22 November, 2024
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In passato, davanti ad un paziente con mal di stomaco, si pensava a 6 possibilità diagnostiche:
– che fosse una gastrite
– un’ulcera gastroduodenale
– un cancro dello stomaco
– una colecistite calcolosa
– un calcolo del coledoco
– un tumore della testa del pancreas
– una pancreatite
Ma poteva essere anche un aneurisma dell’aorta o un infarto del miocardio, o tutt’altro, come un Herpes Zooster del settimo-ottavo nervo toracico. Era una trappola diagnostica che richiedeva molto tempo, impegno e fortuna.
Oggi la diagnosi esatta è abbastanza veloce e precisa. Si può capire molto con l’esame obiettivo e l’ecografia, seguite da elettrocardiogramma e gastroscopia, e si può raggiungere una ragionevole certezza diagnostica con la TAC e la Risonanza Magnetica Nucleare.
Prima del 1980, erano pochissimi in Sardegna ad avere un gastroscopio ed un ecografo, e nessuno sapeva fare le colangiografie endoscopiche. In quel tempo non esistevano ancora né la TAC, né la Risonanza Magnetica. La diagnosi era affidata all’ascolto del paziente, e all’esame fisico dell’addome. Poi si continuava lo studio eseguendo la “gastrografia con mezzo di contrasto” facendo bere al paziente un bicchiere di liquido radio-opaco. Il radiologo studiava le “lastre” cercando l’ulcera, o il cancro, ma i dubbi diagnostici erano molti.
In rarissimi casi, si eseguiva un primordiale esame endoscopico con uno strumento rigido, che si introduceva attraverso la bocca fino allo stomaco, costituito da un tubo d’acciaio cromato, del diametro di 2-3 centimetri che si chiamava esofagogastroscopio e aveva in punta una lampadinetta ad incandescenza per far luce nel buio delle cavità interne. L’esame era difficile, pericoloso e raramente utile.
Quindi, restava a disposizione per la diagnosi soltanto la gastrografia fatta dal radiologo. Se neppure il Radiologo riusciva a vedere l’ulcera o il cancro allora restava una sola opzione: addormentare il paziente sul tavolo operatorio, aprire la pancia col bisturi dallo sterno all’ombelico; esplorare con gli occhi e con la palpazione lo stomaco, il duodeno, la testa del pancreas, le vie biliari. Se si vedeva un’area sospetta per ulcera si procedeva, seduta stante, alla resezione di tre quarti dello stomaco e alla sua anastomosi col digiuno.
Il dottor Gaetano Fiorentino, a Carbonia, nella sua carriera aveva fatto circa 3.000 di queste procedure. Il professor Mario Sebastiani della Patologia Chirurgica della Università di Cagliari raccontava d’averne fatte 2.000.
Le complicazioni di tale chirurgia avevano una certa frequenza e, non raramente, il paziente moriva.
Quegli iter diagnostico-terapeutici persistettero fino alla prima metà degli anni ‘70. Nell’anno 1973 venne messa in commercio in Italia la “Cimetidina”, nome commerciale “Tagamet”. Fu il primo inibitore capace di bloccare la produzione dell’acido cloridrico nello stomaco. Bloccando l’acido, curava l’ulcera. Era nato il progenitore di tutti i gastroprotettori attuali.
Nel 1979 entrarono definitivamente in commercio i “gastroscopi a fibre ottiche” ed il Sirai ne comprò uno. L’associazione fra Cimetidina e Gastroscopio fu una rivoluzione. Si imparò a diagnosticare con rapidità e certezza le ulcere e a distinguerle dal cancro; il chirurgo endoscopista poteva finalmente vedere con i propri occhi la fonte delle emorragie gastriche , e a trattarle per tempo. Si vide che il “Tagamet” funzionava e si poteva seguire col gastroscopio la guarigione delle ulcere. Immediatamente l’incidenza dell’intervento chirurgico esplorativo per cercare l’ulcera crollò e le resezioni gastroduodenali scomparvero.
