22 December, 2024
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La Sanità di Iglesias e Carbonia del dopoguerra fu il prodotto professionale di Medici illustri.
Iglesias eccelleva nella Pneumologia, nella Pediatria, nell’Ortopedia, nella Ostetricia e Ginecologia e nella Chirurgia Generale. Aveva un’ottima Medicina Interna e una Radiologia di altissimo livello.
L’Ospedale di Carbonia prese ad esistere per effetto dello studio e del sacrificio quotidiano di medici versati in tutte le branche della Medicina.
Questo fu il primo periodo. Poi negli anni ’70 arrivarono altri professionisti illustri come il professor Lionello Orrù, cattedratico di Anatomia Umana Normale all’Università di Cagliari e docente di Anatomia Chirurgica nella scuola di specializzazione di Chirurgia.
Alla direzione del reparto di Ostetricia e Ginecologia, dopo il dottor Renato Meloni, venne nominato il dottor Giommaria Doneddu. Questi aveva perfezionato la sua specializzazione in Francia ed aveva introdotto in Italia il professor Kos di Lubiana, esperto nelle tecniche di isterectomia senza taglio addominale.
Questi Medici illustri sono tutti scomparsi. Hanno lasciato come eredità alle due città, insegnamenti di Medicina e di Chirurgia che ancora si tramandano.
L’Ospedale Comunale di Carbonia aveva come Presidente il Sindaco. L’apparato amministrativo era costituito da 5 impiegati.
La Direzione Sanitaria era condotta da un Primario nominato dal Sindaco su indicazione del Consiglio dei sanitari. La parte politica interveniva per ratificare le indicazioni date dal Consiglio
dei Sanitari. L’armonia tra parte laica e parte sanitaria era perfetta. Successivamente questo ordine di cose venne stravolto.
Attualmente la Direzione Generale della ASL viene nominata dal Presidente delle Giunta Regionale. I Sindaci sono esclusi dalla scelta.
Oggi il Direttore Sanitario viene nominato dal Direttore Generale. Anche in questo caso i Sindaci sono esclusi dalla scelta. Ne sono esclusi anche i Primari Ospedalieri.
Questo nuovo sistema di gestione ha una scala gerarchica in cui i Sindaci e i Medici non esistono. In sostanza esiste un rapporto semplificato fra due soggetti: nel gradino superiore c’è chi comanda, e nel gradino inferiore c’è chi obbedisce (i Medici) senza potere di replica. In questo modo le intelligenze sanitarie sono escluse del pianeta Sanità e non esiste possibilità che emergano personalità illustri.
Questo stato di cose dura da almeno 20 anni, cioè da quando si attuarono le revisioni della legge di Riforma Sanitaria n. 833/78. Con la revisione in senso burocratico degli Ospedali, il lavoro dei Medici fu regolato secondo schemi di “efficienza ed efficacia” che ricordano gli schemi della macchina produttiva industriale descritta magistralmente da Charlie Chaplin nel film “Tempi Moderni”. Il risultato fu la demotivazione dei medici, esclusi dalla programmazione, trasformati in “meccanici” esecutori in uno “stabilimento” dove si produce sanità come si producono “bulloni” a vantaggio di pazienti che vengono trattati come “clienti”.
L’ultimo dei Medici illustri dell’era dei “Comitati di Gestione” fu il dottor Paolo Pettinao. Fu il più grande Direttore Sanitario ed il più straordinario Primario di Anestesia. Lasciò in eredità una scuola di altri Primari Anestesisti. Non tutti sanno che egli fu il vero fondatore della Rianimazione che dette il via all’era dei trapianti. Negli anni ’80 esisteva un problema nel campo dei trapianti d’organo: il coma irreversibile deteriorava gli organi interni. Pertanto i reni, il cuore ed il fegato non erano utilizzabili. Ciò avveniva per il degrado metabolico del paziente comatoso. Il dottor Pettinao, a Carbonia, mise a punto tecniche per inserire i cateteri da alimentazione a livello dell’atrio destro del cuore. Tali cateteri servivano per misurare la “pressioni venosa centrale” e capire se il circolo arterioso fosse efficiente. In caso contrario si correggeva. Quei cateteri, sistemati all’imbocco del cuore, erano anche utili per infondere soluzioni  concentrate di Sali, Zuccheri, Aminoacidi, e Lipidi. Nessuno, fino ad allora, utilizzava questi metodi di “cateterismo venoso centrale” e “alimentazione parenterale” in Sardegna.
Ma non tutto era ancora chiaro sul perché si deteriorassero quei corpi.
Nel 1981 avvenne un fatto di politica internazionale che contribuì a gettare luce sul come mantenere efficiente il metabolismo degli organi mantenuti vivi con l’“alimentazione parenterale totale”. A Marzo era morto, in carcere a Londra, Bobby Sands. Costui era un affiliato all’IRA (Irish Republican Army) di Belfast. Catturato dagli inglesi, fu detenuto a Londra e tenuto in cattività per anni senza processo. Nel 1980 si svolsero le elezioni nel Regno Unito ed egli venne eletto parlamentare per la parte cattolica dell’Irlanda del Nord, vincendo sul candidato protestante. Nonostante ciò Margareth Tatcher non lo liberò. Allora Bobby Sands iniziò lo sciopero della fame. Dopo 50 giorni di digiuno, venne sottoposto ad alimentazione con sondino gastrico, tuttavia le sue condizioni metaboliche peggiorarono, finché morì nel 66° giorno dall’inizio dello sciopero della fame. Questo dimostrò che se un paziente fa un digiuno troppo prolungato, si verificano negli organi interni lesioni metaboliche irreversibili e, seppure si pente e riprende a mangiare, muore comunque. Il suo corpo venne sottoposto ad autopsia e studiato a fondo. Si scoprì che un digiuno prolungato altre i 40 giorni, provoca un danno irreversibile delle cellule. In particolare, crollano le strutture lipidico-proteiche che formano i pilastri portanti dell’edificio cellulare. La perdita dei grassi strutturali non è riparabile, ed è mortale.
Fu illuminante. Si capì l’importanza dei grassi nella dieta. I lipidi (grassi) non sono solo importanti per l’apporto energetico ma anche come elemento strutturale degli organi. I corpi in coma, in uno stato di restrizione dietetica prolungata senza grassi si deterioravano. In tutto il mondo, si approfondirono gli studi sull’alimentazione parenterale nei comatosi candidati al prelievo d’organi.
Il dottor Pettinao, a Carbonia, seguendo quegli studi, mise a punto schemi di alimentazione parenterale totale di soluzioni contenenti tutto ciò che serve alle cellule per sopravvivere.

Nel 1987 il dottor Pettinao vinse il primariato al Brotzu e, lì giunto, applicò le nuove tecniche di alimentazione in Rianimazione. I pazienti in coma, candidati al prelievo d’organi per trapianto, migliorarono il loro trofismo; gli organi nobili (reni, fegato, cuore) non si deteriorarono più ed iniziò l’era dei trapianti d’organo a Cagliari.

***

Negli anni successivi, gli Ospedali entrarono nell’“era grigia” del nuovo modo di gestire la Sanità pubblica, caratterizzato dall’esclusione dei rappresentanti politici delle città, dei Sindaci, e dei Primari.
Il ruolo dei Primari venne sottoposto a restrizione incompatibili con l’autostima. Fino a metà degli anni ’90, una volta vinto il concorso pubblico nazionale, i nuovi Primari sottoscrivevano con lo Stato un contratto a tempo indeterminato. Dopo la metà degli anni ’90 la nuova leva di riformatori di stampo “bocconiano” escogitarono un sistema che mise i “ceppi” al cervello dei Primari, inventando un modo opprimente di rapportarsi con loro: le nomine primariali potevano, da allora in avanti, durare solo 5 anni. Poi, dopo una valutazione della parte amministrativa, gli incarichi potevano essere rinnovati o dichiarati scaduti. Era come dire: «Tu mi appartieni».

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Dato questo stato di precarietà dei ruoli è difficile far esporre pubblicamente i Medici illustri dei nostri Ospedali. Comunque, ci sono, ma nell’ombra e nel silenzio. Possiamo trovare traccia dei nostri concittadini illustri in altri luoghi. Faccio due esempi.
Primo esempio.
Il professor Nicola Perra proviene dal Liceo scientifico di Sant’Antioco; oggi è un Fisico teorico prestato alla Sanità. Studia gli algoritmi che governano la diffusione delle notizie, delle idee politiche, della pubblicità, e delle epidemie.
Già il 31 gennaio, nella versione cartacea di questo giornale, parlammo del libro scritto dal professor Nicola Perra intitolato “CHARTING THE NEXT PANDEMIC”. Si tratta di una pubblicazione edita a Boston nel 2017 in cui venne prevista una Pandemia disastrosa da Coronavirus a partenza dalla regione di VUHAN in Cina. Aveva azzeccato i tempi della diffusione, le vie, i danni e l’ipotetica durata (imprevedibile).
Pochi giorni fa Nicola Perra ci ha inviato, dall’Università di Seattle, dove si trova per un contratto di studio, uno scritto che aveva già pubblicato nell’anno 2011 negli Stati Uniti. Ce lo invia a proposito della fine del lockdown e del pericolo ipotetico di seconda ondata, e dice: «L’ho scritto nel 2011…».

La paura si rafforza, fino a quando non riduce gravemente il serbatoio di individui sensibili, causando un declino di nuovi casi. Di conseguenza, le persone vengono attirate in un falso senso di sicurezza e tornano al loro normale comportamento (recupero della paura) causando un secondo picco epidemico che può essere ancora più grave del primo. Alcuni autori credono che si sia verificato un processo simile durante la pandemia del 1918, portando molteplici “CIME EPIDEMICHE”.
Suona familiare? Attenzione gente, non è ancora finita.

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Secondo esempio.

Riguarda il dottor Massimo Medda. Anche lui è un prodotto dei nostri licei del Sulcis Iglesiente. E’ un illustre Medico che ha dimostrato doti eccezionali nella gestione della epidemia di Coronavirus a Milano.
Laureato a Cagliari in Medicina e Chirurgia, ha poi studiato Cardiologia a Milano e oggi è Primario Cardiologo del reparto di Emodinamica dell’Ospedale Sant’Ambrogio del Gruppo San Donato.
Domenica 7 giugno, alle ore 11,30, è stato intervistato dal Direttore della rete televisiva RAI 3. Perché ne ha suscitato la curiosità? Perché durante il peggior periodo dell’epidemia, quando non si sapeva dove smaltire i tanti morti perché i forni crematori non bastavano, il dottor Massimo Medda continuava ad operare giorno e notte, senza paura per la sua vita, organizzando il reparto in modo tale da curare anche gli infartuati affetti da Coronavirus in fase acuta. Ha spiegato: «Ho diviso il reparto e la sala operatoria in 3 settori. Nel primo settore trattiamo i pazienti senza virus. Nel secondo settore trattiamo i Covid positivi infartuati, con angioplastica e stent, poi li trasferiamo in un reparto a loro dedicato. La parte più importante è il terzo settore. In questo vengono trattati con angioplastica tutti i pazienti di cui non si sa se siano o no affetti dal virus. A tutti viene eseguito, all’ingresso, il tampone rinofaringeo per estrarre l’RNA virale. Non aspettiamo neppure un minuto per la risposta di laboratorio. Portiamo subito il paziente in sala operatoria e lo operiamo per l’infarto, perché l’infarto non può attendere neanche un minuto. Poi, finito l’intervento, il paziente viene trasferito in una “zona grigia” e viene curato come seavesse il Coronavirus. Quando arriva il referto del tampone decidiamo la destinazione definitiva del paziente».
Questo oggi è il cardiologo emodinamista interventista più illustre della Lombardia e, dato che la Lombardia è la regione più colpita d’Europa, questo è il cardiologo interventista più illustre d’Europa.
Questi due casi servono a dimostrare che noi produciamo sempre Scienziati e Medici illustri e che ne abbiamo ancora molti altri. Gli altri, i locali, sono condannati al silenzio e all’ininfluenza.
Chiunque stia soffrendo per il clima di respingimento che si subisce all’ingresso dei nostri ospedali e, soprattutto, coloro che, avendo un infarto dopo le ore 16.00, vengono respinti perché il reparto di Emodinamica è aperto solo di mattina, dalle 8.00 alle 16.00, guardi l’intervista del dottor Massimo Medda.
Guardatela, commuovetevi davanti a questi giovani meravigliosi e pensate a tutti coloro che, avendo un infarto tra il venerdì sera ed il lunedì mattina, trovano le porte del reparto di Emodinamica di Carbonia chiuse.
Per Massimo Medda la vita di un vecchio, con l’infarto, vale come la sua vita. Per questo, corre il rischio di morire anche lui di Coronavirus. Ma qui a Carbonia, per motivi puramente amministrativi, avviene il contrario e questa propensione dei Medici, di dare se stessi per la salvezza del malato, non può essere espressa.
Questa lunghissima premessa serve a porci una domanda: «Perché siamo così vili da consentire tanto disprezzo per le nostre vite?»

Mario Marroccu

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La Storia dell’Uomo subisce sempre cambiamenti a causa dei grandi eventi:
La Prima Guerra Mondiale fece sparire i grandi Imperi: quello Turco, l’Austroungarico, e quello Russo.
La Seconda Guerra Mondiale fece sparire il Nazifascismo e fece nascere il blocco Comunista opposto a quello Atlantico.
Il crollo del Muro di Berlino fece cadere la divisione del mondo in due blocchi: quello Russo e quello Atlantico.
Il crollo delle Torri Gemelle intaccò la primazia Americana nel mondo e introdusse nella Storia i fermenti dell’Islam moderno.
La Pandemia di Covid-19 cambierà nuovamente tutto. Cambierà i rapporti politici e economici internazionali; cambierà il ruolo dell’Europa tra il blocco Russo, quello Cinese e quello Americano; l’Italia dovrà superare una crisi economica da causa sanitaria, e vedrà cambiare la qualità della vita, il lavoro, il commercio, le abitudini familiari, la cultura, la vita religiosa, l’istruzione e la Sanità.
Con l’ingresso nella “Fase 2” il virus è ancora presente fra di noi tuttavia non viene percepito come pericolo potenziale. Le differenze di valutazione sulla pericolosità attuale del virus creano sconcerto. Si va dal “negazionismo” della sua esistenza all’allarme. Per interpretare le diverse opinioni e, per capire la verità, bisogna esaminare le fonti che sono diversissime. Vi sono:
I Medici Clinici: essi valutano l’andamento dell’epidemia secondo lo stato di salute dei loro assistiti.
I Microbiologi: questi valutano seguendo le regole della Microbiologia.
Gli Epidemiologi: questi sono dei Fisici-Matematici che interpretano le curve di frequenza dei fenomeni.
Gli “Influencer”: essi diffondono opinioni secondo interessi di parti sociali.
I Politici: che vogliono conservare il consenso elettorale.
Gli Economisti: che verificano le implicazioni economiche scatenate dall’epidemia.
I Virologi: che studiano in laboratorio il virus e cercano di capire 3 cose.
a) Quale sia il serbatoio vivente dove si nascondono;
b) Quando si ripresenteranno nella seconda ondata;
c) Se il virus è mutato.

