuovi servizi.
Nei progetti si fa cenno a ruoli di coordinamento non ben definiti, mai a quelli di direzione in un contesto, quale quello sanitario, dove negli ultimi anni l’azione del management è stata indicata come indispensabile e strategica, vero e proprio volano di armonizzazione dei processi di cura che deve essere resa sempre più indipendente dalla politica. In questo ambito non una riga che indichi coinvolgimento progettuale, strategico e gestionale.
Sono poco chiari i rapporti con le ASL/ATS e con i distretti, che vengono nominati solo come sede di attuazione per 602 COT, strutture peraltro già presenti sotto altro nome, e affidate di fatto agli infermieri.

Poco chiaro anche il rapporto delle Case della Comunità con gli infermieri delle cure domiciliari dei distretti. Non si nomina il ruolo specialistico degli infermieri di famiglia e di comunità (infermieri di comunità nel Piano), che non possono essere assimilati agli infermieri con formazione di base attivi attualmente sul territorio. Gli studi  elaborati dall’OCSE e dall’OMS si basano sui Nurse Practitioner (NP), equivalente di una laurea magistrale clinica da noi non ancora presente. I NP hanno competenze e stipendi molto superiori rispetto agli infermieri con formazione di base.
Il PNRR assimila le due figure utilizzando il lavoro di divulgazione del ruolo portato avanti negli ultimi dieci anni dalla Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche (FNOPI) e dall’Associazione Infermieri di Famiglia e di Comunità (AIFeC), senza riconoscere la funzione specialistica. In Italia inoltre, il riconoscimento delle specializzazioni si è interrotto nel 2008, ostaggio di rivendicazioni e posizioni regionali che giocano al ribasso sul ruolo infermieristico.
La collaborazione e il coordinamento tra gli infermieri di famiglia e di comunità previsti nelle case di comunità e gli infermieri delle cure domiciliari è un aspetto fondamentale per dare vita alle parole del PNRR e del Piano Nazionale di Prevenzione 2020-25.
Orientamento verso il pubblico o il privato
Un’ultima (non perché sia meno importante, anzi) nota di preoccupazione è la mancata chiarezza sul contesto nel quale si collocano gli investimenti delle strutture di prossimità sul territorio: se in una cornice pubblica o privata. Il PNRR non fa una scelta esplicita (il DM che definisce l’orientamento dovrebbe essere approvato entro il 31 ottobre 2021). I possibili scenari sono 2:
a. Mettere al centro il distretto, che governa sia le strutture ed i professionisti sanitari (magari anche i medici di medicina generale?) e sociali. Un governo pubblico, con personale dipendente, consente stabilità delle equipe, uniformità di contratti, investimenti sulla formazione, l’integrazione tra le diverse professioni e figure ed una regia dei servizi basata su una programmazione locale a partire dai dati che saranno resi disponibili dagli investimenti nelle strutture informatiche e nelle banche dati.
b. Continuare a lavorare con una logica prestazionale, che ha caratterizzato sino ad ora i nostri servizi territoriali, con scarso controllo del pubblico (basti pensare a quanto accaduto nelle RSA durante la pandemia). Quanto dichiarato nel PNRR non fa ben sperare “l’investimento mira ad aumentare il volume delle prestazioni rese in assistenza domiciliare” e non è chiaro il ruolo delle “602 Centrali Operative Territoriali (COT), una in ogni distretto, con la funzione di coordinare i servizi domiciliari con gli altri servizi sanitari”, che si sovrappongono ad una funzione che dovrebbe svolgere un distretto con ruolo centrale sul governo dei servizi.
Il PNRR è un documento tecnico di programmazione di ripartizione di fondi presi in prestito dalle generazioni future. I meccanismi di valutazione che propone non considerano il miglioramento della qualità di vita delle persone. ma mettono in campo gli strumenti affinché questo avvenga.
Si ribadisce la necessità che gli infermieri (al pari delle altre professioni, ma tenendo soprattutto conto del ruolo fondamentale che ricoprono per garantire continuità delle cure e presa in carico delle popolazioni) siedano ai tavoli Regionali dove vengono prese le decisioni, per portare l’esperienza concreta, i possibili problemi, le proposte.

Bibliografia
1. Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). https://www.governo.it/sites/governo.it/files/PNRR_0.pdf
2. FNOPI. Gli infermieri promuovono il Recovery Plan: protagonisti del cambiamento e dei nuovi modelli, 5 maggio 2021. https://www.fnopi.it/2021/05/05/fnopi-recovery-promosso/
3. Anessi Pessina E, Cicchetti A, Spadonaro F, Polistena B, D.Angela P, Masella C, et al. Proposte per l’attuazione del PNRR in sanità: governance, riparto, fattori abilitanti e linee realizzative delle missioni. https://www.panoramasanita.it/wp-content/ uploads/2021/05/Proposte-attuazione-PNRR.pdf
4. Bozzi M. Il Pnrr va sostenuto, ma servono dati certi e rigore metodologico. Quotidiano Sanità 13 giugno 2021http://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=95678
5. A cura della Redazione. Assist. Inf. Ric. 2021; 40 92-100

