2 November, 2024
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Il titolo del libro “L’Europa al bivio” riguarda una pubblicazione, curata da Salvatore Cherchi e Gian Giacomo Ortu, che raccoglie gli scritti dello stesso Ortu, di Christian Rossi, Benedetto Barranu e Omar Chessa, introdotti da Cherchi. Complessivamente, offre ben più che un pamphlet informativo e di un insieme di stimoli importanti per una discussione. Per quanto preceda la guerra in corso che obbliga a ripensamenti non da poco e non solo sul piano politico-istituzionale, storico-giuridico ed economico-finanziario. Impegna, soprattutto, verso nuovi percorsi di pace nelle relazioni non solo fra gli Stati, ma anche dentro ogni Stato. A mio avviso questo testo rappresenta uno sviluppo rispetto al manifesto di Ghilarza che determinò il raggruppamento Sinistra Autonomia Federalismo (SAF). Pertanto, offre una più ampia base di riferimento, per successivi e auspicabili aggiornamenti. Anche nell’immediato questa pubblicazione stimola profonde riflessioni che riguardano ogni gruppo progressista nello schieramento di sinistre sarde, italiane ed europee, per andare oltre l’Europa al bivio, compreso il bivio della guerra nucleare, in un impegno di pace e di giustizia sociale fra gli Stati e negli Stati.

Ho imparato molto da tutti i saggi e anche dalla pregevole introduzione di Tore Cherchi. Ringrazio tutti. In particolare, noto che Tore Cherchi, rispetto al passato, presenta innovative convinzioni e nuove determinatezze con una propria e straordinaria forza culturale e politica che, purtroppo, non emerge nella palude precongressuale del Pd in Sardegna. È utile leggerlo con particolare attenzione politica, per cogliere i suoi nuovi orientamenti. Forse, bisogna pensare a quali associazioni possono promuovere qualche dibattito precongressuale, per conoscere meglio le attuali posizioni in campo nel Pd sardo.

Dico subito che ho attraversato questo testo, come antropologa, con la mia “cassetta degli attrezzi” che verifica vecchie e nuove disumanizzazioni e vecchi e nuovi assoggettamenti, insieme a certe capacità di farsi soggetti autonomi a vari livelli, più o meno istituzionalizzati: individuali e collettivi, di classe e di genere, socio-etnici e della specie umana. Leggendo questo libro ho tenuto conto, in particolare, di una certa antropologia economica e di un suo percorso. Per dirla in breve su questo settore, nel quadro del sistema-mondo, l’antropologia economica alla quale mi sono riferita è diventata antropologia della globalizzazione finanziaria, analizzando processi ed effetti del neoliberismo con innovativi approcci. Appadurai per esempio, con il suo percorso biografico e di ricerca, illustra anche un recente tragitto di questo settore. Egli studiava nel 2011 le aspirazioni democratiche che producono futuro e che richiedono riconoscimenti (Le aspirazioni nutrono la democrazia). Nel 2016, giungeva ad approfondire il filone di studi antropologici che riguarda i fallimenti tecnici, finanziari e di mercato (Scommettere sulle parole. Il cedimento del linguaggio nell’epoca della finanza derivata). Nel 2020 egli passava allo studio dei fallimenti del “finanziarismo” (Fallimento). In questo percorso considerava anche angosce e tossicità che accompagnavano la gig economy, compresi gli investimenti sul rischio e la frammentazione dei soggetti che subivano le crisi.

Di lavori precari e di dequalificazione delle persone e di certi lavori si è occupato, inoltre, David Graebner (Bullshit Jobs, A Theory 2018), antropologo americano alla London School of Economics, morto in Italia ai tempi iniziali del coronavirus. Incoraggio fortemente a osservare la più attuale e innovatrice antropologia, anche nelle riflessioni sul federalismo che vogliamo sostenere.

Vorrei, pertanto, indicare e richiamare ora alcune tematiche che riguardano i processi finanziari e gli impoverimenti dei soggetti umani fino al loro indebolimento, depotenziamento e annichilimento, insieme alle loro esperienze di resistenza e per un cambiamento democratico. Si tratta di temi che Appadurai affronta soprattutto nel suo saggio del 2016. Riguardano esperienze della frammentazione dei soggetti che per certi versi lo avvicinano ad Amartya Sen e ad Antonio Gramsci. Sono questioni presenti nel testo in discussione. Ne parla in un certo modo Giangiacomo Ortu, citando proprio Amartya Sen a proposito di Libertà individuale come impegno sociale. Non a caso si tratta di un’opera particolarmente vicina al Federalismo italiano ed europeo, a partire da Eugenio Colorni e dal Manifesto di Ventotene, in cui il rapporto problematico fra soggettività individuale e collettiva è assai consapevole e ben considerato. Si tratta di un tema di straordinaria importanza che merita di essere approfondito perché, a mio avviso, un nuovo federalismo deve chiamare in causa e implicare la vita di ogni persona, la dimensione soggettiva individuale nella creazione di un soggetto collettivo federale.

Tore Cherchi sostiene che bisogna ritornare a quel pensiero. Condivido tale affermazione, fatte salve, ovviamente, le opportune storicizzazioni su cui dovremmo avviare oggi qualche approfondimento ed effettuare qualche necessaria sottolineatura.