Per capire le differenze di opinione di queste diverse 7 fonti, si può rispondere con una frase scritta da David Quammen, 8 anni fa, nel libro “Spillover”: «La fine di un’epidemia produce grande felicità nei Governanti, mentre è considerata una grave iattura dai virologi che non possono più scoprire il “ serbatoio biologico” del virus».

Da questa dichiarazione, si capiscono i differenti obiettivi e l’inevitabile differenza di valutazione. Per meglio esprimere quanto sta succedendo col Coronavirus, può essere utile vedere cosa sta
avvenendo per un altro virus: il virus Ebola.
L’Ebola è un RNA-virus come il Coronavirus, ma è più cattivo. Appartiene alla categoria di rischio 4, mentre il Coronavirus è a rischio 3. E’ mortale nell’80 per cento degli infetti. Compare nelle foreste africane, ed è certo che il serbatoio è un animale. Non è stato ancora scoperto quale sia il suo “serbatoio biologico”. Si sa che uccide scimmie, gorilla e uomini, ma non si sa dove viva per poterlo eradicare. Ciò che lascia interdetti, è che compare improvvisamente e quasi contemporaneamente in luoghi lontanissimi fra di loro. Poi, così come è comparso, scompare. Non esiste una cura specifica. L’unica difesa efficace è: il distanziamento sociale, le mascherine e i guanti.

Si sono avute epidemie gravissime nelle Repubblica democratica del Congo, nelle Filippine e anche in una colonia di macachi in cattività in America. Sono stati scoperti 5 ceppi di questo virus. Esiste un vaccino solo per il ceppo n. 5 detto “Zaire Ebola”. Tutt’oggi i virologi non sanno quale sia l’animale in cui si nasconde e dentro il quale può viaggiare per il mondo. L’unica “fortuna” è che, essendo molto letale, la vittima colpita viene rapidamente uccisa. In tal modo, l’epidemia si autodelimita perché il paziente muore prima che possa contagiare altri. Ciò è, tuttavia, una iattura, perché i virologi non fanno in tempo a studiarlo.
In questo momento i virologi italiani sono particolarmente preoccupati perché non sono stati ancora individuati i “serbatoi biologici umani” che conservano dentro di sé il Coronavirus fino alla prossima epidemia. Sul futuro nessuno scienziato serio azzarda previsioni. Quindi si può supporre tutto: che il virus scompaia per sempre oppure che ritorni una fiammata pandemica a sia peggiore della prima.
Dato questa premessa possiamo solo dire: «Non so nulla…Però mi preparo per una eventuale nuova ondata».
Con la fine del lockdown, è iniziata laFase 2″ e l’unico presidio che abbiamo è ancora rappresentato dalle mascherine e dal distanziamento sociale. Però stiamo vedendo che la gente tende a ignorare
le prescrizioni e tornare allo stile di vita precedente alla pandemia. Questo è un problema. Ognuno di noi può risolvere il problema nazionale prendendosi cura della propria Sanità locale. Ma esistono delle difficoltà oggettive: per esempio tutt’oggi nessuno di noi, neppure gli stessi Medici di Base e gli Ospedalieri non sanno a chi rivolgersi per eseguire l’esame sierologico o il tampone rinofaringeo in regime ordinario. Questi due esami sono fondamentali per scoprire il portatore sano, chi ha avuto la Covid-19 senza saperlo e coloro che sono suscettibili di contagio. Senza questi dati elementari non ha senso l’app “Immuni”.
Questo dà la misura della totale impreparazione del nostro territorio per la diagnosi di laboratorio per Covid-19.
La cosa grave è che la nostra inadeguatezza sanitaria è molto più profonda. Riguarda ormai anche le malattie comuni che mettono in pericolo la vita. L’attenzione catturata dal Covid ci sta impedendo di vedere le gravi deficienze sanitarie da cui siamo afflitti, per cui non possiamo efficacemente contrastare neppure tutte le altre patologie.
Giovedì 4 giugno 2020, con stupore abbiamo letto alla pagina 8 dell’Unione Sarda che l’assessore regionale della Sanità ha dichiarato: «Pronti i protocolli per la ripresa delle attività ordinarie». Poi ancora il cronista scrive: «Lievitano le liste d’attesa. Cittadini disperati. I Sindacati minacciano lo sciopero. Fondi stanziati per l’abbattimento delle liste d’attesa = 21,5 milioni».
Contemporaneamente, tutti i Servizi ospedalieri sono stati preavvisati per la ripresa delle attività ambulatoriali ordinarie, sia sotto forma di visite specialistiche, sia sotto forma di esami di laboratorio, di cardiologia, e radiologia. Naturalmente dovrebbero riprendere con regolarità gli interventi chirurgici ordinari.
Queste notizie dovrebbero provocare sollievo. In realtà fanno sprofondare nello stupore. Ciò che viene annunciato è semplicemente impossibile da realizzarsi sia a Carbonia sia ad Iglesias. E la colpa non è del Covid-19.
Già da anni si è proceduto alla demolizione sistematica dell’apparato ospedaliero del Sulcis Iglesiente. E’ falsa l’idea che Iglesias abbia 3 ospedali. In realtà il Crobu è chiuso da anni. Il Santa Barbara è praticamente chiuso. Persiste un ambulatorio di Oculistica. Il CTO ha perso diverse specialità. E’ finita l’epoca della Chirurgia Pediatrica e del reparto di Oculistica. E’ praticamente “evaporato” il reparto di Ostetricia e quello di Pediatria. La Chirurgia Generale ha perso i suoi chirurghi anziani e oggi funziona come Weeck Surgery. Cioè chiude i battenti il venerdì sera e riapre il lunedì. Così pure chiude la Nefrologia e Dialisi nei fine settimana e nei festivi. La Radiologia e l’Endoscopia Digestiva sono ridotte ad attività minimali rispetto al passato. Il personale globale è ridotto.
A Carbonia, nel periodo pre-covid e durante il Covid, l’Ospedale è stato, senza mezzi termini, “saccheggiato”. Chiusa l’Ostetricia e Ginecologia, chiusa la Pediatria, chiusa l’Anatomia Patologica.
Gravissima la menomazione dell’organico di Medici in Radiologia. Fino a poco tempo fa, tra Iglesias e Carbonia, le radiologie avevano 22 Medici specialisti. Oggi ne hanno solo 12 fra i due Ospedali, con enormi problemi di turnazione. I pochissimi Medici residuati sono oberati di lavoro d’urgenza. Eseguono in media 3.500 esami a testa all’anno, mentre negli ospedali normali (cioè quelli normodotati di Cagliari e Sassari) arrivano a 2.000 esami a testa all’anno. A Carbonia si eseguono 30 TAC al giorno. Ad Iglesias 30 la settimana (calo dovuto alle attività diminuite nei reparti ridotti in personale, posti letto e sedute operatorie). Si assicurano le urgenze giorno e notte senza requie.
E’ difficilissimo assicurare l’essenziale in uno stato di urgenza perenne. E’ semplicemente impensabile ritenere di far credere alla popolazione che potrà prenotare e ottenere TAC e Risonanze Magnetiche ambulatoriali in tempi brevi. L’unico sbocco possibile sarà sempre la ricchissima e dotatissima Cagliari. A tanto disagio della popolazione, corrisponde un profondo disagio degli specialisti. Ne consegue il desiderio di lasciare questi ospedali diseredati per altri lidi.
Gli Anestesisti Rianimatori sono stati gravemente ridotti di numero tanto da non poter assicurare le sedute operatorie routinarie che erano usuali fino a 5 anni fa. Oggi si può operare in regime di estrema urgenza. Le Chirurgie, a dispetto delle infinite liste d’attesa, non possono convocare i pazienti, perché non possono operare come sarebbe necessario, a causa dell’esiguità del numero di Anestesisti. Naturalmente ciò comporta la “mobilità passiva” dei pazienti verso altri ospedali, incrementando fortemente le spese.
L’Ortopedia è stata “saccheggiata” anche pochi giorni fa. Sono stati portati via i due chirurghi più anziani. Rimangono il Primario incaricato e alcuni giovani Medici. Se nostra madre cadesse accidentalmente a casa e si fratturasse il femore, avrebbe necessità di un intervento d’urgenza, non differibile oltre le 24 ore. E’ noto, infatti, che i protocolli impongono l’intervento immediato per prevenire l’alta mortalità da broncopolmonite ipostatica o l’embolia polmonare da trombosi venosa profonda. Ebbene, non si può operare e salvare la vita a questi pazienti secondo i canoni prescritti dalle regole a causa della mancanza di Ortopedici e Anestesisti. L’attesa per l’intervento sarebbe di 7-10 giorni.
Altro che Covid 19!
La vera pandemia che strangola i nostri Ospedali è molto peggio del virus. Uccide, anche questa, come il Covid, ma con una dinamica che assomiglia di più a quella che ha soffocato il povero George Floyd a Minneapolis.
La situazione dell’Emodinamica di Carbonia è un affronto a tutta la popolazione che grida giustizia. Non è minimamente pensabile che uno qualsiasi di noi possa avere un infarto al cuore fra le ore 8.00 e le 16.00, dal lunedì al venerdì, ma non possa averlo un minuto dopo quell’ora perché alle 16.00 il Servizio di Emodinamica chiude e resta chiuso dalle 16.00 del venerdì alle 8.00 del lunedì successivo. Cosa fa allora l’infartuato? Rimonta in macchina e, se ci arriva ancora vivo, va al Brotzu. Una volta lì, fa di nuovo la fila in codice rosso per essere visitato, ricoverato e portato in Cardiologia. Qui, se è ancora vivo, viene preparato per l’angioplastica. Naturalmente, così si perdono ore preziose per la sopravvivenza. E’ evidente che la vita del nostro infartuato non ha un valore tale da convincere i Responsabili ad assumere il personale mancante in Emodinamica a Carbonia e a tenere il servizio sempre attivo, 24 ore su 24.
Il punto è proprio questo: quanto valgono le vite della vecchietta fratturata al femore e quella dell’infartuato? Valgono molto poco. I nostri rappresentanti politici dovrebbero porsi il problema.
E’ molto difficile crederci, però è necessario credere almeno al Presidente Sergio Mattarella: speriamo, per la ripresa del post Covid, nell’“unità morale della Nazione”. Oppure, cerchiamo intensamente di credere alle parole del Governatore della Banca D’Italia Ignazio Visco che pochi giorni fa ci ha esortato a redigere un “nuovo contratto sociale”. Finché non ci proveranno che anche noi siamo coinvolti come parte contraente nel “nuovo contratto sociale” dobbiamo pensare che sia solo retorica.

Mario Marroccu

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Le prime pagine dei giornali di questi giorni raccontano il conflitto istituzionale tra Governatore della Sardegna, Sindaco di Milano e Governo Italiano.

Il contrasto si è acceso sulla “Patente di immunità” di cui dovrebbero dotarsi i turisti prima di calcare il suolo sardo. Nelle settimane passate ci siamo espressi sui benefici di uno screening di massa del Sulcis Iglesiente. Il metodo è stato già utilizzato dal professor Andrea Crisanti in Veneto e dal governo della Corea del Sud: hanno scovato i focolai di virus e li hanno bonificati radicalmente. Qualcosa di simile è stato fatto in Germania e in Islanda, dove è stata condotta una ricerca molto estesa con i tamponi. In Islanda, l’epidemia è stata soffocata sul nascere e in Germania i danni sono stati molto contenuti. Per ottenere questo risultato sono necessarie due azioni:

– prima: informare capillarmente la popolazione;

– seconda: ottenere il consenso al prelievo rinofaringeo di RNA virale.

Questa sequenza di azioni rispetta perfettamente le norme vigenti sul consenso informato.

Ben diverso significato e legittimità ha l’imposizione dell’esame.

I medici conoscono bene la differenza di liceità tra “cure paternalistiche” e cure “consapevolmente accettate”. Vi sono stati dibattiti durato decenni che spesso si sono conclusi  in Tribunale.

Tutto nasce dall’articolo 32 della Costituzione che recita “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività…Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di Legge.”

Dietro questa affermazione Costituzionale, esiste una storia lunga secoli.

Già Aristotele, Platone e Ippocrate sottolineavano la necessità della “partecipazione” del paziente alle cure. La loro posizione derivava da motivazioni di tipo deontologico.

Al tempo dei Bizantini i Medici chiedevano al paziente il permesso di agire sul suo corpo, tuttavia non era un “consenso informato” come si intende oggi, ma una forma di “medicina difensiva”.

Il primo Stato che dette all’individuo la totale proprietà, del proprio corpo fu l’Inghilterra con l’”Habeas corpus”.

Il tema del diritto sul “proprio corpo” venne meglio definito nella “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino” dell’anno 1789. Si tratta di un testo giuridico elaborato nel corso della Rivoluzione Francese contenente una solenne dichiarazione dei diritti fondamentali dell’Individuo e del Cittadino (Libertà, Proprietà, Sicurezza). Il suo contenuto ha rappresentato uno dei più alti riconoscimenti delle libertà per cui la Francia venne definita: Patria dei Diritti dell’Uomo”.

La svolta definitiva per porre le basi dell’articolo 32 della Costituzione e del “consenso informato” fu rappresentato dalla scoperta dei crimini commessi dai Medici nei campi di concentramento nazisti, la cui condotta morale veniva dagli stessi giustificata con il dovere di obbedire alle leggi dello Stato e al principio utilitaristico secondo il quale, durante un conflitto, la “ricerca scientifica” dovesse anteporre gli interessi della Società a quelli del singolo. Pertanto, si potevano compiere azioni mediche sull’Altro senza richiederne il consenso. 

Nel contesto del Processo di Norimberga i giudici incorporarono un documento, noto come Codice di Norimberga, contenente i diritti dell’Uomo, articolati in 10 punti. Il primo afferma che: «il consenso volontario del soggetto è assolutamente essenziale. Ciò significa che la persona in questione deve essere in grado di esercitare il libero arbitrio senza intervento di alcun elemento coercitivo». 

