26 December, 2024
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1 Premonizioni
Bacu Abis è un centro di 1.673 abitanti, situato nella Sardegna sud-occidentale. A vederlo oggi, può apparire come uno dei tanti villaggi che presentano il fenomeno delle dismissioni industriali e del cosiddetto “post minerario”, con le tracce sopra la terra che evocano ciò che accadeva sotto. Può manifestarsi anche come periferia della città di cui è in parte figlia e in parte madre. Può rivelarsi come luogo che marca un territorio extra urbano in cui gli usi del suolo per i trasporti minerari giungevano fino al mare andando oltre, in un’ampia rete di relazioni industriali che sorgevano e si estendevano. Può affacciarsi come borgo in cui le esperienze agro-pastorali s’intrecciavano con quelle industriali, ma anche come luogo corale che al momento fa comparire un di più degli abbandoni, in vista solo per chi scruta volendoli conoscere in profondità ai fini di una possibile riattivazione economica e culturale: di un nuovo modo di riabitarvi e di riabitare armonicamente, proprio nelle aree di sofferenza e di bellezza delle persone dei territori, regionali e nazionali. Può comparire perfino un possibile cambiamento nelle direzioni di nuove creatività che muovono dalla periferia per invadere il centro, sospendendo vecchie catene gerarchiche con un protagonismo delle persone marginalizzate che vogliono partecipare alle decisioni che riguardano il loro futuro. Tuttavia, in tali territori ora infragiliti è impensabile una ripresa esclusivamente autonoma senza grandi politiche nazionali ed europee, capaci di realizzare provvedimenti tarati sui luoghi: sulle conoscenze e sulle abilità delle comunità locali.
Andare a Bacu Abis consente di situarsi nei paesaggi neri ai margini di Carbonia, città di fondazione fascista che l’ha inglobato. Permette di vedere la città da una delle sue numerose periferie in cui emerge una rara particolarità. Bacu Abis, infatti, offre l’opportunità di andare oltre le pietre dell’urbanizzazione detta razionalistica o “a bocca di miniera” o da “company town”, com’è stata ripetutamente chiamata.
Autorizza a vedere nell’urbanizzazione la pianta piramidale autoritaria che congiunge la terra, sotto e sopra, marcando le gerarchie relazionali che l’asettica etichetta di razionalismo cela, tacendo le disposizioni sociali verticali assegnate dal razionalismo fascista. Fa apparire vistosamente invece, per esempio, la gerarchica zonizzazione dell’abitare: dall’apice delle villette riservate ai dirigenti, discendendo alle case per gli impiegati per giungere fino a quelle per gli operai.
Da Bacu Abis si vede meglio il profilo del dominio industriale che il regime fascista intendeva imprimere al territorio agro-pastorale, in cui la città era edificata, negando la realtà rurale che sosteneva e abbracciava la città. La prova più concreta si trova nel discorso con il quale Mussolini inaugurò Carbonia il 18 dicembre 1938. Egli parlò di una «landa quasi deserta» in cui la città era stata costruita. In realtà ben nove Comuni erano stati istituiti nel territorio del Sulcis, prima di quella nascita: Giba, Gonnesa, Narcao, Palmas Suergiu, Portoscuso, Santadi, Serbariu, Teulada, Tratalias.
Bacu Abis concede di pensare alla parte della città ancora non nata prima del fascismo e al suo carbone, usato per una industrializzazione non ancora bellicista-imperialista e non ancora razzista, come emerse nel biennio 1936-1938 dalla proclamazione dell’impero fino alle leggi razziali.
Cercando le miniere carbonifere del Sulcis nelle fonti archivistiche, possiamo muoverci fra i permessi di ricerca e le successive concessioni per gli scavi carboniferi che ci restituiscono la prima rete di siti estrattivi caratterizzante il territorio carbonifero, prima del fascismo. Quintino Sella nell’Inchiesta del 1871 riferiva che la miniera di Bacu Abis era stata concessa alla Società Tirsi-Po nel 1853 con un’estensione di 400 ettari, mentre, nello stesso anno e con la stessa estensione, per quella di Terras de Collu aveva ottenuto concessione la Società Timon-Varsi. La Relazione di questo deputato diceva già molto nel suo titolo Sulle condizioni dell’industria mineraria nell’isola di Sardegna. Relazione alla Commissione Parlamentare d’Inchiesta. Corredata da una carta mineraria con l’indicazione delle miniere in esplorazione e concesse fino al 1870, l’indagine si occupava delle condizioni dell’industria.
Per mettere in luce le condizioni dei lavoratori, pare però necessario volgere primaria attenzione verso gli Atti della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulle condizioni degli operai della Sardegna del 1911 e verso i due centri carboniferi di Terras Collu e Bacu Abis, entrambi facenti parte del Comune di Gonnesa, data la rilevanza che tali luoghi assumono nell’indagine e anche nel corso della difficile modernità industriale, occidentale e mondiale. Questa indagine seguì una serie di eccidi: quelli di Buggerru del 1904 con 3 morti e quelli di Gonnesa del 1906, con 2 morti a Nebida e 3 nella stessa Gonnesa, fra i quali una donna, Federica Pilloni.
I morti, i feriti, gli arresti, determinarono la decisione di precisi accertamenti istituzionali sulle condizioni che avevano generato quei drammatici fatti. Nel corso di tali verifiche incontriamo una folla di nuovi e importanti protagonisti della moderna industrializzazione che si realizzava nell’Isola e in Italia: imprenditori, sindaci, medici, lavoratori, tanto per citare i principali. Dal punto di vista dei rapporti di potere e di quelli fra culture egemoni e subalterne, tale fonte storica – che può essere privilegiata per l’analisi antropologica degli assoggettamenti e delle soggettivazioni autonome – agevola un contatto con le testimonianze date direttamente dai lavoratori sulle forme di lavoro e di vita da loro vissute.

