21 November, 2024
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Piove dentro casa e mettiamo secchi e pentole per terra prima che l’acqua bagni i tappeti. Stiamo facendo la stessa cosa nella Sanità Pubblica dal 1992.
Quando Oscar Luigi Scalfaro si accorse che l’Italia correva il rischio del dèfault economico dette l’incarico di Governo a Giuliano Amato che ci salvò. Egli prese provvedimenti d’emergenza che erano giustificati ma che adesso, da almeno 25 anni, non lo sono più. Per risparmiare sulla spesa sanitaria egli dette l’incarico di ministro della Sanità a Francesco De Lorenzo che, da buon liberale, approntò una legge neo-liberista: la 502 del 30 dicembre 1999. Quella legge abolì il principio cardine della più grande legge italiana dopo la Costituzione: la legge sanitaria 833 di Tina Anselmi. Ne smontò il principio di uguaglianza, equità, universalità e gratuità della Sanità pubblica per tutti nella Nazione. Abolì gli organi democratici di governo delle Unità Sanitarie Locali e le trasformò in “Aziende” di tipo privatistico, con un “Manager”.
Fin qui si può capire e anche approvare quel metodo, data la confusione politica di quegli anni  Non si è mai capito, però, per quale motivo quella linea liberista, in campo pubblico, sia stata mantenuta e aggravata da ministri della stessa area politica riformista a cui apparteneva Tina Anselmi.
L’aziendalizzazione di tipo privatistico applicata alla Sanità pubblica peggiorò nel 2001 con la modifica del Titolo V della Costituzione, poi col Governo Berlusconi del 2003, col Governo Monti del 2010 (che fece leggi che indussero la riduzione di reparti ospedalieri e la chiusura di ospedali) e col governo Renzi che emanò norme ancora più restrittive per gli ospedali pubblici (DM 70/ 2015).
Tina Anselmi nel 1978 aveva abolito le Casse Mutue e l’ampio uso dell’ospedalità privata e caritativa, concentrando tutta la sanità negli ospedali pubblici ed aveva ottenuto grande soddisfazione nella popolazione. I Governi dal 1992 in poi fecero il contrario: tolsero all’ospedalità pubblica la centralità sanitaria e la suddivisero con gli ospedali privati (case di cura). Così la parola “Servizio” scomparve dall’acronimo SSN (Servizio Sanitario Nazionale) e venne sostituita dalla parola “Sistema” (Sistema Sanitario Nazionale – SSN). Allora non ci accorgemmo di quel cambiamento apparentemente insignificante, invece esso conteneva la sostanza di un cambiamento enorme: da allora la Sanità privata cominciò a lavorare facendo “Sistema“ con la Sanità pubblica. La riforma di Tina Anselmi era finita.
Fino ad allora il “Fondo Sanitario Nazionale” era stato riservato alla sola Sanità pubblica. Da allora il “Fondo sanitario” venne suddiviso fra Sanità pubblica e Sanità privata. Per pagare la sanità privata si attinse dallo stesso unico fondo a cui attingeva la Sanità pubblica.
La Sanità privata fu sempre efficiente. Si è vista, per esempio, la sua efficienza durante l’epidemia di Covid. Nel tempo, man mano che aumentava la percentuale di Fondo sanitario destinato a pagare la sanità privata, inevitabilmente, diminuì la quota rimasta per quella pubblica. Si capisce che con l’aumento della spesa per la Sanità privata, la Sanità pubblica è destinata ad essere progressivamente sottopagata. Alla fine la pubblica va in crisi per deficienza di fondi.
In Sardegna, in particolare, a questo meccanismo di morte lenta per deficit di finanziamento degli ospedali, si è aggiunto un altro meccanismo anche peggiore: la “Centralizzazione “ della Sanità ospedaliera nelle due città di Cagliari e Sassari e il depotenziamento dei 6 ospedali delle altre Province. In particolare, l’accentramento sanitario regionale è stato concentrato nell’ARNAS Brotzu di Cagliari.