Questo concetto, ribadito nella sentenza di Norimberga del 1947, venne acquisito e incorporato in tutte le Costituzioni del mondo Occidentale. La Costituzione italiana lo incorporò nell’articolo n. 32.

Per effetto di quell’articolo nessuno può essere sottoposto a indagini diagnostiche o cure mediche senza la sua volontà.

La prima legge che derivò dall’articolo 32 della Costituzione fu la Legge 458/1967 sui trapianti di rene, a cui seguì la legge 144/1978 sull’interruzione di gravidanza e la legge 107 del 1990 sulle trasfusioni di sangue. Quest’ultima legge vietò il prelievo e la trasfusione di sangue in assenza di consenso del paziente. Tutte le sentenze che riguardano i testimoni di Geova sulle trasfusioni di sangue in caso di emorragie, anche mortali, sono regolate da questa legge.

Nell’anno 1990 vi fu una sentenza del Tribunale penale di Firenze che condannò un chirurgo che riteneva di avere operato secondo scienza e coscienza per il bene del malato. Si trattava di un’anziana paziente che aveva un tumore apparentemente benigno. Il chirurgo, accortosi durante l’intervento, che il tumore era invece un cancro, proseguì escidendo radicalmente tutta la parte colpita. La paziente morì. Il chirurgo venne condannato per omicidio preterintenzionale perché, secondo il Giudice, alla luce dell’articolo 32 della Costituzione, avrebbe dovuto svegliare la paziente, informarla completamente e procedere solo dopo l’ottenimento del consenso. L’aver proceduto con l’intervento senza aver ricercato prima il consenso della paziente, venne ritenuto una forma di violenza contro la paziente. Questa sentenza fu una rivoluzione. Chiarì concretamente a tutti i Medici  osa si intendesse per “consenso del paziente all’atto medico” nel rispetto della “libertà individuale”.

***

Nell’attuale momento storico del lockdown, si sono concretizzate eccezionali interruzioni del diritto costituzionale alle libertà individuali, come:

  • Il divieto di uscire di casa,
  • Il divieto di raggiungere i propri cari,
  • Il divieto di riunirsi con più persone,
  • Il divieto di spostarsi da una città all’altra e da una regione all’altra,
  • Il divieto di viaggiare,
  • L’interruzione di servizi basilari come le consulenze specialistiche ospedaliere, la sospensione della giustizia civile, la sospensione della scuola, delle manifestazioni culturali, di sport e spettacolo, religiose.

Una volta finito il lockdown, molte libertà sono state recuperate per effetto degli articoli nn. 2, 3 e 13 della Costituzione. Quest’ultimo esplicitamente dichiara: «La libertà personale è inviolabile…»

Ora vediamo come queste leggi, con tanto retroterra storico, si oppongono alla “patente di immunità” così come è concepita.

Il combinato disposto fra l’articolo 13 sulla libertà individuale, e l’articolo 32 sulla discrezionalità di ognuno ad accettare o rifiutare un atto medico, condizionano l’attuale diatriba tra autorità sarde e milanesi.

A complicare le cose si aggiungono gli effetti di una legge del 1990 mirata a proteggere la privacy dei malati di AIDS. Tale legge venne prodotta per impedire la pubblicizzazione della diagnosi di AIDS in quanto andava scoraggiato lo “stigma” sociale contro questi pazienti. Se non fosse stata protetta la loro privacy essi avrebbero reagito occultandosi, e non curandosi, peggiorando la diffusione del morbo.

Tale legge sulla privacy del proprio stato patologico è tutt’oggi vigente.

Questo ulteriore elemento oppone ostacoli alla esibizione obbligatoria di una patente di “buona salute”.

La “patente di immunità” venne inventata per la prima volta nello XII secolo quando, con la ripresa in modo epidemico della lebbra, si costituirono delle Commissioni sanitarie che sottoponevano ad esame fisico i sospetti di lebbra. La prova fondamentale consisteva nell’infiggere uno spillone nelle aree di cute discromica. Se l’esaminato sentiva dolore veniva dichiarato “indenne” da lebbra e gli veniva consegnata una “patente di buona salute” con cui poteva entrare nella regione ospitante. Chi non otteneva la patente, subiva lo “stigma sociale“.

Il problema dello “stigma sociale” di condanna di questi pazienti cova sempre e può emergere in modo incontrollato.

L’insieme di queste combinazioni sta condizionando l’attuale diatriba politica regionale.

Tenuto conto dei binari tracciati dalla legge, dalla giurisprudenza e dalla storia della Medicina, forse si potrebbe trovare un punto di equilibrio in questo ipotetico programma:

  • Primo: screening con tampone e partecipazione volontaria della popolazione;
  • Secondo: App Immuni sui dati dello screening di massa;
  • Terzo: concordare l’etica dei rapporti umani tra malati e sani per regolamentare la fiducia, la precauzione e la trasparenza.

Date queste premesse si comprendono le difficoltà a dare una base di legittimità alla “patente di immunità”.   

Potrebbe essere più efficace offrire all’ospite che arriva uno studio gratuito, con tampone, nel contesto di uno screening generale della popolazione sarda e l’inclusione volontaria nella App Immuni. Questo “prendersi cura dell’ospite” verrebbe sicuramente molto apprezzato.

Mario Marroccu

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Nulla sarà come prima. Man mano che le settimane passano, tutte quelle morti e la paura di morire scivoleranno nell’oblio. Eppure, nei rapporti sociali, fatti di politica, economia, cultura, questo incidente sanitario durato tre mesi modificherà gli schemi della convivenza. Avverrà lentamente. All’inizio questi incidenti sembrano piccoli episodi della storia, successivamente si manifestano nella loro grandiosità.

Capitò a Cristoforo Colombo quando scoprì l’America pensando di aver trovato solo una nuova strada per il commercio delle spezie e della seta. Invece aveva messo il seme di: Canada, Stati Uniti eAmerica Latina.

Esistono tre fili guida su cui corre la Storia: la cultura umanistica, la ricerca del benessere e l’astrazione religiosa. Sono le tre direttrici dell’identità. Poi esistono direttrici peculiari dei luoghi:

  • Sant’Antioco si identifica col suo porto ed il mare;
  • Carloforte nella sua insularità;
  • Il Sulcis nelle sue vigne ed allevamenti;
  • Carbonia e Iglesias nei loro ospedali e nelle attività industriali.

Inoltre queste città riconoscono una identità comune nella storia del loro “Sistema sanitario”.

La Sanità di Carbonia iniziò esattamente il 18 dicembre 1938 con il discorso di Benito Mussolini dalla Torre Littoria, nel tripudio popolare.

Allora esisteva a Carbonia un piccolo ospedaletto in piazza Cagliari. La storia di quei primi anni è scarsa. Abbiamo più notizie nel 1941. Siamo in pieno fascismo e in piena guerra. Le miniere producevano la materia prima per il consumo bellico di energia. 

I primi  professionisti sanitari vennero assunti, con regolare delibera, nel 1941.

La prima figura di Sanitario dipendente fu la signora Liliana Casotti, infermiera ostetrica. Venne assunta il 16 agosto 1941. Lei  da sola, fece nascere migliaia di bambini dalle donne della vasta città di 65.000 abitanti appena sorta.

Il 16 Settembre 1944 venne assunto il dottor Renato Meloni, chirurgo, urologo, ematologo, oncologo, ostetrico e ginecologo. Aveva 25 anni.

Questi due personaggi furono i progenitori del futuro mondo Sanitario.

Esiste su Youtube un bellissimo film documento con immagini di Carbonia in quegli anni. “Fascism in the family”. Interessantissimo. E’ stato girato da Barbara Serra, la famosa corrispondente da Londra di Al Jazeera. Racconta del Podestà di Carbonia di quegli anni: Vitale Piga. Era il nonno di Barbara. Nel film è ben tratteggiato l’ambiente umano di cui si prendeva cura l’Ospedale di piazza Cagliari.

Alla fine della guerra l’Ospedale nuovo, sorto fuori città, venne utilizzato dalle truppe Inglesi. Poi nel 1956, finito il dopoguerra, tutto il personale di piazza Cagliari si trasferì al Sirai. L’Ospedale era diventato “Ente Ospedaliero Comunale”, ed era classificato come “Ospedale zonale”. Al di sopra dell’ospedale zonale vi era l’”Ospedale Provinciale di Cagliari”, il San Giovanni di Dio. Nel passaggio tra anni ’60 e ’70 il Sirai, per il suo volume di attività, stava per essere riclassificato come Ospedale “Provinciale”. Era Sindaco Pietro Cocco. La procedura non andò a conclusione.

Intanto la compagine Sanitaria era cresciuta:

  • Nel 1945 venne assunto il nuovo primario chirurgo, proveniente dalla Patologia Chirurgica dell’Università di Cagliari, dottor Gaetano Fiorentino. Era un  reduce della campagna di Russia come chirurgo dell’ARMIR.    
  • Nel 1951 venne assunto il dottor Luciano Pittoni, chirurgo, pediatra, ginecologo, ostetrico, traumatologo, neurochirurgo e, soprattutto, anestesista. Fu il primo specialista in Anestesiologia in Sardegna. 
  • Nel 1953 fu assunto il dottor Giuseppe Porcella, chirurgo, traumatologo, proveniente da Sassari.
  • Nel 1954 venne assunto il dottor Enrico Pasqui che, all’età di 25 anni, iniziò a dirigere la Medicina Interna e la Pediatria.
  • Nel 1955 fu assunto il dottor Pasquale Tagliaferri: oculista.
  • Nel 1956 fu assunto il dottor Mario Casula: farmacista.
  • Nel 1956 fu assunto il dottor Enrico Floris: nuovo primario internista.

Nell’anno 1956 il corpo sanitario era formato da 9 persone di cui: di cui 7 medici, 1 ostetrica, 1 farmacista.

Da quel primordiale crogiolo fu generata la complessa organizzazione Sanitaria successiva.

L’Ospedale fu governato, negli anni di crescita, dal Sindaco Pietro Cocco. L’Amministratore era Dioclide Michelotto. Il “Consiglio di Amministrazione” era lo stesso “Consiglio Comunale di Carbonia”. Il Sindaco della città, era il Presidente dell’Ente Ospedaliero.

Il numero degli ammalati messi nelle mani di questi pochi medici era immenso. Si consideri che Carbonia agli albori degli anni ’60, aveva 60.000 abitanti; Sant’Antioco ne aveva 14.000; Carloforte ne aveva 7.000.

L’Ospedale aveva 384 posti letto, tre volte tanto gli attuali  posti letto per acuti. Vi erano due reparti di Medicina Interna, uno di pediatria, uno di Chirurgia Generale, uno di Traumatologia, uno di Ostetricia e Ginecologia, il Pronto Soccorso, la Radiologia, un attrezzato Laboratorio, un Centro Trasfusionale, un ambulatorio chirurgico oculistico per le operazioni di cataratta e rimozione dei corpi estranei dall’occhio, un ambulatorio di Otorinolaringoiatria, le cucine per i ricoverati , la Lavanderia, la falegnameria, le caldaie per il riscaldamento, la squadra di elettricisti, l’officina, la squadra di operai tecnici. Vi erano residenti in Ospedale le Suore Orsoline e i medici (dottor Gaetano Fiorentino, dottor Renato Meloni, dottor Luciano Pittoni). I chirurghi erano immediatamente presenti per le urgenze.

Si eseguivano 1.600 interventi chirurgici l’anno, contro gli 800 circa attuali.

Nascevano 2.000 bambini l’anno, contro gli attuali 300 circa di Carbonia e Iglesias assieme.

Le prestazioni sanitarie venivano pagate dalle Casse Mutue. Il Bilancio dell’Ente era sempre attivo e Il surplus veniva utilizzato per le opere pubbliche nella città di Carbonia. Attualmente invece i bilanci annuali sono in debito per milioni di euro.

Poi arrivò la crisi delle miniere, ma l’Ospedale sotto la guida del Comune, aumentò la consistenza numerica dei suoi dipendenti, e distribuì stipendi che tennero viva la rete commerciale locale. Pertanto, il buon funzionamento della Sanità si traduceva anche in un beneficio economico per il territorio.

Era sempre Presidente Pietro Cocco quando venne promulgata la legge più importante della storia Repubblicana: la legge 833 del 1978. Era la “Legge di Riforma sanitaria”. Fu una grandiosa rivoluzione. Nacquero le ASSL. Quella di Carbonia fu la n. 17; quella di Iglesias fu la n. 16. Scomparvero gli Enti Ospedalieri Comunali e comparvero le “Aziende Socio Sanitarie Locali”. Tutti i Comuni dell’hinterland, cioè il Sulcis, nominarono nel 1982 i Delegati Comunali per il “Comitato di Gestione della ASSL”. Tra i consiglieri comunali eletti, venne formato il Consiglio di Amministrazione della ASSL. Il primo Presidente, dopo Pietro Cocco, fu Antonio Zidda; il vicepresidente fu Andrea Siddi, che era anche Sindaco di Sant’Antioco.

Le deliberazioni della ASSL venivano assunte dopo confronti serrati sia fra i consiglieri comunali del territorio, sia fra Amministrazione e Sindacati.

L’epoca dei Comitati di Gestione fu un fermento di idee e di partecipazione popolare. Furono prese allora le decisioni di miglioramento dei Servizi Ospedalieri fino ad oggi.

Il numero dei Sanitari aumentò e le istanze dei Medici furono rappresentate, in Amministrazione, dal “Consiglio dei Sanitari”. Il parere dei Medici fu fondamentale per qualsiasi decisione di tipo sanitario. La collaborazione fu proficua.

La Direzione Amministrativa Sanitaria della Sardegna era attribuzione dell’Assessore regionale della Sanità che agiva come super-presidente delle ASSL.

In questa scala gerarchica della catena direzionale la volontà popolare del territorio era genuinamente rappresentata.

Negli anni ’90 il corso della storia della Sanità Ospedaliera cambiò bruscamente direzione.

Arrivarono i “Tecnici”. Tristi figure di scuola bocconiana che stravolsero il senso del “prendersi cura dell’Altro”. Gli Ospedali cambiarono nome: si chiamarono “Stabilimenti”. Anche i “pazienti” cambiarono nome: si chiamarono “clienti”. Il prodotto dello “Stabilimento” doveva essere gestito con le stesse regole con cui si producono e si vendono i prodotti industriali. L’obiettivo non era più il benessere sanitario ma il “bilancio”. Il numero di posti letto per mille abitanti fu portato da 6 a 3. Il “bilancio” fu l’ossessione contabile prevalente e si pretendeva di conservare “efficienza e efficacia” pur tagliando posti letto, organici e spese per aggiornamento strumentale e strutturale. Le dinamiche decisionali non derivavano più dal confronto fra i bisogni popolari e la parte politica, ma dalla sequenza rigida di azioni dettate dalla scaletta di un algoritmo. L’algoritmo spodestò lo “spirito di servizio” e la “mediazione” con le “forze sociali” attraverso un retinacolo di passaggi burocratici, impenetrabile al cittadino comune. Il cittadino comune, e anche il più alto rappresentante sanitario della città, il Sindaco, vennero tecnicamente espulsi dal luogo dove si formulano le proposte programmatiche e si prendono le decisioni. Questo fu il frutto delle continue rielaborazioni fino al totale sovvertimento della legge 833.