2 Un percorso nei primi siti neri anno per anno, cercando carbone
Prima di percorrere tale fonte privilegiata è utile lo spoglio di altre fonti per compare notizie generali sulle iniziali esperienze carbonifere che possono offrire un quadro informativo complessivo.
Percorrerò la via degli annali e userò una rivista, intitolata Notizie statistiche sull’industria mineraria in Italia. Si tratta di una pubblicazione del Regio Corpo delle Miniere che faceva capo al Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio. Limiterò i miei passi al settore del Distretto di Iglesias. La chiamerò Rivista del Servizio Minerario perché così era chiamata nell’archivio in cui ho lavorato. Cercherò sequenze di fatti significativi a partire dal 1880, dai dieci anni successivi allo studio di Quintino Sella, fino al 1908 che è l’anno in cui furono interrogati gli operai delle miniere carbonifere in esercizio nel corso dell’Inchiesta Parlamentare, pubblicata nel 1911.
Limitiamoci alla cronaca offerta, sapendo che tali resoconti ufficiali, con il loro stile burocratico, non sono di piacevole lettura. Tuttavia, questi documenti offrono agli occhi amorevoli i cambiamenti che avvengono passo dopo passo, le differenze minute che marcano svolte epocali, le ripetizioni dei tentativi falliti che cercano successi. Si tratta di scritti che richiedono una forte vocazione alle scoperte.
Nel 1880 fu riattivata la miniera di lignite di Bacu Abis e si chiuse quella di Terras de Collu. Due anni dopo a Bacu Abis si produssero 4157 tonnellate di lignite del valore di lire 62.942. Furono fatti anche lavori importanti: una galleria situata 15 metri sotto il livello delle acque che permetteva di estendere le ricerche e che ampliò il campo di coltivazione nel cantiere Andy con 3 gallerie a differenti livelli.
Nel 1884 la produzione della miniera di Bacu Abis fu di 2.180 tonnellate di lignite di prima qualità e di 1.802 tonnellate di seconda, per un valore complessivo di circa 60.000 lire. Tale produzione, di poco inferiore a quella dell’anno precedente, era stata fornita dalle coltivazioni eseguite nei cantieri Sulcis e Venezia. In quest’ultima era stata innestata una discenderia di 56 metri per comunicare con la galleria Marchese. Nel cantiere Torino si proseguì lo scavo nella galleria principale, giungendo alla misura di 137 metri. Inoltre, si aprì una traversa di 56 metri, destinata a preparare le coltivazioni imminenti. All’esterno, il lavoro di maggiore importanza fu un impianto per la fabbricazione di mattonelle piriche, tramite l’utilizzo di carbone minuto che non aveva mercato industriale e costituiva uno stock considerevole sui piazzali della miniera. La fabbrica sorgeva a circa 300 metri dalla fermata di Bacu Abis sulla ferrovia di Monteponi.
Nell’officina il minerale minuto, misto a materie terrose e scistose, subiva una preparazione meccanica durante la quale era classificato per grossezza, arricchito ai crivelli e frantumato minutamente. La materia prima era poi essiccata in un forno a ritorno di fiamma, scendeva in un mescolatore in cui era mescolata con il catrame proveniente dai forni di distillazione, con percentuali dal 6 al 7 per cento. Il miscuglio passava allora nella macchina agglomeratrice, in cui era automaticamente distribuito in una serie di forme disposte sopra una piattaforma girante e dove subiva una pressione di 265 chilogrammi per centimetro quadrato per essere in seguito sfornato con movimento automatico. Si ottenevano così mattonelle compatte e resistenti, pesanti 2 chili ciascuna. La macchina poteva fornire 15 mattonelle al minuto e 20 tonnellate ogni giorno.
Nella miniera di Terras de Collu continuavano i lavori nella galleria di ribasso per lo scolo delle acque e per facilitare l’estrazione dai livelli superiori, attraversando strati carboniferi non ancora conosciuti e utili per la coltivazione. La produzione giunse a 9.300 tonnellate e al valore di 120.000 lire.
Nell’anno seguente le miniere di lignite facevano registrare progressi nei lavori all’interno, mentre l’attività nella fabbrica di Bacu Abis fu sospesa per rimediare a vari inconvenienti che riguardavano il lavaggio incompleto del minuto e la sostanza impiegata per l’agglomerazione. Si prevedeva di modificare la fabbricazione senza variare la pressa, perfezionando la classificazione e il lavaggio del materiale, aumentando il numero dei crivelli, sostituendo il catrame e migliorando l’impasto con un nuovo rimescolatore. All’interno fu avanzata per oltre 40 metri la galleria Napoli, destinata al trasporto del materiale minuto all’officia di agglomerazione. I lavori di preparazione furono limitati ai cantieri Sulcis, Firenze, Palermo dove si sviluppavano le coltivazioni, mentre non era ancora ultimata la galleria di scolo. A Terras de Collu si raggiunsero le coltivazioni del terzo strato, fatte al terzo livello. Fu scavato un pozzetto d’areaggio che comunicava con la lunga galleria di direzione nel primo strato, al livello Maddalena. Si rinvennero cinque banchi di lignite, ma se ne lavoravano solo quattro.