Quel primordiale gastroscopio a fibre ottiche acquistato dalla Chirurgia del Sirai, salvò migliaia di vite nel Sulcis e l’ulcera, da dramma, si trasformò in un “fastidioso bruciore allo stomaco” curabile con una pastiglietta.
Nell’Ospedale di Carbonia, in Chirurgia, si formò un’èquipe di chirurghi che si perfezionò nell’endoscopia digestiva. Contemporaneamente, la tecnologia offerta dall’industria migliorò e comparvero i gastroduodenoscopi a “visione laterale” che furono essenziali per condurre lo studio della “papilla di Vater” nel duodeno. Questa piccolissima struttura anatomica, posta in un luogo veramente difficile da raggiungete, rappresenta un incrocio letale: è lo sbocco comune della bile e del succo pancreatico. La sua ostruzione è una tragedia: provoca sia l’ittero ostruttivo sia della pancreatite acuta.
La bile è un liquido giallognolo, denso, viscoso, ricco di “bilirubina”, che ha molte funzioni come: digerire i grassi, mobilizzare la peristalsi intestinale, e adsorbire la vitamina K, che è essenziale per la coagulazione del sangue.
Il fegato produce e riversa nel duodeno 600-800 cc di bile al giorno.
Se la papilla si ostruisce succede che la bile ristagna nelle vie biliari intraepatiche. Il fegato se ne imbibisce tanto che ad un certo punto la bilirubina trabocca nel sangue e si diffonde ovunque nel corpo.
Allora avviene un cambiamento nel colore della cute e degli occhi che diventano gialli: è l’ittero colostatico. Le urine diventano scure come Coca-Cola per eccesso di bilirubina, mentre le feci diventano chiare per mancanza della bile nell’intestino.
Man mano che cresce la quantità di bile nel sangue, il colore giallo della cute e degli occhi diventa sempre più intenso, mentre gli organi nobili come il cervello i reni e il midollo osseo se ne impregnano intossicandosi. Il danno cerebrale porta al coma; il danno renale porta alla insufficienza renale acuta; il danno midollare porta al blocco di produzione di sangue, mentre i muscoli, compreso il cuore vanno incontro alla degenerazione delle fibre e allo scompenso. L’arresto di assorbimento della vitamina K provoca emorragie spontanee.
I microbi si accorgono del grave degrado dell’organismo e del sistema immunitario e partono all’attacco provocando infezioni. Questo disastro totale di tutti gli organi (MOF) innesca la CID (coagulazione intravasale disseminata) e compaiono sia tromboembolie che emorragie irrefrenabili e mortali. Si scatena una “tempesta citochinica” simile a quella che abbiamo sentito tanto descrivere per i malati terminali di Covid-19. Il paziente non ha scampo: l’ittero ostruttivo è una via senza ritorno. Un intervento chirurgico di salvataggio eseguito tardivamente è spesso senza risultati.
Fino al 1980 gli ospedali videro moltissimi pazienti morire così, sia a Carbonia che in tutto il mondo. Tali malati muoiono anche oggi, però in certi casi si riesce a prevenire questa evoluzione, a rallentarla e, qualche volta, a fermarla. Questo vero e proprio miracolo, è avvenuto con l’impiego tempestivo del “gastroduodenoscopio” a visione laterale che ha consentito la disostruzione precoce delle vie biliari con l’impiego di sonde, elettrobisturi endoscopici e stent per il coledoco. I colleghi chirurghi endoscopisti all’arrivo di un paziente itterico si allertavano come ci si allerta all’arrivo di un grande traumatizzato per incidente della strada. Immediatamente, con l’assistenza esterna di un apparecchio radiologico portatile procedevano alla introduzione del gastroduodenoscopio, individuavano la via biliare ostruita, introducevano al suo interno sonde per gli esami radiologici di dette vie ed estraevano i calcoli dal coledoco. In altri casi, dilatavano la stenosi della via biliare dovuta ad un tumore, e sistemavano uno Stent per tenerla aperta e consentire lo sbocco della bile nell’intestino. Una volta messo lo Stent, col passare delle ore e dei giorni, tutta la bile che impregnava gli organi veniva ripresa dal fegato e scaricata nell’intestino. Il paziente tornava alla vita.
