16 April, 2025
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Gentile Direttore, non è consuetudine dell’Ordine di entrare nel merito di libere riflessioni pubblicate sul suo giornale da chiunque e a qualunque titolo poste in essere in tema di sanità pubblica e privata, ospedaliera o territoriale, di qualità o critica. Le chiedo, oggi, di ospitare una breve replica alle fuorvianti considerazioni del dr. Mario Marroccu sugli Ospedali di Comunità, che nel Sulcis Iglesiente non esistono, e sulla professione infermieristica che presiedo nel Sulcis Iglesiente e che è ben impegnata in tutt’altro che in mansioni di mera igiene alla persona.

In tutta Italia gli ospedali di comunità sono un luogo vicino ai cittadini, riconoscibile dai cittadini, aperto all’azione infermieristica ai cittadini. Non nel Sulcis Iglesiente e in ASSL Carbonia, dove il suo numero equivale a zero. In tutta Italia, per sua natura l’infermieristica si integra con i professionisti sanitari del territorio, è un vaso comunicante in un sistema di vasi comunicanti e non ha interesse alcuno a proporsi autoreferenzialmente e a collocarsi in una posizione di non veduta e di non ascolto. Anche nel Sulcis Iglesiente e in ASSL Carbonia, dove il numero degli Ospedali di Comunità equivale a zero, l’infermieristica si integra e si relaziona con il sistema e non si isola in se stessa.

In tutta Italia l’Ospedale di Comunità non è un progetto, è un’opportunità residenziale in grado di erogare assistenza sanitaria di breve durata, quindi dedicata ai cittadini utenti del SSN che, pur non presentando patologie acute ad elevata necessità di assistenza medica, non possono tuttavia essere assistiti adeguatamente a domicilio per motivi socio sanitari. E il territorio del Sulcis Iglesiente, significativamente intriso di motivazioni ostative ad una presa in carico domiciliare, è privo di Ospedali di Comunità.

La responsabilità clinica di un Ospedale di Comunità è di un medico di medicina generale, la responsabilità organizzativa e gestionale di ogni singolo modulo tocca invece al coordinatore infermieristico.

La responsabilità assistenziale spetta ovviamente all’infermiere secondo il proprio profilo professionale, il proprio Codice Deontologico, le proprie competenze ed esperienze, e garantendo la continuità assistenziale nelle 24 ore. Durante le ore diurne si avvale del responsabile clinico della struttura, nelle ore notturne e nei giorni festivi e nelle ore prefestive si attiva quando necessario con il l Servizio di continuità assistenziale, ed in caso di emergenza attiva il Sistema di Emergenza Urgenza territoriale, come avviene in tutti i servizi sanitari extra-ospedalieri.

All’interno dell’ospedale di comunità è inoltre inserito l’operatore socio-sanitario, responsabile di attività e funzioni domestico alberghiere.

Piaccia o meno, è quindi un modello multidisciplinare.

Non riconoscere, ostinarsi a non riconoscere o non avere proprio contezza urbi et orbi dell’evidenza che l’Ospedale di Comunità svolgerebbe una funzione intermedia tra il domicilio e il ricovero ospedaliero, è quantomeno ingeneroso ed anacronistico, pur comprendendo la forma mentis di un esercizio professionale medico ancorato al passato e superato dai tempi e dati fatti.

Ridurre quindi la digressione sugli Ospedali di Comunità focalizzandosi su un presunto limite nell’agire infermieristico e su un altrettanto fantomatico esercizio professionale basato su mansioni e non su competenze, non rende un buon servizio alla corretta informazione.

L’art. 44 della legge di riordino della rete ospedaliera è identico all’art. 8 della legge regionale 17 novembre 2014 n. 23. Gli Ospedali di Comunità devono essere resi fruibili e non solo previsti sulla carta. Se resta una scatola vuota l’Ospedale di Comunità previsto nell’ex Civile di Iglesias, meglio comunque nemmeno prevederlo, anche se qualcuno parrebbe non essersi accorto della sua inesistenza, e quindi una domanda sorge spontanea: ma di cosa stiamo parlando?

Tanto ritenevo di portare alla sua attenzione e di quella dei suoi lettori per una corretta informazione-

Graziano Lebiu

Presidente OPI Carbonia Iglesias

Dai quotidiani sardi ci provengono tre generi di notizie preoccupanti:

  • Gli incendi 
  • Il ritorno in “zona gialla”
  • La carenza  di medici.

Gli incedi sono dovuti alla meteorologia e a calcoli criminali.

La “zona gialla” è una minaccia concreta.

La mancanza di medici è invece un mistero da chiarire, visto l’enorme numero di medici in pensione non utilizzati.

Gli unici che si preoccupano e che si agitano, nella piramide della politica, sono i sindaci. Ovunque, in Sardegna, avvengono manifestazioni spontanee di Sindaci, con tanto di fascia tricolore a tracolla, che sfilano in piazza per protestare, ritenendo che la carenza dei medici di base nei paesi e nei Pronto soccorso degli ospedali sia una forma di abbandono delle autorità sovraordinate. Paradigmatica è stata la dimostrazione di sindaci nella superstrada 131.

Negli ospedali di Iglesias e Carbonia il depauperamento degli organici negli ospedali è serio: i reparti di ricovero e servizi specialistici sono dimezzati, gli altri reparti sono  ridotti ad un quarto del personale medico e tecnico; altri reparti ancora sono costretti ad essere accorpati e ridotti per sopravvivere; altri ancora sono chiusi per consentire le ferie estive che la legge impone al personale. Tutto questo, sta avvenendo nel bel mezzo di una pandemia recrudescente.

In questo periodo vacanziero, da cui proviene il 13 per cento del PIL nazionale, stanno avvenendo manifestazioni contro il green pass; c’è chi ritiene che bastino i vaccini a fermare il virus. Ciò avviene, nonostante i mezzi governativi di informazione stiano ripetendo che c’è una ripresa della mortalità da Covid-19 e che il 14 per cento dei morti è stato vaccinato con due dosi; tale dato certifica che il vaccino non protegge dal virus ma serve ad attenuare la gravità della malattia. Tutti, anche i vaccinati, la possono contrarre, ne è la dimostrazione il caso del signor G.L di Carbonia, anni 74,  regolarmente vaccinato con due dosi, che questi giorni è finito sui giornali perché, avendo manifestato i sintomi ingravescenti di un Covid-19 in forma acuta, è finito all’ospedale Sirai; da qui, imbarcato su un’ambulanza, è stato trasferito all’ospedale Binaghi di Cagliari. Giunto al Binaghi, che funge da centro per pazienti Covid, i medici si sono affrettati a comunicargli che il loro reparto era pieno di malati in terapia intensiva e non potevano accettarlo. Il nostro concittadino è rimasto ricoverato nell’abitacolo dell’ambulanza per 24 ore, in attesa che si liberasse un posto letto nella struttura ospedaliera.

Qui si delinea un mistero della nostra ASSL. Abbiamo dimenticato che un anno fa venne deliberato dalla Giunta regionale l’istituzione di un Covid-hospital al Santa Barbara di Iglesias per accogliere i pazienti del Sulcis Iglesiente. L’omissione è finita nella “cupio dissolvi” della nostra organizzazione sanitaria. Iglesias, tra le nostre città, è la più colpita dall’impoverimento sanitario. In questi giorni, al CTO di Iglesias verrà chiuso il reparto di Chirurgia generale per mancanza di personale medico ed infermieristico, e tutte le urgenze verranno convogliate al Sirai di Carbonia. Anche a Carbonia vi è il problema del personale medico ed infermieristico e, per compensare la carenza d’organico, si sono dovuti accorpare due reparti chirurgici, riducendone le sedute operatorie routinarie ad una per settimana. Tutto ciò, è conseguenza della penuria cronica di personale;  non ci risulta che esista un piano strategico risolutore, e nessuno avanza proposte.

Per la verità, un Piano c’è, ed è molto grosso: si chiama PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza). La parte del Piano che dovrebbe ricostituire la macchina sanitaria si chiama “Missione 6”. L’ha confezionata il governo Draghi ed è stata approvata dalla Commissione europea da Ursula Van der Leyen. Il finanziamento messo a disposizione dall’Europa è enorme. Si tratta di 209 miliardi di euro. Di questi, ben 80 miliardi sono un regalo dell’Europa, mentre 129 miliardi sono puro debito da restituire. Il finanziamento eccezionale va speso entro i prossimi 5 anni. Ben 20 miliardi del Piano sono destinati alla Sanità. Cinque miliardi sono stati già impiegati per altro; ne rimangono 15 da spendere.

Le voci di spesa sono queste:

  • Digitalizzazione del SSN (Sistema Sanitario Nazionale);
  • Medicina di prossimità nel territorio (Case della salute e Ospedali di Comunità); 
  • Strumenti tecnologici (TAC; risonanze magnetiche; ecografi, etc…)
  • Finanziamento Centri di Ricerca;
  • Corsi di aggiornamento per il personale dipendente;
  • Ristrutturazione degli Ospedali fatiscenti.

Gli Ospedali in Italia sono tanti ma soltanto 280 di essi sono veramente importanti. Sono quelli di I e di II livello. In Sardegna ci sono 2 ospedali di II livello (Brotzu e Azienda ospedaliero universitaria di Sassari) e 7 ospedali di I livello. L’ospedale Sirai di Carbonia è uno di questi 7. Questi ospedali verranno dotati di formidabili  apparecchiature tecnologiche e qui scatta un primo mistero: non verranno assunti né medici, né infermieri, né tecnici a tempo indeterminato. Ciò avverrà perché esiste l’ordine della UE di non aumentare la “spesa corrente.  La “spesa corrente” dello Stato è quella che tutti i mesi finanzia gli stipendi dei dipendenti e le pensioni. Ne consegue che è vietato assumere per non generare altra spesa corrente. Sono ammesse solo assunzioni temporanee. La domanda che sorge è questa: «Chi dovrebbe far funzionare le TAC e le Risonanze Magnetiche se non verrà assunto il personale specializzato dedicato? Lo sanno che al Sirai di Carbonia avevamo 9 radiologi e che oggi sono ridotti a 3?». Lo stesso ragionamento si applica per i tecnici specializzati. Conclusione: sugli ospedali e, soprattutto, su quelli del Sulcis Iglesiente, pende la “Spada di Damocle” del fallimento. Da questo si desume che tutti noi siamo candidati al destino del signor G.L. di 74 anni di Carbonia, ad essere rifiutati dal nostro Ospedale, ad essere imbarcati su un’ambulanza che dovrà condurci verso una destinazione senza speranza: gli ospedali respingenti di Cagliari.

Una grossa somma del Piano PNRR di Draghi è destinato alla “medicina di prossimità” nel territorio: si tratta della costruzione delle “ Case della salute” e degli “Ospedali di comunità”. Le prime non sono altro che gli attuali poliambulatori. Anche qui non si prevede l’assunzione di medici specialisti, però si prevede che vadano a lavorarci i medici di base. Per ora, si tratta solo di una ipotesi, perché tutti i sindacati dei medici di base non sono d’accordo e i medici staranno nei loro ambulatori.

Per quanto riguarda gli “Ospedali di Comunità” si progetta di darli in gestione agli Infermieri. E’ evidente che, senza i medici, gli infermieri, che non potranno certificare diagnosi né prescrivere farmaci, si limiteranno alla cura della persona (igiene) e i malati veri verranno inviati in ospedale; qui, per i motivi organizzativi anzidetti, faranno la fine del signor G.L. di Carbonia, ed imbarcati su un’ambulanza con destinazione…il nulla.

Con i fondi del PNRR verrà creata una rete digitale per la comunicazione tra il paziente adagiato a casa e l’ospedale; attraverso essa i nostri anziani avranno una pronta consulenza. E’ evidente che il redattore del Piano non ha esperienza di quanto sia difficile parlare con i pochi medici dei nostri ospedali, oberati da un lavoro che li assorbe totalmente; figuriamoci quanto saranno disponibili a rispondere alle infinite e-mail che riceverebbero dai 128.000 potenziali malati o parenti di malati del nostro territorio.  Non mi sembra tanto realistica neppure l’idea che vengano facilmente prodotti a domicilio tanti esami ECG e tante ecografie da spedire al cardiologo o al radiologo o al chirurgo dell’ospedale, visto la carenza disastrosa di medici di base nel territorio. Si tratta di un piano grandioso di acquisto di attrezzature tecnologiche che finiranno in un sottoscala visto che non è stata prevista l’assunzione del personale medico che dovrebbe utilizzarle.   

Senza il personale non si andrà da nessuna parte. Il PNRR ne vieta l’assunzione a tempo indeterminato e tutto comincia ad avere i connotati di un grande sogno a cui seguirà un brusco risveglio in un mare di debiti da ripianare.

Il caso del signor G.L. di Carbonia è un sintomo certo di una patologia che sta covando e stupisce che nei giornali e nella politica manchi un benché minimo accenno di dibattito su questo tema.

Gli unici che hanno percepito questa anomalia sono i sindaci, scendendo in piazza con striscioni e bloccando il traffico nella Superstrada per Sassari. Sono gli unici che hanno percepito che “non di apparecchiature TAC vive la Sanità” ma di “personale”.

Le radici dei mali del Sistema Sanitario Nazionale si trovano nel passato.

Dopo i tempi meravigliosi sperimentati con la Riforma 833/1978 del SSN, di Tina Anselmi, si iniziò l’arretramento sanitario nel 1992 col ministro liberale Francesco De Lorenzo. Quel ministro decretò il passaggio alla “privatizzazione” della Sanità pubblica. Con tale formula si intendeva risparmiare sulla Sanità attraverso la riduzione della spesa per il personale ed i Servizi.