La spiegazione per cui venne avviato questo progetto accentratore era semplice: «Visto che l’evoluzione della tecnologia sanitaria è costosissima, per contenere i costi ci conviene centralizzare la spesa in uno o due ospedali regionali». Questa teoria fu micidiale per gli altri 6 ospedali provinciali. Ne conseguì che i direttori generali delle altre ASL sarde ebbero il mandato di «ridurre le spese». Chi più riduceva, più veniva premiato e i direttori generali potevano, in base all’entità del risparmio, ottenere un premio economico. Ne conseguì che ci fu una gara al risparmio proprio negli ospedali provinciali e i fondi regionali si concentrarono, soprattutto, sulle due città universitarie di Cagliari e Sassari. Intanto, a causa della defunzionalizzazione progressiva dei nostri ospedali di provincia, i malati sardi cominciarono a riversarsi su Cagliari. Tuttavia l’ospedalità cagliaritana, e il Brotzu in particolare, non avevano una capacità di posti letto e personale adeguati all’aumentata richiesta. Così il Brotzu, nella notte fra il 13 e 14 luglio 2024 andò in crisi gravissima, con file di barelle alle sue porte, e vi fu una protesta pubblica di tutti i Capi dipartimento medici che si scoprirono inadeguati e impotenti davanti al fenomeno.
Per di più negli ospedali provinciali, come una valanga che si forma lentamente, i medici hanno cominciato ad andarsene. Il danno è grave perché non abbiamo medici giovani, formati ed esperti, pronti alla loro sostituzione.
Contemporaneamente, i medici di base dei territori, privati dei loro ospedali di riferimento provinciali, hanno cominciato a disdire i loro contratti con lo Stato, andando in quiescenza.
Oggi gli ospedali privati del Cagliaritano, presi d’assedio da una gran massa di pazienti rifiutati dagli ospedali pubblici, hanno liste d’attesa di molti mesi, e non riescono a compensare la carenza pubblica.
La scontentezza aumenta e a pagarne il conto sono i Pronto Soccorso. Lì, non essendo possibile assistere tutti contemporaneamente, si creano file di pazienti in attesa per ore. Alla fine, arriva la contestazione proprio contro chi non ha responsabilità.
Questa sintetica ricostruzione storica dell’origine del malcontento sanitario, dimostra che Tina Anselmi aveva ragione a puntare tutto sulla Sanità pubblica così come l’aveva formulata lei.
Aveva ragione anche Francesco De Lorenzo nel momento di quell’emergenza, così come hanno ragione coloro che mettono secchi e pentole per terra per raccogliere l’acqua piovana quando il tetto si rompe.
Nel primo momento è giusto così; tuttavia, per affrontare le piogge successive, è più corretto riparare, cioè “ri-formare” il tetto rotto. Non si può continuare a mettere secchi.
Pochi giorni fa, il governo regionale ha deliberato la spesa di 7 milioni di euro a favore degli ospedali per ridurre le “liste d’attesa”; ha anche deliberato lo stanziamento di 5 milioni di euro per le case di cura private per lo stesso motivo.
Tutto questo, in emergenza, è necessario. Finita l’emergenza si fa programmazione.
Per il futuro bisognerebbe mettersi nelle condizioni di non dover disporre secchi e pentole sotto il tetto rotto per contenere l’acqua piovana. Sarebbe auspicabile riparare il tetto e approntare una Riforma sanitaria regionale che consideri l’immediata:
– attivazione dei 6 ospedali provinciali;
– l’integrazione ospedali provinciali/territorio attraverso le strutture intermedie (case della salute).
– il decentramento sanitario e il coinvolgimento dei territori.

Mario Marroccu

Il disastro sanitario ed economico del Sulcis Iglesiente non è nato dal nulla. Ha radici nei fatti politici del 1992. E’ utile fare un viaggio nella storia di quegli eventi sia per capire e, forse, per porre qualche riparo.