Antonello Cuccuru

Nella Storia Contemporanea sono in lizza due contendenti: il Coronavirus e l’Umanità. Fin dall’inizio della Pandemia molti affermarono che il Virus si sarebbe adattato all’Uomo e sarebbe diventato un innocuo “raffreddore”. Questa sottovalutazione sta tutt’oggi condizionando le scelte dei cittadini e le decisioni dei Governi. In realtà, è molto probabile che sia vero il contrario e che cioè il virus non si adatterà mai a noi e, piuttosto, noi ci dovremo adattare al virus. Esso vive sulla terra da sempre ed è estremamente più antico dell’uomo.
L’ominide Lucy visse due milioni e mezzo di anni fa ed il primo Homo Sapiens comparve appena 500.000 anni fa. Il virus esisteva da miliardi di anni prima e, probabilmente, come sostengono i genetisti americani, sono stati l’origine della vita sulla Terra. All’inizio di tutto, dunque, c’erano i Virus.
Se questa ricostruzione è vera, dobbiamo essere più rispettosi nei confronti del virus perché è un nostro antenato. Ebbene, esso non è mai cambiato, è rimasto come era nei primordi, invece Noi siamo il risultato di molti cambiamenti evolutivi. L’idea che il virus cambi in pochi mesi, per adeguarsi alle nostre esigenze, è senza basi. Degli altri virus con cui l’Uomo si è scontrato, si conoscono le vicende: il virus del Vaiolo ha ucciso uomini ed animali in tutti i millenni della storia conosciuta; oggi esso è scomparso per effetto delle vaccinazioni obbligatorie di massa; esiste solo in laboratori speciali e, per quanto si sa, non si è mai modificato a nostro favore. Così pure i virus della Poliomielite, della Varicella e del Morbillo, non si sono mai modificati ed oggi vengono tenuti a bada dai vaccini. Non sono mai cambiati, se non in peggio, i microbi della Tubercolosi, della Difterite, del Colera, del Tetano, della Rikettsiosi, della malattia di Lyme.
Si sostiene che il microbo della Peste Nera del 1347 sia spontaneamente scomparso improvvisamente nel 1700. Non è vero. Esiste tutt’oggi nel Tibet e nel Deserto della California, ed è sempre terribilmente mortale. Piuttosto, è vero che venne battuto il vettore del microbo, cioè la pulce del ratto nero asiatico (Rattus Alessandrinus), ma ciò avvenne per un cambiamento ecologico dovuto alla migrazione in Europa del ratto marrone del Nord (Rattus Norvegicus). Questo nuovo ratto, essendo più prolifico del ratto nero, occupò, per prevalenza numerica, il territorio europeo e si sostituì al ratto nero della peste. E’ vero che ne ereditò le pulci, tuttavia il mantello lanoso del ratto marrone ha uno strato profondo di lanugine talmente fitto da creare un ambiente invivibile per le pulci, e le pulci vi muoiono. Una volta scomparse le pulci ed il ratto nero, scomparve la Peste Nera.
Si può sperare in una mutazione benigna del Coronavirus, però per ottenerla, bisogna che mutino contemporaneamente tutte le varietà esistenti al mondo oggi. Dato che ciò è impossibile, ne consegue che la teoria che il Covid-19 diventi un innocuo raffreddore è ottimistica e anche molto pericolosa, a causa della sottovalutazione che implica. La sottovalutazione è stata fin dall’inizio il vero avversario che ci ha impedito di contenere la Pandemia.
Questa premessa porta a concludere che Noi dobbiamo adeguarci al virus perché esso è vincente. Sta succedendo un fenomeno epocale. Il virus ci sta cucinando lentamente come si fa con le rane vive in pentola. Il virus ha colpito il consorzio umano esattamente nel cuore di quel meccanismo dell’evoluzione neurologica della corteccia cerebrale che ha portato allo sviluppo della specie umana. Con la crescita della massa cerebrale, che è una grande centrale di comunicazione, avvenne il distacco di un ramo dall’albero della linea evolutiva dei Primati, quello del genere Homo. Il genere Homo ha la facoltà del linguaggio, della comunicazione verbale e dello scambio di informazioni che sta alla base della associazione. La necessità di comunicare compulsivamente ha indotto questo genere di ominidi all’aggregazione, al contatto fisico tra gruppi umani diversi, allo scambio di idee e beni e all’eliminazione del distanziamento. Sfruttando queste qualità, la specie Umana ha ideato le regole della convivenza sotto forma di Politica, Religione, Cultura, Commercio, e ha dato luogo alla organizzazione sociale, dapprima a livello di tribù, poi a livello di coordinazione di gruppi sempre più numerosi fino alla fondazione delle città ed alla costituzione delle Nazioni.
Da due anni il Covid-19 ci sta costringendo al regresso delle regole di aggregazione sociale e sta inducendo la lenta e impercettibile destrutturazione delle basi su cui la Società Umana è fondata, e cioè: l’associazionismo, la libertà di movimento, il trasporto di uomini e merci, l’arte, la scuola, la famiglia. Messa in questi termini, la Covid-19 non è una semplice malattia ma è un pericolo per la Società Umana così come oggi è costituita.