Nel 1999 il sistema di risparmio venne regolamentato dalla ministra Rosy Bindi.

Poi nell’anno 2004, col Dlgs 311, il Governo Berlusconi pose un tetto alla spesa sanitaria minimizzando la sostituzione del personale andato in quiescenza. Addirittura si decretò che la spesa sanitaria, per ogni anno successivo, diminuisse del 1,4 per cento rispetto alla spesa del 2004.

Nel 2012, ai tempi del Governo Monti, il ministro Balduzzi ridusse drasticamente il numero dei posti letto negli ospedali da 6 posti letto per 1.000 abitanti a 3,7 posti letto per 1.000 abitanti. Proporzionalmente si ridusse il personale dipendente. Erano gli anni in cui in tutti i decreti compariva il proposito di “efficienza ed efficacia”. Con tali termini si intendeva «spendere di meno, con meno personale, ottenendo gli stessi risultati assistenziali».

Nell’anno 2015, col governo di Matteo Renzi, venne varata la legge nota con la sigla DM 70. Questa legge pose altri limiti ai posti letto e al personale.

Gli esecutori regionali sardi, nell’applicare la legge furono “più realisti del re”. Fu un disastro. Non soltanto non vennero rispettati i bassi parametri di posti letto e personale che ci veniva riconosciuto ma, per il Sulcis Iglesiente si procedette alla chiusura definitiva di reparti ospedalieri e dal depauperamento del personale medico e infermieristico ancora superstite.

Dal 1° gennaio 2020 la Sardegna è passata dalla Riforma della ATS alla riforma della ARES. Anche con questa Riforma non è stato preso in considerazione l’aumento dell’organico del personale sanitario.

Ora siamo in attesa di una legge che definisca i nuovi standard sugli organici del personale dei Servizi sanitari della Sardegna. E’ necessario che qualcuno dei nostri segua bene l’iter di questa nuova legge e verifichi che il nostro territorio non venga ulteriormente sacrificato.

Da questa ricostruzione storica si ricava l’informazione che il disastro sanitario in cui ci troviamo ha i nomi e i cognomi degli autori. Hanno partecipato tutte le parti politiche e tutte, alla pari, ne hanno la responsabilità.

Ci rimane una speranza. I sindaci.

Tuttavia i sindaci hanno bisogno d’essere sostenuti dall’opinione pubblica, la quale dovrebbe controllare i controllori che sono stati eletti.

Chi sono i controllori? Sono i rappresentanti dei cittadini inviati alla Regione, alla Provincia, alle Camere e al Governo.

Ma ancora più responsabili sono i controllori dei controllori, cioè Noi stessi.

Onestamente tutto questo disastro l’abbiamo lasciato crescere senza controllo e ne siamo responsabili. Siamo Noi stessi gli  autori della triste esperienza in cui è incappato il concittadino  G.L., di 74 anni, di Carbonia. Siamo in molti: 128.000 abitanti del Sulcis Iglesiente, e abbiamo la colpa di non aver stimolato adeguatamente i nostri rappresentanti. 

Mario Marroccu

Nella foto di copertina i sindaci della provincia di Oristano che hanno manifestato due settimane fa uniti in difesa del sistema sanitario territoriale

L’Ospedale Sirai fu un Presidio Ospedaliero che fungeva anche da “Casa della Salute” e da “Ospedale di Comunità”, in esso si sommavano sia la funzione ospedaliera che la funzione di ente di ricovero intermedio per la preparazione al “ritorno a casa”. Fungeva anche da “Hospice” per i malati tumorali terminali e da “Centro di Terapia Antalgica”. Il ricovero poteva durare pochi giorni o mesi. Oggi il Piano Sanitario Nazionale prevede che i ricoveri avvengano solo per ragioni puramente sanitarie e non debbano durare più di 7 giorni. Per mantenere la media sotto i 7 giorni, molti ricoveri durano solo 24 o 72 ore.
L’Ospedale degli anni ’70 e ’80, viceversa, aveva una missione sanitaria e anche sociale e a, tal fine, era organizzato come un’autarchica “Cittadella Ospedaliera”.
Oltre ai reparti di degenza per acuti e di lungodegenza, vi erano tutti i Servizi necessari ad una “comunità socio-sanitaria autonoma”: le cucine, la lavanderia e la stireria, la sartoria, la falegnameria, l’officina meccanica, gli idraulici, i carpentieri, i muratori, gli elettricisti, la centrale per la generazione autonoma di corrente elettrica e le caldaie, le case per le suore, per i medici e la chiesa col suo prete. Il prete si chiamava don Luigi Tarasco. Dato che allora si moriva molto (6-8 al giorno) e si nasceva molto (6-8 al giorno), don Luigi era molto attivo: molte estreme unzioni, molti battesimi, qualche matrimonio, e una Schola Cantorum. Politicamente era un Don Camillo alla Guareschi ed aveva il suo fucile da caccia e il cane per i tordi e le lepri di monte Rosmarino e di Santa Giuliana.
Raccontava d’essere giunto a Carbonia dal suo paese natale: Collodi, il paese di Pinocchio. «La storia del burattinoegli spiegava -, è la metafora della vita». Quel racconto serviva a mettere in guardia da quel genere di “Saltimbanchi” che avevano convinto Lucignolo e Pinocchio a seguirli verso il “Paese dei balocchi”. Poi quando i due si accorsero di avere la coda, gli zoccoli e le orecchie lunghe, capirono in ritardo d’essere caduti in inganno: erano pronti ad essere trasformati in tamburi di pelle d’asino. Don Luigi diceva: «Il problema nella vita è come fare a riconoscere i saltimbanchi«. Pinocchio, per don Luigi, non era una semplice favola ma era il racconto di un fatto reale che può capitare a tutti, e da cui bisogna guardarsi.
Carlo Collodi finì di scrivere “Pinocchio” nel 1883 proprio nel tempo della più forte fiammata di emigrazione italiana in Brasile. La coincidenza non è casuale.
Ed ecco il giocatore della Nazionale italiana Jorge Luiz Frello, detto Jorginho, l’idolo di tutti dopo Wembley, che irrompe in questa storia e dimostra che è tutto vero.
Carlo Collodi in quegli anni voleva mettere in guardia i migranti italiani dai “saltimbanchi” ma non ci riuscì con Giobatta Frello, trisavolo di Jorginho. Giobatta fu una vittima del tempo. Partito dall’altipiano di Asiago finì, dopo mille peripezìe, nell’orrore di Imbituba, nella provincia di Santa Catarina a Sud del Brasile, dove venne ridotto al rango di schiavo. Fu vittima della truffa organizzata da arruolatori di disperati che, in veste di compagnie di “saltimbanchi” facevano, come racconta in un documento padre Pietro Maldotti, «la propaganda più implacabile ed irrefrenabilmente più scandalosa fino a vedersene, nelle valli bergamasche, a predicare dalle carrozze, vestiti eccentricamente come saltimbanchi, su per i mercati e negli stessi sagrati delle chiese, facendo sognare ricchezze straordinarie e fortune colossali preparate per coloro che si fossero diretti in America». La truffa consisteva nel prestare i soldi per l’attraversata transoceanica fino al Brasile, con l’accordo che poi il prestito sarebbe stato facilmente restituito con i favolosi guadagni promessi. La realtà era un’altra. I poveretti, una volta arrivati in Brasile su carrette del mare, ammesso che ci arrivassero vivi, venivano inquadrati dai finanziatori come debitori di una somma che non sarebbero mai riusciti a ripagare e, trattenuti per garanzia, in un vero e proprio stato di schiavitù. Dopo lo sbarco venivano direttamente avviati a lavorare nelle piantagioni di caffè, di cotone, di canna da zucchero e alle miniere, dove erano venuti a mancare, per legge, gli schiavi neri. Il modo era esattamente identico a quanto succede oggi in certi posti del sud Italia con lo sfruttamento dei poveretti africani in mano ai “caporali”.
Il meccanismo della schiavizzazione dei bianchi era iniziato nel 1871 quando il primo ministro Josè Paranhos, visconte di Rio Branco, fece approvare dal parlamento brasiliano la “Ley do ventre libre”. Per effetto di quella legge, tutti i bambini che sarebbero nati dalle schiave nere, avrebbero goduto immediatamente dello status di “cittadino libero”. In breve i campi di lavoro si spopolarono di schiavi e fu necessario sostituirli con urgenza. In quegli anni, tutta l’Europa soffriva una crisi economica legata alla persistenza di un immenso latifondo inutilizzato ed all’industrializzazione con mezzi meccanici che aumentò il numero di disoccupati. I padroni delle piantagioni brasiliane, per riprendersi dalla scomparsa dei lavoratori schiavi a costo zero e preoccupati dall’improvvisa prevalenza di cittadini neri sui bianchi, organizzarono l’arruolamento di lavoratori bianchi europei in stato di povertà. Il metodo era semplice. Si organizzò una truffa colossale e capillare, con la promessa di favolosi guadagni con cui sarebbe stato restituito il debito contratto per le spese di viaggio in nave. Una volta arrivati in Brasile, gli immigrati vi sbarcavano con il peso dell’enorme prestito e venivano costretti ad accettare contratti miserabili con cui non riuscivano nemmeno a sfamare mogli e figli. Moltissimi morivano nei primi mesi per fame e malattie.
I sopravvissuti venivano trasformati in veri e propri “schiavi bianchi”.
I missionari italiani raccolsero prove di questi abusi e presentarono petizioni al Governo Italiano, affinché intervenisse a fermare quella truffa infernale. Il Governo reagì con la legge n. 2 del 31 gennaio 1901 ad opera del ministro degli Esteri Giulio Nicolò Prinetti. La legge disattivò il nodo centrale del meccanismo truffaldino:
il decreto proibì l’espatrio con viaggio pagato dal Brasile; da allora nessuno potè più partire usando prestiti brasiliani. Inoltre, venne istituito il “Commissariato Generale delle Emigrazione” che mise in atto questi provvedimenti:
– L’Italia si impegnava a proteggere i diritti dei migranti assicurando la sua protezione.
– Potevano gestire i viaggi transoceanici dei migranti soltanto le compagnie ritenute idonee dal Governo e che ottenevano la “patente di Vettore”.
– Erano consentiti imbarchi per l’emigrazione soltanto da tre porti autorizzati : Palermo, Napoli, Genova.
– Una “ Commissione Ispettiva” verificava che le navi fossero in possesso dei requisiti sanitari previsti dalla normativa.
– Al momento della partenza, saliva a bordo una Commissione governativa costituita da medici e militari che sorvegliava affinché le disposizioni di legge fossero rispettate e gli spazi a disposizione dei migranti fossero adeguati.
– Nel porto di arrivo i migranti trovavano ad accoglierli Patronati ed Enti di tutela del governo italiano che fornivano assistenza legale e sanitaria.

Nella metafora di “Pinocchio” sono rappresentati i grandi problemi di oggi:
– Il problema sanitario: come Pinocchio seppellì le monete d’oro con la promessa che sarebbe spuntato un albero di monete noi ci troviamo oggi a vedere il seppellimento dei nostri Ospedali nella promessa che poi spunti un Ospedale “Unico”.
– Il problema immigrazione : anche quei poveretti che oggi attraversano il Mediterraneo su carrette del mare, come il trisavolo di Jorginho sono stati spinti qui dai “saltimbanchi” dei loro paesi per trovarsi poi schiavi più di prima. Se l’Italia avesse un accordo bilaterale con i Paesi dei migranti, come la Legge Prinetti del 1901, non avremmo tanti disperati in mano agli scafisti.
– Il problema della ripresa economica con i sussidi e i prestiti europei: c’è da sperare che il Governo Draghi sia la “Fata Turchina” che ci salverà dal Gatto e la Volpe, e dalle torme di affaristi che saranno già in movimento.
Carlo Collodi “docet”, e alla fine ci fa anche capire che le fate non sono la soluzione, ma che dobbiamo salvarci da soli dai gatti, dalle volpi e dai saltimbanchi.