Nel 1886 i lavori sotterranei della miniera di Bacu Abis continuarono in misura assai modesta a causa delle difficili condizioni finanziarie della Società. L’avanzamento della galleria Napoli continuò per 170 metri, mentre furono poco spinti i lavori per la galleria di scolo. Nelle gallerie Napoli e Andy i lavori che continuavano confermavano una discreta potenza dei banchi. A Terras de Collu proseguiva l’estrazione senza importanti interventi. Seguì un anno difficile a Bacu Abis, dove le frane nella galleria Napoli fecero sospendere la coltivazione. Tuttavia, si cominciò un nuovo cantiere denominato Polveriera mediante una discenderia, e continuò l’avanzamento della nuova galleria di scolo, chiamata Torino, portandola a 175 metri dall’imbocco. All’esterno si ripresero scavi a giorno per straterelli di carbone inutilizzati. La fabbrica di agglomerati, attiva fino a giugno, fu chiusa per guasti che si erano verificati nella laveria annessa. A Terras de Collu proseguiva l’avanzamento nella galleria di direzione dove lo strato si manteneva regolare ed era costituito da buona lignite. Si prevedeva infine una produzione di 10.000 tonnellate.
Si ebbero soddisfazioni a Bacu Abis nel 1888 dove le nuove coltivazioni fatte allo scoperto permisero di utilizzare parti residuali di lignite in diversi strati e anche in straterelli inutilizzati. Da 50.000 metri cubi di materiali diversi si erano ricavate circa 10.000 tonnellate di combustibile. All’interno, la galleria Torino veniva portata a 250 metri. All’esterno, la locale fabbrica di agglomerati rimase completamente inattiva. A Terras de Collu la produzione fu di 10.000 tonnellate, però i lavori furono sospesi a giugno, quando la miniera fu consegnata dall’ingegner Erminio Ferraris al signor Felice Levi che era diventato aggiudicatario in base alla sentenza del tribunale civile di Cagliari. Distanti e differenti, altre miniere di combustibili fossili spuntavano in altri luoghi: Caput Acquas, Corongiu, Culmine o Is Nuraghis.
Nel 1889 a Bacu Abis la galleria Torino giunse a 305 metri e continuarono i grandi scavi a giorno, mentre restava inattiva la fabbrica di agglomerati. A Terras de Collu il signor Levi affittò al signor Rodriguez i lavori di ricerca e di preparazione. Altre ricerche si fecero con gli scavi esterni esaurendo un po’ di lignite di buona qualità. Anche in questa miniera, come nella vicina Bacu Abis, si tentò la coltivazione con tagli a giorno, ma senza risultati soddisfacenti. Allargando lo sguardo alle altre miniere fossili, a Culmine le coltivazioni erano ristrette e saltuarie. A Corongiu proseguirono di pochi metri le gallerie Lamarmora e Domestica. Lo scopo principale di tale lavoro fu la preparazione di un campione di antracite che fu spedito alle Ferrovie Complementari. Il campione risultò soddisfacente per essere usato nelle locomotive.
La Rivista del Servizio Minerario nel 1890 offrì un’appendice alla relazione del distretto di Iglesias dedicata ai combustibili fossili della Sardegna. Illustrò le caratteristiche dei fossili sardi, rispetto a quelli europei. In Ogliastra il terreno era discontinuo, con una superficie utile ridottissima e potenza limitata. Tra Seulo e Perdas de Fogu, solo Seui presentava strati di combustibile abbastanza potenti da legittimare i lavori di ricerca, viste le complessive analisi stratigrafiche. Il terreno più interessante appariva pertanto a ponente del villaggio di Gonnesa, a levante della città di Iglesias, a sud dell’abitato di Narcao. I tre bacini avevano 37, 75 e 30 chilometri di superficie, ma le ricerche furono incrementate solo nel bacino di Gonnesa. Una tabella illustrativa mostrava in modo comparativo le sezioni verticali delle stratigrafie che caratterizzavano Bacu Abis e Terras de Collu.
Il bacino di Gonnesa era il più conosciuto. Aveva una superficie di 37 chilometri quadrati e si sviluppava in una zona allungata di circa 12 chilometri tra Fontanamare a nord e il monte trachitico denominato Sirai a sud. In tale bacino, specialmente verso il nord, erano stati aperti i lavori di 7 miniere: Funtanamare, Culmine o Is Nuraghis, Terras de Collu, Bacu Abis, Caput Acquas, Barbusi, Cortoghiana. La prima era già esaurita, l’ultima non era ancora concessa. Queste miniere occupavano una superficie di oltre 20 chilometri quadrati, quindi poco più della metà dell’estensione del bacino. I calcoli sulla densità di lignite facevano prevedere un buon rendimento, e a Bacu Abis si lavorava con grandi tagli a cielo aperto. Un campione medio della sua lignite, sperimentato per conto del Comitato per le esperienze sui combustibili minerali italiani, aveva accertato un potere calorico di 5.690 calorie, considerando la presenza dell’azoto.
Queste analisi, unitamente ad altre eseguite nell’acciaieria di Terni, confermarono che la qualità di lignite dell’Isola si prestava per combustione su griglia, costituendo un ottimo succedaneo al carbone inglese, specialmente per la produzione di vapore nelle industrie. Inoltre, nel mercato dei fossili, il carbone di Bacu Abis si vendeva a un prezzo da 9 a 12 lire per tonnellata, quello inglese si vendeva nei porti di sbarco mediamente a 32 lire. Intanto, proseguivano gli studi per migliorare gli usi della lignite eocenica sulcitana, l’unica riconosciuta con un avvenire industrialmente assicurato.