Lo stato di salute della sanità pubblica è oggi talmente grave e la sua gravità è talmente complessa che, a questo punto, è difficile anche il solo sospettare che veramente esista fisicamente qualcuno che abbia programmato tanto degrado. Dovrebbe essere un genio fornito di una maligna intelligenza superiore.
Ammesso che esista un soggetto del genere, a che scopo lo avrebbe fatto? C’è chi sostiene che il danno al servizio sanitario nazionale sia stato progettato da un’ignota organizzazione al fine di favorire la sanità privata. Sarebbe un’organizzazione di matti veramente sciocchi perché sostituirsi del tutto alla Sanità pubblica non conviene a nessuno. Per esempio: a chi converrebbe accollarsi i malanni di tutti i vecchi d’Italia, soli, inguaribili e con in tasca i pochi soldi per la sopravvivenza? A chi converrebbe l’onere di assistere tutti i malati di cancro, debilitati nel fisico, nella famiglia e, soprattutto, nel conto in banca? Chi glielo farebbe fare ad assumersi l’impegno di prendersi in cura i pazienti in Rianimazione in uno stato di coma più o meno profondo? Perché dovrebbero pagare le ingenti spese dei trapianti d’organo a pazienti senza speranza e non solvibili? E gli infarti del miocardio? E tutti i casi di diabete ai limiti della invalidità? E i tossicodipendenti? E le malattie rare? I morti sul lavoro? E gli psichiatrici? E gli incidenti stradali? Chi glielo farebbe fare ad assumersi il compito costosissimo di affrontare le epidemie tipo Covid-19 o le campagne vaccinali, o le spese dell’Inail e dei Pronto soccorso?
Gli imprenditori privati non sono matti. A sé riservano le cliniche dove si curano le malattie, tutto sommato, più semplici, facili, guaribili e, soprattutto, di pazienti solventi. Ciò che compete alla Sanità pubblica è diversissimo da ciò di cui si occupa la sanità privata.
E’ assolutamente vero che negli Stati Uniti d’America esistono le assicurazioni private costosissime che si limitano a poche malattie e per tempi di cura molto limitati; in genere non pagano le spese del pronto soccorso o fanno dimettere i malati dopo tre giorni da un intervento a cuore aperto, per risparmiare sulla degenza in ospedale. Bisogna sapere che in America esiste anche una Sanità pubblica, che si chiama “Medicare”, a beneficio di chi non può pagarsi l’assicurazione privata e che, oltre ad essere molto carente, costa allo Stato il doppio di quanto costa il Sistema sanitario italiano. A questo punto, oltre al sospetto che dietro ci sia l’interesse di qualcuno, potremmo anche considerare il sospetto che dietro il nostro disastro sanitario ci sia in realtà qualche grosso errore commesso da politici poco accorti. Può anche essere accaduto che la grande Riforma sanitaria varata col DPR 833 del 1978 si sia inceppata a causa di leggi successive fatte male; può anche darsi che quelle nuove leggi non siano state lette con attenzione e che i votanti abbiano votato senza vedere gli errori che hanno prodotto queste conseguenze.
Anche questo sospetto, paradossalmente, è sommamente ingiusto, perché è anche vero che i politici italiani furono i primi al mondo a riconoscere nella Costituzione del 1948, all’articolo 32, il diritto di tutti alla salute. Quell’articolo, nella sua semplicità e completezza, fu uno degli elaborati intellettuali più geniali che un Costituente potesse generare: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti». Fu una frase rivoluzionaria contenente due principi: l’inviolabilità assoluta del diritto alla salute e la certificazione che tale bene è di rilevanza collettiva. Così fu sancita la solidarietà nazionale. Altro che privatizzazione! Altro che svantaggio a danno dei molti che non possono permettersela! Tutte le leggi che vanno contro questo principio sono incostituzionali e, se qualcuno avesse votato nuove norme contrarie a questo principio per disattenzione, sarebbe gravemente colpevole.