Mario Marroccu

E’ stata diffusa nei giorni scorsi l’intervista che il Direttore di “La Provincia del Sulcis Iglesiente”, Giampaolo Cirronis, ha raccolto dal dr. Rinaldo Aste il giorno della sua andata in pensione. Fino a pochi giorni fa, Rinaldo Aste era il Primario del reparto di Cardiologia dell’Ospedale Sirai di Carbonia. Ha lasciato l’Ospedale l’ultimo dei suoi Fondatori. In ordine storico, tra i “Primari fondatori” della Medicina Interna, si annoverano il dr. Enrico Pasqui, il dr. Cesare Saragat, il dr. Giorgio Mirarchi ed il dr. Rinaldo Aste.
I medici illustri che hanno fatto crescere il capitale di valore umano e scientifico del Sirai, sono molti, ma i componenti di questo elenco hanno generato, ognuno per la sua parte, nuove unità operative specialistiche che ora sono patrimonio definitivo della Comunità di Carbonia e del Sulcis: la Medicina Interna, la Cardiologia, la Neurologia, il Laboratorio, il Centro Trasfusionale, la Pediatria, la Nefrologia e Dialisi.
Come diceva il dr. Gaetano Fiorentino, primo Direttore Sanitario dell’Ospedale Sirai, «i Medici sono come l’acqua. Quando c’è, trovi naturale che ci sia e la ignori; quando manca ti accorgi della sua importanza». Ora stiamo facendo i conti con questa mancanza.
La politica di contabilità sanitaria degli ultimi 20 anni ha spogliato gli ospedali di personale, servizi ed attrezzature. L’Ospedale Sirai ha avuto un duro colpo che si è riflesso sul benessere fisico ed esistenziale del territorio; esso, infatti, non è soltanto una struttura muraria contenente Medici, Infermieri e Impiegati, è anche un luogo dell’identità collettiva. Nella visione popolare è il luogo sicuro, dove si registrano le fasi più importanti della vita, è cioè il luogo dove:
– si nasce in sicurezza,
– si curano le malattie,
– si muore in modo civile.
L’Ospedale è un luogo carismatico che appartiene alla sfera del sentimento popolare del conforto solidale nel momento della sofferenza. E’ ben distante dall’idea di Centro gestionale della Sanità, la cui separazione dal popolo è colmata dall’incomunicabilità burocratica.
L’Ospedale di cui qui si tratta, ha due nature, quella fisica e quella immateriale. Ognuna è rappresentata da soggetti diversi: la burocrazia da una parte, l’apparato assistenziale dall’altra.
Una è radicata nel sentimento popolare, l’altra no.
Dall’incapacità di capire la differenza tra queste due diverse nature deriva, in generale, il degrado della comunicazione tra la politica amministrativa di questi ultimi 20 anni e l’apparato sanitario. Gli effetti sono ricaduti sui cittadini e ne abbiamo avuto una potente prova durante l’epidemia di Covid-19.
L’uscita di figure carismatiche dal nostro Ospedale esalterà il danno identitario e ciò avrà conseguenze pratiche. E’ come se da un corpo uscisse la mente, come avviene in certe malattie degenerative del sistema nervoso centrale che distruggono le famiglie. Così pure l’Ospedale è diventato un corpo a sé stante che obbedisce correttamente a logiche giuridico contabili ma che ha perso l’anima popolare solidale idealizzata nell’articolo 32 della Costituzione. La perdita di anima della Nuova Sanità è coerente con gli algoritmi rigorosi e ben schematizzati, per il funzionamento di una macchina teorica, ma lontani dal bisogno popolare di fiducia nei suoi curanti e di conforto.
Il contatto con il popolo è interrotto. L’isolamento dell’Ospedale durante l’Epidemia ne ha esaltato la distanza. Oggi, sentita anche la protesta dei Sindaci della Sardegna che chiedono di partecipare al nuovo progetto di sanità finanziato dal Next Generation EU (prossima generazione europea), abbiamo la prova certa che esiste il bisogno diffuso di costruire quel luogo della mente del Sirai in cui deve tornare a rispecchiarsi l’alleanza sociale.
Se ciò non avvenisse, ne nascerebbe la delusione, la tristezza, il distacco. Togliendo l’Ospedale dalla città di Carbonia si annullerebbe l’idea stessa di città, e al suo posto si creerebbe la necessità di identificarsi in un altro luogo ideale a cui appartenere. Per i nostri giovani quel luogo potrebbe essere Cagliari, Sassari o Milano; cioè un luogo dell’immaginario collettivo dove i servizi essenziali esistono e funzionano. Ne nascerebbe la ricerca di un altro luogo dove andare a nascere, a farsi curare e a morire.
Non è strano che quest’anno, sino ad oggi, siano nati nella nostra ASL solo 133 bambini. Nel 1970 al Sirai nacquero 2.000 bambini, e altri 1.000 nacquero ad Iglesias. Mancano al conto 2.867 nuovi nati. Questo numero non si spiega con la curva demografica. Si spiega con lo spostamento delle giovani coppie in altri luoghi più serviti.
Lo spopolamento inizia così: con l’idealizzazione di un luogo in cui migrare alla ricerca di più sicurezza, cultura, solidarietà, giustizia, lavoro.
Queste sono le conseguenze pratiche della perdita delle istituzioni identitarie e dei carismi che vi risiedono.
L’uscita di scena di figure sanitarie, con il carisma di Fondatore dell’Ospedale, obbliga a riflettere sul fatto che la macchina sanitaria pubblica non è solo il luogo del padrone contabile del momento, ma è proprietà identitaria della popolazione, e la popolazione non si identifica con i manager ma con gli operatori sanitari che essa stessa ha generato. La Nuova Sanità non si può costruire solo con complessi algoritmi ma con l’introduzione di nuovo Personale che apporti umanità, creatività, passione e competenza.

Note biografiche e professionali del dr. Rinaldo Aste

E’ nato a Carloforte, 67 anni fa, dal mitico Maestro e Compositore di Opere musicali Angelo Aste. Questi era figlio di un altro Rinaldo, anch’esso musicista, ed era un artista talmente apprezzato che lo stesso papa Paolo VI lo investì del cavalierato dell’Ordine di san Silvestro.
La certificazione del DNA musicale del dr. Rinaldo Aste, cardiologo, è importante. Forse proprio per questo era destinato, nella vita professionale di Medico, ad accordare il ritmo cardiaco con i Pacemakers ai pazienti cardiologicamente fuori tempo.
Fu acquisito all’équipe del dr Enrico Pasqui a Carbonia nel 1983 e, nonostante fosse già specialista in Malattie Infettive, non resistette al richiamo dell’elettrofisiologia applicata alla Cardiologia. Nel 1988 applicò il primo PaceMaker nel Reparto Medicina dell’Ospedale di Carbonia quando era appena fresco di specializzazione. Erano tempi in cui, per la patologia della conduzione del ritmo cardiaco, bisognava rivolgersi alla Clinica Aresu di Cagliari, a Milano o a Londra. Chi lo vide eseguire l’intervento ricorda con quale precisione e freddezza introdusse una grossa cannula nella vena succlavia sinistra del paziente, ottenendo un iniziale impressionante fiotto di sangue. Per chi non lo sapesse quel metodo percutaneo era allora praticato in Italia da pochissime persone e l’abilità manuale, che ne riduceva la pericolosità, si acquisiva dopo un training di anatomia chirurgica molto severo.

Da precursore del metodo, Rinaldo Aste si trasformò in abituale impiantatore di stimolatori cardiaci e visse più tempo sotto le radiazioni degli intensificatori di brillanza in sala operatoria che alla luce del sole. Da allora, ha impiantato l’importante numero di oltre 2.500 pacemakers e defibrillatori biventricolari. Da alcuni anni aveva iniziato ad impiantare anche sistemi di controllo digitale a distanza del ritmo cardiaco nei pazienti a rischio. Per capirci, se il giocatore, della nazionale di calcio danese, Christian Eriksen, fosse passato all’Ospedale di Carbonia prima della partita Danimarca-Finlandia, il dr. Rinaldo Aste gli avrebbe impiantato sottocute l’antenna del rilevatore di anomalie del ritmo e l’arresto cardiaco sarebbe stato prevenuto.

Mario Marroccu

Nel 1945, negli Stati del Sud degli Stati Uniti d’America, si producevano quantità enormi di pomodori e per la raccolta si impegnavano innumerevoli squadre di raccoglitori. In quell’anno venne inventata una macchina che tagliava le piantine con i pomodori maturi e le metteva in carrelli che finivano in stazioni di cernita per lo stoccaggio. Le macchine ridussero moltissimo lo sforzo di raccolta e il prezzo dei pomodori crollò. Le macchine era molto costose ma i pochi che potevano permettersele avevano la possibilità di immettere nel mercato i pomodori a prezzo dimezzato. Il risultato della concorrenza fu implacabile.
Dopo un anno dei 6.000 produttori preesistenti ne sopravvissero solo 60. Gli altri, quelli senza la macchina, fallirono e con essi scomparve il lavoro per decine di migliaia di operai.
Questo è un racconto fatto dagli economisti per spiegare come la tecnologia che fa a meno dell’uomo è vincente ed è conveniente per chi la usa e per chi gode dei suoi vantaggi. Altri però non ne godono.
Per questo, oggi un termine entrato nella valutazione di risultato delle faccende umane è “Sostenibilità”.
Si parla, secondo il caso, di “Sostenibilità ambientale”, “Tecnologica”, “Digitale”.
In effetti, si è visto che ogni attività umana, che si avvale della tecnologia, genera vantaggi e svantaggi.
Per quanto riguarda la scienza medica, oggi si punta sempre di più sulla tecnologia, sul digitale e sulla robotica. Tuttavia, anche in questo caso, c’è un limite alla tecnologia che dovrebbe sostituire l’Uomo; oltre di esso non è più vantaggiosa.
Faccio un esempio. Se un paziente deve essere operato per calcolosi della colecisti, o per un tumore renale, o per un utero fibromatoso, è possibile farlo con un “robot da sala operatoria”.
Questo metodo promette poco dolore, decorso rapido, dimissione in 2-3 giorni, veloce ripresa delle attività usuali; pertanto, tutti oggi vogliono il robot: lo vogliono sia i chirurghi che i pazienti.
Quindi, si conclude che la tecnologia robotica in chirurgia è il futuro, ma pensare di impiegarla in tutte le patologie è un’illusione.
L’impiego del robot in sala operatoria ha indicazioni limitate. Il robot va bene per le malattie ad andamento cronico, trattabili con cure programmabili; pertanto, va bene per un Ospedale che fa chirurgia programmata ma non va bene per la chirurgia delle patologie tempo-dipendenti.
Cos’è questa chirurgia?
E’ la chirurgia delle patologie improvvise, gravi, che portano a morte il paziente se non si è velocissimi nell’operarlo. Per esempio: l’emorragia cerebrale per rottura improvvisa di un aneurisma. In questo caso il robot non può essere utilizzato. Oppure, prendiamo il caso dell’incidente della strada con rottura traumatica di milza e fegato: il chirurgo deve essere più veloce della luce, aprendo l’addome, asportando la milza, e riparando il fegato; il tutto in un mare di sangue che non lascia vedere bene l’anatomia del campo chirurgico, e dove l’abilità manuale è determinante sia per perfezionare la diagnosi man mano che procede l’intervento, sia per fare la migliore scelta sulla strategia da usare, e cambiarla, se necessario, subito dopo.
Oppure, prendiamo il caso dell’Ostetrica che sta assistendo un travaglio e che, improvvisamente, si accorge che bisogna rapidamente passare dall’ostetricia all’intervento cesareo, pena la morte della madre e del bambino.
Oppure, ancora, il politrauma per incidente della strada o in fabbrica, o anche la più frequente frattura del femore o la frattura della colonna vertebrale per una banale caduta.
Come si comprende, in questi casi patologici tempo-dipendenti, l’uso del robot non ha alcun senso. L’intervento umano diretto è preziosissimo, imprescindibile e necessario. Ancora di più è necessario per dializzare d’urgenza un paziente in insufficienza renale acuta, o per assistere uno scompenso cardiaco o respiratorio.
Ho portato gli esempi di queste situazioni gravi per essere più immediato, ma si può continuare sulla stessa falsariga, citando il caso del massaggiatore che soccorre il calciatore in campo per la distorsione di una caviglia; oppure il pediatra che dolcemente abbassa la lingua del bambino per esplorare la profondità del cavo orale alla ricerca di una possibile tonsillite suppurativa febbrile. è immaginabile un robot per queste procedure? No. In moltissimi casi l’intermediazione del robot è assurda. Questi esempi sono utili per distinguere fra due tipi di malattie: quelle croniche, prevedibili, e curabili, secondo un programma e quelle imprevedibili, urgenti, urgentissime tempo-dipendenti (come l’infarto). Le prime sono affrontabili da una struttura ospedaliera tecnologicamente dotata ad hoc e che impiega poco personale. Le seconde invece devono essere dotate di personale specializzato, il cui compito fondamentale è quello di fare diagnosi rapide, prendere le decisioni giuste, cambiarle in corsa se serve, ed ignorare completamente l’entità delle spese e l’equilibrio di bilancio del proprio datore di lavoro.
Stiamo parlando di due mondi diversi. Uno è il mondo della Medicina programmabile e robotizzabile, l’altro è il mondo della Medicina di urgenza tempo-dipendente. Il primo è fonte di guadagno per la struttura; il secondo è fonte di spese e pessimi bilanci, a causa della maggiore quantità di personale specializzato che impiega.
Per tale ragione è impossibile confrontare i risultati di produttività degli Ospedali privati con quelli dei Presidi Ospedalieri di I Livello (come il Sirai di Carbonia), sedi di DEA di I Livello (Dipartimento di Emergenza e Accettazione).
Gli Ospedali privati sono dedicati alla medicina e chirurgia d’elezione programmabile. Le loro procedure sono eseguibili secondo un diario che non riserva sorprese. In tali ospedali le attività mediche e chirurgiche vengono concentrate nelle ore che vanno dalle 8.00 del mattino alle 14.00. Nelle ore della sera, della notte, e dei giorni prefestivi e festivi, le attività rallentano fino a fermarsi; il lavoro di assistenza ai malati viene affidato ad un Medico di guardia, che talvolta ha in carico più di un reparto. Invece i Presidi Ospedalieri di I Livello con DEA non interrompono mai il loro lavoro.
La loro “mission” è, soprattutto, l’“urgenza” del paziente acuto grave o gravissimo. L’urgenza non ha orario e non si può inserire in una lista d’attesa. L’urgenza annulla la possibilità di concedere pause all’attività medica e chirurgica.
L’attività è continua e perenne. Pertanto, mentre negli Ospedali privati il personale è massimamente presente nelle ore del mattino, dal lunedì al venerdì, e perlopiù è assente la sera, la notte, e nei giorni prefestivi e festivi, nei Presidi Ospedalieri di I Livello (come il Sirai ed il CTO) il personale, che è sempre d’Urgenza, è presente in reparto.
Vi è poi una quota di personale che non è di turno ma è prontamente disponibile con arrivo in reparto entro 30 minuti.
Questa enorme differenza comporta anche un’enorme discrepanza nel rapporto fra posti letto/operatori sanitari /costi.
Nei reparti d’urgenza del Presidio Ospedaliero di I Livello deve essere presente lo Specialista di turno, inoltre per ogni specialità chirurgica e medica devono essere immediatamente disponibili, sia i medici che gli infermieri formanti l’equipe perfetta. Le équipes devono essere presenti o disponibili in 3 turni al giorno (mattino-sera-notte), sempre. Non esistono giorni festivi per le équipes. Ciò significa che i Presidi di I Livello hanno bisogno di una compagine di Personale pronta sia alle attività di routine sia a quelle di urgenza e, pertanto, il numero di dipendenti deve essere doppio rispetto a quello degli Ospedali privati.
Ne consegue che gli Ospedali privati, con il loro poco personale, spesso convenzionato, sviluppano una produttività sanitaria enorme, con poca spesa e molto utile.
I Presidi d’urgenza di I Livello, viceversa, hanno un costo altissimo sia in fase di operatività, sia in fase di attesa, e l’utile è in negativo.
In sostanza, i due tipi di struttura non sono neanche lontanamente paragonabili sia per complessità di organizzazione, sia per i costi e per i risultati.
I Presidi Ospedalieri di Base devono fornire le prestazioni d’urgenza col Pronto Soccorso ed avvalersi di Personale reperibile.
I Presidi di I Livello, maggiormente impegnati, devono avere gli Specialisti in presenza nei reparti nell’arco delle 24 ore.
Per esempio, un Ospedale privato che abbia due sale operatorie in attività ha bisogno di due anestesisti in presenza solo al mattino. Invece negli ospedali di I Livello, con lo stesso numero di sale operatorie, vi devono essere due Anestesisti di mattina, uno di sera, uno di notte e due anestesisti per la Rianimazione per ognuno dei tre turni. Queste presenze devono essere assicurate sempre anche nel caso non avvengano emergenze.
Similmente dicasi per le équipes infermieristiche di sala operatoria. Tali turni di presenza attiva o di semplice attesa, devono essere presenti sempre, festivi inclusi.
Si comprende che questo triplo turno quotidiano deve essere attivo in tutti i reparti che fanno emergenza: la Medicina, la Chirurgia, l’Ostetricia, la Pediatria, la Traumatologia, la Radiologia, il Laboratorio, il Centro Trasfusionale, la Psichiatria, la Cardiologia, la Dialisi, il Pronto Soccorso, l’Anestesia e la Rianimazione, L’Otorinolaringoiatria, l’Oculistica, la Neurologia.
Quanto detto, conduce alla conclusione che gli Ospedali di I Livello devono avere organici completi e numerosi e la loro gestione è molto difficile e costosa. Gli Ospedali di I Livello in Italia sono 260, 7 in Sardegna: l’Ospedale di Nuoro, di Olbia, di Sassari, di Oristano, di San Gavino Monreale, di Carbonia ed il SS Trinità di Cagliari.
Inoltre, vi sono in Sardegna 2 Ospedali di II Livello: il Brotzu di Cagliari e l’Azienda Ospedaliero Universitaria di Sassari.
Tutti gli altri Ospedali sardi sono Presidi di Base e, in caso di necessità per urgenze gravi, devono trasferire i pazienti più impegnativi negli Ospedali di I e II Livello.
Quanto detto, conduce alla conclusione che gli Ospedali della nostra provincia del Sulcis Iglesiente sono preziosissimi, che nessun Ospedale privato può sostituirsi ad essi e che dobbiamo salvaguardarne l’esistenza, l’efficienza ed il capitale umano e culturale che vi è racchiuso. Dopo, vengono per ordine di importanza, gli edifici nuovi ed i robot.