Nel 1891 a Bacu Abis continuavano i grandi scavi a giorno e continuava a restare inattiva la fabbrica di agglomerati, mentre a Terras de Collu i lavori di ricerca e di coltivazione restavano piuttosto limitati.
Nell’anno seguente Bacu Abis ebbe maggiore attività e fu premiata con la medaglia d’argento alla Esposizione Nazionale di Palermo. All’interno, la galleria Torino giunse a 370 metri dall’imbocco, mentre interventi murari surrogavano le armature in legno. A Terras de Collu si prolungò la galleria Pasqualino e si procedette con tagli sotterranei anziché a cielo aperto. Nel 1893 continuavano a Bacu Abis i lavori a cielo aperto e all’interno quelli nella galleria Torino che giunse a uno sviluppo di 380 metri; a Terras de Collu, invece, i lavori furono poco sviluppati; le altre miniere furono inattive. L’anno seguente non fece registrare miglioramenti che avvennero invece nel 1895 a Bacu Abis: sia realizzando un nuovo cantiere e sia raggiungendo la produzione di 95.000 tonnellate di lignite. La miniera di Terras de Collu fu aggiudicata per sentenza del tribunale civile di Cagliari all’ingegner Erminio Ferraris che la cedette alla Società Monteponi, concessionaria della attigua miniera di Culmine. Nel 1896 a Bacu Abis i cantieri a giorno più produttivi furono Napoli e Millo, mentre veniva quasi ultimata la nuova laveria per l’annessa fabbrica di agglomerati, capace di trattare 50 tonnellate al giorno di materiali, essendo mossa da una motrice della forza di 30 cavalli e alimentata dal vapore generato in una caldaia, detta Cornovaglia. Nella vicina miniera di Terras de Collu non si fecero lavori di coltivazione.
Nel 1900 ricompaiono notizie sulle miniere carbonifere nella Rivista del Servizio Minerario. Il prezzo del litantrace era in continuo aumento e aveva favorito lo sviluppo dei lavori e la conseguente produttività nelle miniere del bacino lignitifero di Gonnesa. Nell’anno successivo la produzione di lignite del bacino di Gonnesa toccò un massimo d’intensità, superando di 4.184 tonnellate quella dell’anno precedente con un maggior valore di 92.919 lire. Tuttavia, calò leggermente nel 1902 per la concorrenza estera. Nell’anno seguente, mentre Bacu Abis diminuì l’attività per problemi amministrativi, ripresero i lavori a Cortoghiana e Caput Acquas. A Terras de Collu procedeva l’attività della Monteponi che preparava la ripresa dei lavori a Culmine.
Nel 1904 sulla Rivista del Servizio Minerario apparvero inusuali notizie sociali: si riferì degli scioperi realizzati nel 1903 che riguardavano i salari, la cui paga media era di 2,10 lire; dei magazzini dei viveri tenuti dalle aziende o da loro fiduciari che vendevano a prezzi maggiorati; delle imprese appaltatrici di cui si chiedeva inutilmente l’abolizione; delle paghe di cui si lamentavano i ritardi e per le quali si chiedeva la paga quindicinale. Altre richieste erano di ordine politico: che fossero riassunti gli operai licenziati; che alcuni impiegati cessassero di perseguitare gli operai iscritti alle leghe; che fosse concessa libertà di fare conferenze sulle miniere; che fossero accordati terreni per fare forni cooperativi; che fossero abolite le multe. Nella rivista si riferì che le richieste non furono accolte immediatamente, ma per la maggior parte in seguito. Nel 1905 venne segnalata una ripresa «notevolissima» dei lavori nei terreni lignitiferi dell’Iglesiente, specialmente a Barega e a Piolanas. In quell’anno fu fatta la prima ispezione mineraria per l’attuazione della legge sul lavoro di donne e fanciulli del 19 giugno 1902. Nel 1906 cominciò a Bacu Abis la coltivazione nei cantieri sotterranei che si sviluppò nell’anno seguente. Siamo dunque giunti a un momento di sviluppo dell’attività estrattiva carbonifera e anche dei conflitti sociali, assai prossimi a quelli che animavano gli operai delle miniere metallifere.
Cosa ci ha fatto conoscere questa fonte preliminare? Possiamo tentare una prima elencazione delle configurazioni assunte dalle esperienze estrattive emerse: la produzione di località con propri siti minerari che marcavano uno specifico territorio carbonifero; le tipologie estrattive carbonifere e il passaggio dai lavori a cielo aperto a quelli sotterranei; la tensione verso un possibile processo secondario per la lignite con la fabbrica di agglomerati di Bacu Abis; le precarietà di certi assetti aziendali proprietari e produttivi; le dipendenze delle produzioni carbonifere locali dai mercati internazionali.
Qualche riflessione specifica, a questo punto, è opportuna per capire il ruolo delle Società minerarie carbonifere nella creazione dei siti estrattivi e degli abitati minerari come produzione di luoghi di lavoro e di vita, secondo la loro stabilità e la loro forza insediativa, in quel tempo della fine dell’Ottocento e del Primo Novecento che precedette l’autarchia mineraria del fascismo industriale e bellico.

3 Discorsi sulle imprese e sui luoghi nascenti del carbone sulcitano
Un ausilio può forse provenire dai discorsi fatti da certi studiosi, storici ed economisti, su questo periodo delle origini delle esperienze estrattive che costituirono una modernità industriale multiscalare: isolana, nazionale ed europea. Intrecciando i loro discorsi ai fili delle cronache estrattive raccolti nello spoglio della rivista, si può forse scoprire qualcosa. Proviamo.