Esaminiamo cosa è avvenuto nella storia delle Riforme sanitarie italiane. Nell’anno 1968 la legge Mariotti istituì gli “Enti ospedalieri” che sostituirono gli ospedali caritativi provenienti dalla tradizione ospedaliera medioevale. La stessa legge istituì il “Fondo ospedaliero nazionale” e attribuì la competenza di gestione degli ospedali alle Regioni. Quel Fondo e quella legge ospedaliera furono la base su cui si costruì la Grande Riforma sanitaria con la legge 833 del 1978, concepita dalla Commissione parlamentare di Tina Anselmi. Ella raccontò in quei giorni che quell’idea era nata da discussioni e progetti formulati da gruppi partigiani riuniti intorno ai fuochi dei bivacchi di montagna. La legge 833/78 rappresentò un’utopia che si concretizzava in un documento scritto. Il sogno prese forma nella premessa della legge nel cui testo sta scritta la frase: «…Il Sistema sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture (ospedali), dei servizi e delle attività destinate alla promozione, al mantenimento, e al recupero della salute fisica e della salute psichica di tutta la popolazione». In nessuna legge del mondo era mai stata scritta questa premessa.
Mentre gli ospedali, dal medioevo al ‘900, erano stati sempre amministrati da comitati caritativi religiosi o filantropici, nella nuova legge si volle che gli ospedali fossero amministrati da rappresentanti popolari democraticamente eletti. Fu una rivoluzione. I cittadini, dopo 1.500 anni dall’istituzione degli ospedali dai tempi di San Benedetto e San Basilio, divennero per la prima volta i proprietari e gestori diretti degli ospedali. La comunicazione fra cittadino e gestore divenne immediata perché il Sistema venne dato in mano ai sindaci e ai consiglieri comunali. Essi avevano il compito di eleggere l’”Assemblea generale” che era formata da consiglieri comunali e l’Assemblea eleggeva il presidente della Usl (Unità sanitaria locale). Furono gli anni più produttivi della storia sanitaria italiana.
Scomparvero le Casse mutue e comparve il Ssn (Sistema sanitario nazionale), finanziato dal sistema fiscale universale. Ne conseguì anche che ai grandi miglioramenti si associò il crescere della spesa pubblica dello Stato. Per contenerla il ministro Carlo Donat Cattin nel 1987 abolì l’Assemblea generale ma mantenne il presidente della Asl e il Comitato di gestione, eletto dai sindaci dei Comuni del territorio.
Secondo gli indicatori economici internazionali, l’Italia godeva di un generale benessere economico tanto che nell’anno 1991 venne dichiarata quarta potenza industriale del mondo e il PIL pro capite risultava superiore a quello dell’Inghilterra.
Appena un anno dopo, la Repubblica entrò nel suo “annus horribilis”: il 1992. La commissione governativa presieduta dall’economista Piero Barucci rivelò che l’economia era al collasso a causa di un imponente debito pubblico causato dalle Partecipazioni statali. Eni, Enel, Iri, Ina, Efim, stavano portando al tracollo lo Stato. L’indebitamento aveva messo in crisi il Governo espresso dal CAF (Craxi-Andreotti-Forlani). Caduto il Governo Andreotti II e dimessosi Francesco Cossiga, si andò a nuove elezioni sotto l’effetto dell’esplodere dello scandalo di Tangentopoli. A febbraio era iniziata l’indagine della procura di Milano diretta da Francesco Saverio Borrelli e condotta da Antonio di Pietro, in seguito alle rivelazioni di Mario Chiesa, il direttore del Pio Albergo Trivulzio. Oscar Luigi Scalfaro, sostenuto dalla corrente dei “moralizzatori”, venne eletto presidente della Repubblica e immediatamente indisse le nuove elezioni; queste avvennero ad aprile contemporaneamente all’esplosione della sfiducia popolare nei partiti storici, in un clima di forte instabilità politica. I partiti tradizionali crollarono ed emerse la Lega Nord che passò da 2 a 80 parlamentari. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiutò di concedere incarichi di Governo a Bettino Craxi e nominò presidente del Consiglio il deputato Giuliano Amato. La Prima Repubblica era finita con un’ondata di arresti e di avvisi di garanzia. A maggio, ad opera della mafia, avvenne la strage di Capaci, seguita due mesi dopo da quella di via d’Amelio. Lo Stato era preso fra molti fuochi. Giuliano Amato si trovò ad affrontare una condizione di dissesto economico più grave dal dopoguerra ad allora. Si correva il rischio di non poter pagare gli stipendi pubblici. La Nazione si sarebbe fermata.