Ci stiamo abituando, nel paesaggio cittadino, ai nuovi simboli di questa “Era pandemica”: i cartelli che indicano il percorso per raggiungere i luoghi in cui ci vaccinano in ordine alle fasce d’età. In essi si trovano scritte le parole “Hub vaccinale”, oppure “Centro vaccinazioni”.
La parola inglese “Hub” tormenta gli ospedalieri dagli anni ’90.
Risuonò per al prima volta, a Carbonia, nell’aula “Velio Spano”. Vi erano stati riuniti tutti i medici, gli infermieri, gli amministrativi ed i rappresentanti politici delle USL (Unità Sanitarie Locali) n° 16 e n° 17 del Sulcis Iglesiente. Erano tutti lì per ascoltare un economista bocconiano venuto dal Continente per esporre il verbo della nuova rivoluzione sanitaria: “Hub and Spoke”. Spiegò: “L’Hub” è il mozzo della ruota del carro; gli “Spoke” sono i raggi della ruota. Dobbiamo trasformare la Sanità in un “Sistema Hub and Spoke”..., e proiettò un’immagine che rappresentava una stella con i suoi raggi luminosi. Sembrava una bella cosa.
Questi nuovi disegnatori del futuro sanitario della Sardegna, venuti dal Continente, stavano, invece, facendo crollare le basi di due riforme sanitarie eccezionali: la riforma del 1968-69 emanata con le leggi 132 e 128, e la riforma sanitaria del 1978 emanata con la legge 833. Erano due Riforme talmente fantastiche da sembrare più utopie che realtà. Contenevano  concentrati, tutti i valori umanitari della carità cristiana maturata in 1.000 anni di Medio Evo, i valori solidaristici della cultura laica del 1700, 1800, 1900, e il bisogno di uguaglianza, equità e fratellanza esplosi alla conclusione della Seconda Guerra Mondiale.
Con la nuova visione degli “Hub and Spoke” si stavano cambiando le basi ideali delle “Unità Sanitarie Locali” (USL) e si preparava il terreno per impiantare, al loro posto, la “Aziende Sanitarie Locali”(ASL). Dove stava la differenza? Era grossa e non ce ne avvedemmo. Nella Riforma del 1968 gli ospedali cittadini erano giuridicamente gli “Enti ospedalieri” della città di appartenenza, ed il presidente era il sindaco della città. Quel sindaco era la cinghia di trasmissione dei bisogni di Sanità dei sindaci di tutto il territorio. Nella riforma n° 833, del 1978, la gestione della Sanità ospedaliera e territoriale era sotto il controllo del “Comitato di gestione” che nominava al suo interno il presidente. Il Comitato di gestione era costituito da cittadini del territorio, nominati, a loro volta, dalla “Assemblea generale” dei consiglieri comunali delle varie cittadine.
Ne consegue che, fino ad allora, la conduzione della Sanità ospedaliera e territoriale era sotto il vigilissimo controllo dei sindaci e dei consiglieri comunali e, quindi, dei cittadini. Nel 1988 il ministro Carlo Donat Cattin abolì le “Assemblee generali” per semplificare l’apparato. Poi nel 1992, 1995, e 1999, con altre leggi avvenne la progressiva eliminazione dei “Comitati di gestione” e la loro sostituzione con una unica figura al comando: il Commissario straordinario nominato dalla Regione. I Commissari vennero poi chiamati “Manager” e venivano pescati da una lista di amministratori selezionati per titoli. Le Unità Sanitarie Locali vennero trasformate in aziende a gestione di tipo privatistico, sul modello della Sanità privata. Lo scopo era la “razionalizzazione” della gestione e l’amministrazione del patrimonio mobiliare ed immobiliare, al fine di raggiungere “efficienza ed efficacia”.
Così, nella nuova lingua parlata, in sanità scomparvero progressivamente parole come medico, infermiere, ostetrica, farmacista, etc., che divennero “Operatori sanitari”. La parola “malato” venne sostituita col termine “cliente”. In tutte le leggi e disposizioni comparvero nuove espressioni come “hub and spoke”, “efficienza ed efficacia”, “razionalizzazione”, “equità”, “omogeneità”. Questo nuovo modo di esprimersi, sottintendeva l’obiettivo di raggiungere un “Livello Essenziale di Assistenza” (LEA) con la minor spesa possibile. Eravamo usciti dal linguaggio sanitario, derivato dalla solidarietà laica e dalla carità cristiana, per entrare nel linguaggio amministrativo. A questo punto la “gestione contabile” della Sanità si sostituì alla “gestione politica” dei bisogni di salute della cittadinanza.
L’”Hub and Spoke” fu la chiave per spostare il controllo amministrativo della Sanità dai territori al centro. In realtà quella espressione inglese non andava tradotta con l’espressione italiana “ruota del carro” o “stella con i raggi” ma semplicemente e crudamente: “Centro e periferia”.

Così il nostro territorio divenne “periferia” e la città capoluogo divenne il Centro su cui devono convergere tutti i finanziamenti ed i Servizi sanitari, tagliandoli a noi. Con l’“Hub and spoke” la città divenne il “buco nero” che risucchia le stelle e i pianeti che gli passano vicino, facendo il deserto attorno.
Con l’esclusione dei sindaci e dei Consigli comunali dal controllo della ASL, è iniziato l’impoverimento di strutture sanitarie del nostro territorio. Oggi stiamo assistendo alla diminuzione progressiva di medici ed infermieri, alla chiusura di reparti ospedalieri, alla difficoltà di ricevere prestazioni sanitarie e strumentali, e alla generazione di liste d’attesa infinite, sia per essere visitati che per essere curati. La diminuzione di assistenza sanitaria, in loco, obbliga a mettersi in viaggio e chiedere il dovuto a Cagliari e anche al Continente. Ormai la nostra incapacità di produrre Sanità è arrivata ad un punto gravissimo: il 47 per cento di prestazioni sanitarie devono essere comprate all’esterno del nostro sistema. Questo è l’effetto dello “Hub and Spoke”.
Apparentemente la centralizzazione della Sanità nella città capoluogo è un beneficio disponibile per tutti. In realtà, la migrazione dei nostri malati sta portando solo ad affollamento in centri già saturi di pazienti ed alla formazione di lunghe file per essere operati per patologie comuni, o solo visitati o sottoposti ad esami. Questo fenomeno si traduce in aumento della spesa sanitaria per le famiglie che hanno la disgrazia di avere un componente ammalato, alla frustrazione e, addirittura, alla rinuncia ad essere curati.
Gli Hub sono stati il fallimento del Sistema sanitario dei territori, ridotti a “periferia” povera e sguarnita. Il Covid-19 ha dimostrato che gli accentramenti dei servizi sono un errore. Un esempio si trova nella cronaca recente. La sindaca di Roma, Virginia Raggi, ha dovuto lamentare pubblicamente la sua impotenza nel gestire un importantissimo Hub: il cimitero di Roma. Vi sono accatastate, nei magazzini, migliaia di bare con il loro triste contenuto. Le squadre di operai non fanno in tempo a tumulare o cremare i cadaveri, che restano per mesi miseramente impilati. Quell’umiliazione finale tocca indistintamente tutti, poveri e ricchi, miseri e potenti. Ecco, questo è il problema degli “Hub”: l’affollamento. E l’affollamento genera “inefficacia e inefficienza”, “iniquità”, e “umiliazione”. Cioè l’esatto opposto della “efficacia ed efficienza” proclamati da quei professori bocconiani che negli anni ’90 ci introdussero al concetto miracolistico degli “Hub and Spoke”.
Chi ha seguito l’evoluzione di questa rivoluzione, che poi si è rivelata un’involuzione, oggi legge con amarezza la scritta “Hub” nei cartelli indicanti i “Centri di vaccinazione”.

Mario Marroccu

Ormai è evidente: questo virus cambierà gli umani e lo farà col metodo della “selezione naturale”.
Charles Darwin scrisse, nell’anno 1859, nel libro “L’origine delle specie”, che la Natura seleziona, per la sopravvivenza, gli individui più “adatti”. Non scrisse “più forti”, “più ricchi”, o “più intelligenti”. Scrisse proprio “i più adatti”.
Ora questo virus sta selezionando gli umani che più si “adattano” al rispetto delle regole del “distanziamento sociale” .
Ci sono molti motivi per prendere sul serio Charles Darwin, e sono questi:

1) I vaccini non sono sufficienti a fermare la circolazione del coronavirus. Pertanto, esso resterà con noi molti anni ancora.

2) Il vaccino che fece sparire il Vaiolo dalla faccia della terra dava un’immunità perenne. Questo per 6-8 mesi soltanto.

3) Ne consegue che fra 6-8 mesi tutti coloro che sono stati già vaccinati ad Aprile 2021 perderanno l’immunità ad ottobre 2021. Ad Ottobre tutti i vaccinati di oggi dovranno nuovamente mettersi in fila per essere vaccinati di nuovo.

4) Se si considera che, fino ad oggi, in Italia sono state vaccinate 10 milioni di persone, e che ne rimangono ancora 50 milioni (o 40 se si escludono i bambini gli allergici ed i negazionisti), ci vorranno, alla velocità attuale, altri 10-12 mesi per vaccinare tutti.

5) I soggetti già vaccinati oggi, fra 6 mesi non saranno più protetti dal vaccino fatto ad aprile, pertanto ad ottobre (fra 6 mesi) ci saranno da vaccinare sia i 20 milioni non ancora vaccinati, sia i 10 milioni già vaccinati ad Aprile ma con effetti di immunizzazione scaduti. Cioè 30 milioni.

6) Lo stesso ragionamento si può applicare ogni 6 mesi per gli anni successivi. Cioè saremo in una campagna vaccinale continua che durerà parecchio.