Il dramma descritto è avvenuto migliaia di volte e continuerà ad avvenire in futuro. Chiunque è candidato a simili eventi.

Oggi l’Ospedale di Carbonia non ha più in sede specialisti per l’Endoscopia Digestiva, né per le gastroscopie e le colonscopie, né per la colangiografia retrograda ed il trattamento dell’ittero ostruttivo da calcoli o da tumore della testa del Pancreas. E’ necessario costruire l’équipe di chirurghi endoscopisti esattamente come si fece nel 1980. Allora, sotto la spinta di una politica sanitaria gestita dai Sindaci, avevamo raggiunto livelli tecnologici sul trattamento delle più gravi patologie ostruttive biliari e pancreatiche, che ancora oggi sarebbero all’avanguardia. In quegli anni nella Chirurgia Generale del Sirai era stata messa a punto una tecnica svedese-americana per trattare la patologia biliare ostruttiva: la “colangiografia transepatica e il drenaggio biliare transepatico”. Era una tecnica radioguidata in anestesia locale. Sotto i raggi-X i chirurghi infiggevano un ago di 20 centimetri nella base toracica destra, fino a penetrare in un vaso biliare dilatato nella profondità del fegato. Attraverso quell’ago si introduceva un lungo tubino che pescava nella via biliare estraendone la bile accumulata. Già dopo poche ore il paziente migliorava.
Uno di questi pazienti fu poi operato dal professor Dante Manfredi, Direttore Chirurgo dell’Istituto dei Tumori Regina Elena di Roma. Questi aveva lavorato nella clinica chirurgica di Hanoi col collega vietnamita professor Thou That Tung. Il chirurgo vietnamita aveva inventato la tecnica della resezione dei tumori epatici con le dita (“digitoclasia”) e Manfredi l’aveva importata a Roma. Era l’unico in Europa capace di affrontare il caso del paziente di Carbonia. Lo operò e l’intervento andò benissimo, ma dopo 10 giorni di perfetto decorso postoperatorio vi fu una deiscenza delle anastomosi e il paziente morì. Il professor Manfredi attraverso il figlio del paziente fece pervenire ai chirurghi di Carbonia un suo commento: era stupito che in un ospedale sardo così piccolo si facessero procedure così avanzate.
Questo era lo stato delle cose sulla endoscopia digestiva e la diagnostica e trattamento delle ostruzioni biliari a Carbonia 40 anni fa.
Purtroppo, oggi un servizio così felice non esiste più.
Solo chi finisce nel tunnel delle suddette patologie sa quanto sia ingiusto costringere questi malati gravissimi e le loro famiglia a migrare in ospedali lontani che , in assoluto, non garantiscono nulla di più di quanto hanno sempre ottenuto a Carbonia negli ultimi 40 anni.
Il dottor Enrico Pasqui, grande esperto di storia della Medicina, raccontava che fino a 50 anni fa la gente del Sulcis curava l’ulcera gastroduodenale ingoiando lumache vive, e usava trattare l’ittero immergendo il malato nel letame.
Il salto in avanti dalla Medicina dal Medio Evo ad oggi è durato 50 anni.
Prima che si faccia un salto indietro, dobbiamo pensare molto bene a come prevenirlo.