Il centro del nuovo mondo sanitario venne occupato dallo “apparato burocratico”. I pazienti e i medici vennero posti alla periferia di quel mondo o, più frequentemente, al di fuori.

Il dominio del puro risultato “contabile”  sulla mission di tutela sanitaria della 833 produsse:

  • L’annullamento dei Medici nelle dinamiche decisionali sanitarie,
  • L’annullamento degli Infermieri,
  • La riduzione degli Organici,
  • La conseguente chiusura di reparti medici e chirurgici,
  • La contrazione delle spese per attrezzature ed aggiornamenti,
  • L’accorpamento di reparti deteriorati,
  • La mancata sostituzione dei primari e personale andati in pensione,
  • La insoddisfazione della popolazione costretta a cercare assistenza altrove generando mobilità passiva,
  • L’accentramento della Sanità nelle città capoluogo,
  • L’impoverimento dei Servizi,
  • Le scandalose liste d’attesa.

E ne sono conseguiti:

  • La mobilità passiva verso Cagliari, Sassari ed il Continente,
  • Il trasferimento di somme enormi del Bilancio per pagare i Servizi Sanitari comprati dal capoluogo e dalle Case di Cura private.
  • La perdita, lenta, di circa 1.000 posti di lavoro tra Carbonia e Iglesias a vantaggio di Cagliari.
  • Le 1.000 buste paga scomparse in progressione dal Sulcis Iglesiente, tra la fine degli gli anni ’90 ed oggi, corrisponde a oltre un milione e mezzo di euro di stipendi al mese che manca alla rete commerciale locale.
  • In un anno mancano al circuito di danaro nel Sulcis Iglesiente almeno 18 milioni di euro.
  • La mancanza di soldi dal nostro territorio a vantaggio di territori già traboccanti di privilegi e servizi come Cagliari genera: povertà.
  • La povertà e la mancanza di lavoro chiudono il cerchio e si autoalimentano.
  • La fuga delle giovani coppie che ne consegue si traduce in spopolamento ed invecchiamento relativo.
  • I meno giovani restano in balia di un sistema che non è più “accogliente” come ai tempi dei “Comitati di Gestione” ma “respingente”.
  • Le lunghissime “liste d’attesa” sono la rappresentazione grafica perfetta del “respingimento” in atto.

Durante il “lockdown” abbiamo assistito ad un fenomeno impensabile: il “silenzio” dei Medici Ospedalieri.

Nessuno parla, nessuno informa, né partecipa alle ansie della gente. Muti lavorano, distogliendo lo sguardo.  Il “silenzio” dei Medici Ospedalieri è il sintomo chiaro della loro esclusione dalla Sanità.

Ora è il momento.

Se è vero che nulla sarà come prima, dobbiamo stare attenti. Il cambiamento può essere in meglio o anche in peggio.

Per tutto ciò che ho detto in premessa, questo è un momento storico: sul cavallo in corsa della nostra Storia Sanitaria è stato cambiato il cavaliere. Bisogna verificare chi è, e in quale direzione intende correre questo cavaliere post-Covid.              

Mario Marroccu         

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Il Sistema sanitario pubblico, in Sardegna, ha acquistato nuove macchine per l’estrazione dello RNA del Coronavirus, destinate a: Sassari, Olbia, Nuoro, Oristano. Le ASSL non ancora dotate di test per scovare i portatori Covid, sono quelle di Carbonia Iglesias, Lanusei e Sanluri.

Per spiegare meglio l’enorme importanza di questa dotazione di laboratorio per la caccia al Coronavirus, è necessario illustrare quanto sia fondata la richiesta urgente del servizio di “Diagnostica molecolare” per la ASSL di Carbonia Iglesias.

Questo è lo stato dei fatti, oggi 24 Maggio 2020:

-1- Il Paese è ripartito “alla cieca”.

-2- Non c’è un piano di “test e tamponi”.

-3- Non si parla più di “tracciamento digitale”.

-4- Non abbiamo neppure un’adeguata scorta di mascherine.

-5- La “Fase 2”  è difficilissima, eppure ci stiamo presentando inermi davanti al virus.

-6- Stiamo vedendo, soprattutto nelle regioni del Nord, “assembramenti” sui mezzi di trasporto.

-7- Ascoltiamo quotidianamente decreti di cui non vediamo l’efficacia.

-8- Manca la liquidità.

-9- Manca il “progetto nazionale per la ripresa”.

-10- Si lamentano ritardi per la “cassa integrazione”.

-11- Pare vi siano ritardi delle banche locali per far arrivare finanziamenti.

-12- Ritardi nei pagamenti di stipendi e fornitori.

-13- Niente piani per salvare l’occupazione.

Altro che “ricostruzione post-bellica!”.

Questa è una sintesi degli analisti economici dei giornali più letti e non schierati politicamente.

Vediamo ora un tentativo di analisi da un punto di vista medico-biologico della situazione.

Stiamo assistendo ad una “partenza alla cieca”, in un mondo primordiale di virus e microbi, che competono con gli altri esseri viventi. 

Alcuni di questi virus sono buoni: i “commensali”.

Altri sono patogeni: i parassiti obbligati, come i coronavirus.

Ogni specie fa una “guerra all’ultimo sangue” per la sopravvivenza a danno delle altre specie.

Questo concetto, della coesistenza non pacifica tra specie viventi, fu ben chiaro agli scienziati del 1800 e del 1900 quando si definiva il rapporto tra Uomini e Microbi con termini adatti a descrivere la violenza in guerra. Il professor Spanedda introduceva le sue lezioni di Immunologia con espressioni di Aldous Huxley dipingendo retoricamente la “Natura” “rossa di sangue nei denti e negli artigli”. I termini usati nei testi di Medicina richiamano sempre la cieca violenza, come: “aggressore” per i virus, mentre l’Uomo attaccato “mobilita forze difensive”. Il Medico “combatte” le malattie per “conquistare” la guarigione e, talvolta, perisce anch’esso nello scontro.

In questa Pandemia abbiamo visto tutti questi elementi di asprezza delle forze cattive della Natura quando si sviluppa la malattia.

Abbiamo anche visto che il Coronavirus è buono con i pipistrelli e cattivo con l’Uomo. Pertanto, la cattiveria è specie-specifica, e lo è pure l’”amicizia”. Conosciamo microbi che svolgono lavori molto utili per l’Uomo, come i “fermenti” della farina che ci danno il pane, i fermenti per la birra ed il vino e i fermenti che compongono il “Microbioma intestinale”.  Il “Microbioma intestinale” è un ammasso di cellule microbiche e di virus che vivono dentro di noi, e che ci fanno vivere bene. Addirittura comunicano col nostro cervello dandoci benessere e anche felicità, oppure ansia e depressione. Il nostro rapporto col mondo vivente ultra-piccolo è in genere buono. In pochi casi è cattivo. Allora si scatena la “malattia”, che è il conflitto tra il virus ed il nostro sistema immunitario. In genere il virus vince perché lui è il vero antico padrone del mondo, dove mise i suoi paletti di possesso nell’era pre-paleozoica, quando noi non esistevamo. Poi arrivammo noi ad occupare i suoi spazi e lo costringemmo a vivere in piccoli spazi come il caso dei virus Ebola e HIV dell’AIDS, che dovettero ridursi a vivere tra le scimmie della foresta africana o il caso del Coronavirus che si ridusse a vivere nei pipistrelli della caverne cinesi. Tentando di occupare anche questi ultimi spazi riservati al virus, l’Uomo l’ha costretto a cercarsi un altro ospite e l’ospite, il più disponibile e più numeroso in natura, è l’Uomo stesso. Così è riesplosa la guerra e non è una guerra ad armi pari. Loro sono estremamente più potenti.

In un contesto così difficile, la specie umana è sopravvissuta a epidemie nei millenni. Le Pandemie non sono state numerose. La storia, la leggenda e le religioni ci tramandano il ricordo delle più importanti:

-1- La strage dei primogeniti descritta tra le piaghe d’Egitto (1300-1200 a.C.) poteva configurarsi come una epidemia di morbillo o di vaiolo che si portò via tutti i nati degli ultimi anni. Anche in quel caso vi fu un “lockdown”: chiudersi in casa per sfuggire alla morte.

-2- L’Epidemia descritta nel primo libro dell’Iliade, con strage di guerrieri, cani e muli, voluta da Apollo per punire i greci che avevano offeso il sacerdote Crise.

-3- L’Epidemia del 430 a.C. ad Atene, durante la guerra del Peloponneso, quando morì Pericle.

-4- La “Peste Antonina” del 165 d.C. al tempo di Marcaurelio, portata dalle truppe reduci dall’Asia per la guerra contro i parti.

-5- La “Peste di Giustiniano” del 542 d.C.. Fu forse una malattia virale venuta dall’Etiopia.

-6- La “Peste nera”, 1347-48, da Yersinia Pestis giunta in Occidente dall’India e Cina, con il ratto nero e le sue pulci.

-7- La “Peste di Milano” del 1620, a cui seguirono le epidemie di peste di Alghero, Sassari, Oristano e Cagliari nel 1652, e le varie epidemie di Peste di Iglesias.

-8- La Spagnola del 1919-20 arrivata in Europa con le truppe americane dal Texas.

-9- Oggi il Coronavirus, Covid-19, venuto dalla Cina e manifestatosi in Occidente, in Italia il 21 febbraio 2020.

Abbiamo elencato 9 pandemie.

Inoltre, vi sono state numerose epidemie come quelle di vaiolo, colera, febbre petecchiale castrense, TBC, lebbra, ed influenze varie.

Ma le pandemie ufficiali sono quelle 9.

Pertanto stiamo vivendo una esperienza millenaria che verrà ricordata nei libri di storia.

Nei mesi di Febbraio, Marzo, Aprile, eravamo tutti consci della gravità della pandemia in corso.

Oggi, all’improvviso, tutto sembra dimenticato, come se fossimo diventati all’improvviso ciechi ed insensibili alla paura del contagio. Eppure vi sono dati vistosi di allerta:

  1. Il 21 Febbraio avevamo 1 contagiato in Italia. Il giorno del picco, intorno a metà Aprile, avevamo 108.000 contagiati. 
  2. Oggi, 24 Maggio, abbiamo 60.000 contagiati.
  3. Un mese fa avevamo 200.000 contagiati nel Mondo.
  4. Oggi ne abbiamo 5 milioni.
  5. Lo stesso Donald Trump, negazionista all’inizio, da ieri porta la mascherina.
  6. L’ISS ha confermato che l’idrossiclorochina è inefficace e che il plasma iperimmune è curativo solo nel 10-12 per cento dei casi. Gli antivirali noti non funzionano. Pertanto, possiamo dire che non abbiamo cure contro il virus ma solo anti-infiammatori ed eparina.
  7. Il calo di nuovi contagi è dovuto solo al lockdown, alle mascherine e al distanziamento.
  8. Ieri avevamo in Italia 1,5 portatori sani di virus ogni 100 tamponi fatti a caso. Per me è un numero spaventoso. In Sardegna sarebbero 1,5 per mille, cioè significa che a Carbonia vi sarebbero 45 portatori sani di virus pronti a contagiare. C’è da tenere gli occhi bene aperti.

A me sembra che il mondo sia in piena guerra.

A questo punto, ritorniamo alla domanda iniziale:

– che significato ha questa discesa in campo, in massa, senza la certezza di adeguate protezioni e senza il programma di screening delle 3 “t” (test, tracciamento, trattamento)?

  • Perché si ha la sensazione che si sia attenuato il controllo sull’uso delle mascherine ed il distanziamento?
  • Perché non si parla più di ricerca dei “portatori sani” con tamponi per RNA?
  • Perché non si parla più di “tracciamento”?
  • Perché non si parla più dei centri per l’isolamento dei portatori sani?
  • Perché non si parla più di Covid Hospital?
  • Eppure i numeri portati ci dicono che la nostra attenzione deve essere alle stelle.

Questa premessa dimostra l’enormità del problema. Possiamo giusto contemplare questo fenomeno planetario e cercare di capire quanto avviene in campo nazionale e regionale. Non pensiamo di poter risolvere i grandi problemi. Tuttavia pensiamo di avere il dovere di mantenere gli occhi bene aperti sulla sicurezza delle nostre famiglie. Il baratro economico che si apre nel futuro è da causa sanitaria, ed è imprescindibile affrontare il problema sanitario, cioè la libera circolazione del virus.

Qual è il nostro obiettivo immediato? Il controllo e l’identificazione dei portatori di virus nel territorio.

Esiste un unico metodo: la ricerca del portatore con l’esame del tampone nasofaringeo, sottoposto ad estrazione dello RNA virale. Solo così si estrapola il portatore dai sani e si crea serenità nel mondo produttivo. E’ la premessa imprescindibile.

Per tale ragione si deve pretendere l’immediata dotazione dei laboratori analisi del Sistema sanitario del Sulcis Iglesiente, di uno strumento adatto per la ricerca del virus.

Perché lo pretendiamo?

  • Perché siamo un’importante zona sanitaria sarda non ancora dotata di tale strumento,
  • Perché quando arriveranno i momenti difficili della seconda ondata, tutti saranno impegnati a salvare se stessi. Noi dovremo risolvere il nostro problema senza aspettarci che lo facciano altri.
  • Perché abbiamo il dovere ed il diritto, di governare la nostra Sanità locale.
  • Perché è necessario che i Sindaci del Sulcis Iglesiente si assumano completamente le funzioni di più alta autorità sanitaria delle città.
  • Perché non siamo ancora inclusi tra i beneficiari degli strumenti appena acquistati.

Questa precisa affermazione deriva dalle notizie giornalistiche pubblicate da L’Unione Sarda.

E’ necessario che i nostri rappresentanti si adoperino, affinché una delle apparecchiature venga rapidamente destinata a Carbonia Iglesias.

Mario Marroccu

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La storia del Sistema Sanitario del Sulcis Iglesiente è legata intimamente all’evoluzione dello spirito di appartenenza a questa terra. Per raccontarla, è necessario partire da lontano ed arrivare fino al 2020. Pazienza! E’ una rapida passeggiata un po’ letteraria e molto storica.