Si sta realizzando il paradosso del filosofo Zenone, che visse nel V secolo avanti Cristo. Egli propose un calcolo matematico sul “moto”. In esso dimostrava che in una gara di velocità fra Achille “piè veloce” ed una tartaruga, Achille non riuscirà mai a raggiungere la tartaruga. Se Achille inizierà la corsa dopo che una tartaruga sarà partita dal punto A ed avrà raggiunto il punto B, Achille per raggiungerla impiegherà un tempo X1. Ma nel frattempo la tartaruga avrà raggiunto il punto C. Achille per raggiungere il punto C impiegherà un tempo X2. Ma in quel frattempo la tartaruga avrà raggiunto il punto D. Achille, per raggiungere la tartaruga nel punto D impiegherà un tempo X3. Ma in quel frattempo la tartaruga raggiungerà il punto E, e sarà ancora in anticipo su Achille. Procedendo così all’infinito, in questo ragionamento logico-matematico, Achille non raggiungerà mai la tartaruga, perché la tartaruga avrà sempre un tempo di vantaggio su Achille della durata di tempo Xn a suo vantaggio. Il paradosso di Zenone è diventato la metafora della nostra attuale gara di velocità per fermare il coronavirus con le campagne vaccinali subentranti.
Anche Albert Einstein si cimentò per risolvere quell’ipotesi matematica ed ebbe difficoltà.
Se fosse vero il paradosso di Zenone saremmo messi veramente male, e dovremmo trovare un’altra via di scampo.
Colui che ha capito più di tutti il paradosso di Zenone è il premier britannico Boris Johnson. In Europa è il premier che ha avviato la campagna vaccinale più efficace, e sta riaprendo al pubblico tutti gli esercizi di commercio umano in cui è inevitabile l’assembramento. Eppure, nonostante il suo chiaro successo con le vaccinazioni, alcuni giorni fa ha tenuto un discorso alla Nazione, proclamando l’inutilità della vaccinazione di massa qualora non si rispettino, per molti mesi ancora, e forse per anni, le regole del “distanziamento” e l’uso della “mascherina”. Così ha riportato tutti al realismo, facendo crollare l’illusione di una facile fine della pandemia.

La via del “distanziamento sociale” riprende vigore. Prima che esistessero i vaccini, le regole del distanziamento sociale erano l’unica arma efficace contro le varie pesti che si sono succedute nei secoli.
Uno studioso dell’Università norvegese di Oslo, il professor Ole Jorgen Benedictow, alcuni mesi fa, quindi prima di Boris Johnson, ha sostenuto lo stesso ragionamento dopo aver letto un vecchio libro. Egli aveva scovato, nella Biblioteca Nazionale di Parigi, un antico testo scritto da un medico calabrese: Quinto Tiberio Angelerio. Costui aveva avuto l’ esperienza della Peste in Sicilia del 1575 e, seguendo la teoria “miasmatica” di Galeno (II secolo d.C.) e la teoria del “contagionismo” di Girolamo Fracastoro (XV secolo d.C.), attenuò e sconfisse la Peste di Alghero del 1582. Poi pubblicò i risultati di quella sua esperienza in un manuale stampato a Cagliari nel 1588: “Ectypa pestilensis status Algheriae Sardiniae”. Di questo manuale destinato ai Medici, per informarli sul come si gestisce una epidemia, ne esiste una sola preziosissima copia a Parigi. Prima che lo si rendesse noto in Italia, il libro di Quinto Tiberio Angelerio venne presentato al pubblico inglese dalla rete televisiva BBC, ed ebbe grande risonanza. Forse lo stesso Boris Johnson ne ha tratto ispirazione.
Mentre assistiamo alla gara fra Nazioni per accaparrarsi le dosi di vaccino, vale la pena raccontare la storia di quel medico di Alghero che, non avendo a disposizione i vaccini, utilizzò altri metodi di controllo dell’epidemia basati sul corretto comportamento sociale.
Alghero si sarebbe spopolata a causa dell’alta mortalità ed il suo Governo decise di assumere il dottore Angelerio per liberare la popolazione dalla peste. Angelerio era un medico scrupoloso ed appassionato e, sopratutto, non temeva di morire. Egli, con i poteri della Magistratura di Sanità emise delle ordinanze piuttosto rigide. Fra queste le più importanti imponevano:
– il divieto di stringersi la mano nel salutarsi;
– divieto di assembramento anche a piccoli gruppi;
– divieto di avvicinare un’altra persona a meno di 6 palmi (1 metro e mezzo);
– vietato uscire di casa;
– consentito ad un solo membro della famiglia l’uscita per fare la spesa;
– sconsigliata vivamente la partecipazione a funzioni religiose.
In sostanza vi erano l’obbligo di isolamento ed il divieto di assembramento. Questo irritò i commercianti ed imprenditori locali, i quali avevano capito quali danni ne avrebbero avuto gli affari. Nacque un movimento di opposizione che culminò in un tentativo di assassinio del medico. Tuttavia, il dottor Quinto Tiberio Angelerio non si impressionò e continuò nella sua opera di “mitigazione” dell’epidemia, fino a spegnerla dopo 8 mesi di Lockdown serrato. Il governo della città lo remunerò con una somma enorme: 100 scudi d’oro. In quell’epidemia perse la vita il 60 per cento della popolazione. L’azione di Angelerio fu così efficace che la peste fu circoscritta alla città di Alghero e non si diffuse ai borghi vicini e neppure alla città di Sassari. Per ottenere quello straordinario risultato, impiegò la forza pubblica per l’osservanza delle ordinanze e dedicò tutto se stesso alla cura dei malati. Fondò un ospedale nel quale ricoverava i pazienti sintomatici e predispose un Lazzaretto per ospitarvi i cittadini sani messi in quarantena. Nel 1588 pubblicò in un manuale le sue memorie ed i suoi metodi di contenimento dell’epidemia. Il libro andò a ruba in tutta Europa. La fama del dottore fu tale che venne poi assunto dalla città di Barcellona per contrastare una sua epidemia di Peste. Successivamente, venne assunto dall’imperatore Filippo II per liberare Madrid dalla Peste. Questo medico appassionato visse a contatto diretto con gli appestati e non contrasse mai la malattia. Morì vecchissimo, a 85 anni, nella città di Napoli. Le regole di distanziamento e di igiene applicate in modo sistematico ad Alghero, furono una lezione per tutto il mondo di allora.
Quando in Italia si promulgò il primo DPCM nel febbraio 2020 non si fece altro che ripetere pedissequamente le ordinanze della città di Alghero scritte da Angelerio.
Oggi, anno 2021, la Scienza ha fatto passi da gigante. Eppure, se non avessimo avuto i vaccini così tempestivamente, ci saremmo trovati nel punto in cui si trovò Angelerio nel 1582 ad Alghero, e le sue regole ci avrebbero salvato.
Boris Johnson, che è un tipo un po’ avventuroso in politica ma un cervello fino ed una mente formata alla cultura classica, ha colto nel segno quando, ha proclamato al popolo inglese «non aspettatevi che l’epidemia sia finita col vaccino. Mantenete ancora un comportamento prudente, scrupoloso delle regole del distanziamento».
Cosa ha percepito Boris Johnson prima degli altri? Forse ha temuto l’arbitrio ed i ritardi delle multinazionali del farmaco nella distribuzione dei vaccini. Colui che ha avuto la stessa percezione di incertezza è stato Mario Draghi. Davanti ad una Multinazionale che in modo unilaterale ha ridotto del 60 per cento la consegna delle dosi di vaccino pattuite, è stato il primo in Europa ad opporsi alla arbitrarietà della controparte contrattuale. Il suo divieto di esportare in Australia le 240.000 dosi di vaccino conservate nei depositi di Anagni, in Lazio, è stato un gesto risoluto che ha indotto il presidente della Commissione, Ursula Von der Leyen, a modificare il suo atteggiamento nei confronti della multinazionale inadempiente.
Il Coronavirus ha messo in evidenza il problema dei rapporti squilibrati fra la sovranità degli Stati ed il sovranismo delle multinazionali. E’ un problema che sta affrontando anche il presidente americano Joe Biden con le multinazionali della comunicazione multimediale via Internet. Sta affrontando il difficile problema di imporre un’equa tassazione internazionale dei gruppi Web e digital marketing fondati da Bèzos (Amazon), Google, You tube, Face Book et similia. Egli sta agendo per eliminare i paradisi fiscali e sottrarre le popolazioni al commercio arbitrario delle informazioni soggetta alla privacy digitale personale. E’ un problema la cui soluzione sarà difficile. Un problema simile di indipendenza sovrana dai controlli degli Stati sta emergendo questi giorni dalle multinazionali dello sport agonistico teletrasmesso digitalmente. In fenomeno delle Super League del calcio è sintomatico. Anche in questo caso, i primi ad opporsi sono stati Boris Johnson e Mario Draghi. Oggi tutti i capi di Stato europei si stanno precipitando a condannare questa nuova entità sovrana che assumerebbe l’esclusiva del grande calcio ed estrometterebbe dalla competizione sportiva, democratica e internazionale, i club nazionali identitari.
Vedremo come andrà a finire.
Mario Draghi, intanto, è oggi impegnato in un altro scontro di simile natura: quello contro il sovranismo dei Big Pharma dei vaccini. L’arbitrarietà con cui certe Aziende hanno deciso di tagliare le forniture pattuite con la Comunità europea, ci ha resi tutti consapevoli che i vaccini, ancorché scoperti in breve tempo da scienziati di tutte le Nazioni, non sono proprietà esclusiva delle Nazioni, ma sono proprietà esclusiva della grande industria del farmaco, e che questa può disporre unilateralmente i tempi ed i modi di distribuirli. L’arbitrarietà nella distribuzione dei vaccini, mette allo scoperto la nostra impotenza davanti all’epidemia e ci rende simili agli abitanti di Alghero che, come unica arma di difesa, avevano le regole comportamentali di Quinto Tiberio Angelerio. Quindi è bene riprendere in mano quelle regole e rispettarle.
In quei tempi, il governo della città, oltre a chiamare in soccorso il protomedico calabrese chiamò anche un altro Protomedico: il dottore Antioco di Sulci, medico, martire e santo. Di questo che sto affermando esiste un documento. Si tratta di un affresco del 1582 che raffigura il Santo Antioco che, in groppa ad un cavallo, viaggia alla volta di Alghero per salvarla. In quei tempi Sant’Antioco era il “Farmakon” più titolato in Sardegna in funzione anti-peste. Questo avveniva quando in tutta Europa, in caso di epidemie, si imploravano i Santi Cosma e Damiano, San Rocco, San Sebastiano, San Giovanni di Dio. In Sardegna nel XVII secolo intervennero altri Santi. Nel quinquennio 1652-1657 la Sardegna venne attraversata dalla Peste portata dalle navi commerciali provenienti dalla Catalogna appestata, ed approdate ad Alghero. Il morbo si diffuse a Sassari, Oristano, Villa di Chiesa, Cagliari. Da qui poi, sempre via mare, a Roma, Napoli, Palermo, Genova. Fu allora che a Cagliari prese vigore il culto per Sant’Efisio. Fu Efisio a decretare la fine della peste a Cagliari nel 1657 ed in memoria di questo miracolo da allora viene festeggiato il primo Maggio di ogni anno.
Secondo la tradizione Sassari, durante quella Peste, venne salvata dalla “Madonna Assunta” e la Faradda de li Candareri si svolge ogni anno in memoria di quell’intervento miracoloso.
Ad Iglesias tutti gli anni si svolge la festa di Sancta Maria di Mezo Gosto; anche questa in memoria della Vergine Assunta. Si tratta di una festa portata in Sardegna dai Bizantini nell’anno 535. Si interruppe misteriosamente nel XVII secolo, forse a causa della pestilenza che martoriò la città nel 1656.
Il culto de santi in funzione “anti-epidemia” riprende sempre vigore quando non hai più difese dal contagio. Da questo punto di vista, il manuale algherese di Quinto Tiberio Angelerio fu anch’esso un miracolo, anche se laico. Fu il primo scritto che mise ordine alle regole comportamentali del distanziamento sociale e fu assolutamente efficace.
Oggi sta emergendo un sentimento di incertezza alimentato dal ritmo alterno delle vaccinazioni, condizionato da temporanee ed insufficienti forniture da parte delle aziende dei vaccini. Tuttavia, stiamo ricevendo notizia di un fatto nuovo e rivoluzionario. Pare che il presidente del Consiglio Mario Draghi abbia rotto l’incantesimo del dominio sovranazionale dei Big Pharma. Si dice che l’Italia sia ad un passo dall’impiantare la fabbrica di un vaccino mRNA che darebbe all’Europa intera l’autonomia strategica nella produzione di questo genere di vaccino. Esisterebbe l’accordo fra il Governo italiano, l’americana Moderna, la tedesca Curevac e Reithera di Castel Franco, nel Lazio, per produrre, nei laboratori della azienda Reithera, il vaccino a RNA “messaggero” di Moderna, o uno simile. Qualora MariovDraghi con questa operazione riuscisse a svincolare l’Europa dall’arbitrarietà di certe multinazionali dei vaccini anti-coronavirus, avrebbe meriti tali da essere ricordato nei testi futuri di Storia della Medicina.