Se le cose stanno in questi termini, il problema è la sopravvivenza e, pertanto, è giustificato sostenere la formula pronunciata da Mario Draghi nel mese di luglio 2012 “ Whatever it takes”, cioè: bisogna fare «qualunque cosa sia necessaria», pur di uscire dalla Pandemia. Questa formula è facile da dire ma difficile da concretizzare in atti.
Proprio in questo frangente pandemico così delicato, siamo finiti in una disarmonia di voci contrastanti. Troppi pareri estemporanei, troppe ipotesi senza fondamenti scientifici, insomma confusione.
Alessandro Manzoni, per rendere meglio una situazione di conflitto dovuto alla nebulosità delle idee, inventò la metafora dei “galli di Renzo”. Invece, Winston Churchill, non riuscendo a mettere d’accordo tutti, arrivò a mettere in dubbio l’idea stessa di Democrazia, sostenendo che essa è la “peggior forma di Governo, eccezion fatta per tutte le altre forme”.
Anche oggi sta avvenendo che, Politici, Cittadini, Nazioni, piuttosto che risolvere il problema della Pandemia con un metodo condiviso e univoco, stanno affastellando in modo caotico una serie di problemi, diversi fra di loro e tutti importantissimi come: l’obbligo vaccinale, il suicidio assistito, la questione gender, la riforma del Fisco, il reddito di cittadinanza, la quota 100, il Patto Atlantico, la Via della Seta, il terrorismo informatico Hacker, il 5G, la scelta dei motori elettrici, la carenza di microchip, etc…, e ora, come se non bastasse, l’abbandono rovinoso dell’Afghanistan.
E’ difficile armonizzare le idee su un quadro storico mondiale e nazionale così complicato. In questo contesto, necessita fare una scaletta delle precedenze sui ragionamenti da impostare. Per adesso può essere utile fermarsi a riflettere sul problema dell’obbligo vaccinale. Si o No?
In premessa, si è tentato di dimostrare che la speranza che il virus attenui la sua aggressività è un’illusione. Pertanto, il virus non si adatterà alle esigenze dell’Uomo ma sarà l’Uomo a chinare la testa e si adatterà al Virus. Date queste condizioni di debolezza non esiste possibilità di trattativa e non ci rimane altro che il “Whatever it takes” di Mario Draghi, cioè dovremo adattarci a “qualunque cosa serva” per attenuare il pericolo pandemico che incomberà per molti anni ancora.
Il Vaccino è l’unica difesa oggi esistente. Fino ad oggi sono state messe in atto procedure molto intelligenti per indurre tutti i cittadini a vaccinarsi, tuttavia, il risultato non è soddisfacente, perché persistono sacche di umanità non vaccinata nelle quali il virus selvaggio prolifera. Da lì il virus riprende forza per attaccare anche i cittadini già vaccinati. Il Green Pass è uno strumento efficace ma l’applicazione è un po’ macchinosa e genera avversione.
Il Green Pass è stato adottato per impedire l’accesso dei non vaccinati nei luoghi di assembramento sociale e viene percepito come un surrogato dell’obbligo vaccinale universale. Questo è un punto delicato che necessita di chiarezza. La chiarezza la fornisce l’Articolo 32 della Costituzione, laddove dice che «nessuno può essere costretto ad un trattamento sanitario…. eccetto nei casi in cui vi sia l’obbligo di Legge». L’articolo è esplicito: il Governo ha il potere di emanare una legge che obblighi alla vaccinazione universale tutti i cittadini. Tale legge renderebbe inutili tante procedure di controllo capillare quotidiano.
Al mistero sulla titubanza se applicare o no la Costituzione si aggiunge oggi un altro problema che, per la verità, non è un vero problema. Si tratta della cosiddetta terza dose vaccinale. Questo giornale già un anno fa rese noto che il vaccino a RNA messaggero, secondo gli sperimentatori avrebbe conferito un’immunità della durata di 8 mesi circa. Ciò significa che coloro che sono stati vaccinati con 2 dosi a febbraio 2021, si troveranno scoperti, da un punto di vista immunitario, ad ottobre 2021. Pertanto, da ottobre tutti i vaccinati di febbraio dovranno essere considerati “non vaccinati” e dovranno, necessariamente, essere rivaccinati.
Dato che il Coronavirus non se ne andrà da questo pianeta, ma rimarrà per sempre con noi, si deve desumere che dovremo vaccinarci almeno una volta all’anno per sempre. Fu per questa considerazione che proponemmo ai nostri Politici del Sulcis Iglesiente di chiedere l’istituzione di un Reparto Infettivi, o un Covid Hospital, con personale medico ed infermieristico, da mantenere attivo per molti anni ancora. Nè più né meno di quanto si fece nel 1900 con gli Ospedali ed i Preventori antitubercolari di Iglesias e Carbonia.
Nel caso della Tubercolosi quei Preventori furono efficacissimi. Produssero la rarefazione progressiva del microbatterio tubercolare fino allo stato attuale di pacifica convivenza con pochi casi all’anno.
Oggi la vista di quegli edifici per la cura e la prevenzione, ormai dismessi ed abbandonati nel nostro territorio, suscita stupore. Eppure, sono la prova certa che in periodi in cui l’Italia era veramente povera si affrontarono con decisione campagne durissime per l’eradicazione di tubercolosi, tracoma, malaria, poliomielite, ed il contenimento di difterite, morbillo, vaiolo, pertosse, echinococcosi, brucellosi, tifo, che devastavano la vita e l’economia.
Anche nel secolo scorso e nel precedente, vi furono movimenti di opinione contrari alle vaccinazioni. Ai primi del 1900 vi fu un movimento molto seguito che sosteneva, contro il vaccino antivaioloso, la teoria che l’inoculazione di materiale vaccinale antivaioloso tratto dai bovini avrebbe provocato un cambiamento (genetico) dell’Uomo inducendo il minotaurismo, ovvero la nascita di figli per metà uomini e per metà tori, come nel mito di Dedalo alle prese col Minotauro di Minosse.
I Governi di allora capirono che esisteva un’epidemia che manteneva attive tutte le altre: l’analfabetismo.
Ne derivò la necessità di alfabetizzare la popolazione, istituendo l’obbligo alla scolarizzazione elementare delle nuove generazioni. L’istruzione obbligatoria fu il primo vaccino che spianò la strada all’uscita dalle epidemie. Mi pare si possa sostenere che anche oggi la Scuola possa essere l’arma vincente.
Oggi, nell’attesa che i Governanti trovino la determinazione giusta per applicare pienamente la Costituzione, cosa possono fare i nostri Politici locali? Certamente potrebbero pretendere che nei fondi del PNRR, Missione 6, destinati alla ristrutturazione degli Ospedali decadenti, si trovi il finanziamento necessario per istituire il “Reparto infettivi” al Sirai di Carbonia, così come venne previsto con un piano governativo negli anni ’90 , quando il Commissario straordinario della ASL 17 era il dottor Tullio Pistis, e fece portare a termine i lavori per la costruzione del padiglione a tal fine dedicato. Sarebbe grandioso il sentimento di riconoscenza che avremmo se sapessimo che in un Reparto infettivi dedicato vengano curati i Covid positivi, vicini ma separati dagli altri reparti e messi in sicurezza. I progettisti previdero sistemi di aerazione a pressione negativa per impedire la diffusione del virus. Dotarono la struttura della possibilità di avere una sala parto ed una piccola sala operatoria con terapia intensiva annessa e la possibilità di avere anche un rene artificiale per la dialisi separata. Nel 1990 si realizzava fantascienza. Similmente può essere attivato il Covid-Hospital ad Iglesias, già deliberato dalla Regione un anno fa.
Queste opere, sarebbero i primi atti di ricostruzione della Sanità del Sulcis Iglesiente.

Mario Marroccu

Gentile Direttore, non è consuetudine dell’Ordine di entrare nel merito di libere riflessioni pubblicate sul suo giornale da chiunque e a qualunque titolo poste in essere in tema di sanità pubblica e privata, ospedaliera o territoriale, di qualità o critica. Le chiedo, oggi, di ospitare una breve replica alle fuorvianti considerazioni del dr. Mario Marroccu sugli Ospedali di Comunità, che nel Sulcis Iglesiente non esistono, e sulla professione infermieristica che presiedo nel Sulcis Iglesiente e che è ben impegnata in tutt’altro che in mansioni di mera igiene alla persona.

In tutta Italia gli ospedali di comunità sono un luogo vicino ai cittadini, riconoscibile dai cittadini, aperto all’azione infermieristica ai cittadini. Non nel Sulcis Iglesiente e in ASSL Carbonia, dove il suo numero equivale a zero. In tutta Italia, per sua natura l’infermieristica si integra con i professionisti sanitari del territorio, è un vaso comunicante in un sistema di vasi comunicanti e non ha interesse alcuno a proporsi autoreferenzialmente e a collocarsi in una posizione di non veduta e di non ascolto. Anche nel Sulcis Iglesiente e in ASSL Carbonia, dove il numero degli Ospedali di Comunità equivale a zero, l’infermieristica si integra e si relaziona con il sistema e non si isola in se stessa.