Il più antico “Popolo sardo” organizzato politicamente fu quello dei “Nuragici”. Tutto iniziò nel 1800 avanti Cristo. Nel 1100 avanti Cristo i sardi cessarono di costruire nuraghi e iniziarono a scomparire. Mistero storico. Fu a causa di un’epidemia? Oppure fu l’effetto di una crisi di mercato, perché si stava passando dall’età del bronzo a quella del ferro?
Al tempo dei nuraghi la Sardegna era totalmente popolate e dedita ad attività minerarie e metallurgiche. La densità delle sue torri sono il segno certo che era ricca. Lucrava sul commercio di qualcosa che produceva in abbondanza: il bronzo. L’ottimo bronzo sardo era molto richiesto in tutto il Mediterraneo per forgiare armi.
Praticamente nel 1.200 avanti Cristo, il bronzo sardo armò la Prima Guerra Mondiale della storia: la Guerra di Troia. E dove c’è guerra ci sono medici.
Guardate le armi di bronzo nuragico che sono esposte nel Museo Archeologico “Giovanni Antonio Sanna” di Sassari. Sembrano fatte ieri. Hanno la forma della “foglia di ulivo”. Esattamente simili sono state riprodotte dai consulenti storici per il film “Troy” con Brad Pitt.
La Guerra di Troia iniziò male: con un’epidemia. Morirono di febbre, e infezione alle vie aeree, tanti guerrieri greci che Agamennone, per motivi di “igiene pubblica” dovette far cremare sulle pire allestite davanti alla marina di Troia.
Nell’Iliade vengono descritti 148 tipi diversi di traumi da spada, lancia, o freccia. I chirurghi che in quel conflitto bellico curavano i feriti erano nientedimeno che i figli di Esculapio: Macàone e Podalirio.
Allora la chirurgia era arte divina. Pindaro, parlando di quei Medici nel settimo secolo avanti Cristo, scriveva nelle “Odi”: «E quanti vennero da lui….feriti nelle membra dal lucido bronzo o dal getto di pietre,… fasciando le membra…altri con azioni chirurgiche rimise in piedi».
Durante la Guerra di Troia, il medico Macàone fu ferito da freccia troiana e subito venne soccorso da due Re: Idomeneo e Nestore, perché, come dice Omero: «Uomo guaritore vale molti uomini a estrarre dardi, e spargere blandi rimedi».
Nei millenni la considerazione del Medico rimase sempre elevata. Ebbe un crollo solo durante la peste del 1347-48, quando i medici fallirono i risultati sperati. La peste prevalse su tutti ed il poeta Francesco Petrarca, offeso per la morte dell’amata Laura De Sade, scrisse libelli feroci contro tutta la categoria.

La professione medica fin dall’inizio si specializzò. Vi furono gli specialisti nel “taglio della pietra” (urologi), gli specialisti della cataratta( oculisti), gli specialisti delle “malattie interne”, gli specialisti in “craniotomia” (neurochirurghi), e poi i “raddrizzatori di bambini storpi”. Quest’arte si chiamava “ortho” (raddrizzo), “peideia” (bambino). Da cui l’origine del nome “Ortopedia” per la specialità che aggiusta lo scheletro.

Non sappiamo quasi nulla sulla medicina dell’Alto Medio Evo nel Sulcis Iglesiente. Sappiamo che gli ammalati peregrinavano verso la tomba del Santo Medico Antioco e che attorno alla basilica vi erano tante casette per ospitare i malati richiedenti la guarigione: le “cumbessias” o “muristenes”.
Troviamo tracce di attività medica nella chiesetta bizantina altomedioevale di San Salvatore, ubicata nella periferia di Iglesias. Si sa che ospitava viandanti richiedenti cure per cui si spiega la presenza dell’”orto dei semplici”. Era il luogo dove i monaci (Benedettini o Basiliani) coltivavano le erbe medicamentose per produrre unguenti e pozioni galeniche. Nel terreno circostante sono state trovate tracce di inumazioni in terra nuda.
A San Giovanni Suergiu, vi è una chiesetta edificata dopo le Crociate dai monaci Giovanniti. Ricordiamo che i Giovanniti fondarono l’ospedale di San Giovanni Battista di Gerusalemme col permesso del Sultano del Cairo, e vi curarono i pellegrini cristiani che venivano dall’Europa. Alla fine delle Crociate vennero allontanati dalla Palestina e si insediarono in loro possedimenti in Sardegna. Qui nel Sulcis continuarono la loro missione di curare gli “infirmi et pauperes Christi”. Sulla facciata della chiesetta di San Giovanni si riconoscono le incisioni di “croci di Malta” e i fregi che ricordano le cupole delle moschee di Omar e di Al Aqsa, della spianata dei templi di Gerusalemme.
Queste sono le poche tracce di attività medica nel Sulcis Iglesiente nel Medio Evo.
La crescita della Chirurgia in Europa rimase bloccata, a causa dell’altissima mortalità, fino alla seconda metà del diciannovesimo secolo. Solo allora, dopo la scoperta dell’esistenza dei “microbi”, si capì la necessità della “disinfezione” e, dopo la scoperta dell’“anestesia”, si poté operare “senza dolore”. I chirurghi cominciarono ad operare, per la prima volta, l’addome e la pelvi femminile temendo meno le setticemie mortali perioperatorie. Contemporaneamente iniziò lo sviluppo moderno degli Ospedali. Il più grande impulso allo sviluppo della chirurgia, soprattutto traumatica, avvenne con la Prima Guerra Mondiale. Lì si formarono i primi chirurghi dei nostri primi Ospedali.

Con la chirurga addominale e pelvica, decollò la chirurgia degli arti. Questa fu promossa in Italia da Alessandro Codivilla (m. 1912) che fu direttore dell’Ospedale Ortopedico Rizzoli di Bologna. Tutt’oggi il Rizzoli appare al visitatore con tutta la sua vecchiezza strutturale di fine ‘800. Da lì passò l’ortopedia mondiale, e la migliore ortopedia italiana in assoluto. Codivilla fece una invenzione rivoluzionaria: il “Chiodo di Codivilla”.
Si trattava di un’anima metallica da introdurre nel canale dell’osso fratturato. Attorno ad esso si sarebbe formato il “callo osseo”. Ciò comportava la guarigione con ossa ben raddrizzate (fatto raro) e consentiva l’eventuale allungamento dell’osso accorciato da un callo osseo venuto male. Il nuovo obiettivo dell’Ortopedia insegnato da Codivilla al mondo, era il “recupero funzionale” dell’arto.
Con la tecnica di Codivilla, si iniziarono a trattare le folle di portatori di deformità congenite ed acquisite: piedi torti, ginocchi valghi e vari, lussazioni dell’anca, paralisi infantili, tare eredoluetiche, gibbi cifoscoliotici, colli torti. A questi si aggiungeva il numero enorme di deformi procurati dalle due piaghe sociali dell’epoca: la tubercolosi ossea e il rachitismo; malattie incurabili e dal destino triste.

Già ai primi del ‘900 avevamo in Italia ben 40 “Ospedali marini” per la cura medica e chirurgica della TBC ossea. Lo sviluppo minerario dell’Iglesiente aveva introdotto la necessità di fornire un’adeguata assistenza ortopedico-traumatologica ai minatori. Quando esplose la protesta dei minatori nel settembre 1904, a Buggerru esisteva un ospedale per i traumi da miniera. L’organico comprendeva tre Medici con competenze chirurgiche ortopediche, e personale femminile per l’assistenza al parto. L’ospedale era molto attivo anche nell’assistenza alla popolazione civile; vi erano allora circa 8.000 abitanti, quando Cagliari ne contava circa 50.000. I casi più gravi venivano trasportati ad Iglesias in carrozza. Iglesias prima di questo periodo aveva avuto una struttura ospedaliera basso-medioevale citata da documenti dell’epoca: si trattava dell’ospedale di “Santa Lucia”, che poi prese il nome di “Santa Chiara”.
Tra le due Guerre Mondiali del ‘900, dopo la Guerra d’Etiopia e le “Inique Sanzioni” fu evidente che l’Italia doveva dotarsi di una sua fonte autarchica di energia, così prese vita il progetto di sviluppo del  bacino carbonifero del Sulcis. Le miniere metallifere dell’Iglesiente e le carbonifere del Sulcis furono la nuova frontiera del lavoro in Italia. Il numero complessivo di abitanti delle due città sfiorava i centomila. L’età media era molto giovane ed era costituita da una moltitudine di minatori del sottosuolo e operai di superficie. Gli incidenti sul lavoro erano molto frequenti. L’Inail nel 1946 inaugurò l’Ospedale CTO di Iglesias e lo rafforzò di Traumatologi e Chirurghi generali a costituire un avanzato “Trauma Center” dove si affrontavano tutti gli effetti di un trauma: dalle fratture dello scheletro alla rottura di milza e di fegato ed i traumi cranio-encefalici. Doveva essere una Traumatologia a tutto campo. Il Governo dispose che negli ospedali minerari di Iglesias e Carbonia operassero i migliori chirurghi traumatologi della Nazione. A Carbonia il Chirurgo generale con competenze neurochirurgiche arrivò dalla Patologia chirurgica dell’Università di Napoli: il professor Ignazio Scalone. Rimase un anno a dirigere l’ospedale di piazza Cagliari, a Carbonia. Di lui restano testi di chirurgia del cervello e del cervelletto, per la cura di lesioni craniche provocate da arma da fuoco, scritti alla fine della Prima Guerra Mondiale. Con l’uscita del dottor Scalone, il primariato di Chirurgia generale venne conferito al dottor Gaetano Fiorentino; egli affidò l’Ortopedia e Traumatologia al dottor Schirru. Questi era un medico di eccezionale valore. Dopo una quindicina d’anni di esperienza in traumi a Carbonia, si trasferì negli Stati Uniti. Dopo 30 anni, il dottor Schirru tornò in Italia e si presentò al nuovo primario del Sirai, il prof. Lionello Orrù, a cui raccontò la sua storia americana: era diventato Direttore sanitario di un enorme ospedale di 3.000 posti letto a Washington, e ne dirigeva il reparto di Ortopedia. Arrivato alla pensione, gli era comparsa un’ernia inguinale. Per tale motivo pensò di tornare in Sardegna, a Carbonia, per farsi operare. Non si fidava del modo di operare l’ernia degli americani. Voleva essere operato da un chirurgo italiano. Una volta operato a Carbonia tornò a Washington.
Ad Iglesias, il primario chirurgo generale era il dottor Falqui. Al CTO vennero inviati chirurghi ortopedici di vaglia formati al Rizzoli di Bologna.
Dopo Codivilla, fu direttore del Rizzoli il professor Vittorio Putti (m. 1940). Fu chirurgo eccellentissimo che già nel 1919 veniva conteso all’Italia dalle maggiori istituzioni medico-chirurgiche statunitensi. Quando andava in America veniva, per i suoi miracoli ortopedici, ricevuto solennemente, come si conveniva alla sua fama.
Con la scomparsa del professor Putti, la direzione della chirurgia ortopedica del Rizzoli venne affidata al professor Francesco Delitala, nato a Orani in provincia di Nuoro, che aveva insegnato Ortopedia all’Università di Napoli, poi in quella di Padova e, infine, diresse il Rizzoli. Fu grande esperto della chirurgia dell’ernia del disco intervertebrale e della spalla. Morì a Bologna nel 1983.
Fu un allievo di Delitala il professor Cabitza di Cagliari. Questi, successivamente, diresse la Clinica Ortopedica Universitaria di Cagliari e l’ospedale Marino del Poetto.

Contemporaneamente, studiavano e operavano al Rizzoli, sia il dottor Giuseppe de Ferrari sia il dottor Italo Cao. Ambedue divennero professori di Ortopedia e Traumatologia e diressero il CTO di Iglesias. Il CTO (Centro Ortopedico Traumatologico) di Iglesias riprodusse in Sardegna le altissime competenze chirurgiche del Rizzoli di Bologna costituendo, nel Sistema Sanitario del Sulcis Iglesiente, un pilastro fondamentale della Sanità.
I successori di questi Maestri, diressero poi il CTO e l’Ortopedia di Carbonia e di Iglesias fino ai giorni nostri.
Il seme prezioso di quei grandi ortopedici è ancora tra noi.
Come si vede la discendenza di scuola è di altissimo livello.
Non può essere perduta.
Questa ricostruzione tratta dai libri di storia della Medicina è una conoscenza che deve costituire patrimonio dei cittadini del Sulcis Iglesiente. Tale eredità deve essere protetta dall’operazione “contabile” che sta trasferendo il nostro patrimonio sanitario in città lontane.

E’ incredibile. Quando eravamo “poveri” eravamo molto più “ricchi” in Sanità.

Mario Marroccu

Nella fotografia, da sinistra: dottor Giuseppe Porcella, dottor Renato Meloni, il sig. Cuccuru capo degli infermieri, dottor Gaetano Fiorentino, don Luigi Tarasco e dottor Luciano Pittoni.

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Le notizie riportate in questi giorni dal giornale l’”Unione Sarda” riguardo alla ZEE (Zona Economica Esclusiva) algerina sul Mar di Sardegna, che si estende dalle coste africane fino a 13 chilometri da Sant’Antioco e, più su, fino ad Oristano e Alghero nel suo lato Est, mentre si estende a Nord fino alle isole Baleari nel lato Sud-Ovest, fino alle coste della Spagna Meridionale, ci impone di rivedere i ricordi dei nostri secolari rapporti con l’impero turco del Nord-Africa.

Fino a pochi decenni fa i sardi, sentendo nominare i turchi rivolgevano subito il pensiero a San Antioco martire e alla Madonna di Bonaria supplicandone l’intercessione.

Erdogan, l’attuale presidente della Turchia, recentemente interrogato dai giornalisti sul suo interventismo in Libia, ha risposto che la Turchia si sente obbligata ad intervenire nella guerra intestina libica perché possedette quella provincia, ai tempi dell’Impero, per 500 anni.

Dato che un vicino del genere, dopo aver portato truppe in Libia si è recato in Algeria per rinsaldare gli antichi vincoli, potrebbe rivelarsi molto ingombrante, è utile rivedere alcuni passaggi storici tra i turchi e noi occidentali sulla frontiera africana.

Mille anni fa vennero gettati le basi del nostro indebolimento fino alla situazione di oggi.                                                        

Nell’anno 1054 il Patriarca di Costantinopoli, Michele Cerulario, attuò lo “scisma” tra la chiesa cattolica di Roma e la chiesa Ortodossa di Bisanzio. Questa spaccatura fu esiziale per l’Occidente. L’Impero Bizantino divenne ortodosso, mentre l’Italia e l’Europa rimasero Cattolici. La Sardegna ed il Nord-Africa, che erano parte integrante dell’Impero Bizantino, rimasero nella sfera ortodossa a fronteggiare l’Africa musulmana.