Mario Marroccu

In natura non vi sono regole morali. Al contrario, vige la regola del più forte. La storia naturale delle epidemie e delle catastrofi è la storia di una “prova di forza” continua tra il più forte ed il più debole e, davanti al bisogno di sopravvivere, la lotta viene condotta senza esclusione di colpi. Ecco alcuni esempi.
La “Peste nera” del 1347/1348 si diffuse dopo alcuni anni di freddo globale che gli storici chiamarono “Piccola glaciazione”. Gli unici, tra Europa ed Asia, che riuscirono a produrre cereali per gli uomini e gli animali, furono i contadini dell’Ucraina. Il loro mercato si trovava nei porti della Crimea, sul Mar Nero.
Per questo i commercianti italiani si rivolsero agli armatori genovesi che avevano i granai nei loro magazzini a Caffa, in Crimea. Per arrivarci, le navi italiane dovevano attraversare il Mar Egeo, lo Stretto dei Dardanelli ed il Mar di Marmara. Quindi, superata Istanbul accedevano al Mar Nero. Da qui puntavano la rotta a Nord, verso la Crimea. Si tratta dello stesso percorso seguito dai soldati sardi che combatterono la Guerra di Crimea del 1854-56. La Russia aveva occupato la Crimea (esattamente come oggi) ed il Regno di Sardegna fece parte dell’alleanza che andò a liberarla. I Sardi si trovarono nel pieno di un’epidemia di colera e ne morirono 3.000. In quella occasione vennero assistiti dalla signora Florence Nightingale che, dopo quell’esperienza, fondò l’ordine mondiale delle Infermiere. Anche nel 1347 i marinai genovesi si trovarono implicati in una guerra tra Mongoli e Ucraini e anche allora gli italiani si trovarono nel bel mezzo di un’epidemia. Era avvenuto che i Mongoli, abituali incursori nelle campagne cinesi, quell’anno le avevano trovate deserte e con i granai vuoti. I contadini cinesi erano morti a causa di un’epidemia di Peste provocata dalle pulci del ratto nero (rattus alessandrinus). In mancanza di preda “l’Orda d’Oro” dei guerrieri mongoli si diresse ad Ovest verso i granai di Caffa per impadronirsene. Si misero al loro seguito anche i ratti, con le loro pulci infette, mossi anch’essi dalla fame. I mongoli assediarono la città di Caffa ma vi fu una strenua resistenza. Allora il capo mongolo, Gani Bek, pronipote di Gengis Khan, ebbe l’idea di lanciare oltre le mura, con catapulte, i corpi di soldati mongoli morti di Peste. Così la peste entrò nella città ed il morbo mortifero si diffuse. Alcune navi genovesi riuscirono a scappare col loro carico di grano e, con sé, portarono anche i ratti della peste. Mentre gli equipaggi morivano, le navi entravano nel porto di Messina. Fu la prima città europea ad essere appestata. Da Messina partirono altre navi, col loro carico di merci e di Peste, verso Napoli, Genova, Venezia, Cagliari, Alghero, e diffusero la peste in tutta Italia. L’Italia fu la porta d’ingresso dell’epidemia in Europa.
Esattamente come oggi col Coronavirus, il percorso del contagio fu: Cina, Italia, Europa. E’ dimostrato che la diffusione della Peste Nera fu facilitata dall’estrema debolezza del sistema immunitario delle popolazioni stremate dalla carestia. La carestia, a sua volta, derivava dal lungo periodo di freddo della “piccola glaciazione”. In quel “braccio di ferro” tra uomini e microbi vinsero i microbi.
La pandemia di “Spagnola” del 1919 esplose alla fine della Prima Guerra Mondiale. Le Nazioni erano indebolite dalla scarsità alimentare provocata dalla mancanza di uomini nelle campagne perché impegnati nello sforzo bellico.
Anche le epidemie di Vaiolo e di Febbre Petecchiale esplodevano a ridosso di guerre e di carestie. La Campagna di Russia di Napoleone del 1812 si trasformò in una disfatta a causa di un’epidemia di Tifo Petecchiale da Rikettsia Prowazeki. La Rikettsiosi era endemica negli eserciti ed esplodeva incontrollata per l’associazione tra carenze igieniche e carenze alimentari. Sappiamo che già due anni prima del 1812 era iniziata una grave carestia in Sardegna (“Su famini de s’annu doxi”). Nel vicino Nord Africa la situazione alimentare era ancora più grave perché alla carestia si era sovrapposta anche una invasione di cavallette che divoravano i pochi raccolti. I Bey di Tripoli, Tunisi e Algeri, che già abitualmente equilibravano il bilancio annuale dei loro Stati con i proventi delle scorribande, in quell’anno ripresero con più frequenza a rapinare le coste sarde. Nel 1812 le incursioni barbaresche si aggravarono, soprattutto, sulle coste del Sulcis. In quell’anno la famiglia reale viveva a Cagliari, dove aveva trovato riparo dagli eserciti napoleonici. Fu allora che avvenne l’assalto al “Forte del Ponte” di Sant’Antioco, la cattura di schiavi ed il furto di derrate alimentari. Di quell’episodio esiste un grandioso affresco nel Palazzo Viceregio di Cagliari.
Persistendo la carestia in Nord Africa, i corsari tunisini attuarono una nuova incursione su Sant’Antioco il 16 ottobre 1815. Furono fatti schiavi 130 antiochensi e uccisa parte della popolazione. Nei mesi successivi esplose una epidemia di vaiolo che si portò via tutti i bambini nati nei cinque anni prima un centinaio. Fu un fatto grave ma era stata ben più grave l’incursione su Carloforte del 1798 che era costata quasi 1.000 sequestrati destinati ad essere venduti al mercato degli schiavi di Algeri, Tripoli e Derna.
Le popolazioni cercavano consolazione nella religione pregando: «Alla crisi economica, dalla epidemia, e dalla guerra liberaci o Signore» («A famine, a peste, a bello libera nos Domine»).

Anche oggi le paure delle popolazioni sono le stesse: la crisi economica, la pandemia, i conflitti fra Stati.
La pandemia attuale da Coronavirus avviene in un pianeta afflitto da centinaia di guerre locali e da una competizione commerciale fra i potenti ai limiti della guerra finanziaria come mai si era vista. In modo simile alle pandemie del passato anche oggi assistiamo al crescere di una crisi economica globale. Anche nel nostro piccolo mondo locale assistiamo ai problemi del commercio, dell’iniziativa privata e del lavoro in generale.
Come affermano gli osservatori economici, la crisi finirà solo quando cesserà la crisi sanitaria. E la crisi sanitaria finirà quando verrà posto riparo alla deficienza di Servizio sanitario in cui ci troviamo.
Ieri il direttore generale del CENSIS, il dottor Massimiliano Valeri, ed il presidente dell’Agenzia Nazionale per i Servizi sanitari regionali (AGENAS) dottor Enrico Cosciani, hanno pubblicato un documento, destinato al Governo, in cui si dice testualmente: «La pandemia ha squarciato il velo sulle fragilità strutturali in Sanità. La pandemia ha travolto le nostre vite, con un forte impatto sociale e economico. Ma, di fatto, rappresenta un potente ed improvviso fattore di accelerazione dei processi».

«Ci siamo scoperti vulnerabili dopo anni di contenimento della spesa pubblica che hanno provocato la riduzione dei posti letto e la chiusura di piccoli Ospedali.»
Se analizzassimo la regressione del Sistema Sanitario del Sulcis Iglesiente, attuato ad arte negli ultimi 20 anni ricorderemmo che negli anni ’90 l’Ospedale di Carbonia aveva una dotazione di 384 posti letto, ed era stato appena costruito un padiglione separato destinato ad ospitare il reparto specialistico per le Malattie Infettive. Era Commissario il dottor Tullio Pistis e presidente il geometra Antonello Vargiu. Il padiglione, destinato ai pazienti affetti da AIDS, non venne mai utilizzato ed il Centro Infettivi non sorse mai. Iglesias aveva un ottimo Ospedale Traumatologico Ortopedico attrezzato per fornire un servizio di alto livello secondo la scuola del Rizzoli di Bologna. Vi era inoltre un Ospedale per le patologie generali, il Santa Barbara, che soddisfaceva la popolazione. Ad Iglesias vi era inoltre un grande complesso, l’Ospedale Fratelli Crobu, destinato alla malattia infettiva più diffusa nel secolo scorso: la Tubercolosi.
Nel 1983, quell’Ospedale, venne convertito per ospitare un reparto di Chirurgia pediatrica, un reparto di Pediatria ed uno di Otorinolaringoiatria. All’inizio ebbe successo, poi col calo demografico venne progressivamente ridimensionato fino alla sua completa chiusura. Oggi è nell’abbandono.
Negli anni ’90 il numero degli operatori sanitari dipendenti del Sistema sanitario del Sulcis Iglesiente si attestava sulle 2.000 unità. Oggi, tra Carbonia ed Iglesias, il numero di dipendenti è ridotto ad appena un migliaio.
Dove sono finiti i mille dipendenti che mancano ai nostri Ospedali?
Si capisce immediatamente dove sono andati a finire quei posti di lavoro se si osserva la crescita tumultuosa dei presidi ospedalieri e universitari di Cagliari. Contemporaneamente al depauperamento del nostro personale abbiamo assistito alla chiusura di interi ospedali ad Iglesias ed alla soppressione di reparti e Servizi al Sirai di Carbonia. Carbonia, che aveva in passato 384 posti letto, oggi ne vanta poco più di 100.
Così come le incursioni corsare dei secoli scorsi nelle nostre coste avvennero per motivi economici, anche nell’ultimo ventennio le crisi economiche nazionali sono state contenute depredando i nostri ospedali di personale, strumenti scientifici, interi reparti e fondi destinati “pro rata” al nostro territorio per dirottarli verso altri centri già ricchi e saturi di servizi sanitari.
Il direttore del CENSIS ed il direttore di AGENAS osservano anche, nel loro documento, che la distruzione della rete degli Ospedali provinciali ha condotto alla:
– riduzione e soppressione di visite specialistiche, accertamenti diagnostici;
– riduzione dei ricoveri di medicina interna;
– screening per la prevenzione dei tumori.
Inoltre affermano testualmente: «Anche se non ci fosse stata la pandemia, la transizione demografica ci avrebbe obbligati a rivedere l’offerta sanitaria a causa dell’invecchiamento della popolazione. Investire in Sanità è un moltiplicatore di processi di sviluppo e creazione di occupazione. Servono 58mila medici e 72mila infermieri per la Sanità del futuro.»
Ora bisogna stare molto attenti.
Con i soldi del “Recovery plan” inserito nel “Next Generation EU”, si potrà procedere a quelle assunzioni.
I nostri politici locali dovranno sorvegliare chi stilerà il programma di spesa.
Se non staremo attenti potrà avvenire un ulteriore peggioramento a nostro danno.

Nei nostri Ospedali provinciali abbiamo bisogno di quei 58mila medici e 72mila infermieri. Ci servono per ricostituire i reparti specialistici che ci sono stati sottratti a favore delle città. La teoria degli “Hub and spoke”, cioè della “centralizzazione” è stata il grimaldello con cui sono state divelte le basi della nostra Sanità. Ci hanno sottratto i fondi, il personale, i servizi specialistici, per trapiantarli nella città capoluogo.
Con la sottrazione di quei Servizi ci hanno sottratto almeno 1.000 posti di lavoro, che equivalgono a mille stipendi al mese sottratti alla nostra rete commerciale. La scomparsa di quegli stipendi va di pari passo con la scomparsa di clienti dai negozi per l’edilizia, dai negozi di abbigliamento, dai ristoranti, etc.
La scomparsa di quei mille operatori sanitari va di pari passo con la scarsità di offerta sanitaria nel nostro territorio, con l’allungamento delle liste d’attesa per essere operati e per ottenere le visite specialistiche, le TAC, le Ecografie, le Risonanze magnetiche e l’efficienza dei Pronto soccorso. In un articolo comparso giorni fa in un quotidiano regionale ci è stato riferito che la Regione ha speso per analisi cliniche strumentali nel 2020 una somma pari a 15,6 euro per abitante a Cagliari mentre ha speso 2 euro per abitante nel Sulcis. Questo dato la dice lunga sulla disparità di distribuzione di danaro per la sanità tra Cagliari e Carbonia Iglesias.
La stessa scarsità di personale a cui ci hanno ridotti è all’origine della riduzione dei posti letto nei nostri reparti ospedalieri, che a sua volta ha portato alla fusione di reparti specialistici in piccole Unità Operative, rese obbligatoriamente piccole dalla povertà di medici e infermieri. Il personale, che si trova carente di numero, mal motivato, e sovraccaricato della responsabilità di un bene prezioso come la salute degli altri ha bisogno di un forte supporto politico e popolare.
Come giustamente sostengono il presidente del CENSIS e quello dell’AGENAS, la riassunzione di quelle 1.000 persone che ci mancano dagli Uffici, tra gli Infermieri e tra i Medici, equivarrà ad un investimento economico. Assumere urgentemente nuovo personale è la via giusta per dare più Sanità a tutti e, investito in assunzioni nella nuova generazione, porterà nuovi posti di lavoro, nuove coppie, nuovi figli, e nuovi clienti per negozi e artigiani. Cioè: benessere.
In fondo questo è il fine di chi ha inventato il fondo del Next Generation EU. Dobbiamo volere che la suddivisione dei fondi provenienti dalla Comunità Europea venga fatta con una redistribuzione equa tra le province della Sardegna. Dobbiamo impedire un nuovo catastrofico accentramento di Sanità nel capoluogo. E’ necessario che i politici locali veglino su quei fondi per salvarci dal prossimo disastro: la povertà.