In tutta Italia l’Ospedale di Comunità non è un progetto, è un’opportunità residenziale in grado di erogare assistenza sanitaria di breve durata, quindi dedicata ai cittadini utenti del SSN che, pur non presentando patologie acute ad elevata necessità di assistenza medica, non possono tuttavia essere assistiti adeguatamente a domicilio per motivi socio sanitari. E il territorio del Sulcis Iglesiente, significativamente intriso di motivazioni ostative ad una presa in carico domiciliare, è privo di Ospedali di Comunità.

La responsabilità clinica di un Ospedale di Comunità è di un medico di medicina generale, la responsabilità organizzativa e gestionale di ogni singolo modulo tocca invece al coordinatore infermieristico.

La responsabilità assistenziale spetta ovviamente all’infermiere secondo il proprio profilo professionale, il proprio Codice Deontologico, le proprie competenze ed esperienze, e garantendo la continuità assistenziale nelle 24 ore. Durante le ore diurne si avvale del responsabile clinico della struttura, nelle ore notturne e nei giorni festivi e nelle ore prefestive si attiva quando necessario con il l Servizio di continuità assistenziale, ed in caso di emergenza attiva il Sistema di Emergenza Urgenza territoriale, come avviene in tutti i servizi sanitari extra-ospedalieri.

All’interno dell’ospedale di comunità è inoltre inserito l’operatore socio-sanitario, responsabile di attività e funzioni domestico alberghiere.

Piaccia o meno, è quindi un modello multidisciplinare.

Non riconoscere, ostinarsi a non riconoscere o non avere proprio contezza urbi et orbi dell’evidenza che l’Ospedale di Comunità svolgerebbe una funzione intermedia tra il domicilio e il ricovero ospedaliero, è quantomeno ingeneroso ed anacronistico, pur comprendendo la forma mentis di un esercizio professionale medico ancorato al passato e superato dai tempi e dati fatti.

Ridurre quindi la digressione sugli Ospedali di Comunità focalizzandosi su un presunto limite nell’agire infermieristico e su un altrettanto fantomatico esercizio professionale basato su mansioni e non su competenze, non rende un buon servizio alla corretta informazione.

L’art. 44 della legge di riordino della rete ospedaliera è identico all’art. 8 della legge regionale 17 novembre 2014 n. 23. Gli Ospedali di Comunità devono essere resi fruibili e non solo previsti sulla carta. Se resta una scatola vuota l’Ospedale di Comunità previsto nell’ex Civile di Iglesias, meglio comunque nemmeno prevederlo, anche se qualcuno parrebbe non essersi accorto della sua inesistenza, e quindi una domanda sorge spontanea: ma di cosa stiamo parlando?

Tanto ritenevo di portare alla sua attenzione e di quella dei suoi lettori per una corretta informazione-

Graziano Lebiu

Presidente OPI Carbonia Iglesias

Dai quotidiani sardi ci provengono tre generi di notizie preoccupanti:

  • Gli incendi 
  • Il ritorno in “zona gialla”
  • La carenza  di medici.

Gli incedi sono dovuti alla meteorologia e a calcoli criminali.

La “zona gialla” è una minaccia concreta.

La mancanza di medici è invece un mistero da chiarire, visto l’enorme numero di medici in pensione non utilizzati.

Gli unici che si preoccupano e che si agitano, nella piramide della politica, sono i sindaci. Ovunque, in Sardegna, avvengono manifestazioni spontanee di Sindaci, con tanto di fascia tricolore a tracolla, che sfilano in piazza per protestare, ritenendo che la carenza dei medici di base nei paesi e nei Pronto soccorso degli ospedali sia una forma di abbandono delle autorità sovraordinate. Paradigmatica è stata la dimostrazione di sindaci nella superstrada 131.

Negli ospedali di Iglesias e Carbonia il depauperamento degli organici negli ospedali è serio: i reparti di ricovero e servizi specialistici sono dimezzati, gli altri reparti sono  ridotti ad un quarto del personale medico e tecnico; altri reparti ancora sono costretti ad essere accorpati e ridotti per sopravvivere; altri ancora sono chiusi per consentire le ferie estive che la legge impone al personale. Tutto questo, sta avvenendo nel bel mezzo di una pandemia recrudescente.

In questo periodo vacanziero, da cui proviene il 13 per cento del PIL nazionale, stanno avvenendo manifestazioni contro il green pass; c’è chi ritiene che bastino i vaccini a fermare il virus. Ciò avviene, nonostante i mezzi governativi di informazione stiano ripetendo che c’è una ripresa della mortalità da Covid-19 e che il 14 per cento dei morti è stato vaccinato con due dosi; tale dato certifica che il vaccino non protegge dal virus ma serve ad attenuare la gravità della malattia. Tutti, anche i vaccinati, la possono contrarre, ne è la dimostrazione il caso del signor G.L di Carbonia, anni 74,  regolarmente vaccinato con due dosi, che questi giorni è finito sui giornali perché, avendo manifestato i sintomi ingravescenti di un Covid-19 in forma acuta, è finito all’ospedale Sirai; da qui, imbarcato su un’ambulanza, è stato trasferito all’ospedale Binaghi di Cagliari. Giunto al Binaghi, che funge da centro per pazienti Covid, i medici si sono affrettati a comunicargli che il loro reparto era pieno di malati in terapia intensiva e non potevano accettarlo. Il nostro concittadino è rimasto ricoverato nell’abitacolo dell’ambulanza per 24 ore, in attesa che si liberasse un posto letto nella struttura ospedaliera.

Qui si delinea un mistero della nostra ASSL. Abbiamo dimenticato che un anno fa venne deliberato dalla Giunta regionale l’istituzione di un Covid-hospital al Santa Barbara di Iglesias per accogliere i pazienti del Sulcis Iglesiente. L’omissione è finita nella “cupio dissolvi” della nostra organizzazione sanitaria. Iglesias, tra le nostre città, è la più colpita dall’impoverimento sanitario. In questi giorni, al CTO di Iglesias verrà chiuso il reparto di Chirurgia generale per mancanza di personale medico ed infermieristico, e tutte le urgenze verranno convogliate al Sirai di Carbonia. Anche a Carbonia vi è il problema del personale medico ed infermieristico e, per compensare la carenza d’organico, si sono dovuti accorpare due reparti chirurgici, riducendone le sedute operatorie routinarie ad una per settimana. Tutto ciò, è conseguenza della penuria cronica di personale;  non ci risulta che esista un piano strategico risolutore, e nessuno avanza proposte.