Parto dalle sottolineature. Riprendo due punti, fra i commenti del 1974 di Noberto Bobbio al Manifesto federalista di Ventotene. Uno riguarda la pace e il pacifismo transnazionale. Sono contenuti nella critica, propria del federalismo, alla sovranità assoluta. Questo punto concerne, inoltre, il rapporto fra il federalismo europeo e il federalismo mondiale, in attesa del quale pare a me che non ci si possa limitare alla sola cooperazione europea, per quanto importantissima, come soluzione funzionale e generatrice automatica di pace mondiale (Bobbio 2014:102):

In questo senso il pacifismo europeo non è propriamente una dottrina pacifista, non tanto perché a rigore se è valido il suo sillogismo – la causa delle guerre è la sovranità assoluta, per limitare le guerre bisogna limitare la sovranità – la conseguenza necessaria dovrebbe essere non la federazione europea ma la federazione mondiale (ideale che rimaneva, sì, sullo sfondo, ma non era diventata ancora un programma politico), ma perché la pace non viene considerata in seno al movimento federalista sin dai suoi inizi come il fine ultimo ma come il presupposto, la conditio sine qua non, per la realizzazione di altri fini considerati come preminenti, quali la libertà, la giustizia sociale, lo sviluppo economico e via discorrendo. (sottolineatura mia)

Si tratta di un punto che merita più che una sottolineatura. Per certi aspetti, ci rinvia a Piketty e a certe sue domande che precedono certe sue risposte, utili anche per precisare ora la nostra rotta. Quale federalismo? Per fare che cosa? Si tratta di domande contenute in un suo testo del 2015 che ha per titolo una principale domanda: Si può salvare l’Europa?

Prima di riprendere alcune proposte di Piketty, vale la pena di sottolineare un altro punto importante, indicato da Bobbio. Egli rimarca come il federalismo nasca nel crogiuolo della crisi e della risposta alla crisi con la Resistenza, volta a un nuovo assetto sociale. Egli, affermando il carattere storicamente inventivo della Resistenza e del federalismo, dice così (Bobbio 2014:108).

L’ideale federalistico si pone su questo terzo livello: la resistenza non come restaurazione ma come innovazione. La resistenza che deve chiudere e aprire, distruggere per costruire, essere negazione non in senso formale ma in senso dialettico. Che non deve limitarsi a vincere il presente ma deve inventare il futuro. Il federalismo fu, ed è tuttora una di queste invenzioni storiche. Per questo è legato a quel momento creativo della storia che fu la Resistenza europea. Una delle più alte coscienze della Resistenza italiana, Piero Calamandrei, scrisse: «Tutte le strade che un tempo conducevano a Roma conducono oggi agli Stati Uniti d’Europa». (sottolineatura mia)

Per quanto riguarda la crisi e il rilancio delle istituzioni europee tutti gli autori Rossi, Barranu e Chessa offrono con Tore Cherchi importanti riflessioni critiche e positivamente ponderate, senza autolesionismi. Le condivido con qualche più accentuata preoccupazione, già presente nei loro scritti. Per esempio, Benedetto Barranu mette in luce le importanti attenzioni europee ai parametri finanziari a fronte, tuttavia, della disattenzione verso gli obiettivi di integrazione economica, sociale e civile delle diverse regioni europee. Egli si riferisce a Piketty, ma se ne discosta in certa misura nell’ordine delle proposte. Sull’incremento della pressione fiscale, infatti, mi pare più forte in Piketty l’esplicitazione della progressività fiscale, sia come ordine prioritario e sia come ordine qualitativo, ordine che nello scritto di Benedetto Barranu risulta al quarto posto delle proposte. Mi pare, invece, che questo elemento della progressività fiscale sia considerato cruciale per poter combattere le disuguaglianze partendo dalla distribuzione, sia da Piketty e sia dal suo maestro Antony Atkinson.

Giungo a un punto democraticamente cruciale. Nelle diseguaglianze – come notano questi due autori e come sappiamo – quelle di genere hanno una particolare rilevanza. Tuttavia, particolare attenzione deve essere dedicata anche alle disuguaglianze interne ai generi. Infatti, debbono essere ora considerate con una nuova attenzione, che scientificamente riguarda le “intersezioni”. Detto semplicemente, si tratta di considerare i fili delle condizioni e delle posizioni non solo sociali, ma anche locali, per esempio infrastrutturali e ambientali, specialmente per le donne. Tali intersezioni sono anche individuate come socio-geo-culturali, per esempio considerando le relazioni di genere secondo il colore della pelle e secondo i contesti locali, anche di spopolamento o di abbandono o d’inquinamento. La questione delle disuguaglianze, in particolare di genere ma anche interne al genere, a mio avviso, è un punto dirimente per un nuovo federalismo democratico e partecipativo.

Nelle egemonie vecchie e nuove, considerate dal federalismo che si sta elaborando in Sardegna, pare rimanere in ombra il nesso con le nuove subalternità, generazionali e di genere, determinate dal neoliberismo, imperante anche nelle complessive politiche europee non solo con le politiche di austerità. Negli approcci federalistici finora da noi pubblicati, gli aspetti delle “nuove subalternità” sembrano ancora sottaciuti o impliciti, oscurati o fuori da ogni interesse programmatico di nuovo federalismo. Ovviamente la realtà non è sempre quella che appare e ciò vale anche in questo caso. I ritardi e gli offuscamenti, di cui sono anche io responsabile, sono di varia natura e riguardano anche vari impedimenti personali. Tuttavia, non possiamo restare insufficienti su tali aspetti.

Dobbiamo, evidentemente, fare qualcosa in più e di diverso, per promuovere, specie con studentesse e studenti, nuovi protagonismi di donne e di giovani che siano non conformistici verso chicchessia, ma seriamente rigorosi nei pensieri, nelle iniziative e nelle relazioni. In ogni caso, non possiamo essere soddisfatti di una nostra cornice concettuale generale, fatta in casa, che lascia nella stagnazione e nell’opacità tali aspetti delle nuove subalternità e delle nuove inuguaglianze, specie di genere, diffuse nel mondo ultraliberistico, incontrollato e diventato imperante.

Il federalismo che Sinistra Autonomia Federalismo (SAF) richiede, a mio avviso, proprio nel piano delle nuove subalternità e delle nuove inuguaglianze, una specifica connessione con il pensiero gramsciano sulle subalternità, operante nella cultura politica globale. Vale la pena di affermarlo proprio oggi 27 aprile, in modo non celebrativo a 85 anni dalla sua morte, ma per rivelare la vitalità concettuale e operativa di parti importanti del suo pensiero.