Mario Marroccu

Foto del Premier Mario Draghi licenza CC-BY-NC-SA 3.0 IT

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Il virus dilaga. L’ha confermato il ministro della Sanità Roberto Speranza. Le dosi del vaccino, nel breve periodo, non bastano per tutti. Non abbiamo farmaci antivirali efficaci tranne i costosissimi anticorpi monoclonali. E inoltre siamo consapevoli che la eradicazione del virus non è possibile, per ora, e la sua scomparsa, se mai avverrà, sarà preceduta da molti anni in cui dovremo difenderci.
Siamo ancora lontani dall’uscita dalla Pandemia e la mortalità non decresce. Se si considera che a metà febbraio, cioè a un anno dal suo inizio, è previsto il raggiungimento della quota di 95.000 morti e che oggi ne abbiamo in media 550 al giorno, si prevede che entro il prossimo anno potremmo raggiungere i 200.000 decessi. Cioè il doppio di quest’anno.
Gli Scienziati stanno elaborando previsioni matematiche che includono quattro fattori:

1 – l’inizio delle vaccinazioni,

2 – l’aspettativa popolare della cessazione della Pandemia per effetto dei vaccini,

3 – il tempo che si impiegherà per vaccinare almeno il 70% degli italiani,

4 – la scarsità di dosi di vaccino.

Il professor Nicola Perra ed il suo gruppo di ricercatori, in base ai dati pervenuti dagli Istituti di rilevazione, prevedono un aggravamento della Pandemia e della mortalità in Italia, Francia, e Regno Unito. Questo effetto paradossale sarebbe dovuto al fenomeno psicologico di rilassamento dei comportamenti indotto proprio dalla insperata messa a disposizione del vaccino.
Il lavoro di Nicola Perra, che verrà pubblicato a giorni in una rivista scientifica inglese, conferma che è necessaria una exit strategy (strategia d’uscita) dalla pandemia attraverso una vaccinazione massiva ultrarapida. L’ideale, secondo altri scienziati italiani, sarebbe vaccinare tutti entro due mesi.
Questo concetto della exit strategy è noto agli eserciti in armi che si preparano ad abbandonare un teatro di guerra. Nessuno dimentica i disastri che avvennero al momento dell’uscita degli Americani da Saigon per chiudere in fretta la guerra del Vietnam. Fu una tragedia. Oggi stiamo assistendo alle difficoltà delle truppe americane a mettere in atto l’exit strategy dall’Afghanistan tanto da indurli a chiedere una mediazione con i Talebani. Similmente può avvenire nel nostro caso. Infatti secondo il gruppo del prof Perra si sta registrando, ovunque siano iniziate le vaccinazioni del personale sanitario, un generalizzato rilassamento dei comportamenti di sicurezza e questo rende difficilissima la exit strategy dalla Pandemia.
Nulla oggi consente il rilassamento delle restrizioni e della prudenza perché rispetto ad un anno fa le condizioni sono peggiorate in quanto:
– Un anno fa c’era solo un paziente positivo al Covid all’Ospedale di Codogno,
– Oggi i positivi sono centinaia di migliaia distribuiti ovunque,
– Mancano farmaci antivirali efficaci,
– Sono comparse le più contagiose variante inglese, sudafricana e brasiliana.
– L’allerta di Irlanda e Inghilterra di oggi è più grave dell’allerta dato da Vuhan un anno fa.

Oggi si affaccia un nuovo problema. L’etica del “triage” (scelta, smistamento, dei pazienti da curare). La paura di ammalarsi, le restrizioni di libertà, i problemi economici e politici hanno la capacità di modificare la serenità di giudizio nei rapporti umani e in questi giorni sta emergendo un problema etico che prima della Pandemia non era immaginato dal cittadino comune. Esso consiste nella possibilità che i soggetti più deboli possano non essere più curati. Questo è emerso nella bozza del nuovo Piano Sanitario Nazionale delle emergenze.
In un articolo di tale Piano si ipotizza la possibilità di escludere dalle cure i pazienti più fragili nel caso in cui vi sia scarsità di farmaci o di posti letto. Il che porterebbe a dover scegliere tra chi potrebbe avvalersi dei benefici delle cure e chi no. Al problema è stata trovata la soluzione etica che si può sintetizzare così: «In caso di scarsità di farmaci il terapeuta potrà essere costretto a somministrarli solo a chi ha più possibilità di sopravvivenza».
Il dilemma di capire chi salvare e chi no in corso di disastro è antico. E’ stato frequentemente risolto dando le terapie ai più giovani, forti e recuperabili, e concedendo ai più deboli solo il conforto finale. Ma, secondo le culture, non è sempre stato così.
Nel Giuramento di Ippocrate del quarto secolo a.C. non esiste una facoltà di scelta su chi curare e chi abbandonare alla morte. Nella Grecia classica si riporta la leggenda di Enea che salvò il vecchio padre portandolo sulle sue spalle fuori da Troia in fiamme. Non lo abbandonò al suo destino.
Di converso esiste nella storia il racconto degli Spartani che non consentivano la sopravvivenza ai figli malaticci. Si racconta che praticassero l’eutanasia a scopo eugenetico gettandoli dal monte Taigeto.
Anche tra i Nuragici esisteva la pratica della eutanasia del vecchio genitore che, drogato col mielamaro fermentato di corbezzolo, veniva precipitato da un’alta rupe. Racconta lo storico Diodoro Siculo che i vecchi genitori andavano alla morte accompagnati dai figli, avendo sul volto uno strano e atroce sorriso (il risus sardonicus).
Nella cultura classica greca e romana i poveri e malati venivano in genere ignorati perché sgraditi agli dei. La “carità” fu un elemento culturale nuovo, introdotto dal cristianesimo del terzo e quarto secolo d.C. La misericordia e la compassione irruppero nella Storia come valori per opera di San Basilio, vescovo a Bisanzio. Egli applicò come regola del suo Ordine i valori rivoluzionari insiti nella parabola evangelica che dice: «Scendeva un uomo da Gerusalemme a Gerico. Si imbatté nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e lo lasciarono messo morto sul ciglio della strada. Passò un Levita che lo vide ma lo ignorò. Passò un sacerdote del tempio che lo ignorò anch’esso. Passò poi un samaritano che si fermò, gli medicò le ferite con olio e vino; quindi lo mise sulla sua giumenta e lo portò in un albergo. Dette due denari all’oste perché lo assistesse e disse: abbi cura di lui e al mio ritorno ti pagherò.»

Questa parabola fu il seme che dette origine alla invenzione degli Ospedali del mondo occidentale cristianizzato.
In Italia, nel quinto e sesto secolo d.C., San Benedetto da Norcia fece suoi gli stessi principi ed insegnò che i «pauper Christi (i poveri di Cristo) rappresentano, nella sofferenza delle loro carni, il Cristo in terra». L’assistenza ai malati abbandonati fu la regola del suo Ordine. Le decine di migliaia di hospitalia dei monaci benedettini diffusi in Europa evolvettero e, dopo mille anni, divennero Ospedali. Qui i ricchi del Medioevo versavano le loro quote per curare gli incurabili e meritarsi il Paradiso.
Sia nelle guerre romane che in quelle del Medio Evo i feriti morivano sul campo e venivano sommariamente assistiti dal compagno d’arme più vicino. Non ottenevano cure mediche.
Il primo generale a non abbandonare i morenti sul campo fu Napoleone Bonaparte; aveva costituito la Sanità Militare e fondato ospedali per gli invalidi. L’amore che avevano per lui i suoi soldati non fu casuale. Il Duca di Wellingthon che lo battè a Waterloo, al contrario di lui non era amato e considerava i suoi soldati “carne da cannone”, e non metteva presidi sanitari in campo.
Come si vede la storia della solidarietà umana è lunga e combattuta.
Nel 1856 Florence Nightingale costituì il primo corpo di infermiere della storia per l’assistenza dei feriti in guerra e curò i morenti della Guerra di Crimea combattendo contro una epidemia di tifo e di colera. Dei 17.000 soldati dell’esercito Sardo combattenti in quella guerra ne rientrarono solo 14.000. Tremila morirono d’epidemia.
Nel 1859 lo svizzero Henry Dunant, dopo aver assistito all’atroce abbandono dei feriti morenti nella battaglia di Magenta, fondò la Croce Rossa Internazionale che da allora dette assistenza ai feriti gravi e ai malati di tutti i fronti e si pose la regola di non scegliere mai tra chi curare e chi no.
La Prima e la Seconda guerra Mondiale videro per la prima volta (dopo Napoleone) i medici chirurghi scendere in campo assieme ai soldati per soccorrerli immediatamente.
A Pearl Harbor il proditorio attacco giapponese alla flotta americana fu una tragedia immane. Medici ed infermieri erano in numero esiguo. In quel caso l’ingresso dei feriti all’Ospedale fu controllato da alcune infermiere che fungevano da filtro. Esse contrassegnavano con un colore i feriti che avevano prospettiva d’essere salvati e quelli che non si potevano salvare. Era il “triage”. I feriti gravi non salvabili non superavano la porta d’ingresso dell’Ospedale.
Il 1950 fu l’anno in cui la Sanità passò ad un’altra epoca. Da allora iniziò la metamorfosi dell’etica sanitaria in una direzione più evoluta.
Gli ospedali di tutto il mondo, dopo lo sviluppo tecnologico della chirurgia di guerra, iniziarono a dotare le sale operatorie dei nuovi respiratori automatici collegabili ai pazienti in coma. Ciò dimostrò la possibilità di far sopravvivere i traumatizzati gravi del cranio e del torace. Inoltre la guerra aveva dimostrato l’importanza e la fattibilità delle emotrasfusioni, della chirurgia toracica e promosso l’ingresso degli antibiotici nella pratica medica.
A modificare in meglio le implicazioni etiche nei trattamenti curativi dei pazienti intervennero gli effetti giurisprudenziali delle sentenze, contro i criminali nazisti, del Processo di Norimberga del 1946. Le sentenze si espressero duramente contro chiunque avesse, nella pratica medica, manifestato disprezzo per la salute e la vita dei più deboli, applicando comportamenti selettivi e soppressivi ispirati ai principi del razzismo e della eugenetica.
In Italia i principi della Sentenza di Norimberga vennero recepiti nell’articolo 32 della Costituzione del 1948 («la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti…») E’ l’articolo della solidarietà civile.

Nel 1978 la Legge di Riforma Sanitaria n. 833 fu talmente estensiva sul diritto alle cure che venne definita la “Legge della assistenza dalla culla alla tomba”.
Dagli anni ’90 del secolo scorso si succedettero diverse crisi economiche e il Sistema Sanitario Nazionale venne progressivamente trasformato in una struttura a gestione simil-privatistica in cui al centro della sua mission non c’era più soltanto il diritto alla salute ma anche l’effetto limitante del bilancio economico. Così il paziente divenne cliente e le Unità Sanitarie Locali (USL) divennero Aziende Sanitarie Locali (ASL). (legge sull’aziendalizzazione della Sanità n. 502/92).
A capo dell’Azienda Sanitaria, come in ogni fabbrica, venne messo un manager il quale, con potere monocratico , concentra le sue attenzioni sugli incassi e sulle spese. A questo potere si aggiunge una facoltà del tutto nuova: il premio per la buona gestione del bilancio che il Manager può deliberare a proprio favore. Il premio deve essere giustificato dal raggiungimento degli obiettivi di “efficienza ed efficacia” che ha dato a se stesso. Naturalmente il beneficio sanitario deve avvenire con risparmio sulle spese. Tale risparmio si tradusse in una progressiva riduzione delle spese in Sanità tramite la riduzione di investimenti su attrezzature, immobili, posti letto, e personale. Col blocco del turn over il personale andato in pensione non venne equamente sostituito con nuove assunzioni e questo portò alla drastica riduzione dei dipendenti. Oggi, per effetto di queste dinamiche contabili, assistiamo nel Sulcis Iglesiente alla chiusura di ospedali, di reparti specialistici e alla necessaria emigrazione di pazienti nostrani da Carbonia e Iglesias verso gli Ospedali pubblici e privati di Cagliari o Milano.

Questo breve escursus storico serve a capire che l’etica sanitaria è relativa ai tempi che si vivono.
– C’è quella religiosa, basata sulla misericordia e compassione,
– C’è quella politica, basata sulla solidarietà,
– C’è quella contabile, basata sul bilancio.
La nuova etica è quella del raggiungimento degli obiettivi di “efficienza ed efficacia”. Colui che stabilisce che è stato raggiunto il successo dell’azione amministrativa è il manager. Ma questo non significa che gli obiettivi sanitari del manager siano simili agli obiettivi che ha il cittadino nei riguardi della propria salute. Il cittadino, che ha possibilità finanziarie, raggiunge i propri obiettivi portando se stesso o i suoi cari negli ospedali della città capoluogo o in quelli della Capitale politica o economica. Le amministrazioni degli Ospedali non rispondono ai cittadini ma agli assessori regionali. Quest’ultimi rispondono al ministro della Sanità e a quello delle Finanze.
In questo contesto oggi sta emergendo il problema etico su chi salvare e chi no nel caso ci sia penuria di farmaci in condizioni di emergenza Covid. Tuttavia, coloro che lo pensano, per applicare questo nuovo principio avranno necessità di modificare il codice etico dei medici, e anche la giurisprudenza. Mi pare che dovranno modificare un po’ l’articolo 32 della Costituzione, la sentenza di Norimberga, la cultura della Solidarietà, quella della compassione e misericordia e, naturalmente, avranno bisogno di modificare anche la parabola del buona samaritano. A queste condizioni mi sembra molto difficile che si possa creare un nuovo codice etico.
Per capire quale possa essere la soluzione userò come metafora un fatto realmente avvenuto molti anni fa nell’ospedale di Carbonia. Un chirurgo ostetrico doveva assistere due donne, ambedue anemizzate da un’emorragia, ma aveva a disposizione una sola unità di sangue. Risolse istantaneamente il problema trasfondendo la sacca ad una delle due pazienti. Poi procedette ad estrarre dal proprio braccio una intera sacca di sangue e a trasfonderla all’altra paziente.
E’ evidente che questo esempio non è da considerare imitabile. Però ha il significato di indicazione sulla strada da seguire. La strada è sempre la stessa indicata dalla parabola da cui sono nati tutti gli ospedali. Il Buon Samaritano rappresenta gli Enti finanziatori che nel tempo hanno pagato le cure.
Di volta in volta sono le associazioni caritative religiose, oppure le società filantropiche laiche. Oggi lo è la più grande Società di Mutuo soccorso della nostra storia lo Stato.
Il problema della penuria di farmaci non va risolto modificando il codice etico dei medici ma va neutralizzato con investimenti preventivi per l’acquisto di scorte, l’impianto di fabbriche farmaceutiche dedicate e con il finanziamento della ricerca scientifica. Così pure vale per gli Ospedali da costruire, i reparti da attrezzare e il personale da assumere. E’ un argomento da Next Generation EU. Andando in questa direzione resteremo sul percorso già tracciato dalla Costituzione italiana, e dalla legge 833/78.