Per la verità, un Piano c’è, ed è molto grosso: si chiama PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza). La parte del Piano che dovrebbe ricostituire la macchina sanitaria si chiama “Missione 6”. L’ha confezionata il governo Draghi ed è stata approvata dalla Commissione europea da Ursula Van der Leyen. Il finanziamento messo a disposizione dall’Europa è enorme. Si tratta di 209 miliardi di euro. Di questi, ben 80 miliardi sono un regalo dell’Europa, mentre 129 miliardi sono puro debito da restituire. Il finanziamento eccezionale va speso entro i prossimi 5 anni. Ben 20 miliardi del Piano sono destinati alla Sanità. Cinque miliardi sono stati già impiegati per altro; ne rimangono 15 da spendere.

Le voci di spesa sono queste:

  • Digitalizzazione del SSN (Sistema Sanitario Nazionale);
  • Medicina di prossimità nel territorio (Case della salute e Ospedali di Comunità); 
  • Strumenti tecnologici (TAC; risonanze magnetiche; ecografi, etc…)
  • Finanziamento Centri di Ricerca;
  • Corsi di aggiornamento per il personale dipendente;
  • Ristrutturazione degli Ospedali fatiscenti.

Gli Ospedali in Italia sono tanti ma soltanto 280 di essi sono veramente importanti. Sono quelli di I e di II livello. In Sardegna ci sono 2 ospedali di II livello (Brotzu e Azienda ospedaliero universitaria di Sassari) e 7 ospedali di I livello. L’ospedale Sirai di Carbonia è uno di questi 7. Questi ospedali verranno dotati di formidabili  apparecchiature tecnologiche e qui scatta un primo mistero: non verranno assunti né medici, né infermieri, né tecnici a tempo indeterminato. Ciò avverrà perché esiste l’ordine della UE di non aumentare la “spesa corrente.  La “spesa corrente” dello Stato è quella che tutti i mesi finanzia gli stipendi dei dipendenti e le pensioni. Ne consegue che è vietato assumere per non generare altra spesa corrente. Sono ammesse solo assunzioni temporanee. La domanda che sorge è questa: «Chi dovrebbe far funzionare le TAC e le Risonanze Magnetiche se non verrà assunto il personale specializzato dedicato? Lo sanno che al Sirai di Carbonia avevamo 9 radiologi e che oggi sono ridotti a 3?». Lo stesso ragionamento si applica per i tecnici specializzati. Conclusione: sugli ospedali e, soprattutto, su quelli del Sulcis Iglesiente, pende la “Spada di Damocle” del fallimento. Da questo si desume che tutti noi siamo candidati al destino del signor G.L. di 74 anni di Carbonia, ad essere rifiutati dal nostro Ospedale, ad essere imbarcati su un’ambulanza che dovrà condurci verso una destinazione senza speranza: gli ospedali respingenti di Cagliari.

Una grossa somma del Piano PNRR di Draghi è destinato alla “medicina di prossimità” nel territorio: si tratta della costruzione delle “ Case della salute” e degli “Ospedali di comunità”. Le prime non sono altro che gli attuali poliambulatori. Anche qui non si prevede l’assunzione di medici specialisti, però si prevede che vadano a lavorarci i medici di base. Per ora, si tratta solo di una ipotesi, perché tutti i sindacati dei medici di base non sono d’accordo e i medici staranno nei loro ambulatori.

Per quanto riguarda gli “Ospedali di Comunità” si progetta di darli in gestione agli Infermieri. E’ evidente che, senza i medici, gli infermieri, che non potranno certificare diagnosi né prescrivere farmaci, si limiteranno alla cura della persona (igiene) e i malati veri verranno inviati in ospedale; qui, per i motivi organizzativi anzidetti, faranno la fine del signor G.L. di Carbonia, ed imbarcati su un’ambulanza con destinazione…il nulla.

Con i fondi del PNRR verrà creata una rete digitale per la comunicazione tra il paziente adagiato a casa e l’ospedale; attraverso essa i nostri anziani avranno una pronta consulenza. E’ evidente che il redattore del Piano non ha esperienza di quanto sia difficile parlare con i pochi medici dei nostri ospedali, oberati da un lavoro che li assorbe totalmente; figuriamoci quanto saranno disponibili a rispondere alle infinite e-mail che riceverebbero dai 128.000 potenziali malati o parenti di malati del nostro territorio.  Non mi sembra tanto realistica neppure l’idea che vengano facilmente prodotti a domicilio tanti esami ECG e tante ecografie da spedire al cardiologo o al radiologo o al chirurgo dell’ospedale, visto la carenza disastrosa di medici di base nel territorio. Si tratta di un piano grandioso di acquisto di attrezzature tecnologiche che finiranno in un sottoscala visto che non è stata prevista l’assunzione del personale medico che dovrebbe utilizzarle.   

Senza il personale non si andrà da nessuna parte. Il PNRR ne vieta l’assunzione a tempo indeterminato e tutto comincia ad avere i connotati di un grande sogno a cui seguirà un brusco risveglio in un mare di debiti da ripianare.

Il caso del signor G.L. di Carbonia è un sintomo certo di una patologia che sta covando e stupisce che nei giornali e nella politica manchi un benché minimo accenno di dibattito su questo tema.

Gli unici che hanno percepito questa anomalia sono i sindaci, scendendo in piazza con striscioni e bloccando il traffico nella Superstrada per Sassari. Sono gli unici che hanno percepito che “non di apparecchiature TAC vive la Sanità” ma di “personale”.

Le radici dei mali del Sistema Sanitario Nazionale si trovano nel passato.

Dopo i tempi meravigliosi sperimentati con la Riforma 833/1978 del SSN, di Tina Anselmi, si iniziò l’arretramento sanitario nel 1992 col ministro liberale Francesco De Lorenzo. Quel ministro decretò il passaggio alla “privatizzazione” della Sanità pubblica. Con tale formula si intendeva risparmiare sulla Sanità attraverso la riduzione della spesa per il personale ed i Servizi.

Nel 1999 il sistema di risparmio venne regolamentato dalla ministra Rosy Bindi.

Poi nell’anno 2004, col Dlgs 311, il Governo Berlusconi pose un tetto alla spesa sanitaria minimizzando la sostituzione del personale andato in quiescenza. Addirittura si decretò che la spesa sanitaria, per ogni anno successivo, diminuisse del 1,4 per cento rispetto alla spesa del 2004.

Nel 2012, ai tempi del Governo Monti, il ministro Balduzzi ridusse drasticamente il numero dei posti letto negli ospedali da 6 posti letto per 1.000 abitanti a 3,7 posti letto per 1.000 abitanti. Proporzionalmente si ridusse il personale dipendente. Erano gli anni in cui in tutti i decreti compariva il proposito di “efficienza ed efficacia”. Con tali termini si intendeva «spendere di meno, con meno personale, ottenendo gli stessi risultati assistenziali».