Forse, ma non vorrei mettere troppa carne al fuoco, la nostra riflessione può giovarsi anche di una parte del pensiero berlingueriano. Egli, infatti, guardava all’eurocomunismo e al rapporto fra democrazia e socialismo in un suo orizzonte riformista dell’Europa dei popoli, e della stessa Nato. Posso solo auspicare una riflessione collettiva su tali aspetti di rilettura dell’eurocomunismo berlingueriano. Tuttavia, è necessario ponderare ora su che cosa si può fare di più e meglio in merito alle nuove subalternità e alle nuove inuguaglianze di genere e nei generi, nel nostro progetto di un “democratico federalismo sociale”.

Vorrei tornare ora alle inuguaglianze, perché credo che queste debbano essere declinate non solo a scale limitate in Sardegna, in Italia e in Europa. Penso che le inuguaglianze debbano essere inserite anche in più ampie scale transnazionali, cercando di individuare legami tematici trasversali, dalle politiche di genere a quelle ambientali. A mio avviso, infatti, è necessario far emergere un federalismo sociale, nuovo e avanzato democraticamente, in cui le nuove subalternità e le nuove inuguaglianze siano individuate e connesse fra loro secondo specifiche trasversalità e in cui la pace sia, non presupposta, ma un obiettivo permanente e mai definitivamente compiuto. Penso a un federalismo sociale europeo, gramscianamente aperto al mondo

Nel quadro delle nuove subalternità, credo che tutte e tutti noi dobbiamo dare continuità e sviluppo a un altro versante dell’impegno di Sinistra Autonomia Federalismo, avviato con Laura Pennacchi il 26 novembre 2018, per ripensare la crisi capitalistica, la socializzazione degli investimenti e la lotta agli impoverimenti attraverso la promozione del buon lavoro per tutte e tutti. L’iniziativa del novembre 2018 corrispondeva in parte, sul piano scientifico, al titolo del libro dell’economista keynesiano Hyman Philip Minsky, edito nel 2014, Combattere la povertà. Lavoro non assistenza, in cui Laura Pennacchi pubblicava un saggio introduttivo. In questo testo, come in altri impegni di questa studiosa, si affermava con particolare forza l’importanza dell’autonomia culturale nelle esperienze lavorative in cui i soggetti diventavano autonomamente protagonisti attivi di un cambiamento democratico.

Vorrei, mantenendo il focus sul lavoro, metter l’accento sul fare, sul fare immediatamente possibile che sia Piketty e sia Atkinson rendono evidente per realizzare un’Europa caratterizzata dalla democrazia ugualitaria e dal federalismo sociale. In questa Europa il buon lavoro per tutte e per tutti è un obiettivo fondamentale. Si tratta, infatti, di promuovere un democratico federalismo sociale in cui il lavoro viene garantito a chi lo chiede.

Parto da Atkinson (2015:307-308). Il titolo Sulla disuguaglianza ha come sottotitolo la domanda Che cosa si può fare? La parte finale del testo indica La strada che ci sta davanti. In questa parte egli delinea vari percorsi per andare avanti ed esplicita 15 proposte che è ora impossibile riportare o riassumere. Ne vorrei selezionare alcune, a titolo esemplificativo.

La proposta n. 3 recita: Il governo deve adottare un obiettivo esplicito per prevenire e ridurre la disoccupazione e deve sostenere tale obiettivo offrendo un impiego pubblico garantito a salario minimo a quanti lo cercano.

La proposta 8 dice: Dobbiamo tornare a una struttura di aliquote più progressiva per l’imposta sui redditi delle persone fisiche, con aliquote marginali crescenti per scaglioni di reddito imponibile, fino a un’aliquota massima del 65%, il tutto accompagnato da un ampliamento della base imponibile.

I due punti sono evidentemente connessi, ma vado in fretta e richiamo ancora qualche punto dell’elenco, rinunciando alle esplicitazioni. Per fare progressi democratici egli prevede: al punto 9 uno sconto sui redditi da lavoro; al punto 10 eredità e donazioni con imposta progressiva; al punto 11 l’imposta progressiva sugli immobili, basata sulla valutazione catastale aggiornata; al punto 15 l’assistenza allo sviluppo dei Paesi poveri da parte di quelli ricchi, elevata all’1% del reddito nazionale lordo. Si tratta di questioni all’ordine del giorno anche in Italia.

L’approccio dinamico di Atkinson, teso realisticamente al fare possibile, si riscontra anche nel suo allievo Piketty. Quest’ultimo, con altri studiosi, nel 2017 pubblicò un pamphlet: Democratizzare l’Europa! Per un Trattato di democratizzazione dell’Europa. Egli considerava la fattibilità politica di tale trattato, per la governance economica dell’eurozona. Valutava i possibili cambiamenti dell’assemblea dell’eurozona, anche di fronte a un rifiuto di vari partner. Prospettando un’alleanza fra Francia, Spagna e Italia, forniva una bozza di tale trattato di 22 articoli, che merita indubbiamente un’attenzione particolare, ora impossibile.

Successivamente, nel suo libro edito nel 2020, Capitale e ideologia, Piketty (2020:61) affermava che intendeva «delineare i contorni di un socialismo partecipativo e di un socialfederalismo basato sulle lezioni della storia». Ciò richiedeva, a suo avviso, una ridefinizione radicale dei fondamenti programmatici che sostengono le attuali categorie politiche, intellettuali, ideologiche. Si tratta di affermazioni che hanno per noi un particolare interesse, in questa occasione e in questo clima politico-culturale. Soffermandosi sulle esperienze antidiscriminatorie in India e analizzando l’esperienza delle quote sociali e di genere, egli affermava (Piketty 2020: 414).