Mario Marroccu

 

L’incidenza della calcolosi urinaria fra noi sardi è altissima. Sarà la genetica, o il metabolismo, o l’alimentazione, o l’esposizione solare e la produzione di vitamina D? Fatto sta che, soprattutto noi del Sud Sardegna, abbiamo un’incidenza di calcolosi come non si vede in nessuna parte d’Italia. Per tale ragione i chirurghi sardi sono stati sempre esperti nel trattamento delle malattie ostruttive delle vie urinarie provocate da calcoli. Già ai primi del 1900, al San Giovanni di Dio, i chirurghi avevano grande esperienza in questo campo. Durante la Prima Guerra Mondiale ebbero stretti rapporti professionali negli ospedali da campo, con i colleghi di Trento, Trieste e Udine che erano di scuola austriaca. Il chirurgo triestino Giorgio Nicolich, specializzato a Vienna attrezzò il primo reparto d’Urologia in Italia. Tra i chirurghi sardi che operavano in quel fronte vi era il dottor Nino Lasio di Serramanna, che proveniva dal San Giovanni di Dio; questi fu molto apprezzato per le sue capacità professionali nel trattamento delle malattie urinarie e, alla fine della Guerra, venne trattenuto all’Università di Milano dove gli venne conferito l’incarico di direttore della nuova scuola di specializzazione in Urologia. Tale specialità ancora non esisteva come branca indipendente in nessuna Università italiana. Dopo Milano la scuola di specializzazione di Urologia venne aperta anche a Cagliari. Un primo caposcuola fu il professor Rodolfo Redi, direttore patologo chirurgo. I suoi aiuti erano il dottor Gaetano Fiorentino ed il dottor Mario Sebastiani.
Il dottor Gaetano Fiorentino fu il primo sardo a specializzarsi in quella scuola.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, il dottor Gaetano Fiorentino fu arruolato nell’Armir e destinato alla campagna di Russia. Tornò con un’enorme esperienza maturata operando traumi di guerra. Per le sue doti chirurgiche, il dottor Gaetano Fiorentino venne precettato dal Governo ed inviato a dirigere la Chirurgia Generale dell’Ospedale Sirai di Carbonia, dove affluivano i minatori traumatizzati dagli incidenti nel sottosuolo.
Quando Gaetano Fiorentino occupò il suo posto nella nuova sede dell’Ospedale Sirai, ebbe l’opportunità di conoscere il comandante della Sesta Flotta americana che gli fece dono dell’intera sala operatoria di una corazzata. I vari strumenti vennero utilizzati fino agli anni ‘80; tra questi vi erano un letto operatorio, una lampada scialitica, un respiratore automatico complesso, un broncoscopio, un esofagogastroscopio rigido, un sigmoidoscopio, l’attrezzatura da craniotomia, un cistoscopio ed un rarissimo elettroresettore, prodotti dalla ACMI del Minnesota, illuminati in punta da una minuta lampadina ad incandescenza. In quei tempi, all’ospedale Sirai le operazioni urologiche e, soprattutto, quelle per calcolosi urinaria, erano all’ordine del giorno.
Con l’andata in pensione del dottor Gaetano Fiorentino, il posto di primario chirurgo venne occupato dal professor Lionello Orrù, urologo, professore di Anatomia Umana normale all’Università di Cagliari, professore di Anatomia Chirurgica nella scuola di specializzazione. Anche col professor Lionello Orrù le operazioni per calcolosi urinaria furono molto frequenti. Il motivo di tale frequenza, era dovuto sia all’alta incidenza di calcolosi nel Sulcis Iglesiente, sia al fatto che, quando la calcolosi dell’uretere era irrimediabilmente ostruente, si doveva sempre procedere all’asportazione chirurgica del calcolo, pena la morte del rene. In quei tempi non era raro trovare pazienti con un solo rene funzionante, perché l’altro aveva cessato di funzionare a causa di un calcolo. Dato che chi produce un calcolo in un rene, prima o poi, potrà produrlo anche nell’altro rene, poteva capitare che all’improvviso, con una nuova colica dal lato opposto, anche il rene superstite cessasse di funzionare. Allora non esisteva la dialisi sostitutiva della funzione renale ed i poveretti morivano se non si procedeva ad una nuova operazione. Questo valeva in tutto il mondo.