Nell’anno 2015, col governo di Matteo Renzi, venne varata la legge nota con la sigla DM 70. Questa legge pose altri limiti ai posti letto e al personale.

Gli esecutori regionali sardi, nell’applicare la legge furono “più realisti del re”. Fu un disastro. Non soltanto non vennero rispettati i bassi parametri di posti letto e personale che ci veniva riconosciuto ma, per il Sulcis Iglesiente si procedette alla chiusura definitiva di reparti ospedalieri e dal depauperamento del personale medico e infermieristico ancora superstite.

Dal 1° gennaio 2020 la Sardegna è passata dalla Riforma della ATS alla riforma della ARES. Anche con questa Riforma non è stato preso in considerazione l’aumento dell’organico del personale sanitario.

Ora siamo in attesa di una legge che definisca i nuovi standard sugli organici del personale dei Servizi sanitari della Sardegna. E’ necessario che qualcuno dei nostri segua bene l’iter di questa nuova legge e verifichi che il nostro territorio non venga ulteriormente sacrificato.

Da questa ricostruzione storica si ricava l’informazione che il disastro sanitario in cui ci troviamo ha i nomi e i cognomi degli autori. Hanno partecipato tutte le parti politiche e tutte, alla pari, ne hanno la responsabilità.

Ci rimane una speranza. I sindaci.

Tuttavia i sindaci hanno bisogno d’essere sostenuti dall’opinione pubblica, la quale dovrebbe controllare i controllori che sono stati eletti.

Chi sono i controllori? Sono i rappresentanti dei cittadini inviati alla Regione, alla Provincia, alle Camere e al Governo.

Ma ancora più responsabili sono i controllori dei controllori, cioè Noi stessi.

Onestamente tutto questo disastro l’abbiamo lasciato crescere senza controllo e ne siamo responsabili. Siamo Noi stessi gli  autori della triste esperienza in cui è incappato il concittadino  G.L., di 74 anni, di Carbonia. Siamo in molti: 128.000 abitanti del Sulcis Iglesiente, e abbiamo la colpa di non aver stimolato adeguatamente i nostri rappresentanti. 

Mario Marroccu

Nella foto di copertina i sindaci della provincia di Oristano che hanno manifestato due settimane fa uniti in difesa del sistema sanitario territoriale

L’Ospedale Sirai fu un Presidio Ospedaliero che fungeva anche da “Casa della Salute” e da “Ospedale di Comunità”, in esso si sommavano sia la funzione ospedaliera che la funzione di ente di ricovero intermedio per la preparazione al “ritorno a casa”. Fungeva anche da “Hospice” per i malati tumorali terminali e da “Centro di Terapia Antalgica”. Il ricovero poteva durare pochi giorni o mesi. Oggi il Piano Sanitario Nazionale prevede che i ricoveri avvengano solo per ragioni puramente sanitarie e non debbano durare più di 7 giorni. Per mantenere la media sotto i 7 giorni, molti ricoveri durano solo 24 o 72 ore.
L’Ospedale degli anni ’70 e ’80, viceversa, aveva una missione sanitaria e anche sociale e a, tal fine, era organizzato come un’autarchica “Cittadella Ospedaliera”.
Oltre ai reparti di degenza per acuti e di lungodegenza, vi erano tutti i Servizi necessari ad una “comunità socio-sanitaria autonoma”: le cucine, la lavanderia e la stireria, la sartoria, la falegnameria, l’officina meccanica, gli idraulici, i carpentieri, i muratori, gli elettricisti, la centrale per la generazione autonoma di corrente elettrica e le caldaie, le case per le suore, per i medici e la chiesa col suo prete. Il prete si chiamava don Luigi Tarasco. Dato che allora si moriva molto (6-8 al giorno) e si nasceva molto (6-8 al giorno), don Luigi era molto attivo: molte estreme unzioni, molti battesimi, qualche matrimonio, e una Schola Cantorum. Politicamente era un Don Camillo alla Guareschi ed aveva il suo fucile da caccia e il cane per i tordi e le lepri di monte Rosmarino e di Santa Giuliana.
Raccontava d’essere giunto a Carbonia dal suo paese natale: Collodi, il paese di Pinocchio. «La storia del burattinoegli spiegava -, è la metafora della vita». Quel racconto serviva a mettere in guardia da quel genere di “Saltimbanchi” che avevano convinto Lucignolo e Pinocchio a seguirli verso il “Paese dei balocchi”. Poi quando i due si accorsero di avere la coda, gli zoccoli e le orecchie lunghe, capirono in ritardo d’essere caduti in inganno: erano pronti ad essere trasformati in tamburi di pelle d’asino. Don Luigi diceva: «Il problema nella vita è come fare a riconoscere i saltimbanchi«. Pinocchio, per don Luigi, non era una semplice favola ma era il racconto di un fatto reale che può capitare a tutti, e da cui bisogna guardarsi.
Carlo Collodi finì di scrivere “Pinocchio” nel 1883 proprio nel tempo della più forte fiammata di emigrazione italiana in Brasile. La coincidenza non è casuale.