Quando un gruppo sociale è vittima di pregiudizi e di stereotipi antichi e consolidati, come le donne un po’ in tutto il mondo o come gruppi specifici nei diversi paesi (per esempio, le caste inferiori in India), di fatto risulta insufficiente organizzare la redistribuzione unicamente in funzione del reddito, del patrimonio o del titolo di studio. In questi casi può essere necessario introdurre sistemi di accesso preferenziale e apposite quote (come le “quote riservate” in ambito indiano) basate sulla pura e semplice appartenenza a specifici gruppi. (sottolineatura mia)

Egli considerava che nel 2016 erano 77 i Paesi che utilizzavano sistemi di quote specifiche per aumentare la rappresentanza femminile nelle assemblee legislative, mentre le democrazie elettorali dei Paesi ricchi registravano la forte diminuzione dei deputati che appartenevano alle classi popolari, in particolare operai e impiegati. Altri problemi di inuguaglianza riguardavano, a suo avviso, gli accesi preferenziali all’istruzione secondaria e universitaria. Idealmente, nella sua concezione il sistema di quote dovrebbe includere e contemplare anche le condizioni del proprio superamento. Comunque, direi che tali problemi di disuguaglianza di genere, in quanto questioni di alto profilo democratico, riguardano anche un nuovo e democratico sociale federalismo della Sardegna, nella disuguaglianza compiuta e nell’uguaglianza incompiuta che caratterizza il XXI secolo. Le inuguaglianze di genere riguardano, fra l’altro, divari salariali occultati in vari modi, ancora persistenti perché le sinistre politiche e sindacali, specialmente in Italia, a mio avviso non le hanno affrontate in modo storicamente adeguato.

Le possibilità di un innovativo e democratico federalismo sociale europeo sono reali e di ampia portata, per Piketty (2020: 1009). Indurre certi Stati alla perdita del privilegio del diritto di veto non sarà facile. Tuttavia, secondo questo studioso, si può insistere sulla regola della maggioranza qualificata per le deliberazioni sui temi fiscali e di bilancio.

Nel raccordo fra sovranità parlamentare europea e sovranità parlamentari nazionali, egli sostiene, bisogna pensare a un vero e proprio trattato per democratizzare l’Europa con un asse costituito da 4 importanti imposte comunitarie: 1 una tassa sugli utili delle società, una sugli alti redditi, una sui patrimoni elevati, una sulle emissioni di CO2. I proventi potrebbero essere così ripartiti: una metà trasferiti agli Stati per diminuire il prelievo che grava sulle classi popolari e medie, l’altra metà per la transizione energetica, per la ricerca e la formazione, per agevolare l’integrazione dei migranti e renderla più condivisa.

Il progetto del federalismo sociale di Piketty è teso verso il futuro. Inoltre, contiene interessanti proposte operative per risolvere il problema della crisi del debito pubblico che probabilmente ora aumenterà, date le guerre in corso. Il suo approccio di federalismo sociale è indirizzato a un gruppo di Paesi europei che intendano attuare un’unione politica e fiscale migliorata e potenziata, che egli chiama Unione Parlamentare Europea per distinguerla dalla attuale Unione europea. Tali Paesi europei possono operare senza metter in discussione l’Unione a 27 Stati, mettendo nel conto l’ovvia opposizione dei Paesi che praticano il dumping fiscale. Tuttavia, si può procedere anche gradualmente, ma tenacemente.

Nei limiti della sintesi necessariamente sommaria che ho potuto abbozzare, alcune proposte di Piketty possono apparire radicali. Invece si iscrivono nel filone del socialismo democratico, superandone varie debolezze in cui certe opzioni socialdemocratiche avevano di socialista solo il nome, come egli dice a un certo punto di quel testo del 2020.

Gli argomenti da lui esposti sotto le etichette del socialismo partecipativo e del federalismo sociale, in realtà, riprendono sviluppi culturali che riguardano i cambiamenti delle disuguaglianze, osservabili in varie parti del mondo, che egli colloca in un’ampia prospettiva storica e mondiale. Si tratta anche di elementi suscettibili di sviluppi culturali che spesso appaiono, anche in contesti limitati, come repertori di idee di equità o come tracce democratiche, a cui attingere nei momenti di crisi.

Su questo piano frammentato, ma che può essere germinativo di cambiamenti democratici, egli afferma di essere condizionato nel suo punto di vista e nel suo percorso personale, dal suo background familiare. Ha visto le sofferenze delle sue due nonne per il modello patriarcale, subito dalla loro generazione. Una, scontenta della sua vita borghese, scomparve prematuramente. L’altra era domestica di campagna già a 13 anni, durante la seconda guerra mondiale. Da una delle bisnonne, invece, Piketty ha avuto i sofferti racconti delle guerre.

Questa genealogia culturale familiare che accomuna acute e storiche sofferenze di donne, a cui egli ricorre giungendo alla fine del libro, dà un senso alle sue opere germinate dalle relazioni intime e affettive con le donne della famiglia. A tali relazioni egli si riferisce per risolvere le nuove subalternità e le nuove disuguaglianze di genere. Attinge da tale genealogia di donne, e dalle loro sofferenze, l’impegno per un federalismo sociale culturalmente partecipato proprio dalle donne con le proprie storie, le proprie motivazioni, le proprie urgenze, individuali e di gruppo.

Le domande e le risposte contenute nel libro curato da Salvatore Cherchi e Gian Giacomo Ortu riguardano un’Europa al bivio delle crisi democratiche e della guerra. Interessano anche quale federalismo scegliamo di realizzare e per che cosa. Fanno, però, sentire la mancanza di un nuovo federalismo sociale, democraticamente partecipativo, che deve necessariamente passare attraverso un ineludibile e urgente scrutinio delle politiche di genere, anche nei nostri impegni locali.

Paola Atzeni

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Mercato locale limitato, frammentato, distante e fondato su pochi settori strategici; costi di trasporto elevati (per logistica, merci ed assicurazioni) per via della distanza ma anche di situazioni di concorrenza imperfetta; impossibilità di realizzare economie di scala, tenuto conto delle piccole dimensioni del mercato che comportano costi unitari elevati sia a livello di funzionamento delle imprese e sia di servizi pubblici; elevati costi di infrastrutturazione del territorio, tenuto conto della maggiorazione indotta dai costi di trasporto delle materie prime necessarie. Sono i quattro effetti più evidenti dell’insularità messi in evidenza dal presidente del Comitato per l’insularità Roberto Frongia nel corso dell’audizione al Senato sulla modifica della Costituzione.