Per accostare Maria Stella Rollandi al nostro inizio carbonifero dobbiamo cercare nel suo discorso su La formazione della “Nuova Irlanda” in Sardegna. Industria estrattiva e sottosviluppo (1848-1914). Il saggio venne pubblicato nella rivista «Classe», nel novembre del 1972. Si tratta di uno studio pregevole dedicato agli sfruttamenti minerari piombo-zinciferi: criteri e modi delle concessioni minerarie, andamento produttivo e tecniche, condizioni della manodopera compresi donne e bambini. Imprese liguri, belghe, francesi e inglesi sono fotografate e pesate economicamente, nel quadro isolano delle povertà e delle arretratezze del mondo rurale, della penuria di trasporti e dell’esiguità del commercio, mentre si esportava massicciamente carbone vegetale e aumentava il costo della vita alla metà dell’Ottocento. Bacu Abis compare per informare che nei primi tempi i cameroni per gli scapoli erano gratis, ma erano insufficienti e sporchi a detta degli operai, mentre le stanze per le famiglie costavano 5 lire. A Terras de Collu vi erano casette di proprietà private, ma gli operai abitavano a Gonnesa. La studiosa è ben attenta a quanto emerge dall’Inchiesta Parlamentare che ho scelto come fonte storica privilegiata. Ne segue alcune tematizzazioni generali, mentre io intendo perseguire una messa a fuoco dei luoghi attraverso i discorsi degli operai registrati negli interrogatori.

Altri discorsi storici da visitare utilmente sono offerti da Giuseppe Are e Marco Costa, che scrissero nel 1989, per l’editore Franco Angeli, Carbosarda. Attese e delusioni di una fonte energetica nazionale. Il libro apparse nella collana CIRIEC, dedicata alle storie d’impresa. Il primo periodo dello sfruttamento del bacino carbonifero del Sulcis appare piuttosto frammentato. L’identificazione del giacimento carbonifero sulcitano era fatta risalire al 1851, era attribuita a Ubaldo Millo ed era indicata in prossimità di Gonnesa. Siriferiva che Alberto La Marmora, giungendo nell’anno seguente, ridimensionò le potenzialità del bacino.
Nonostante le incertezze, nel 1853 venne costituita la prima società per lo sfruttamento del carbone che ebbe la concessione della miniera di Bacu Abis: la Società Tirsi-Po, formata da Millo, Fontana e Compagna.
Nell’anno successivo furono estratte le prime 175 tonnellate. Mancando un mercato locale, la miniera di Bacu Abis rimase inattiva nove anni, fino al 1863. Proseguì per sette anni la produzione, che giunse al 1870.
Intanto, nel 1865 nasceva il piccolo centro di Bacu Abis la cui miniera, insieme alla vicina Terras Collu, rimase l’unico impianto estrattivo fino al 1938. Lo sviluppo del settore fu dovuto soprattutto all’ingegner
Anselmo Roux il quale, rilevata la Società Tirsi-Po, fece nascere nel 1873 la Società Anonima della Miniera di Bacu Abis, con sede a Torino e domicilio a Iglesias. Nel 1874 fu costituita anche una Società Carbonifera Sarda per la miniera di Caput Acquas che si sviluppava in sotterraneo e fu subito assorbita dalla società di Bacu Abis. Nel 1876 le analisi eseguite dai tecnici dell’arsenale di La Spezia diedero soddisfacenti risultati.
Nell’anno seguente, una seconda analisi nello stesso arsenale dichiarava che il carbone di Bacu Abis era un combustibile da potersi usare nelle macchine fisse e in quelle delle navi. In questo discorso compaiono notizie che confermano la presenza dell’impianto di agglomerazione del minuto, senza alcun arricchimento del minerale. Nel 1895 cominciarono i tentativi di lavori all’interno. L’anno successivo fu realizzata una laveria. Nel 1898 la produzione raggiunse le 16.000 tonnellate. La lignite veniva usata quasi esclusivamente nelle miniere metallifere vicine.
I discorsi visitati mettono in vista le debolezze che caratterizzarono gli esordi delle estrazioni carbonifere. Rispetto alla fonte storica primaria percorsa anno dopo anno, gli ultimi discorsi hanno fornito conferme importanti, sia sulle incertezze del primo avvio dell’estrazione carbonifera e sia sul sorgere dei primi centri minerari che marcavano la presenza della modernità industriale nel territorio sulcitano.
Pertanto, pare utile, a questo punto, sottolineare almeno un aspetto qualitativo di tale fase iniziale: l’esperienza di una fabbrica per produrre mattonelle con gli agglomerati, cioè il tentativo di sperimentare il carbone fino come risorsa non esclusivamente combustibile, ma idonea a differenti usi industriali.
Lasciamo fonti e discorsi storici con tanti interrogativi che si possono coagulare in una domanda di fondo. Sono sufficienti le informazioni raccolte per avere precisa coscienza dei luoghi minerari che sorgevano? Tali luoghi minerari, che andavano assumendo rilevanza economica, sociale, politica, in che relazione erano posti nei processi industriali in corso, rispetto ai precedenti processi di insediamento agro- pastorale degli habitat sparsi detti medàus, di origine pastorale, e furriadroxius di carattere agricolo, poi annucleati nei boddèus, spesso attorno a una chiesa? Maurice Le Lannou li aveva ben studiati facendo risalire la loro vasta portata di popolamento al XVI e al XVII secolo e la loro fissazione residenziale e aggregativa dopo il 1850. Egli indicò estensioni e attività produttive con esempi tipologici, unitamente all’importanza dei toponimi i quali coincidevano, generalmente, con il cognome del capofamiglia fondatore dell’insediamento. Quanto i luoghi della modernità industriale mettevano in ombra quelli della storica
attività rurale fondativa e manutentiva del territorio sulcitano?