Ed ecco il giocatore della Nazionale italiana Jorge Luiz Frello, detto Jorginho, l’idolo di tutti dopo Wembley, che irrompe in questa storia e dimostra che è tutto vero.
Carlo Collodi in quegli anni voleva mettere in guardia i migranti italiani dai “saltimbanchi” ma non ci riuscì con Giobatta Frello, trisavolo di Jorginho. Giobatta fu una vittima del tempo. Partito dall’altipiano di Asiago finì, dopo mille peripezìe, nell’orrore di Imbituba, nella provincia di Santa Catarina a Sud del Brasile, dove venne ridotto al rango di schiavo. Fu vittima della truffa organizzata da arruolatori di disperati che, in veste di compagnie di “saltimbanchi” facevano, come racconta in un documento padre Pietro Maldotti, «la propaganda più implacabile ed irrefrenabilmente più scandalosa fino a vedersene, nelle valli bergamasche, a predicare dalle carrozze, vestiti eccentricamente come saltimbanchi, su per i mercati e negli stessi sagrati delle chiese, facendo sognare ricchezze straordinarie e fortune colossali preparate per coloro che si fossero diretti in America». La truffa consisteva nel prestare i soldi per l’attraversata transoceanica fino al Brasile, con l’accordo che poi il prestito sarebbe stato facilmente restituito con i favolosi guadagni promessi. La realtà era un’altra. I poveretti, una volta arrivati in Brasile su carrette del mare, ammesso che ci arrivassero vivi, venivano inquadrati dai finanziatori come debitori di una somma che non sarebbero mai riusciti a ripagare e, trattenuti per garanzia, in un vero e proprio stato di schiavitù. Dopo lo sbarco venivano direttamente avviati a lavorare nelle piantagioni di caffè, di cotone, di canna da zucchero e alle miniere, dove erano venuti a mancare, per legge, gli schiavi neri. Il modo era esattamente identico a quanto succede oggi in certi posti del sud Italia con lo sfruttamento dei poveretti africani in mano ai “caporali”.
Il meccanismo della schiavizzazione dei bianchi era iniziato nel 1871 quando il primo ministro Josè Paranhos, visconte di Rio Branco, fece approvare dal parlamento brasiliano la “Ley do ventre libre”. Per effetto di quella legge, tutti i bambini che sarebbero nati dalle schiave nere, avrebbero goduto immediatamente dello status di “cittadino libero”. In breve i campi di lavoro si spopolarono di schiavi e fu necessario sostituirli con urgenza. In quegli anni, tutta l’Europa soffriva una crisi economica legata alla persistenza di un immenso latifondo inutilizzato ed all’industrializzazione con mezzi meccanici che aumentò il numero di disoccupati. I padroni delle piantagioni brasiliane, per riprendersi dalla scomparsa dei lavoratori schiavi a costo zero e preoccupati dall’improvvisa prevalenza di cittadini neri sui bianchi, organizzarono l’arruolamento di lavoratori bianchi europei in stato di povertà. Il metodo era semplice. Si organizzò una truffa colossale e capillare, con la promessa di favolosi guadagni con cui sarebbe stato restituito il debito contratto per le spese di viaggio in nave. Una volta arrivati in Brasile, gli immigrati vi sbarcavano con il peso dell’enorme prestito e venivano costretti ad accettare contratti miserabili con cui non riuscivano nemmeno a sfamare mogli e figli. Moltissimi morivano nei primi mesi per fame e malattie.
I sopravvissuti venivano trasformati in veri e propri “schiavi bianchi”.
I missionari italiani raccolsero prove di questi abusi e presentarono petizioni al Governo Italiano, affinché intervenisse a fermare quella truffa infernale. Il Governo reagì con la legge n. 2 del 31 gennaio 1901 ad opera del ministro degli Esteri Giulio Nicolò Prinetti. La legge disattivò il nodo centrale del meccanismo truffaldino:
il decreto proibì l’espatrio con viaggio pagato dal Brasile; da allora nessuno potè più partire usando prestiti brasiliani. Inoltre, venne istituito il “Commissariato Generale delle Emigrazione” che mise in atto questi provvedimenti:
– L’Italia si impegnava a proteggere i diritti dei migranti assicurando la sua protezione.
– Potevano gestire i viaggi transoceanici dei migranti soltanto le compagnie ritenute idonee dal Governo e che ottenevano la “patente di Vettore”.
– Erano consentiti imbarchi per l’emigrazione soltanto da tre porti autorizzati : Palermo, Napoli, Genova.
– Una “ Commissione Ispettiva” verificava che le navi fossero in possesso dei requisiti sanitari previsti dalla normativa.
– Al momento della partenza, saliva a bordo una Commissione governativa costituita da medici e militari che sorvegliava affinché le disposizioni di legge fossero rispettate e gli spazi a disposizione dei migranti fossero adeguati.
– Nel porto di arrivo i migranti trovavano ad accoglierli Patronati ed Enti di tutela del governo italiano che fornivano assistenza legale e sanitaria.