Al collegamento hanno partecipato anche Maria Antonietta Mongiu (Presidente del Comitato Scientifico per l’insularità), Andrea Pubusa (Università di Cagliari), Omar Chessa (Università di Sassari), Giovanni Lobrano (Università di Sassari e componente Comitato Scientifico Insualrità), Enrico Atieri (ex magistrato e componente ), Benedetto Torrisi (Università degli Studi di Catania), Franco Angelo Siddi (Presidente Confindustria-Radiotelevisioni).

Uno squilibrio evidente e decisivo per il futuro dell’Isola, reso evidente dai numeri elaborati dall’Istituto Tagliacarne  per categoria di infrastruttura: fatto 100 l’indice di dotazione infrastrutturale, la Sardegna si ferma al 43,88% per quanto riguarda le strade, il più basso se raffrontato alla media nazionale e al resto delle aeree geografiche (88,17% nel Mezzogiorno, 111,19% nel Nord Ovest); ad appena  il 17,39 per quanto riguarda le ferrovie (76,28% nel Mezzogiorno, 102,62% nel Nord Ovest). Indici scadenti si riscontrano anche per quanto riguarda impianti e reti energetico-ambientali (38,35% contro il 67,11% del Mezzogiorno e il 127,35% nel Nord Ovest), telefonia (44% contro il 96,79% del Mezzogiorno e del 112,80% del Nord Ovest); reti bancarie e di servizi (38% contro il 64,99% del Mezzogiorno e il 135,25% del Nord Ovest).

Cosa significa vivere isolati? Frongia e Mongiu hanno cercato di dare una risposta a questo interrogativo, entrando nello specifico di quegli effetti dell’insularità che fanno dei sardi cittadini di serie B in termini di eguali diritti e condizioni di partenza rispetto ai cittadini del resto della Penisola e di opportunità rispetto al resto d’Europa. «I diritti della Sardegna non possono più attenderespiegano Frongia e Mongiu -. Con l’inserimento del principio di insularità in Costituzione vogliamo riaffermare la nostra specialità che riteniamo ci sia stata scippata con la riforma del 2001. Cancellare il riferimento all’insularità concludonosignifica aver tradito quel principio che aveva portato i Padri Costituzionali a riconoscere la specialità di Sardegna e Sicilia. Oggi abbiamo la possibilità e il dovere di intervenire».

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Avviare un’iniziativa per coinvolgere direttamente almeno diecimila cittadini e cittadine della  Sardegna raccogliendone le firme per sostenere il rilancio del progetto di un’Europa unita, federale, dei diritti civili  e sociali. E’ stata questa la conclusione operativa di una partecipata assemblea svoltasi a Sassari sui rischi che incombono sull’Unione europea. Non si può restare indifferenti,infatti, rispetto alle rinascenti spinte nazionalistiche e sovraniste che attraversano l’Europa e  trovano crescenti spazi anche in Italia. Il segnale dato è che bisogna reagire. Nonostante  le gravi difficoltà e i limiti dell’Unione Europea, emersi soprattutto negli anni più recenti, il rafforzamento anche politico, in una prospettiva federale, dell’Unione europea non ha alternative, se non negative.

I sovranismi e i populismi che rodono dall’interno l’Unione europea si alimentano specialmente del timore dell’immigrazione extra-comunitaria. L’esodo delle popolazioni dell’Asia e dell’Africa verso l’Europa è la conseguenza dei conflitti in atto in questi continenti e, soprattutto, della dinamica dell’economia globalizzata, che nelle aree forti porta benessere e nelle aree deboli miseria. Serve perciò una risposta basata sui valori fondanti la civiltà europea che agisca sulle cause di fondo di questi fenomeni epocali. Il populismo è alimentato anche dal disagio sociale che interessa una parte estesa della popolazione, soprattutto, nelle aree periferiche. Bisogna, dunque, agire sulle cause: l’Europa deve porre al primo punto le questioni del lavoro e dell’equità sociale.

La soluzione è nel progresso dell’unione politica europea andando oltre l’unione monetaria.

L’Europa è invece oggi sull’orlo di una drammatica disgregazione, alla quale l’Italia sta dando un pesante contributo, contrario ai suoi stessi interessi. La crisi è destinata a precipitare se alle prossime elezioni europee prevarrà un vasto schieramento della destra sovranista europea. Il rischio è incombente. La responsabilità di chi ha un’altra idea di Europa è grande. È diventata perciò urgentissima e indispensabile un’iniziativa che contribuisca a una discussione capillare su questi nodi strategici. Perché ciò accada è indispensabile attivare, tempestivamente, tutti gli strumenti in grado di ridare la parola ai cittadini che la crisi dei partiti del centro-sinistra ha confinato nella zona grigia del disincanto e della sfiducia, ammutolendoli.

Il dibattito promosso da un gruppo di persone che si riconoscono nei valori della sinistra, dell’autonomia e del federalismo, coordinato da Danilo Idda e Tore Cherchi, è stato aperto dal sindaco di Sassari Nicola Sanna in prima linea nel difendere la grande tradizione civica e libertaria della sua Città e dalle introduzioni dei costituzionalisti Omar Chessa che ha posto in evidenza i limiti intrinseci dell’unione monetaria senza l’unione fiscale e politica, e Gianmario Demuro che ha sostenuto la necessità di un progetto federalista, obiettivo sostenuto da Gianfranco Ganau, presidente del Consiglio regionale. Caterina Cocco, segretaria regionale della CGIL, ha spronata la sinistra perché il tema della piena e buona occupazione sia prioritario in ogni agenda politica. Presenti numerosi amministratori comunali, e esponenti della cultura e della politica. Hanno preso la parola fra gli altri, Carlo Sotgiu sindaco di Ploaghe. Gabriella Esposito, vicesindaco di Alghero, Ivana Russu, consigliere comunale di Olbia, e cittadini semplicemente impegnati, Filippo Isgrò, Eugenio Cossu, Lorenzo Serra. Nell’intervento finale, Gian Giacomo Ortu, ordinario di storia, partendo dal forte sentimento europeista e federalista dell’assemblea, ha indicato l’obiettivo della campagna di raccolta delle firme nel rilevante numero di diecimila, a sostegno del progresso dell’Unione politica dell’Europa.