Nell’anno 1071 l’Impero Bizantino, indebolito, venne attaccato da orde di un popolo d’origine mongola, e battuto nella gravissima battaglia di Manzicerta. La notte precedente la battaglia, sul cielo si stagliava una luminosissima mezza luna con al di sopra una stella. Quel popolo vincitore dei Bizantini erano i “Turchi”. Da allora adottarono come bandiera nazionale un panno rosso con, al centro, una mezzaluna sormontata da una stella. Quel simbolo viene utilizzato tutt’oggi.

Con il trattato di pace i Turchi si installarono in territorio bizantino e, pian piano, intaccarono le difese della grande potenza cristiana fino a batterla conquistando Costantinopoli nel 1453. Fu la fine dell’impero Bizantino.

Per arrivare alla città di Costantinopoli, nei crocevia c’erano cartelli indicatori con su scritto “Isten polis”, che in greco significa: «Quella è la città». I Turchi pronunciavano “Istanbul”, e questo divenne il nome definitivo.

Nel 1492 la Spagna aveva scoperto l’America con Cristoforo Colombo, ed aveva avviato, in patria, una campagna di espulsione di musulmani ed ebrei.

Contemporaneamente la “Sublime porta” di Istanbul aveva dato disposizioni ai suoi eserciti di occupare tutte le province bizantine in Nord Africa, fino all’Algeria. Tuttavia l’avanzata turca fallì nel tentativo di occupare l’Europa. I Turchi furono infine definitivamente fermati dai Cristiani Cattolici con la battaglia navale di Lepanto nel 1571. Vi parteciparono anche truppe sarde.

La Libia, che era stata occupata dalla Spagna nel 1510, e affidata ai Cavalieri di Malta, venne poi conquistata dai turchi nel 1551. Da allora l’Impero turco fu il vicino ingombrante di noi sulcitani.

La Reggenza di Algeri era diventata turca nel 1525. Essa fu il principale centro dell’Impero Ottomano nel Maghreb e divenne la base stabile delle navi corsare per i lucrosi affari che si facevano con la cattura delle navi commerciali europee. Era il principale centro della pirateria.

Nel 1574, 3 anni dopo Lepanto, finite le mire sull’Europa, la Turchia occupò militarmente  la Tunisia, fermando definitivamente la conquista spagnola del Nord Africa. Al governo della Tunisia venne incaricato il Bey di Tunisi, reggente della Sublime Porta.

I Pashà di Algeri, Tunisi e Tripoli conducevano abili rapporti diplomatici col governo turco e le loro finanze derivavano quasi esclusivamente dalla protezione della pirateria. Dal 1500 al 1700, nei mercati degli schiavi di quelle reggenze, furono venduti da 1 milione a 1 milione e 500.000 schiavi bianchi. Si calcola che fino al 1815 venissero trattati in quelle piazze circa 20.000 schiavi l’anno. Gli studiosi hanno trovato negli archivi di Stato di Cagliari, Barcellona e Madrid, diverse lettere d’affari tra Sardegna e Spagna. In una lettera inviata nel 1600 dal commerciante cagliaritano Antonio Porta al re di Spagna per chiedere l’infeudazione del mare di Portoscuso per impiantarvi una tonnara, esiste, scritta in spagnolo, una frase che tradotta in italiano suona così: «Nell’isola di san Pietro attraccano navi corsare saracene che trafficano tanti cristiani fatti schiavi che, così numerosi, non si vedono neppure a Madrid».

Oltre alla tratta degli schiavi vi era un’altra attività piuttosto lucrosa: i Turchi avevano istituito un sistema di rilascio di salvacondotti a pagamento per le navi europee che solcavano il Mediterraneo. Chi pagava non veniva attaccato. Gli stessi Stati Uniti d’America, appena costituiti, nel 1795 con un trattato a firma di Giorgio Washington, si erano accordatI coi Bey di Algeri, Tunisi e Tripoli, per la somma colossale di 1 milione di dollari l’anno purché le navi commerciali americane, che vendevano i loro prodotti agricoli in Mediterraneo, non venissero attaccate dai corsari.

Ben si comprende in quale stato di pericolo perenne si trovassero la popolazioni costiere del Sulcis e del Cagliaritano che erano proprio al centro di una morsa: a Sud vi era la minaccia turca. A Nord vi erano gli Stati europei in lotta perenne fra di loro, e perennemente assetati di danaro, tonno sotto sale, grano e uomini da arruolare forzatamente per le loro guerre interminabili.

La dominazione turca era interessata alle città costiere del Nord Africa, porto sicuro per i corsari, mentre era carente la sua presenza nelle oasi sahariane. Qui le tribù berbere gestivano in completa autonomia il commercio di schiavi africani. Vocazione commerciale mai perduta.

La “Guerra da Corsa” venne dichiarata illegale dal Congresso di Vienna nel 1815. La sua cessazione venne imposta  col bombardamento di Algeri e Tripoli nel 1816 de parte della flotta anglo-olandese comandata dall’ammiraglio Lord Exmouth, attuata per ritorsione all’incursione berbaresca su Sant’Antioco il 16 ottobre 1815.

Avendo perso i proventi assicurati dalle mercanzie delle navi catturate, l’unica risorsa rimasta a quei beycati fu il commercio degli schiavi. Ma anche questo introito entrò in crisi quando nel 1830 la Francia conquistò l’Algeria e le Società antischiaviste inglesi imposero al Sultano di Istanbul di fermare la pratica dello schiavismo. Ma solo nel 1855 il Sultano interdisse l’imbarco di schiavi nei porti di Tripoli, Bengasi e Derna.

Nonostante ciò la schiavitù non fu abolita per altri 50 anni. Si estinse definitivamente nei porti libici nell’anno 1911 quando gli italiani conquistarono la Libia con la Guerra Italo-Turca.

Invece a livello tribale, nel Maghreb Sahariano, la schiavitù è tristemente sopravvissuta fino ai giorni nostri.

***

La Sardegna, per secoli, subì le incursioni dei pirati nord-africani a caccia di merci e di schiavi. E’ stato calcolato da recenti ricerche che il 90 per cento delle incursioni in Sardegna avvenne tra Capo Carbonara ed il Sulcis. Questa costante minaccia alle città costiere ne aveva determinato la scomparsa. Le scarse popolazioni si rifugiarono all’interno. Karales dall’anno 704 iniziò ad essere abbandonata e i suoi abitanti costruirono un nuovo centro abitato nell’isolotto di San Simone, nella laguna di Santa Gilla. La città venne poi fortificata con mura; ebbe una cattedra vescovile e fu sede di un giudice sovrano del Giudicato di Calari. La città giudicale si chiamò Santa Igia (Cecilia) (Coroneo, Casula).

Nell’anno  704 (Coroneo, Boscolo, Mohamed Bazama), la città di Sulci venne attaccata da una squadra navale saracena. La città non si risollevò mai più da quella distruzione. Un piccolo nucleo abitato si sviluppò intorno alla Basilica del Santo Antioco. Eravamo nell’alto Medio Evo, in piena amministrazione bizantina ortodossa.

Contemporaneamente anche la città di Tharros, per gli stessi motivi, venne abbandonata e il vescovo, con tutta la popolazione si spostò verso la tenuta agricola di Oristano. Eravamo nel periodo di transizione dal bizantino al giudicale.

L’isola Plumbaria (di Sulci) nel 1300 assunse il nome di isola di Sant’Antioco ed era deserta. Nonostante ciò la Basilica non si deteriorò. Venne sempre curata. Sant’Antioco era considerato protettore della Sardegna intera, efficace intercessore contro le calamità naturali, le epidemie e le orde barbaresche. Almeno due volte l’anno: nel dies natalis (13 novembre) e poi nel lunedì successivo alle due settimane dopo il lunedì dell’Angelo, una gran folla di fedeli tornava nell’isola per impetrare le grazie del Santo.

Nonostante l’isola fosse perennemente infestata dai pirati magrebini, in quei giorni di festa non avvenivano aggressioni ai pellegrini. Gli stessi pirati avevano un certo rispetto per il Santo. Le storie più note di miracoli del Santo a protezione dai pirati vengono raccontate sia da storici musulmani che da storici nostrani come il Vidal e padre Filippo Pili. Il Vidal era sacerdote e storico di grande cultura, nato a Maracalagonis nel 1575. Viaggiò per molti anni predicando in diverse città di Spagna e Italia.  Al termine dell’elenco di un nutrito numero di miracoli operati dal santo egli scrisse, a proposito dei rapporti tra sardi e turchi: «Tralascio per brevità una infinità di altri miracoli operati dalla misericordia del Signore, per intercessione e i meriti del glorioso martire Antioco. Se non ci fossero stati miracoli, basterebbe il concorso che si verifica ogni anno delle moltitudini che vanno pellegrinando all’isola di Sulci, un’isola deserta, spopolata, ma anche molto frequentata dai corsari di Berberia; né mai è avvenuto che qualche persona si stata fatta schiava; né mai si è visto corsaro alcuno che sia sceso a terra e abbia osato fare saccheggi ed assalire coloro che vanno o ritornano dalla festa; che se qualche volta qualcuno ci ha provato, ha pagato ciò duramente…»  

Inoltre racconta: «Antiogu Pretu di Maracalagonis, da ben 30 anni schiavo nelle galere di Algeri, mi disse che, essendo andati una volta i Mori a Sulci per prendersi il bestiame appartenente all’opera del santo, molti tornarono malconci o morti, tanto che il Rais inviò un grande vaso d’olio alla chiesa del Santo (per le lucerne) e minacciò i suoi corsari che avrebbe inflitto loro delle pene severe se avessero toccato le proprietà del Santo perché Antiogo “star diavolo”».

I sardi non avevano una flotta per la difesa in mare, né strutture fortificate sufficienti a terra. In mare provvedevano a questa funzione le navi armate dei cavalieri di Malta che pattugliavano il Mediterraneo. Tuttavia, erano insufficienti. All’uopo interveniva in soccorso delle vittime di rapimento l’ordine dei Frati di Santa Maria della Mercede: i Mercedari. Era un Ordine questuante e armato che raccoglieva fondi per il riscatto degli schiavi. Un altro aiuto importante era dato dalla Madonna di Bonaria di Cagliari. Veniva invocata affinché desse buon vento alle vele (bona aria) per sfuggire ai pirati turchi. Quando il miracolo si realizzava l’equipaggio si recava in pellegrinaggio al Santuario di Cagliari per sciogliere il voto per la protezione ottenuta. Per questo la Madonna di Bonaria divenne la Patrona dei Mari di Sardegna e il suo simulacro regge con la mano destra una navicella d’avorio a vele spiegate.

Questo fu il massimo della reazione dei sardi alla minaccia turca, tranne che in due episodi. Il primo fu quello dell’incursione barbaresca su Carloforte il 2 settembre 1798, che costò 930 rapiti. In quel caso, oltre alle trattative dei Mercedari, all’intervento del Papa, dello Zar di Russia e dello stesso Napoleone,  potè maggiormente  l’insistenza di Giovanni Porcile, duca di Carloforte e conte di Sant’Antioco, presso il Bey di Tunisi. Ma forse ancora di più potè il giovane  Vittorio Porcile che armò un vascello e si diede alla guerra da corsa sulle coste africane onde fare prigionieri e scambiarli con i carlofortini rapiti.

Il secondo episodio è quello dell’incursione barbaresca su Sant’Antioco del  1815. In quel caso i miliziani antiochensi, asserragliati sul forte, uccisero 300 pirati barbareschi. Vi furono 130 sequestrati, che vennero poi messi in vendita al mercato di Tunisi e Algeri.

***

Oggi le notizie giornalistiche sulla formale occupazione del Mar di Sardegna dall’Africa fino a 13 chilometri dalla costa di Sant’Antioco (in prossimità dell’isola del Toro) attuata dall’Algeria, con l’evidente silenzio-assenso della Turchia di Erdogan, non ci deve sorprendere. Ciò però deve indurre ad un’adeguata reazione. Sicuramente, se questa azione fosse stata compiuta a danno degli interessi degli Stati Uniti, sul mare sarebbe già in loco la Sesta Flotta. Ma noi non siamo da meno. In mancanza d’altro possiamo pur sempre schierare Sant’Antioco Martire e la Madonna di Bonaria, mitragliando “coggius” contro “su paganu “.

Mario Marroccu

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Ci sono cose che gli abitanti del Sulcis Iglesiente devono sapere. Gli ospedali esistono da pochissimo tempo. Prima degli anni ’30 del 1900 non esistevano. Basta pensare che fino al 1905 la gente moriva di appendicite, perché non poteva essere operata. Così pure moriva di ernia strozzata, di ulcera perforata o per la caduta da un carro. Ma, soprattutto, morivano atrocemente le “poverette” che, giunte al termine di gravidanza, non riuscivano a far uscire dal loro grembo il bambino, perché il canale osseo del parto era stretto, e lì il bambino si incastrava. Iniziavano dolori tremendi ed il bambino moriva; poi iniziava la “setticemia” ed al terzo giorno moriva anche la madre. Ciò avveniva, perché non c’era un luogo dove fare il “parto cesareo”. L’unico ospedale in Provincia era il San Giovanni di Dio di Cagliari e, per raggiungerlo col carro a buoi, il percorso era un lungo sterrato, fangoso d’inverno.

A Cagliari iniziarono a fare l’intervento di “cesareo” dopo il 1910. Comunque, operavano le ernie, le amputazioni, gli ascessi, e i traumi dello scheletro. Se la Sanità era così disastrosa a Cagliari, si può immaginare quanto lo fosse nella sua lontana periferia.
Sulla presenza o meno dell’ospedale attrezzato, si giocava la selezione naturale della popolazione del Sulcis Iglesiente. Poi avvenne il miracolo: fra le due Grandi Guerre Mondiali questo territorio acquisì importanza, sia per il bacino metallifero dell’Iglesiente, sia per quello carbonifero del Sulcis.
L’area compresa tra Gonnesa, Perdaxius, Sirai e i monti di Santa Giuliana, divenne la fonte di energia per la Nazione; divenne il “Golfo Persico” dell’Italia: c’era il carbone fossile.
L’enorme riserva energetica da “carbone Sulcis” divenne il petrolio e la benzina per gli aerei, le navi, i treni, le industrie ed il riscaldamento domestico dell’Italia.
Questo incredibile colpo di fortuna, cambiò il destino del Sulcis Iglesiente. Fu necessario attirare operai e poi prendersene cura perché “cavare” minerale nel sottosuolo è molto pericoloso ed il minatore è incredibilmente prezioso. Per il minatore e la sua famiglia, vennero fabbricati i migliori ospedali d’Italia. Di tale servizio assistenziale, avrebbe poi usufruito tutta la popolazione.
La conquista degli ospedali avvenne 90 anni fa. La popolazione è cresciuta attorno ad essi in modo abnorme, e si è sviluppato un tessuto economico solido che ha aumentato le ricchezza media. Poi le cose sono cambiate con la sospensione dell’attività estrattiva e a chi governava i destini del tempo, sembrò logico “smobilitare” il Sistema Sanitario del Sulcis, e centralizzare l’ospedalità a Cagliari. I bisogni immediati della gente finirono nell’ombra, e uscirono dai programmi contabili. La “smobilitazione” sanitaria ha progredito in modo lento ed inesorabile senza ostacoli.