La Banca d’Italia fu costretta a vendere 48 miliardi di dollari per difendere il cambio e la lira fu svalutata del 30%. La lira uscì dallo Sme (Sistema monetario europeo); era il 16 settembre 1992, il “mercoledì nero”. Giuliano Amato per sostenere le casse dello Stato procedette al “prelievo forzoso” retroattivo del 6 per mille dai conti correnti degli italiani e, in base alle indicazioni del ministro del Tesoro Piero Barucci, dette avvio ad una grande operazione di privatizzazione delle Partecipazioni statali (banche, energia elettrica, trasporti pubblici, Alitalia, industrie manifatturiere, industrie dell’acciaio, comunicazioni, poste, idrocarburi, assicurazioni, agroalimentare, etc.). Lo Stato si spogliava di tutte le sue pregiate proprietà, nell’intento di allontanare la politica dalla gestione delle imprese statali. Su tutta la gestione pubblica, sotto l’effetto delle indagini di Tangentopoli, cadde il sospetto di possibile collusione con la corruzione e vennero varate leggi e norme fortemente restrittive nell’intento di arginare l‘idea che il malaffare fosse in agguato ovunque ci fosse la gestione del politico. In questo crollo finirono anche le miniere del Sulcis Iglesiente e le industrie di Portovesme espressione dell’Eni. Gli operai di Portovesme, per fermare i licenziamenti in massa di oltre 20mila operai promossero la famosa “Marcia per lo sviluppo”. Gli operai iniziarono a marciare il 19 ottobre e, al suono di tamburi di latta, saltarono il mare. Raggiunta Civitavecchia, percorsero a piedi le vie del Lazio fino a Roma, dove vennero accolti da Papa Woytila ma non da Giuliano Amato.
A fine anno, il vortice autodistruttivo coinvolse anche il Sistema sanitario nazionale quando il ministro della Sanità Francesco di Lorenzo il 31 dicembre varò il decreto che iniziò la “privatizzazione” del Sistema sanitario pubblico col DPR 502/1992. Le Unità sanitarie locali (Usl), rette dai sindaci, vennero trasformate in entità rette dai “Direttori generali con autonomia gestionale di diritto privato” nominati dalla Regione all’interno di un elenco di idonei. La “mission” del Sistema sanitario cambiò in modo radicale per due motivi. Primo, i sindaci, che rappresentavano la parte politica, vennero espulsi dalla gestione del sistema sanitario locale; secondo, l’obiettivo dei nuovi amministratori non fu più quello di soddisfare le richieste della popolazione locale ma venne sostituito dall’“equilibrio di bilancio”.
Questo dava ai direttori generali l’opportunità di poter modificare la risposta alle richieste provenienti dal territorio, ignorandone la soddisfazione globale e mettendo al centro il calcolo ragionieristico della salute che doveva ora attenersi a un nuovo criterio: i Livelli essenziali di assistenza (Lea). Oggi, a distanza di 32 anni, sappiamo che tutte le premesse alla legge, che promettevano Uguaglianza, Equità e Prossimità dell’assistenza sanitaria in tutto il territorio nazionale non sono state rispettate. Ciò avvenne a causa della mancanza del “controllore”, cioè la parte politica elettiva rappresentata dai sindaci. Al ministro Francesco di Lorenzo, seguirono le ministre Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi che perfezionarono l’“aziendalizzazione delle Asl”.