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C’è ancora spazio in Sardegna per una sinistra di Governo? E quale sinistra? Sono interrogativi ai quali cercherà di dare delle risposte il convegno“Quale Sardegna – Quale Sinistra” organizzato per venerdì 13 ottobre, a Sassari, presso il Centro sociale San Giorgio a Li Punti.

Dopo l’introduzione di Salvatore Meloni (segretario provinciale Sinistra Italiana) su “Quale Sardegna”, interverranno: Omar Chessa (Art. 1 MDP), Roberto Mirasola (Sinistra Italiana), Giovannino Deriu (Rifondazione Comunista), Patrizia Marongiu (PCI), Massimo Dadea (ex assessore regionale), Maria Antonietta Mongiu (associazione Lamas), Gesuino Muledda (Rossomori), Francesco Soro (Possibile), Sandro Roggio (Urbanista), Giovanni Tendas (Sinistra Italiana) e Claudia Zuncheddu (consigliere regionale Sardegna Libera).

Dopo la pausa pranzo, dalle ore 16.30, introdurrà il tema “Quale sinistra” Antonello Licheri (segretario regionale Sinistra Italiana). Interverranno Pippo Civati (Possibile), Miguel Gotor (Art. 1 – MDP) e Nicola Fratoianni (Segretario Nazionale Sinistra Italiana. Parteciperanno al dibattito anche Michele Carrus (CGIL), Gaetano Galia (Salesiani), Lilli Pruna (Sinistra Italiana), Maria Graziella Serra (Sinistra Italiana), Fiorella Tilloca (Sinistra Italiana) e Franco Uda (dirigente nazionale Arci).

Hanno dato la loro adesione, e interverranno, inoltre, Pasquale Lubinu (coordinatore provinciale di Art. 1 – MDP), i consiglieri regionali Luca Pizzuto e Daniele Cocco (art. 1 – Sdp), Thomas Castangia, dirigente regionale di Possibile, Piero Cossu, presidente regionale ANPI.

Il dibattito, aperto a tutti, sarà coordinato dal giornalista Costantino Cossu. Ci sarà la possibilità di pranzare all’interno della struttura.

«Si tratta del primo evento – si legge in una nota – che vede la partecipazione di tutta la sinistra plurale, quella organizzata nei partiti e movimenti (presenti con i più autorevoli dirigenti nazionali) e quella che fa capo alle associazioni e ai movimenti della società civile, quindi un importante momento di dialogo e confronto nel processo di costruzione di una alternativa alle politiche del governo nazionale e di quello regionale.»

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Una nuova legge elettorale per restituire rappresentatività e potestà decisionale al Consiglio regionale. Il gruppo Art. 1 – Sdp è pronto a far propria la proposta elaborata dal Coordinamento dei Comitati per la Costituzione, lo Statuto la Democrazia e il Lavoro. Lo hanno annunciato questa mattina i consiglieri regionali di Sdp Daniele Cocco, Luca Pizzuto, Eugenio Lai e Paolo Zedda.

«Entro la prossima settimana depositeremo la proposta di legge – ha detto il capogruppo Daniele Cocco – difficilmente passerà in Commissione lo stralcio della doppia preferenza. In Consiglio ci sono troppe resistenze. Noi siamo d’accordo ad approvare con urgenza questa prima riforma ma, allo stesso tempo, riteniamo urgente l’adozione di una nuova legge elettorale. I tempi sono stretti, con l’attuale sistema non si può andare a votare.»

La proposta dei Comitati, illustrata dal costituzionalista Omar Chessa, si fonda sull’art. 15 dello Statuto Sardo che prevede l’adozione da parte del Consiglio di una legge statutaria per individuare forma di governo e modalità di elezione dell’Assemblea legislativa sulla base dei principi di rappresentatività e stabilità.

«Oggi, con l’elezione diretta del Presidente della Regione, non è più garantita la rappresentatività, il premio di maggioranza è sproporzionato – ha detto Chessa – se la legge elettorale in vigore venisse impugnata davanti alla Consulta sarebbe dichiarata incostituzionale.»

Quattro i principi cardine della proposta: 1) l’eliminazione del premio di maggioranza e delle soglie di sbarramento; 2) l’introduzione del sistema proporzionale con collegi plurinominali; 3) l’adozione della doppia preferenza di genere; 4) l’abbandono del modello presidenziale e il ritorno al sistema parlamentare, come avviene in quasi tutti i paesi europei.

«A livello nazionale il premio di maggioranza non supera mai il 15%. In Sardegna, invece, un presidente eletto con una percentuale del 30% può governare con il 55% dei seggi – ha aggiunto Omar Chessa – il premio è utilizzato per garantire stabilità al presidente indicato direttamente dagli elettori ma così si uccide il principio democratico della rappresentatività.»

«E’ una proposta interessante che vogliamo proporre all’attenzione del Consiglio e del popolo sardo – ha detto il consigliere di Sdp Luca Pizzuto – in questo modo si porrebbe rimedio a due storture: l’esclusione di forze politiche dall’Assemblea Sarda, nonostante le buone percentuali elettorali, e l’assenza in legge della rappresentanza di genere». Sulla stessa linea gli altri consiglieri di Sdp Paolo Zedda ed Eugenio Lai. «Non intervenire con una nuova legge significherebbe avvallare l’elettoralite, patologia della politica sarda che si sta riacutizzando – ha detto Paolo Zedda – per questo appoggiamo in modo convinto l’idea del Comitato».

Sul rischio che troppe proposte possano affossare lo stralcio della doppia preferenza di genere, attualmente all’attenzione della Commissione Autonomia, i rappresentanti del Comitato non hanno dubbi. «La doppia preferenza è uno specchietto per le allodole – ha affermato l’avvocato Giovanna Angius – la realtà è che nessuno vuole modificare la legge elettorale».