Gli “ospedali zonali” di Iglesias e Carbonia, di cui erano Presidenti i rispettivi Sindaci, fino ad allora appartenevano al patrimonio immobiliare della due città. Nel 1978, con la legge 833, la proprietà immobiliare ospedaliera veniva ceduta dai Comuni alla ASL 16 e 17. Non vi fu una rivolta contro questo esproprio, perché di fatto i Sindaci restavano Presidenti della ASL ed il Consiglio di amministrazione era composto dai delegati dei Sindaci di tutti i Comuni (17 per Carbonia e 13 per Iglesias). Fino a quel punto della storia, nessuno poteva danneggiare il patrimonio ospedaliero del territorio. Anzi, addirittura all’ospedale Fratelli Crobu vennero istituiti i due reparti specialistici di Chirurgia Pediatrica e Otorinolaringoiatria. Poi i Presidenti vennero sostituiti dai Commissari straordinari, nominati dall’assessorato regionale della Sanità. Questa fu la prima crepa nel nostro diritto a controllare gli ospedali. Di fatto, il vero proprietario diventava la Regione, nonostante il Consiglio di Amministrazione fosse rappresentato dai delegati dei Comuni.
Negli anni ’90, avvenne il fatto più duro per noi: vennero aboliti i Comitati di gestione (costituiti da rappresentanti dei Comuni) ed i Commissari straordinari e, al loro posto, vennero insediati i Direttori generali, con pieni poteri di tipo monocratico, nominati dall’assessore regionale della Sanità. Così i Sindaci vennero espulsi dalla gestione della Sanità ospedaliera e territoriale. Restava ancora un sottile filo che consentiva ai Comuni di controllare la gestione degli ospedali: la Conferenza dei sindaci del territorio di Carbonia e quella di Iglesias per la verifica del bilancio consuntivo.
Questi Consigli esistono tutt’oggi ma, nei fatti, non hanno alcun potere di interdizione. Possono solo essere spettatori dell’azione amministrativa del Direttore generale il quale, di fatto, ha la piena proprietà degli immobili e dei loro contenuti (personale, strumenti, arredi). Attraverso questo iter è avvenuto l’esproprio delle strutture ospedaliere del territorio.
I Sindaci hanno un potere che si limita all’espressione di un “parere non vincolante”, cioè  nessuno.
A questo punto, i “teorici della centralizzazione” della Sanità ospedaliera, a Cagliari e Sassari, hanno tolto le redini della gestione dell’assistenza ospedaliera ai cittadini e hanno iniziato la smobilitazione degli ospedali.
– A Carbonia: chiusura della Pediatria e dell’Ostetricia; mancata apertura degli Infettivi. Sospensione delle nomine dei Primari.
– A Iglesias: chiusura definitiva del Crobu, del santa Barbara, e costituzione di un ospedaletto da “weeck surgery” al CTO.
Si sostiene che sia un effetto dei programmi di risparmio del governo Monti del 2011, ma non è vero. Tutto iniziò negli anni ’90, quando arrivarono i “pensatori bocconiani” del continente che teorizzarono, e fecero applicare, programmi regionali da “decrescita felice”. Cioè la riduzione degli “organici” e l’annullamento delle intelligenze mediche degli ospedali, ottenuto con la riduzione di autonomia e capacità di iniziativa dei Primari. Il “silenzio dei medici” ha iniziato a dominare da allora. I medici non hanno parlato più; sono stati trasformati in esecutori senz’anima, soggetti obbedienti ed ammutoliti dal metodo del “bastone e la carota”, che può essere esercitato rallentandone o annullandone la carriera. L’umiliazione dei cosiddetti “dirigenti” medici, iniziò quando si stabilì che l’incarico primariale, che in passato era definitivo, divenisse quinquennale, rinnovabile a discrezione della dirigenza amministrativa. A questo punto, chi vuole sopravvivere nel sistema, deve osservare il mutismo.
Ne abbiamo avuto un macroscopico esempio durante l’epidemia. Silenzio assoluto degli ospedalieri.
Parallelamente al deterioramento del corpo dei medici pubblici è avvenuto, soprattutto in continente, il gigantesco sviluppo dell’ospedalità privata.
Forse non è questa la causa delle “zone rosse” in quelle regioni ricchissime, però è certo che in quelle regioni abbiamo assistito alla protesta sotterranea dei medici pubblici, ospedalieri e del territorio, che da molti anni si sentono depotenziati rispetto alla Sanità privata. Intendiamoci, la Sanità privata ha una sua funzione molto utile, tuttavia contro l’epidemia quel tipo di sanità non è adeguato. E’ necessaria una Sanità pubblica come in Germania.

Questa Pandemia, col disastro economico e politico globale che ha scatenato in appena due mesi, e con tutto il male che ci farà ancora, apre gli occhi a tutti sulla necessità di rafforzare immediatamente i nostri Ospedali. Da loro emergerà la salvezza della Nazione.

Tutto oggi dimostra che la “centralizzazione” a Cagliari e Sassari è un grave errore, che viene fatto accettare con la motivazione che l’unica “centrale di costo” scatenerebbe la virtù del Risparmio.
V’è molto da dubitarne. Quando eravamo una Nazione più povera, 30 anni fa, avevamo servizi sanitari migliori, immediati e sempre a fianco del paziente. Sfido chiunque a confrontare le “liste d’attesa” di 30 anni fa con quelle di oggi. Si confrontino anche gli esosi ticket odierni rispetto a quelli appena simbolici di allora; senza parlare dei tempi d’attesa spaventosamente lunghi nei Pronto Soccorso, e i tempi spaventosamente brevi dei ricoveri, dovuti alla contrazione dei posti letto. Ricordo che i posti letto ed i ricoveri vennero ridotti a fronte della promessa di attivazione di “Case della Salute” nel territorio. Non si sono viste e i pazienti gravano pesantemente sulle famiglie.

E’ urgente invertire la rotta, ed è urgente restituire ai rappresentanti del popolo, il potere del legittimo controllo sull’azione amministrativa negli Ospedali e nel Territorio, restituendo contestualmente le proprietà immobiliari ai Sindaci delle città.
Prima di iniziare la lunga guerra contro il virus, è necessario chiarire la catena di comando.

Mario Marroccu

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Si narra che i lemmings, piccoli roditori della Norvegia, periodicamente si gettino volontariamente nel Mare Artico per suicidarsi in massa. E’ una metafora narrativa che si adatta bene a ciò che abbiamo visto il 4 e 5 maggio 2020 con l’avvio della Fase due dell’epidemia. Forse i lemming siamo noi.

Così come è necessario, si stanno riaprendo le attività del commercio umano. Tuttavia, il pericolo di contagio non è cessato, anzi, è molto più elevato che il 20 febbraio 2020 quando si scoprì il primo caso ed iniziò la tragedia.

Ora i portatori di Coronavirus sono molto più numerosi e si trovano ovunque.

Contrariamente all’esibizione macroscopica di rilassamento generale, la “Fase 2” è più pericolosa della “Fase 1”.

E’ evidente che si debbano assolutamente riaprire tutte le attività produttive con urgenza e con ogni mezzo, ma è parimenti evidente che vanno aperte in tutta sicurezza, pena il baratro economico e sanitario.

Per le uniche protezioni che abbiamo, sono le “norme di sicurezza”, cioè: il DISTANZIAMENTO, le MASCHERINE, i GUANTI ed il DIVIETO DI ASSEMBRAMENTO IN LUOGO CHIUSO.

Questi 4 atti, apparentemente facili, sono di una gravità tale da compromettere la convivenza civile, da cambiare radicalmente la vita di tutti e da essere neutralizzabili da varie forme di disobbedienza civile.

Non è pensabile credere che si debba sminuire per sempre la vita sociale e vederla sprofondare nell’inevitabile degrado dei servizi (scuole, sanità, giustizia).

E’ necessario ribadire che questa è un’EMERGENZA SANITARIA con implicazioni gravi sull’economia, e che per salvarci è imprescindibile dominare, prima, l’emergenza sanitaria.

Occupiamoci della sofferenza di chiunque abbia bisogno di Sanità e dei suoi operatori.

Prendiamo tre luoghi simbolo della Sanità: la Medicina di Base, le Farmacie, gli Ospedali.

GLI AMBULATORI DEI MEDICI DI BASE: è noto che il 45 per cento dei medici morti nella strage quotidiana da Coronavirus erano Medici di Base; vittime sacrificatesi volontariamente per l’alto senso etico della professione. Un sacrificio che non venne chiesto neppure al Buon Samaritano evangelico. Detto questo non si può pretendere che la strage continui capillarmente negli ambulatori. Per essi esiste il divieto, nei vari DPCM di febbraio ed aprile, di assembramento in luogo chiusi e l’obbligo di distanziamento di 1 metro (voglio vedere come si visiterà un paziente). Per evitare l’assembramento in ambulatorio è necessario obbligare le persone a stare in fila in strada e, una volta fatto il “triage”, far entrare i pazienti uno per volta, anche per la semplice ripetizione di una ricetta.

Per quanto tempo può essere tollerato? Per esempio, come si farà in Inverno? Potranno i pazienti aspettare per ore al freddo, alla pioggia, al vento senza riparo e senza sedia? Sappiamo che è possibile rifiutare, per decreto, la visita a chiunque abbia una temperatura di 37,5, che può essere dovuta all’inizio di una banale influenza, o per un ascesso dentario, o per una tonsillite. E se fosse una febbricola da tumore o da artrite dolorosa, o da nefrite? Nel contempo si deve pensare all’ansia continua del medico, e del personale dello studio, all’idea che in quella Umanità sofferente vi sia il portatore che gli regalerà il virus.

PRENDIAMO IL CASO DELLE FARMACIE DEL TERRITORIO: qui si riproduce la situazione degli ambulatori medici. E’ possibile pensare alle mega-file di pazienti al vento e sotto la pioggia, e al freddo con le gambe indolenzite? Dimenticavo: esiste il “divieto di sosta”; pertanto non è permesso mettere panchine in strada per i poveretti, perché subito si adagerebbero anche altri pazienti in attesa, creando un assembramento vietato, e arriverebbero i vigilantes a far sgomberare. Certo, ci può essere la consegna a domicilio per tutti, ma è realmente attuabile?

PRENDIAMO IL CASO DEGLI OSPEDALI: qui si ripete lo stesso schema. Non si può sostare in assembramento nelle sale d’aspetto del Pronto Soccorso. Bisogna fare file alternative.

Così pure non è possibile entrare nella sala d’aspetto dell’ingresso principale, sempre per evitare l’assembramento in luogo chiuso e bisogna fare anche qui il “triage” preventivo, presentando documenti di identificazione, e dichiarando la propria integrità dal virus. Ma ciò richiede tempo e, nel frattempo, si creano file all’esterno. Per contenere le file viene disposta una barriera di GUARDIE GIURATE, con tanto di pistola al fianco, che strutturano, con una certa ruvidezza dovuta al mestiere, le file dei richiedenti i servizio sanitario, talvolta con voce normale, talvolta con voce alterata come negli Istituti di sorveglianza. In quel palcoscenico surreale può capitarti di vedere quadri di umanità derelitta che ricordano la descrizione dell’Inferno Dantesco e “CARONTE” nell’atto di ordinare le file dei nuovi arrivati che “batte col legno qualunque si adagia”.

L’ingresso ospedaliero è stravolto: da “front-office” d’accoglienza, a causa della politica difensiva si è trasformato in un sistema di “respingimento”, con tanto di guardie dall’atteggiamento un po’ torvo ed intimidente. Ma va bene, accadde anche ai tempi della “Peste” del Manzoni. I quei tempi intorno alle fortezze del potere vigilava gente armata, come quella incontrata da don Abbondio.

Il deterioramento del valore umano è assicurato. Nelle file dei richiedenti salute è facile essere trasformati in schiere consenzienti, perché senza alternativa, a trattamenti sgradevoli.

Nello stravolgimento dell’immagine civile dell’ingresso ospedaliero potrebbe benissimo starci, in alto, la scritta ARBEIT MACHT FREI.

Questo è il punto: lo “Stato d’Assedio”. Fino a quando lo tollereremo? Accettiamo di deperire progressivamente fino a indebolire la struttura sociale e economica?

Purtroppo, oltre alle disposizioni per l’entrata in “Fase 2”, non vediamo altri progetti.

Eppure non siamo nei secoli della Peste Nera. Siamo nel terzo millennio. Abbiamo nuove armi. Non ci sono solo l’”isolamento”, la “quarantena”, il “distanziamento” e il “divieto di assembramento”, inventati dai Visconti di Milano e dai Dogi di Venezia,

Oggi, la via Maestra di attacco al virus ce l’insegna il professor Andrea Crisanti, il domatore del virus di Vò Euganeo e del Veneto. Egli indica come via la “ricerca minuziosa e capillare dei portatori del virus col metodo del tampone”.

Il tampone preleva lo RNA virale dalle vie aeree, lo esamina con un estrattore di DNA, e poi fornisce il risultato con nome, cognome e indirizzo del portatore contagioso.

A questo punto lo “sfortunato” diviene “fortunato” perché verrà curato. Ma curato come? Forse con l’isolamento volontario fiduciario in seno alla sua famiglia? In tal modo tutta la famiglia verrà contagiata e si creerà una specie di “Pio Albergo Trivulzio” familiare. La soluzione a questi casi venne già adottata con successo nel SISTEMA SANITARIO DEL SULCIS IGLESIENTE. Allora, fino agli anni ’70, si individuavano i pazienti tubercolotici in fase attiva e si ricoveravano al Binaghi. Invece i familiari, portatori sani, venivano ospitati nel Preventorio anti TBC del FRATELLI CROBU, e lì venivano curati. Così la tubercolosi venne debellata dal nostro territorio.