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Sono passati 11 mesi di epidemia; sta iniziando l’anno 2021, eppure la lezione non è stata appresa. Il contagio si è esteso più che mai e la paura di ammalarsi è scemata con l’inizio simbolico delle vaccinazioni. Calma! Noi il vaccino lo vedremo fra sei o sette mesi. Nei mesi in cui saremo scoperti dalla protezione del vaccino il virus farà ancora molti danni. Inoltre, sta per arrivare la “variante inglese” che, come si sta vedendo a Londra, colpisce in fretta e si espande velocemente. Pertanto, guardiamoci attorno: la nostra Sanità del Sulcis Iglesiente è in ginocchio. I reparti più importanti dell’Ospedale di Carbonia non possono più accettare ricoveri a causa di un ampio focolaio di Covid che imperversa fra il personale medico ed infermieristico. La malattia si è estesa a macchia d’olio nelle loro famiglie. Il personale delle strutture territoriali anti-Covid è scarso. Le risposte dei tamponi molecolari tardano ad arrivare. Le famiglie colpite non hanno sempre la possibilità di essere assistite per le più elementari cure della persona. Il problema ci accompagnerà per molti mesi ancora e dobbiamo cercare di trascorrerli nel modo più prudente possibile. Non ci rimane che resistere.
Disfatte collettive sono già avvenute in passato. La lezione della storia ci dice che è più prudente avere un atteggiamento guardingo e non aspettare che arrivi un “Superman” da fumetto a salvarci. Dobbiamo salvarci con le nostre forze, altrimenti si finisce male.
La Prima Guerra Mondiale ci offre una tremenda dimostrazione di cosa sia un disastro nazionale. Prendiamo un esempio dal racconto nel libro di Gabriele Loi “Antiochensi nella leggenda del Piave”.
Il 24 ottobre 1917 iniziò la disfatta di Caporetto. L’attacco austro-tedesco era iniziato con furiosi bombardamenti sulle vette delle montagne dove erano appostate le artiglierie italiane e situati i comandi delle operazioni. Mentre nell’alto dei monti si scatenava l’inferno, a fondo valle avvenivano, in silenzio, cose strane. Sulla destra del fiume Isonzo, cadevano proiettili che non facevano rumore ma liberavano un gas terribile. Era il gas iprite (mustard gas). L’iprite produceva dei vapori di cloro che, entrando nei polmoni e combinandosi col vapore acqueo dell’alito, produceva acido cloridrico, il quale corrodeva i bronchi e gli alveoli. Quei poveri soldati che finivano nella nube di gas, perdevano conoscenza per mancanza d’ossigeno. Subito dopo arrivavano, in silenzio, i tedeschi che, armati di mazze ferrate, fracassavano il cranio ai poveretti.
Altri soldati, sorpresi dalle squadre del tenente Rommel, venivano fatti prigionieri a migliaia. Le truppe italiane, senza ordini e senza un piano per reagire a quello strano attacco, caddero nel panico. Erano rimaste sole e prive della copertura dell’artiglieria da montagna che non intervenne. I fuggiaschi tentarono di raggiungere i ponti del fiume Isonzo ma ebbero un’atroce sorpresa. Il Comando italiano li aveva fatti minare e saltare in aria per impedire ai soldati il rientro al di qua delle linee. Molti giovani soldati in fuga vennero fermati dalla polizia militare e fucilati seduta stante con l’accusa di diserzione. La Brigata Sassari, invece, protesse l’ultimo ponte e facilitò il rientro delle truppe in rotta, poi per ultima, rientrò al di qua dell’Isonzo.

Nel giro di pochi giorni la disfatta fu totale. Furono fatti prigionieri 265.000 soldati italiani e spediti nei campi di concentramento austriaci ed ungheresi. Il comandante in capo, il generale Luigi Cadorna, aveva fatto cadere le colpe della disfatta su di loro, dichiarandoli disertori. Per effetto di ciò, mentre Francia ed Inghilterra inviarono pacchi postali, contenenti viveri e indumenti, ai loro soldati prigionieri degli austro-tedeschi, gli italiani non ricevettero alcun conforto dall’Italia e molti morirono di stenti. Morirono in silenzio, innocenti e sottomessi.
In questa sintesi della disfatta di Caporetto, vi sono alcuni elementi sui quali riflettere:
1 – La disfatta avvenne più per la mancanza di un piano di difesa che per il valore degli austro-tedeschi,
2 – Molti italiani morirono per mano italiana, a seguito delle accuse di colpa avanzate dal Comandante in capo,
3 – Quella strage immane, autoinflitta, avvenne nel “silenzio” della Nazione spaventata.
Oggi stiamo subendo un’altra disfatta: il disastro sociale, economico e politico da Covid. E’ anche questa una strage “silenziosa”. Nei prossimi giorni supereremo le 80.000 vittime e poi raggiungeremo le 90.000. Oltre ai morti avremo, come nelle guerre, gli “invalidi”. E saranno numerosi.
Il virus attacca le nostre cellule e penetra dentro di esse attraverso la proteina “Spike”, che si attacca ai recettori di parete cellulare noti col nome “Ace-2”. La “Spike” è la chiave; l’Ace-2 è la toppa della serratura della porta d’entrata delle cellule. Il virus entra in silenzio, come se fosse un amico o un familiare ben noto. Poi comincia a riprodursi nel “citoplasma cellulare”. A questo punto, intervengono in difesa le cellule chiamate macrofagi. I “macrofagi” non fanno alcun tentativo di salvare le cellule infettate. Al contrario, le uccidono. Ci ricordano la polizia militare italiana che fucilava i militari che cercavano di mettersi in salvo. Poi, i macrofagi iniziano a produrre l’”interleuchina 6”. Si attivano anche i “linfociti”. Essi producono altre “interleuchine” che intossicano le cellule infette, in una disordinata reazione globale di difesa (difesa aspecifica delle citochine) provocando la sofferenza e anche la morte di cellule malate e sane in tutti gli organi e tessuti. Il loro attacco provoca danni infiammatori e degenerativi delle arterie (arterite di Tokaiasu), delle vene (lebiti e flebotrombosi), del rene (nefriti), del fegato (epatiti), del cuore (miocarditi), del cervello (encefaliti), dei nervi (euriti), dei polmoni (polmoniti), della pelle (dermatiti). La morte cellulare massiva provoca necrosi tessutali che avranno conseguenze invalidanti come: scompenso respiratorio, scompenso cardiaco, insufficienza renale, insufficienza epatica, danni cerebrali (disturbi neurologici complessi con amnesia, deficit sensitivi, e anche danni psichici e della personalità). Un danno neurologico tremendo che può manifestarsi è la “sindrome di Guillon-Barrè”. E’ simile alla SLA. Se non viene diagnosticata e curata in tempo, provoca la morte per insufficienza respiratoria. Queste patologie possono dar luogo a  invalidità permanente. Gli invalidi da Covid saranno di un numero oggi imprecisabile.
Nonostante l’arrivo del vaccino, non abbiamo idea di quanto tempo ancora il virus continuerà a circolare e fare vittime. Inoltre, nonostante il clamore dell’inizio delle vaccinazioni, il virus si sta ancora diffondendo a ritmo sostenuto. C’è da temere che la gente ritenga che la battaglia sia finita, perché è giunto il vaccino e si abbandoni al disarmo dell’attenzione e della voglia di lottare.

Nelle disfatte il “silenzio” e la rassegnazione, sono gli elementi dominanti. Anche nel Sulcis Iglesiente il numero degli infettati si è moltiplicato in tutte le città, grandi e piccole. Secondo quanto leggiamo nei quotidiani, vi sono dei problemi nell’ospedale di Iglesias e in quello di Carbonia: molti professionisti della sanità sono stati infettati ed essi, inconsapevoli ed incolpevoli, sono stati messaggeri del virus all’interno delle loro famiglie.
In passato, questo giornale suggerì di mettere le “briglie” al virus, con uno screening di massa tramite tampone molecolare. A questo stimolo rispose solo la Fondazione di Sardegna che donò all’ATS una somma destinata all’acquisto di un “processatore di tamponi”. Dopo una lunga attesa l’ATS decise di accettare il dono e oggi è stata diffusa la notizia, dalla stampa del 29-12-2020, che quel processatore non è mai entrato realmente in funzione per problemi con i reagenti. Di fatto, il momento dello screening (estate) passò ed il virus, dalle discoteche, traboccò sulla popolazione di tutta la Sardegna. A questo punto, si poteva ancora tentare di “imbrigliare” il virus con il “tracciamento”. Però il personale dedicato, tra Carbonia e Iglesias, si contava sulle dita di una mano. La conseguenza è oggi evidente.
Ora esiste un focolaio che sarà durissimo da spegnere. Si sperava che venisse aperto il “Covid Hospital” del Santa Barbara di Iglesias ma ciò non è avvenuto per mancanza di fondi regionali. Tuttavia, sono stati trovati i fondi per l’apertura del “Covid Hospital” al Binaghi. Pare sia in preparazione un altro “Covid Hospital” all’Ospedale Marino di Cagliari.
Il Santissima Trinità, il massimo centro Covid per tutta la Provincia, ha tutti i posti occupati ed è difficile accogliere per tempo anche i malati Covid di Carbonia e Iglesias.
La mancata apertura del Covid Hospital al Santa Barbara ha reso necessario mantenere i sospetti infetti, e gli infetti accertati, negli ospedali generali di Carbonia e Iglesias. Tempo fa la stampa rese noto che era stato deciso di creare una “zona grigia” all’Ospedale di Carbonia, allo scopo di evitare la commistione tra infetti dal virus e malati d’altro genere negli stessi locali. Purtroppo, la “zona grigia” appena organizzata al Sirai venne chiusa dopo pochi giorni. La conseguenza è stata la inevitabile prossimità tra malati Covid e non-Covid.
Il focolaio Covid dell’Ospedale Sirai, con un effetto a cascata, ha provocato l’impossibilità di ricoverare nuovi pazienti nei reparti di Medicina e di Chirurgia. Considerato che le vittime del dilagare del virus si trovano anche tra il personale sanitario dell’Anestesia, della Radiologia e del Pronto Soccorso, ne consegue che di fatto l’ospedale intero non è più disponibile. In più, si legge negli organi di informazione, che la Dialisi di Carbonia, già falcidiata dai pensionamenti e dalle mancate assunzioni per il ricambio, sta per essere fortemente indebolita con la chiusura del turno di dialisi notturna. E’ incredibile. Si sta procedendo a depotenziare ulteriormente un reparto che era classificabile tra i migliori in tutto il territorio nazionale. Altri innocenti stanno per pagare colpe che non hanno.

In sintesi: oggi Il Sulcis Iglesiente non ha più un’assistenza ospedaliera come è previsto che esista.

Il giorno 29 dicembre, abbiamo tutti appreso dalla stampa che finalmente il nuovo commissario della ASSL di Carbonia Iglesias ha ordinato l’acquisto di nuovi apparecchi ultraveloci per processare i tamponi di screening del Coronavirus. Sono esattamente quelli che andavano acquistati con la donazione della Fondazione di Sardegna erogata a maggio 2020, durante la prima ondata.
Ormai è andata così. Immagino che la sorpresa di questa pandemia inaspettata, dovuta ad un virus sconosciuto, abbia giocato un ruolo importante. Tuttavia sorgono molte domande:
– Perché fin dall’inizio della pandemia il Sulcis Iglesiente non venne inserito nella lista delle ASSL destinatarie di un processatore molecolare, mentre si procedeva agli acquisti per tutte le restanti ASSL della Sardegna?
– Perché con i soldi donati venne acquistato un processatore inusabile?
– Perché non venne aperto il “Covid Hospital” al Santa Barbara di Iglesias?
– Perché venne chiusa la “zona grigia” al Sirai e si lasciarono i pazienti Covid positivi in ambienti non idonei e non isolabili dai circuiti indenni da Covid?
Prendiamo atto che questo è avvenuto e che oggi il virus circola più di prima.
Caporetto insegna molte cose. Per esempio, insegna che quei poveri soldati innocenti, che cercavano di salvarsi da un fronte distrutto, si videro accusati dai loro Comandanti d’essere causa della disfatta e puniti a perdere la vita. Morirono perché la loro difesa rimase in silenzio e perché la verità la decide il più forte. Ma poi venne il generale Armando Diaz e le sorti della Guerra si invertirono.
Speriamo che l’acquisto di questi nuovi processatori ultrarapidi, sia il segno dell’inizio della riscossa.
Basta con il silenzio e “Fortza Paris”.

Mario Marroccu