Giudizio condiviso da Marco Ligas (Il Manifesto Sardo): «Estrapolare una norma è un errore – ha sottolineato Ligas – serve una riforma complessiva. Questa legge non garantisce rappresentatività basta guardare le percentuali di astensionismo».

Sul mancato rispetto del principio democratico della rappresentatività ha insistito anche l’ex sindaco di Gavoi ed ex assessore del Turismo della Giunta Palomba Salvatore Lai: «Alle ultime elezioni regionali, Sardegna Possibile ha raccolto quasi 100mila voti eppure non è presente in Consiglio. L’attuale sistema elettorale è sbagliato, c’è uno stravolgimento del voto popolare».

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L’accentramento verso lo Stato dei poteri in materia di coordinamento di finanza pubblica e la conseguente riduzione degli spazi di autonomia finanziaria delle Regioni, unitamente al rilancio del federalismo fiscale e della rinnovata unità politica e istituzionale delle Regioni, soprattutto alla luce dei recenti esiti referendari che hanno riaffermato il quadro istituzionale disegnato nel 2001 con la modifica del titolo V della Costituzione repubblicana. Sono stati questi, in sintesi i temi sui quali si sono confrontati i presidenti delle assemblee elettive nel corso del workshop dal titolo “Autonomia finanziaria, coordinamento della finanza pubblica, federalismo fiscale: il comune problema delle risorse” ed al quale hanno partecipato in qualità di relatori il presidente del Friuli Venezia Giulia, Franco Iacop, i docenti delle università di Sassari e Padova, Omar Chessa e Luca Antonini, il magistrato della Corte dei Conti, sezione di Trento, Gianfranco Postal, il componente la commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, Silvio Lai, l’assessore al Bilancio della regione Sardegna, Raffaele Paci, e il presidente della commissione Bilancio del Consiglio regionale della Sardegna, Franco Sabatini.

Il presidente dell’assemblea sarda, Gianfranco Ganau, nel suo intervento di saluto ha evidenziato le crescenti difficoltà delle Regioni e ricordando i più stringenti vincoli di bilancio ha lamentato il «trasferimento di competenze senza che però siano garantite alle Regioni le necessarie risorse per esercitarle». «L’autonomia finanziaria e il federalismo fiscale – ha affermato Ganau – sono un binomio inscindibile per le Regioni a statuto speciale e l’autonomia finanziaria costituisce uno dei presupposti per lo sviluppo e il pluralismo istituzionale». «È di piena attualità – ha concluso il presidente dell’assemblea sarda – l’attuazione del federalismo fiscale all’indomani del referendum dello scorso dicembre che ha confermato nei fatti la riforma costituzionale del 2001, che è definita una riforma in senso federale dell’ordinamento».

Franco Iacop ha definito una “sfida” il tema dell’autonomia differenziata e confermando la necessità di un rilancio del federalismo ha introdotto il tema della mancata applicazione da parte dello Stato delle numerose sentenze della Corte costituzionale sui temi che riguardano la finanza e il bilancio degli enti territoriali.

A giudizio del docente di diritto costituzionale dell’Ateneo di Sassari, Omar Chessa, il punto nodale delle questioni aperte nel confronto tra Stato e Regioni è rappresentato da un crescente accentramento del potere statale in materia di coordinamento della finanza pubblica: «È ormai interpretata come una competenza finalistica e come tale comprende puntuali poteri amministrativi che incidono pesantemente sull’autonomia finanziaria delle regioni». Il docente sassarese ha quindi svolto una serie di ragionamenti di carattere tecnico scientifico ed ha definito la legge costituzionale n. 1 del 2012, quella che ha introdotto in costituzione il cosiddetto pareggio di bilancio, «una svolta che segna un punto di non ritorno, perché vanifica la potestà concorrente in materia di coordinamento di bilancio». «Con il pareggio di bilancio – ha dichiarato Chessa – la politica di austerità fiscale è una via costituzionalmente obbligata ed a cascata produce conseguenze devastanti sull’autonomia finanziaria delle Regioni e gli Enti Locali». Il quadro si complica con il riferimento all’Europa («il pareggio di bilancio è l’unico strumento per tenere unita l’Ue che non ha un’unione fiscale né un bilancio federale») e all’impossibilità dei governi di poter disporre di strumenti efficaci per compire autonome scelte di bilancio.

«Il taglio delle risorse alla Regioni – ha incalzato il docente dell’Università di Padova, Luca Antonini – significa comprimere welfare, assistenza sociale e sanità che sono competenze gestite dalle Regioni». È questo, a giudizio del professore veneto, il messaggio che deve arrivare ai cittadini, in tempi in cui appare chiaro che con la crisi si è “massacrato” il federalismo («così non è avvenuto in Germania») e con i tagli lineari si è “smantellato” l’intero sistema del welfare.

«Il 2017 – ha spiegato Antonini – doveva essere l’anno dell’entrata a regime del federalismo fiscale ma lo Stato ha continuato a varare norme che bloccano l’autonomia finanziaria degli enti territoriali, con il pareggio di bilancio, infatti, se si riducono le entrate delle Regioni necessariamente sono ridotte le spese per i servizi ai cittadini». Il professori Antonini ha quindi denunciato “l’azione di smantellamento del federalismo fiscale” ed il conseguente rischio che si affermi un “federalismo irresponsabile”, quello derivante dalla cosiddetta finanza derivata.

Il magistrato della Corte dei Conti, Gianfranco Postal, ha posto l’accento sull’insufficienza del sistema degli accordi di finanza pubblica tra singole Regioni e Governo ed ha evidenziato la sostanziale omologazione, sul tema della finanza pubblica e delle risorse, tra tutte le Regioni a partire dal 2001. Postal ha riaffermato inoltre l’efficacia delle norme di attuazione per il trasferimento delle funzione dallo Stato allo Regioni, citando, a questo proposito, i positivi esempio del Trentino.