Le cose cambiarono nella Primavera del 1986, quando comparve un articolo nella rivista francese “Le Journal d’Urologie”, a cui venne dato poco risalto dalle riviste italiane. L’autore del lavoro si chiamava Enrique Perez Castro Ellendt. Egli sosteneva d’aver messo a punto un metodo endoscopico per asportare i calcoli dagli ureteri senza ricorrere all’operazione classica di lombotomia, con grande taglio dalla base del torace prolungato in basso in addome. Ciò che descriveva era fantascienza. Sosteneva d’aver costruito con la ditta Storz tedesca, uno strumento ottico molto lungo, fatto come un sottilissimo cannocchiale d’acciaio di 55 centimetri, diametro 4 millimetri, che, passando dall’uretra e dalla vescica, poteva penetrare nell’uretere fino a raggiungere il calcolo per romperlo, asportare i frammenti, e liberare il passaggio alle urine, arrestando così le coliche e salvando il rene. Tutto questo senza operazione.
Nel mese di luglio, avvenne un fatto che segnò il cambiamento nella storia della calcolosi per l’ospedale di Carbonia.

In quel mese dell’estate del 1986 si presentò nel reparto Chirurgia, al secondo piano del Sirai, un elegante signore attempato che riferì d’aver urinato sangue. Venne sottoposto a cistoscopia e fu diagnosticato un tumore maligno della vescica. Il signore aveva un problema: la premura di rientrare nella sua città di residenza, Madrid. Ci chiese consiglio sul centro madrileno a cui rivolgersi e ne approfittammo per indirizzarlo alla clinica “La Luz”, dove operava il dottor Enrique Perez Castro Ellendt. La clinica era peraltro già famosissima in tutto il mondo, perché vi era stato operato il “caudillo” Francisco Franco, e lì era deceduto per complicazioni emorragiche. Enrique Perez Castro Ellendt fece, al nostro paziente, una resezione vescicale asportando tutto il tumore con successo. Incuriosito dal racconto del paziente inviato da Carbonia, indagò sul nostro interesse per lui. Il paziente gli riferì che i chirurghi di Carbonia erano a conoscenza del nuovo metodo per asportare i calcoli dagli ureteri inventato da lui e gli trasmise il nostro desiderio di conoscerlo. Enrique Perez Castro Ellendt immediatamente ci invitò a Madrid nella sua Clinica. Fino ad allora aveva mostrato la procedura di asportazione dei calcoli ureterali, senza operazione, soltanto ad altri due italiani: il dottor Francesco Rocco dell’Università di Milano, ed il dottor Michele Gallucci dell’Università di Roma. Il nostro paziente-intermediario generosamente si offrì di ospitare noi chirurghi di Carbonia nella sua casa a Madrid e decidemmo di partimmo. All’arrivo, avemmo una prima sorpresa: la casa si trovava in “Calle Urola”, la via delle ambasciate. Si scoprì in quel momento che il nostro ospite era stato ambasciatore d’Italia in Spagna. La casa, ora di sua proprietà, era una villa divisa in due parti. L’altra metà era appartenuta al presidente argentino Juan Peron e alla moglie Evita Peron. Si capì allora il motivo della grande disponibilità del chirurgo madrileno ad accoglierci nella sua clinica e mostrarci i segreti della sua metodica. Il nostro ospite in Spagna era un personaggio illustre. Così pure lo erano la moglie spagnola ed il cognato che facevano parte dello staff medico della famiglia reale.
Furono giorni densi di studio ed esperienza. Carpimmo i segreti della tecnica di “ureterolitotrissia endoscopica” che consentiva, per la prima volta nella storia, di polverizzare i calcoli dentro l’uretere ed estrarli senza operazione.
Tornati a Carbonia, facemmo un accurato rapporto al presidente dell’Ospedale: il sindaco Pietro Cocco. Egli ascoltò con molta attenzione e accolse la nostra richiesta di acquistare l’attrezzatura necessaria. L’ordine partì pochi minuti dopo il colloquio.