Risulta evidente, pertanto, che il complessivo territorio sulcitano non può più essere rappresentato dalla dominanza di un solo settore di attività, per quanto dotato di particolare forza attrattiva, escludendo altre presenze operanti e validanti le multiple produttività del territorio. I vari cromatismi del territorio, con le loro differenti intensità storiche di attrazione e di innovazione aprono il paradigma concettuale della geosettorialità verso linee plurime e verso differenti registri di durevolezza, secondo le sostenibilità produttive. Così l’esperienza estrattiva poneva fin da subito, al di là del nome di coltivazione dato al prelievo che non aveva rigenerazione, il suo esito senza ricambio di vita con i rischi ambientali delle discariche e delle autocombustioni, unite alle subsidenze, sopra la terra. Di tali aspetti converrà parlare alla fine di questo percorso di conoscenza e di riflessione, dopo aver acquisto maggiori indicatori sulle condizioni di lavoro e di vita a Bacu Abis, muovendoci fra gli operai interrogati durante l’Inchiesta Parlamentare. In questo movimento procederò in doppia corsia, zigzagando fra i documenti e raccontando qualcosa della loro presentazione in pubblico, avvenuta il 22 novembre 2024 a Bacu Abis.

4 A Bacu Abis un canto, una citazione e un prologo. Un incontro magico
Anna Carla Casu proviene da un differente centro minerario di Carbonia: Barbusi. Cantante e poetessa, porta Barbusi con sé e con la sua chitarra negli altri luoghi della città e fuori dalla città. Barbusi è pertanto una frazione mobile, che si muove con il canto di Anna Carla. Giunge in altri luoghi e congiunge luoghi incontrando persone: unisce punti della città e unisce la città ad altre città. Di Anna Carla so quel poco che lei ha detto in pubblico: che ha avuto una nonna, vedova di miniera, cernitrice di carbone e che ha amato, fin da piccola, ascoltare racconti di vecchie donne. So anche che risponde generosamente con qualche canto alla richiesta di una sua presenza, donando Barbusi come parte delle periferie di Carbonia che canta il mondo, specialmente quello minerario. Il mio discorso a Bacu Abis è stato introdotto dal suo canto in sardo che ora porgo in italiano con il titolo Dimmi quale è la musica:

Non dirmi chi sei e neanche da dove vieni
Raccontami la tua storia, perché piangi e come ti senti
Dimmi se sai cantare il dolore della gente
e se sai affrontare con la tua faccia il prepotente
Dimmi quale è la musica che qui ti ha portato
e se canti e se suoni come hai imparato
Non dirmi cosa fai e neanche dove vivi
Cantami la vita tua, cosa sogni, cosa scrivi
Dimmi se sai toccare tutte le corde della mente
e se alzi la tua voce per difendere l’innocente
Dimmi quale è la musica che qui ti ha portato
e se canti e se suoni come hai imparato
Non dirmi se sei matto e neanche dove vai
Raccontami di luoghi lontani, cantami di terre straniere
Dimmi se davvero hai cuore, quello che pensi realmente
e se per tirarmi fuori dal fuoco sfideresti la brace
Dimmi quale è la musica che qui ti ha portato
e se canti e se suoni come hai imparato.

Il suo canto era una chiamata che arrivava in profondità. Pareva voler giungere a incontrare identità e provenienze speciali e occultate, differenti da quelle note e attestate. Voleva conoscere la musica inaudita che ogni persona porta con sé e con le capacità imparate, insieme ai dolori patiti e facendo fronte ai prepotenti. Non voleva sapere professioni e residenze, ma vite e sogni e scritture e fili della mente che diventano voce per difendere chi è innocente. Non voleva sentire anormalità e direzioni migratorie, ma udire racconti di luoghi lontani e stranieri, e anche sincere vicinanze di chi si impegnerebbe a sfidare forti rischi per salvare un altro. Pareva richiamare responsabilità apprese, ma anche coraggiose disponibilità in divenire. Pareva, perché non so cos’è diventato questo canto attraversando chi l’ha sentito e chi è diventata ogni persona, dopo aver ascoltato questo canto. So, invece, quanto furono scosse le emozioni delle persone presenti: qualche capo chino intristito, spalle e visi protesi in avanti per vedere la prima slide del mio discorso.
Esordii richiamando Primo Levi, attingendo dalla pagina 80 del suo libro del 1975 Il sistema periodico, aggiungendo i miei commenti che incalzavano interrogativi sulla contemporaneità:

In questo villaggio che io ho fondato presso il ruscello delle api selvatiche e a cui avrei voluto dare un nome della mia lingua che sto dimenticando Bak der Binnen, che significa appunto «Rio delle Api»: ma la gente di qui ha accettato il nome solo in parte, e fra di loro, nel loro linguaggio che ormai è il mio, lo chiamano «Bacu Abis».