E proprio sulle norme di attuazione, il senatore Silvio Lai, ha posto in evidenza le differenze tra le diverse Regioni speciali: «Il Trentino ne ha ottenuto 77, la Valle d’Aosta 32, il Friuli Venezia Giulia 25, la Sicilia 14 e la Sardegna soltanto 12». «È evidente – ha dichiarato il componente la commissione parlamentare per l’applicazione del federalismo fiscale – un esercizio differente delle potenzialità di trasferimento delle competenze». Il parlamentare del Partito democratico ha quindi evidenziato due differenti atteggiamenti da parte delle Regioni dinanzi alla richiesta di contribuire al risanamento della finanza pubblica: «Alcune hanno acquisito maggiori competenze ed altre invece hanno accettato al riduzione delle risorse, le prime hanno dunque scommesso sulla propria capacità di rendere più efficienti funzioni prima esercitate dallo Stato, ed è questo il messaggio che serve per far crescere la reputazione delle amministrazioni territoriali».

Silvio Lai ha quindi insistito sulla necessità di un più forte coordinamento tra le Regioni speciali («se cade una cadono tutte e nel Parlamento italiano è diffusa l’idea che le Regioni a statuto speciale non partecipano al risanamento dei conti pubblici come invece fanno le Regioni ordinarie») ed ha concluso con l’auspicio di un rilancio del federalismo fiscale.

L’assessore del Bilancio della regione Sardegna, Raffaele Paci, ed il presidente della Commissione consiliare, Franco Sabatini, hanno illustrato l’esperienza della Sardegna e non hanno nascosto le difficoltà in ordine all’annosa questione delle entrate e soprattutto sulla vicenda dei cosiddetti accantonamenti. «Nella partita del confronto con lo Stato – ha dichiarato Paci – le carte le ha in mano tutte lo Stato e mi chiedo a cosa servano le sentenze della Corte costituzionale».

«Gli accantonamenti – ha insistito l’assessore – devono avere un termine, in caso contrario lo Stato di fatto modifica lo Statuto dell’autonomia speciale nella parte delle entrate attraverso una legge ordinaria». «Vogliamo contribuire al risanamento della finanza pubblica – ha affermato l’esponente dell’esecutivo Pigliaru – ma dopo che abbiamo sottoscritto l’accordo sulle entrate con un livello di accantonamenti pari a 513 milioni, lo Stato li ha aumentati fino a 848 milioni che con il pareggio di bilancio si traducono in 300 milioni di tagli alla spesa».  

«Tra il 2012 e il 2016 – ha aggiunto Franco Sabatini – la Sardegna ha registrato la cifra record di 2 miliardi e 644 milioni per accantonamenti e nel 2006, quando con l’intesa istituzionale, la Regione si è presa in carico Sanità e Trasporti, si stimava un incremento delle entrate da compartecipazione di circa 700 milioni, oggi con l’attuale quota annua di accantonamento pari a 683 milioni possiamo affermare che lo Stato ha solo scaricato sulla Regione anche i costi di Sanità e Trasporti lasciando niente in cambio.»

In sede di dibattito sono intervenuti con brevi ma significativi interventi i rappresentanti delle assemblee della Lombardia (Raffaele Cattaneo), Friuli Venezia Giulia (Alessandro Colautti), Provincia autonoma di Bolzano (Roberto Bizzo) e della Provincia autonoma di Trento (Bruno Dorigatti), che hanno riaffermato la necessità di un efficace coordinamento tra tutte le Regioni per arginare la centralizzazione dei poteri in materia di finanza pubblica in capo allo Stato e per il rilancio del federalismo ad incominciare dal federalismo fiscale. I presidenti delle assemblee hanno inoltre ribadito l’opportunità politica e l’efficacia del referendum promosso dalla Lombardia e dal Veneto, per il riconoscimento delle rispettive autonomie speciali.

 

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Organizzata dall’Associazione degli ex consiglieri regionali della Sardegna in collaborazione con la Fondazione Sardegna, si terrà domani a Cagliari nella sala convegni “T3” del T-Hotel, con inizio alle 16.30, una tavola rotonda sul tema: “Verso il referendum costituzionale – Opinioni a confronto”.

Ai lavori, presieduti da Maria Rosa Cardia, presidente dell’Associazione ex consiglieri regionali, interverranno Omar Chessa dell’Università di Sassari, Gianmario Demuro dell’Università di Cagliari, l’on. Romina Mura del Pd, la vice capogruppo di Forza Italia in Consiglio regionale Alessandra Zedda, Benedetto Barranu e Paolo Fois, in rappresentanza dell’Associazione ex consiglieri regionali.

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Venerdì la Sala Angioy del Palazzo della Provincia, a Sassari, ospiterà un convegno sul ruolo delle autonomie locali nella costruzione di una nuova Europa, organizzato dall’associazione degli ex consiglieri regionali della Sardegna.

I lavori prenderanno il via alle ore 10.00 e saranno introdotti da Maria Rosa Cardia (presidente dell’Associazione “ex consiglieri regionali”). Subito dopo sono previste le relazioni di Paolo Fois (Università di Sassari), Sabina De Luca (Comune di Roma. Dipartimento progetti di sviluppo e finanziamenti europei), Ugo Villani (Università di Bari), Omar Chessa (Università di Sassari).

Tre gli interventi programmati: Giorgio Macciotta (Fondi europei e programmazione regionale), Alberto Merler (I cittadini e il principio di prossimità. La testimonianza di Alexander Lang), Loredana Mura (Il potere estero delle autonomie regionali e locali e il diritto europeo).

All’assise saranno presenti il sindaco di Sassari Nicola Sanna, il direttore del Dipartimento di Giurisprudenza Gian Paolo Demuro, il presidente dell’Anci Sardegna Pier Sandro Scano, il presidente del Consiglio regionale della Sardegna Gianfranco Ganau e del presidente della Prima  Commissione “Autonomia” del Consiglio regionale Francesco Agus.