Da queste premesse, sembra evidente che per raggiungere l’obiettivo di eradicazione di questo incubo attuale, si debbano compiere 4 atti:

PRIMO: istituire il COVID HOSPITAL al SANTA BARBARA di Iglesias per gli acuti.

SECONDO: riattivare il CROBU come Preventorio anti COVID.

TERZO: dotare subito il SULCIS IGLESIENTE di un laboratorio di Biologia Molecolare per l’estrazione dello RNA dai tamponi.

Quarto: avviare uno SCREENING di tutta la popolazione ed affidarne la gestione ai Medici di Base.

Tempi?

  1. Acquisto dell’ESTRATTORE di DNA, tamponi, reagenti.
  2. Nuovo organigramma del laboratorio di biologia molecolare.
  3. TAMPONI DI MASSA. Ottenere una sezione esatta del contagio al tempo zero.
  4. Ripetizione dell’esame al quattordicesimo giorno e al trentesimo.

A questo punto si sarebbe la ragionevole certezza di avere identificato ed isolato tutti i portatori contagiati.

L’OBIETTIVO CERCATO? Liberare, in un mese, tutta la popolazione del Sulcis Iglesiente dal virus. Senza la paura ed il sospetto potremo scientificamente riprendere i rapporti umani e rinascere.

La premessa a questo progetto è: un’opinione pubblica compatta nel sostenere una politica autonoma per la gestione diretta del SISTEMA SANITARIO DEL SULCIS IGLESIENTE.

Mario Marroccu

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Nulla sarà come prima. La responsabilità personale nei confronti del prossimo è ingigantita. Il “rischio biologico” entrerà nei DVR di tutte le attività imprenditoriali. I controlli delle autorità verteranno sulla verifica della nostra diligenza nel proteggere la salute del prossimo o sulla negligente esposizione degli altri al contagio.

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Vi è stata, 3 giorni fa, una videoconferenza preparatoria alla “riapertura” del 4 maggio 2020, tra 50 imprenditori ed alti dirigenti della Confcommercio del Sud Sardegna e Cagliari.

Si percepiva intensamente il disagio per adattarsi ai cambiamenti.

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Questa crisi economica deriva dalla crisi sanitaria. Per affrontarla bisogna prendere provvedimenti di tipo sanitario che il mondo civile laico non ha mai conosciuto. Sono stati sempre appannaggio del mondo sanitario, in particolare dei chirurghi ospedalieri. I provvedimenti organizzativi sanitari cambieranno i “contatti” umani. La parola deriva da latino “cum tangere”, e da essa deriva “contagio”. Questa parola contiene l’essenza delle responsabilità: rispondere di “diffusione di nuova ondata epidemica”.

L’ultima pandemia infuriò nel mondo poco più di 100 anni fa, nel 1918 e 1919 e produsse dai 50 ai 100 milioni di morti. Una pandemia si era già verificata nel 1600, nel 1500, nel 1400 e nel 1300. Oggi, tutto sommato, siamo stati abbastanza fortunati rispetto ai secoli passati, soprattutto perché le epidemie sono meno frequenti e per la maggiore preparazione tecnologica di oggi, come: la Genetica molecolare e l’estrazione del DNA, i respiratori automatici, gli antibiotici, l’eparina, etc.

Tuttavia, nonostante la tecnologia e la digitalizzazione, siamo inermi di fronte all’attacco del virus e dobbiamo difenderci con metodi messi a punto nel 1.300 a Milano e nel 1.400 a Venezia. Cioè: il “distanziamento” , l’“isolamento” e la “quarantena”. Non abbiamo altro.

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Ma…allora: «C’è stata l’evoluzione della Medicina?»

Sì…c’è stata: nella tecnologia e nella scoperta degli antibiotici. Però gli antibiotici non fermano il virus e la tecnologia si è sviluppata per le “malattie individuali”. Questa è una malattia diversa.

Esempio: l’infarto del miocardio e l’ictus uccidono, in Italia, 684 persone al dì. Moltiplicato per 365 giorni risultano 249.000 decessi l’anno. Si tratta di un numero assai più rilevante dei 28.710 morti di oggi su 209.328 affetti da Covid-19. Le 249.000 morti sono dovute a “malattie individuali”, cioè “non diffusive”. L’infarto è limitato alla vittima, e non si diffonde ai vicini. Così vale per l’”ulcera perforata”, per il “diabete”, per l’”artrite”, per il “cancro”, per l’”aneurisma”, per l’”ictus”, etc.

Al contrario, il Covid-19 è una malattia “diffusiva contagiosa”. Come diceva Ippocrate è “EPI” “DEMOS”, cioè “sopra il popolo” e , passando da un cittadino all’altro, può provocare debilitazione fino all’estinzione della Nazione.

Da queste esiziali conseguenze, deriva l’imponente crisi economica mondiale.

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Nel 1.300 il popolo pregava il Buon Dio dicendo:

“A PESTE, A FAMINE, A BELLO… LIBERA NOS DOMINE”

“dall’epidemia, dalla fame, dalla guerra, liberaci o Signore”.

In queste 5 parole sono sintetizzate tutte  le “conseguenze” e le paure che abbiamo oggi.

La “epidemia” genera la “crisi economica” (famine).

In passato, l’alta mortalità portava al crollo demografico ed alla penuria di agricoltori per i campi. Ne derivava la “carestia”.

Nel 1.300, vi furono ben 4 seconde ondate epidemiche. La carenza di generi alimentari e di primaria sussistenza generava “violenza”; poteva essere quella del vicino che derubava il vicino o dei popoli confinanti che invadevano e depredavano i pochi cereali o gli animali rimasti. Anche le incursioni barbaresche sulle coste sarde coincidevano con i periodi di carestia.

Nel 1.300, il calo demografico in Europa fu imponente. Città intere si svuotarono ed immense proprietà terriere incolte divennero disponibili per chiunque se ne appropriasse. A causa dell’alta mortalità di maschi, le donne li sostituirono nel lavoro dei campi. Avvenne allora la “rivoluzione dell’aratro” a “versoio”. Gli agricoltori che aggiogavano i buoi, inventarono i finimenti a “collare” per il cavallo, molto più forte e maneggevole, e gli affibbiarono l’aratro. Vi fu, nel secolo successivo, la moltiplicazione dei raccolti e del bestiame; l’eccesso di produzione consentì lo scambio dei prodotti, e dal baratto si passò al “commercio”; questo produsse il “benessere” e l’arricchimento. Così si svilupparono le radici del “Rinascimento”.

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Altri radicali cambiamenti sociali avvennero dopo le epidemie di Peste e Vaiolo in Inghilterra ed Europa centrale: nacque la Prima Rivoluzione Industriale delle “macchine a vapore”. Quando poi esplose la Seconda Rivoluzione Industriale, delle “macchine a combustibile fossile”, vi fu la rivoluzione dei trasporti terrestri e marittimi, che incrementarono la crescita economica e posero le basi al 1900.

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Ciò che emerge da questa breve sintesi storica, è che, dopo la “pandemia”, compare una “crisi economica” che induce modificazioni del modo di produrre; questo viene adattato a contenere i guasti prodotti dal contagio. Si inizia a combattere la “crisi economica” quando si inizia ad imparare a “convivere” con l’epidemia. Il metodo per convivere con l’epidemia si apprende con: la “conoscenza” e la “precauzione”.

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Per far comprendere come si posizionano oggi gli imprenditori rispetto alla Storia Contemporanea è utile fare una premessa storica che può essere raccontata in 4 atti.

Primo atto (quando non si conosceva l’esistenza di virus e microbi e non esistevano i presidi)

Nel 1632 Rembrandt dipinse un olio su tela che si trova oggi esposto nel Museo dell’Aia. Gli olandesi di allora venivano in Italia ad imparare la Chirurgia, poi la importavano in Olanda. All’epoca del dipinto stava concludendosi la Peste di Milano raccontata dal Manzoni. Il dottor Tulp, incaricato dal suo primario, eseguì una autopsia sul cadavere di un impiccato per motivi di Giustizia. La dissezione cadaverica venne eseguita davanti ad altri 7 medici.

Quest’immagine ha il valore di una fotografia. In quei tempi i “dipinti di gruppo” venivano organizzati raccogliendo una somma di danaro per pagare il miglior pittore disponibile. Capitò Rembrandt. Nessuno immaginava che sarebbe diventato uno dei dipinti più famosi al mondo, e più citato nei testi di Medicina.

Si osserva il dottor Tulp con:

  • cappello nero a tese larghe, che descrive il cadavere che sta sezionando,
  • ampio colletto di pizzo in una camicia a sboffi,
  • mantellina nera, abiti eleganti adatti a una cerimonia,
  • mani nude,
  • assenza di mascherina sul volto.

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In quei tempi i dottori non sapevano nulla sui microbi. Non erano stati ancora scoperti. Quindi quando i chirurghi eseguivano operazioni sul vivente, si presentavano in sala operatoria in abito elegante, nero, arricchito da pizzi e cappello. Quella era la divisa da lavoro.

Secondo atto (quando capirono che c’era qualcosa che provocava le suppurazioni).

Anno 1847. L’Ospedale Ostetrico migliore d’Europa era quello Imperiale di Vienna.

In quella clinica morivano di “sepsi puerperale” il 30 per cento delle donne che vi partorivano. Era un fatto considerato normale. Nonostante ciò le gravide a termine volevano essere assistite in quell’Ospedale famoso, ed erano così numerose che non riuscivano a trovare posto per il ricovero. Pertanto, davanti all’Ospedale, si era formato un accampamento di tende dove aspettavano d’essere ricoverate. Spessissimo finivano per dover partorire in tenda.

Il dottor Semmelweiss notò che le donne che partorivano in Ospedale, assistite dai Medici, morivano. Quelle che partorivano in tenda, no.

Aveva anche notato che i medici, prima di fare il giro delle visite nelle corsie, scendevano nei sotterranei ad eseguire le autopsie sulle donne morte il giorno prima.

Nota bene: in quei tempi i guanti del chirurgo non esistevano, così pure non esistevano le mascherine. I medici arrivavano al lavoro in corsia indossando abiti civili, come quelli che 200 anni prima indossava il dottor Tulp, e facevano le visite ostetriche transvaginali a mani nude. Le stesse mani che poco prima avevano dissecato i cadaveri.

Il dottor Semmelweiss sistemò, su un treppiede, un bacile riempito di “latte di calce” davanti all’ingresso della sua camerata di puerpere. Chiunque volesse visitare le sue pazienti doveva, prima, lavarsi le mani. Il risultato fu che le sue donne non morirono più, mentre quelle della corsie contigue continuarono a morire come prima. Oggi sappiamo che insorgeva una “sepsi puerperale” da streptococco, portato dalle mani di quegli ostetrici dentro l’utero delle poverette.

Semmelweiss scrisse una relazione per la Direzione Sanitaria e, per tutta risposta, venne licenziato. Tuttavia aveva fatto in tempo ad inviare la relazione alla Commissione Scientifica del Medical Imperial College di Londra. Lì venne presa in grande considerazione e, fatte le stesse verifiche, si scoprì che l’osservazione d Semmelweiss era fondata.

Questo fu il motivo che dette avvio al “lavaggio delle mani” tra i chirurghi di tutto il mondo.

***

Terzo atto: (dopo 10 anni si scopre che i microbi esistono)

Louis Pasteur fu il primo nella storia a dimostrare l’esistenza dei microbi. Era l’anno 1857.

L’infezione era la causa dell’alta mortalità che gravava sulle operazioni chirurgiche. 

La scoperta dei microbi pose, con impellenza, il problema della “Dis-infezione” e della “Sanificazione degli ambienti e degli strumenti” .

A risolvere il problema, fu il chirurgo Joseph Lister nell’anno 1867.

La mortalità dei suoi pazienti crollò.

Il metodo listeriano si diffuse in tutto il mondo.

E’ da notare che in quel tempo non si usavano ancora le mascherine chirurgiche e si continuava a operare a mani nude. Alla fine del 1800, i chirurghi operavano indossando gli stessi abiti borghesi con cui erano usciti da casa, cioè “redingote” e “frac”.

Nel 1894 il chirurgo William Halsted fu il primo ad usare i guanti di gomma.

Nel 1896 iil chirurgo austriaco Johann von Mikulicz Radecki pensò che le goccioline di saliva che gli uscivano dalla bocca mentre operava e parlava, potessero far infettare le ferite ed inventò le “mascherine chirurgiche di garza”.

***

Negli stessi anni iniziarono a comparire: camici, copricapo, sovrascarpe.

Nel 1900 le sterilizzatrici a vapore entrarono per la prima volta negli ospedali.

***

Dopo questi accorgimenti igienici la mortalità calò bruscamente e nacque la scienza dell’IGIENE e della PREVENZIONE basata su:

  • Lavaggio delle mani,
  • Disinfezione e sanificazione,
  • Mascherine,
  • Guanti,
  • Camici, copricapo e sovrascarpe,
  • Tute e schermi per il volto.

Situazione normativa al giorno d’oggi per il contenimento dell’epidemia      

Come classificare le norme di igiene applicate fino a due mesi fa nei luoghi di lavoro, di produzione, di commercio, e negli uffici pubblici e privati?

Risposta: «Il livello di sicurezza igienica era lo stesso che si vede nella “Lezione di Anatomia del dottor Tulp”».

I chirurghi hanno impiegato 270 anni per passare da quella fase descritta nel quadro di Rembrandt alla fase dei guanti, mascherina e lavaggio con soluzioni disinfettanti.

Oggi, per effetto dei DPCM di febbraio, marzo ed aprile del 2020, tutto l’apparato economico privato, l’Amministrazione pubblica, i Trasporti, le Scuole, il Sistema alberghiero e turisticodovranno apprendere le tecniche messe a punto dai chirurghi attraverso i secoli e dovranno farlo in pochi giorni. DISTANZIAMENTO, MASCHERINE, GUANTI, ISOLAMENTO, SANIFICAZIONI domineranno la scena.

Tutti dovranno:

  • Adeguarsi alle prescrizioni della legge n. 81 del 2008
  • Aggiornare il DVR (Documento di Valutazione Rischio) al “Rischio biologico” da Coronavirus.
  • Coinvolgere: RLST (Rappresentante Lavoratori Sicurezza Territoriale),
  • Coinvolgere: RSPP (Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione).

Adeguare l’igiene dei luoghi e delle persone alle norme contenute nel:

  • Circolare del ministero della Salute n. 5443 del 22 febbraio 2020,
  • DPCM del 26 aprile 2020
  • Ordinanza della Regione Sardegna del 2 maggio 2020.

Mario Marroccu