Cosa poteva significare nella contemporaneità degli abbandoni e del malsano che incombevano sulla crisi dell’industrializzazione ripensare alla fondazione, o a una rifondazione, a partire dalle api? Quali significati erano collegati e collegabili alle api e alla loro operosità generativa e rigenerativa? Potevamo e volevamo diventare api? E come? Lasciai le mie provocatorie domande senza risposta. Mi bastava, al momento, sollecitare forti domande sulla contemporaneità ambientale nei siti industriali dismessi e sul condivisibile agire salutare di ogni persona nel territorio, prima di viaggiare insieme nel passato. Avevo un titolo da seguire: Bacu Abis e la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulla condizione degli operai nelle miniere della Sardegna 1911. Avevo anche un preciso compito. Dovevo far conoscere ai convenuti attendibili fonti storiche per favorire una migliore coscienza del luogo abitato Questo centro minerario, rispetto ai tempi dell’Inchiesta, avrebbe visto chiuse le proprie miniere nel 1933. La breve e tormentata esperienza locale della modernità industriale, tuttavia, pareva aver profondamente e lungamente orientato aspirazioni e aspettative delle persone verso un futuro di lavoro e di vita mineraria migliore. Come riprendere questo corto ma robusto filo di valori connessi all’attività industriale per intrecciarlo con il più lungo ma assottigliato filo delle esperienze agro-pastorali che da più di tre secoli avevano determinato il popolamento sparso del territorio, rimanendo sottaciute e in ombra, specialmente durante l’esperienza mineraria del fascismo? Con quelle domande in testa ero giunta all’incontro.
Avevo beneficiato degli incontri informali che precedono i momenti ufficiali. Avevo preso nota di nominativi e di recapiti delle persone disposte a parlare di sé e del luogo. Ero riuscita perfino a fare una breve intervista a una donna. Si preparavano gli strumenti tecnici di ascolto e di ripresa. Si cominciava.
Introdusse brevemente il presidente della Circoscrizione Gianfranco Fantinel, che moderò il dibattito. Diede subito la parola ad Antonangelo Casula, ex sindaco di Carbonia ed ex sottosegretario, onorevolmente impegnato in una serie di iniziative storico-culturali che alimentavano la coscienza democratica della città.
Parlò puntualmente e utilmente della presenza delle imprese e degli imprenditori minerari a Bacu Abis.
Cominciarono ad apparire sulla scena i primi protagonisti. Poi venne il turno di una valida archivista che dirigeva una stimata cooperativa: Susanna Musa. Parlò assai puntualmente ed efficacemente dei fatti, dei temi e dei protagonisti che caratterizzavano l’indagine e i suoi atti. Toccò a me.
Avevo preso un microfono senza fili. Uscii dal tavolo dei relatori e mi avvicinai al pubblico. Dissi subito che dovevamo accordarci: che dovevano interrompermi con un segno di mano, quando dicevo qualcosa in modo poco chiaro. Era mio dovere farmi capire, quindi ero assolutamente disponibile a realizzare un dialogo amichevole e non ingessato in ruoli distanzianti. Affiorarono i primi sorrisi e i primi commenti sottovoce. Rispondendo ai sorrisi, percorsi il lato esterno delle file di sedie. Potevo vedere faccia a faccia tutte le persone, andando avanti fila per fila. Quando mi girai, e tornai indietro per vedere con loro la prima slide, era come se ci tenessimo per mano. Una magia! Non so precisamente come e perché avvenne. Sentivo chiaramente però che c’era un palpabile clima di reciproca attenzione e di vicendevole ascolto. Potevo rilassarmi. Potevo tentare di indicare le ombre del fascismo che dovevano giungere complessivamente nel territorio carbonifero e di far conoscere lo sguardo antropologico che si sarebbe mosso, con la sua cassetta degli attrezzi teorica e metodologica, nel seguire le pagine dell’Inchiesta. Potevo andare avanti e indietro, e perfino a zig-zag. Eravamo insieme.

5 Il territorio carbonifero e lo sguardo antropologico
Mostrai come apparve il territorio carbonifero nella retorica mussoliniana della landa «quasi deserta», espressa da Mussolini nel discorso inaugurale di Carbonia il 18 dicembre 1938. Indicai come nascondeva la realtà rurale e indeboliva le stesse precedenti esperienze minerarie carbonifere del territorio. Infatti, fin dal 1936 risultavano istituiti nel Sulcis ben 9 Comuni: Giba, Gonnesa, Narcao, Palmas Suergiu, Portoscuso, Santadi, Teulada, Tratalias.
Per motivare il mio sguardo antropologico su Bacu Abis, cercando di semplificare, diedi alcune informazioni generali. Dissi che l’antropologia studia le esperienze umane in cui, a partire dalla propria naturalità corporea, a vari livelli (individuale e di gruppi, di etnie e di specie) ci umanizziamo e/o ci disumanizziamo in modi creativi e/o distruttivi, secondo pratiche, valori e modelli di relazioni emarginanti e distruttivi o inclusivi e solidaristici. In particolare, affrontai la questione della cultura materiale. Precisai che in generale era stata privilegiata la relazione umana con gli oggetti, tuttavia, i miei studi e certi altri si rivolgevano a corsie multiple di materialità: ai corpi umani che agivano nella vita lavorativa e sociale e la materializzavano; alle persone che agivano su sé stesse, partendo dalla loro base naturale e divenendo congiuntamente culturali, individualmente e in gruppo, distinguendosi secondo specifici saper-fare; alle relazioni subite e agite dagli stessi corpi con vari effetti realizzati sulla realtà individuale e sociale.