Nella metafora di “Pinocchio” sono rappresentati i grandi problemi di oggi:
– Il problema sanitario: come Pinocchio seppellì le monete d’oro con la promessa che sarebbe spuntato un albero di monete noi ci troviamo oggi a vedere il seppellimento dei nostri Ospedali nella promessa che poi spunti un Ospedale “Unico”.
– Il problema immigrazione : anche quei poveretti che oggi attraversano il Mediterraneo su carrette del mare, come il trisavolo di Jorginho sono stati spinti qui dai “saltimbanchi” dei loro paesi per trovarsi poi schiavi più di prima. Se l’Italia avesse un accordo bilaterale con i Paesi dei migranti, come la Legge Prinetti del 1901, non avremmo tanti disperati in mano agli scafisti.
– Il problema della ripresa economica con i sussidi e i prestiti europei: c’è da sperare che il Governo Draghi sia la “Fata Turchina” che ci salverà dal Gatto e la Volpe, e dalle torme di affaristi che saranno già in movimento.
Carlo Collodi “docet”, e alla fine ci fa anche capire che le fate non sono la soluzione, ma che dobbiamo salvarci da soli dai gatti, dalle volpi e dai saltimbanchi.

Mario Marroccu

E’ stata diffusa nei giorni scorsi l’intervista che il Direttore di “La Provincia del Sulcis Iglesiente”, Giampaolo Cirronis, ha raccolto dal dr. Rinaldo Aste il giorno della sua andata in pensione. Fino a pochi giorni fa, Rinaldo Aste era il Primario del reparto di Cardiologia dell’Ospedale Sirai di Carbonia. Ha lasciato l’Ospedale l’ultimo dei suoi Fondatori. In ordine storico, tra i “Primari fondatori” della Medicina Interna, si annoverano il dr. Enrico Pasqui, il dr. Cesare Saragat, il dr. Giorgio Mirarchi ed il dr. Rinaldo Aste.
I medici illustri che hanno fatto crescere il capitale di valore umano e scientifico del Sirai, sono molti, ma i componenti di questo elenco hanno generato, ognuno per la sua parte, nuove unità operative specialistiche che ora sono patrimonio definitivo della Comunità di Carbonia e del Sulcis: la Medicina Interna, la Cardiologia, la Neurologia, il Laboratorio, il Centro Trasfusionale, la Pediatria, la Nefrologia e Dialisi.
Come diceva il dr. Gaetano Fiorentino, primo Direttore Sanitario dell’Ospedale Sirai, «i Medici sono come l’acqua. Quando c’è, trovi naturale che ci sia e la ignori; quando manca ti accorgi della sua importanza». Ora stiamo facendo i conti con questa mancanza.
La politica di contabilità sanitaria degli ultimi 20 anni ha spogliato gli ospedali di personale, servizi ed attrezzature. L’Ospedale Sirai ha avuto un duro colpo che si è riflesso sul benessere fisico ed esistenziale del territorio; esso, infatti, non è soltanto una struttura muraria contenente Medici, Infermieri e Impiegati, è anche un luogo dell’identità collettiva. Nella visione popolare è il luogo sicuro, dove si registrano le fasi più importanti della vita, è cioè il luogo dove:
– si nasce in sicurezza,
– si curano le malattie,
– si muore in modo civile.
L’Ospedale è un luogo carismatico che appartiene alla sfera del sentimento popolare del conforto solidale nel momento della sofferenza. E’ ben distante dall’idea di Centro gestionale della Sanità, la cui separazione dal popolo è colmata dall’incomunicabilità burocratica.
L’Ospedale di cui qui si tratta, ha due nature, quella fisica e quella immateriale. Ognuna è rappresentata da soggetti diversi: la burocrazia da una parte, l’apparato assistenziale dall’altra.
Una è radicata nel sentimento popolare, l’altra no.
Dall’incapacità di capire la differenza tra queste due diverse nature deriva, in generale, il degrado della comunicazione tra la politica amministrativa di questi ultimi 20 anni e l’apparato sanitario. Gli effetti sono ricaduti sui cittadini e ne abbiamo avuto una potente prova durante l’epidemia di Covid-19.
L’uscita di figure carismatiche dal nostro Ospedale esalterà il danno identitario e ciò avrà conseguenze pratiche. E’ come se da un corpo uscisse la mente, come avviene in certe malattie degenerative del sistema nervoso centrale che distruggono le famiglie. Così pure l’Ospedale è diventato un corpo a sé stante che obbedisce correttamente a logiche giuridico contabili ma che ha perso l’anima popolare solidale idealizzata nell’articolo 32 della Costituzione. La perdita di anima della Nuova Sanità è coerente con gli algoritmi rigorosi e ben schematizzati, per il funzionamento di una macchina teorica, ma lontani dal bisogno popolare di fiducia nei suoi curanti e di conforto.
Il contatto con il popolo è interrotto. L’isolamento dell’Ospedale durante l’Epidemia ne ha esaltato la distanza. Oggi, sentita anche la protesta dei Sindaci della Sardegna che chiedono di partecipare al nuovo progetto di sanità finanziato dal Next Generation EU (prossima generazione europea), abbiamo la prova certa che esiste il bisogno diffuso di costruire quel luogo della mente del Sirai in cui deve tornare a rispecchiarsi l’alleanza sociale.
Se ciò non avvenisse, ne nascerebbe la delusione, la tristezza, il distacco. Togliendo l’Ospedale dalla città di Carbonia si annullerebbe l’idea stessa di città, e al suo posto si creerebbe la necessità di identificarsi in un altro luogo ideale a cui appartenere. Per i nostri giovani quel luogo potrebbe essere Cagliari, Sassari o Milano; cioè un luogo dell’immaginario collettivo dove i servizi essenziali esistono e funzionano. Ne nascerebbe la ricerca di un altro luogo dove andare a nascere, a farsi curare e a morire.
Non è strano che quest’anno, sino ad oggi, siano nati nella nostra ASL solo 133 bambini. Nel 1970 al Sirai nacquero 2.000 bambini, e altri 1.000 nacquero ad Iglesias. Mancano al conto 2.867 nuovi nati. Questo numero non si spiega con la curva demografica. Si spiega con lo spostamento delle giovani coppie in altri luoghi più serviti.
Lo spopolamento inizia così: con l’idealizzazione di un luogo in cui migrare alla ricerca di più sicurezza, cultura, solidarietà, giustizia, lavoro.
Queste sono le conseguenze pratiche della perdita delle istituzioni identitarie e dei carismi che vi risiedono.
L’uscita di scena di figure sanitarie, con il carisma di Fondatore dell’Ospedale, obbliga a riflettere sul fatto che la macchina sanitaria pubblica non è solo il luogo del padrone contabile del momento, ma è proprietà identitaria della popolazione, e la popolazione non si identifica con i manager ma con gli operatori sanitari che essa stessa ha generato. La Nuova Sanità non si può costruire solo con complessi algoritmi ma con l’introduzione di nuovo Personale che apporti umanità, creatività, passione e competenza.

Note biografiche e professionali del dr. Rinaldo Aste

E’ nato a Carloforte, 67 anni fa, dal mitico Maestro e Compositore di Opere musicali Angelo Aste. Questi era figlio di un altro Rinaldo, anch’esso musicista, ed era un artista talmente apprezzato che lo stesso papa Paolo VI lo investì del cavalierato dell’Ordine di san Silvestro.
La certificazione del DNA musicale del dr. Rinaldo Aste, cardiologo, è importante. Forse proprio per questo era destinato, nella vita professionale di Medico, ad accordare il ritmo cardiaco con i Pacemakers ai pazienti cardiologicamente fuori tempo.
Fu acquisito all’équipe del dr Enrico Pasqui a Carbonia nel 1983 e, nonostante fosse già specialista in Malattie Infettive, non resistette al richiamo dell’elettrofisiologia applicata alla Cardiologia. Nel 1988 applicò il primo PaceMaker nel Reparto Medicina dell’Ospedale di Carbonia quando era appena fresco di specializzazione. Erano tempi in cui, per la patologia della conduzione del ritmo cardiaco, bisognava rivolgersi alla Clinica Aresu di Cagliari, a Milano o a Londra. Chi lo vide eseguire l’intervento ricorda con quale precisione e freddezza introdusse una grossa cannula nella vena succlavia sinistra del paziente, ottenendo un iniziale impressionante fiotto di sangue. Per chi non lo sapesse quel metodo percutaneo era allora praticato in Italia da pochissime persone e l’abilità manuale, che ne riduceva la pericolosità, si acquisiva dopo un training di anatomia chirurgica molto severo.

Da precursore del metodo, Rinaldo Aste si trasformò in abituale impiantatore di stimolatori cardiaci e visse più tempo sotto le radiazioni degli intensificatori di brillanza in sala operatoria che alla luce del sole. Da allora, ha impiantato l’importante numero di oltre 2.500 pacemakers e defibrillatori biventricolari. Da alcuni anni aveva iniziato ad impiantare anche sistemi di controllo digitale a distanza del ritmo cardiaco nei pazienti a rischio. Per capirci, se il giocatore, della nazionale di calcio danese, Christian Eriksen, fosse passato all’Ospedale di Carbonia prima della partita Danimarca-Finlandia, il dr. Rinaldo Aste gli avrebbe impiantato sottocute l’antenna del rilevatore di anomalie del ritmo e l’arresto cardiaco sarebbe stato prevenuto.

Mario Marroccu