Nell’anno 2003 il Governo Berlusconi dettò regole per ridurre la spesa sanitaria dello 0,5% l’anno; ciò comportò il blocco del turn-over del personale andato in pensione e portò all’assottigliamento e disgregazione dei reparti ospedalieri. Col Governo Monti, il ministro Balduzzi emanò norme restrittive per i reparti ospedalieri che, ridotti in povertà di personale dalle norme precedenti, non potevano più funzionare. Ne conseguì la chiusura di ospedali.
Nel 2015 il DM 70 del Governo Renzi pose regole stringenti, basate anch’esse sul risparmio; ne conseguì un peggioramento ulteriore degli ospedali provinciali che portò alla desertificazione del sistema sanitario territoriale a vantaggio della centralizzazione della Sanità. In Sardegna la Sanità pubblica venne centralizzata a Cagliari e Sassari.
Nel 2017 la regione Sardegna, presidente Francesco Pigliaru e assessore della Sanità Luigi Arru, istituì la Ats (Azienda tutela salute). Con tale legge le 8 Asl sarde vennero ridotte a 1 soltanto, che assunse tutte le funzioni delle altre 7. Sopravvissero:
– l’Ats (a Cagliari e Sassari)
– il Brotzu di Cagliari
– il Policlinico Universitario di Cagliari
– il Policlinico Universitario di Sassari
Alle altre 7 Asl venne tolto il nome di “Azienda” e divennero “Aree sanitarie locali”. Erano diventate periferie sanitarie e persero l’autonomia programmatoria e amministrativa precedente. Ne conseguì l’esplosione delle “liste d’attesa” e l’insoddisfazione popolare. Alle elezioni del 2019 la popolazione sarda mandò a casa la Giunta Pigliaru e promosse una nuova maggioranza guidata dalla “Lega” di Matteo Salvini che, capeggiata da Christian Solinas, prometteva di restituire le vecchie ASL alle 8 province sarde. In effetti, la Giunta Solinas produsse rapidamente una sua riforma sanitaria regionale e l’assessore Mario Nieddu varò la legge regionale 24/2020 con cui istituì la Ares (Azienda regionale salute). In realtà però le vecchie Asl non vennero integralmente ricostituite; al posto delle “Aree territoriali sanitarie” vennero identificate le Asl 1-2-3-4-5-6-7-8 che, a parte il nome, non hanno nulla delle precedenti Asl; infatti, non hanno il diritto né di assumere personale, né di far acquisti e programmare. In sostanza non esistono; l’unica vera Azienda capace di programmare e gestire, centralizzando tutti i poteri gestionali, è la Ares di Cagliari e Sassari. Oggi lo stato di degrado direzionale e amministrativo nelle Province è ulteriormente peggiorato e l’insoddisfazione e infelicità dei cittadini sono esplose nelle elezioni regionali del 25 febbraio 2024 con la bocciatura del Governo regionale sardo.
Recentemente un politico esperto ha suggerito di cercare nella legge 833/78 gli strumenti per uscire dalla crisi sanitaria. Quale può essere lo strumento?
Lo strumento che si deve utilizzare nella pubblica amministrazione è sempre lo stesso: il rispetto delle regole democratiche. Queste regole prescrivono che la volontà popolare sia affidata ai propri rappresentanti eletti e, nel territorio, i rappresentati ufficiali dello Stato sono i sindaci. E’ certo che i sindaci non possono entrare nel merito di tutto, ma possono essere i “custodi” degli interessi della gente. Fra questi, oggi, l’interesse più sentito è la Sanità. Dare un nuovo ruolo ai sindaci nelle Asl è fortemente indicato.

Mario Marroccu