Il materiale richiesto era tanto e costoso. Si trattava di un ureteroscopio Storz da 12 Charrière (3 Ch = 1 mm) quindi del diametro di 4 mm, progettato da Enrique Perez Castro Ellendt e realizzato dalla ditta tedesca. Ad esso si associava un’ottica lunga 55 centimetri. Dentro la camicia d’acciaio vi erano tre canalicoli paralleli destinati ad ospitare l’ottica, costituita da una serie di microscopiche preziosissime lenti, una via per l’acqua, una via per introdurre le sonde da ultrasuoni per rompere i calcoli, e le pinzette per estrarne i frammenti. L’acqua che si pompava dentro il canalicolo serviva a creare una camera liquida che consentiva di dilatare il sottile lume ureterale, penetrarvi, e procedere dentro l’uretere fino a raggiungere il calcolo.
L’operazione più difficile era la penetrazione della punta dello strumento nel meato ureterale. Il meato è il punto in cui l’uretere, che arriva dal rene, penetra in vescica. Per fare questa procedura, fino ad allora ritenuta impossibile alle ottiche in uso in quel tempo, il dottor Enrique Perez Castro Ellendt aveva pensato di aprire la strada utilizzando una sottile sonda flessibile che aveva in punta un palloncino gonfiabile. Introdotta la sonda nel meato ureterale e gonfiato il pallone, si otteneva l’apertura del tratto finale dell’uretere e del suo sbocco in vescica, sufficiente per introdurvi l’ureterorenoscopio. La progressione dello strumento dentro l’uretere veniva agevolata dal getto d’acqua ad alta pressione, prodotto dalla pompa Ureteromat inventata, anch’essa, da Enrique Perez Castro Ellendt.
Una volta giunti sul calcolo si procedeva alla sua frammentazione con la sonda ad ultrasuoni; i frammenti venivano asportati con la pinza a “bocca di caimano”. Tutta la procedura veniva controllata al monitor di un apparecchio radioscopico; era, pertanto, inevitabile che l’intera équipe medica e infermieristica presente, assumesse notevoli quantità di radiazioni nonostante i grembiuli piombati. Furono tante le procedure eseguite, e tante le radiazioni assunte dagli operatori che i fisici nucleari della Commissione regionale di controllo definirono l’Ospedale di Carbonia la “zona nera” dei raggi X della Sardegna. Oltre al monitoraggio radiologico l’intervento veniva controllato da una telecamera endoscopica Storz che mostrava le immagini della procedura in uno schermo televisivo.
Quando il presidente Pietro Cocco, nel 1986, fece l’ordine d’acquisto dell’ureterorenoscopio per ureterolitotrissia alla ditta Sanifarm di Cagliari, nessuno ancora lo possedeva in tutta Italia. Lo stesso direttore della Storz Italia, che aveva sede a Torino, l’ingegner Boggio Marzet, non ne conosceva ancora l’esistenza.

Da quell’anno 1986, a Carbonia, i calcoli ureterali non vennero più operati con il taglio lombare o addominale, e molte centinaia di pazienti vennero trattati col nuovo metodo endoscopico. I pazienti entravano in ospedale con le coliche renali ed i reni ostruiti, e ne uscivano entro 24-48 ore sani e pronti a riprendere la vita normale. A Carbonia arrivavano pazienti da ovunque. Venne prodotto un filmato endoscopico che mostrava il difficile metodo usato per introdurre lo strumento nell’uretere. Dopo cinque anni di attività, mostrammo le immagini endoscopiche alla fine di un convegno tenutosi a Cagliari, sulla calcolosi urinaria, nell’aula convegni posta al sesto piano del Banco di Sardegna. Nessuno degli astanti aveva mai visto immagini del genere. Dopo quella data altri iniziarono ad apprendere la tecnica.
Quanto raccontato avvenne quando l’Ospedale di Carbonia cresceva in efficienza, qualità e passione. Era il tempo in cui quasi 2.000 bambini l’anno nascevano nel suo reparto di Ostetricia, quando si eseguivano più di 1.000 interventi chirurgici l’anno, in Chirurgia vi erano 84 posti letto ed esistevano due reparti di Medicina Interna; l’Ospedale allora aveva 384 posti letto, contro gli attuali 120, e non vi erano ancora le liste d’attesa mostruose che oggi affliggono gli ospedali italiani.
Perché vi fu tanta crescita professionale e tecnologica in quel periodo? Certamente avvenne per coincidenze storiche. L’avere avuto ricoverato nel 1986 un signore che in tempi lontani era stato ambasciatore italiano in Spagna, mentre a Madrid si metteva a punto quel metodo rivoluzionario fu fortuito. Un elemento sicuramente determinante fu l’avere in quel momento come presidente della ASL un uomo come il sindaco Pietro Cocco. Erano anche gli anni in cui nascevano la Dialisi, la Cardiologia, la Medicina Nucleare, la Psichiatria, l’Endoscopia Digestiva. La coincidenza di più elementi eccezionali, coerenti con la missione pubblica data agli Ospedali dalla legge di Riforma Sanitaria 833 del 1978, produsse il terreno adatto per far sviluppare quelle particolari crescite professionali in quella particolare generazione di medici e di infermieri.
Successivamente, cosa è cambiato? I cambiamenti che hanno portato gli ospedali allo stato attuale, avvennero in progressione. Nel 1987 Il ministro Carlo Donat Cattin iniziò ad intaccare il potere di controllo dei Sindaci sulle ASL, abolendo l’istituto delle Assemblee Generali che rappresentavano i Consigli comunali del territorio. Poi nel 1992 il ministro Francesco di Lorenzo introdusse il concetto dell’“Aziendalizzazione delle ASL”, con principi gestionali privatistici. Come primo atto di quella riforma, i presidenti delle ASL, nominati dai Sindaci, vennero affiancati dai “Commissari straordinari”, nominati dalla regione. In seguito  con le riforme del 1995 e 1999, nel periodo del ministro Rosi Bindi, i presidenti delle ASL vennero eliminati e sostituiti dai manager. Questi erano nuove figure di amministrativi indipendenti dai sindaci e rientranti nella stretta gerarchia della burocrazia regionale.
Con questo atto i sindaci vennero totalmente estromessi dal controllo politico e amministrativo delle ASL. Dopo i manager, negli anni 2000, comparvero i direttori generali di nomina regionale. Così, con la centralizzazione politica ed amministrativa arrivò a compimento la “centralizzazione” dei servizi sanitari. Il centro fisico della Sanità cominciò a coincidere con le sedi del potere regionale: le città di Cagliari e Sassari. L’idea di centralizzare i servizi sanitari di altissima specializzazione, come la cardiochirurgia, la neurochirurgia, i trapianti d’organo, è corretta. Invece, non è corretta la centralizzazione del servizio sanitario di base che la legge assicura equamente a tutti i cittadini, proporzionalmente alla consistenza demografica delle popolazioni provinciali. Purtroppo, però, nel nostro caso, è avvenuta la centralizzazione anche della sanità di base, con il conseguente svuotamento del territorio provinciale.
Oggi, l’unificazione di tutte le ASL in un’unica ASL regionale, ha creato un unico centro di potere amministrativo. Ciò ha sottratto anche ai nuovi direttori generali delle ASL quella libertà di gestione che avevano i presidenti ai tempi di Pietro Cocco. Ora che gli ospedali provinciali sono usciti dal centro del potere sanitario stiamo vedendone gli effetti: i cittadini sono scontenti e si rivolgono ai propri sindaci che, per essi, incarnano lo Stato; ormai tutti i giorni vediamo nei notiziari, immagini di sindaci che prendono dure posizioni nei confronti di quella struttura burocratica centralizzata che li ha sostituiti.

Mario Marroccu