Sottolineai che l’antropologia mineraria nel 2003 da Chris Ballard e Glenn Banks fu definita una partizione specialistica dell’antropologia nello studio delle esperienze minerarie. Velocemente confrontai il concetto tradizionale di cultura come erudizione e scrittura delle élite con il concetto scientifico-antropologico di cultura, offerto dall’evoluzionista Edward Burnet Tylor nel 1871 con il suo Primitive Culture: un insieme complesso che include conoscenze e credenze, arte e morale, diritto e costume, e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società. Misi in evidenza come l’antropologia instaura una nozione scientifica e democratica di cultura. Aprii una parentesi per gli studi italiani, richiamando soprattutto Antonio Gramsci, con la portata teorica e globale dei suoi pensieri nei quali egli si opponeva sia al materialismo volgare economicista, sia alla concezione nazionalistica e idealistica del popolo, considerato eterno e immutabile; situava le produzioni e relazioni di pratiche, valori, modelli di comportamento, nell’ambito dei rapporti di potere e di dominio che identificano gruppi e classi sociali; considerava tali produzioni culturali nelle varie dinamiche, in senso discendente e ascendente, cioè dall’alto verso il basso e viceversa, pur nella asimmetria dei poteri in campo. Anticipai la vista dei conflitti prospettando orientamenti teorici come quelli espressi da Tim Ingold nel suo The Life of Lines del 2015, in cui affermava che agire nella sottomissione è differente al sottomettersi nell’agire: è fare umanità.
Come si collegavano tali studi ai tempi del fare umanità a Bacu Abis? Tali tempi di umanizzazione riguardavano non solo i momenti degli scioperi e dei conflitti, per esempio nel 1906, ma soprattutto i tempi quotidiani della vita lavorativa, individuale e sociale. Lo sguardo antropologico richiedeva tempi di osservazione più lunghi di quelli scelti per la data dedicata all’Inchiesta Parlamentare e anche un occhio attento alla identificazione economica del carbone, connessa a molti versanti di rapporti di ricerca. Come si formava una cultura tecno-scientifica, con quali competenze e in quali ambiti durante le collaborazioni con scienziati di varie nazionalità, specialmente tedeschi e belgi? Quali erano gli sviluppi storico-giuridici nella costituzione delle società minerarie? Come si formava una cultura economico-commerciale sugli usi del carbon fossile che interessava non solo caldaie a vapore, ma anche illuminazione, caloriferi e cucine economiche, stufe e caminetti? I dialoghi necessari fra scienze dette dure e scienze dette umane sono lenti e difficili, com’è evidente. Affrettiamoci, pertanto, a seguire i dialoghi dei lavoratori riferiti dall’indagine parlamentare.

6 Incontri con i gruppi dei minatori di Terras Collu. Sopra e sotto la terra con le voci dei minatori
Era il 15 maggio 1908 quando avvennero gli interrogatori degli operai delle miniere carbonifere di Terras de Collu e di Bacu Abis, nel Comune di Gonnesa. Il primo gruppo era costituito da 7 operai di Terras de Collu, tutti registrati con le iniziali personali. Dalle risposte si intuiscono i tipi di domande iniziali su provenienze, stato familiare e paghe. Due erano di Serbariu, due di Gonnesa, uno di Sant’Antioco, uno di Turri e uno di Figinas. Erano tutti ammogliati, tranne uno. Avevano da uno a 7 figli. La paga giornaliera più comune era di 2,20 lire, ma poteva giungere a quella massima di 2 lire e 70 centesimi. Una domanda sui modi di ammissione al lavoro e una risposta: era fatta direttamente dall’Amministrazione alla quale venivano presentati i documenti. Poi una domanda sulle multe per le mancanze. Erano comminate dall’impresario e andavano da 0,25 lire a 1,2 lire o anche più. Fino a mezza giornata o più poteva, pertanto, essere persa con le multe. Il pagamento era quindicinale e fatto dall’impresario. Non avevano premi, ma solo un orario di lavoro. Seguiamo il filo delle risposte. L’Amministrazione forniva i ferri da lavoro e la dinamite. Nei fornelli ognuno portava i suoi ferri. C’era un solo impresario e 4 capi-sciolta pagati a giornata: 3 per l’interno e uno per l’esterno, adibito ai trasporti. Ogni sciolta aveva un capo-sciolta. Una era diretta dal capo-sciolta impresario. I vagoni erano trasportati dagli stessi operai all’interno, mentre i vagonisti agivano fuori dalla galleria. Il lavoro in miniera era continuativo di 24 ore. La prima sciolta cominciava alle 8.00 di mattina e usciva alle 4 di sera, la seconda dalle 4.00 di sera a mezzanotte, la terza da mezzanotte alle 8.00 del mattino. Talvolta si facevano due turni per scarsezza di operai. Gli operai, nell’inverno, si rifugiavano nei cameroni. Tutti reclamavano che fosse costruita una tettoia, almeno per ripararsi sia all’entrata che all’uscita della galleria, necessaria per le intemperie, ma anche per cautelarsi all’uscita dalla galleria. Non c’era nessuna tettoia.
A questo punto C.E. presentava un memoriale, allegato negli Atti dell’Inchiesta. A Bacu Abis è stato letto da Piero Deidda, un attore di una compagnia teatrale locale che realizza spettacoli generalmente in sardo. Piero, in prevalenza, impersona personaggi forti con voce forte. Il giorno dell’iniziativa era ancora convalescente dopo un intervento cardiaco. La voce era calata quanto si addiceva ad un umile operaio, ma egli trovò un’improbabile forza espressiva nei punti cui erano richieste condizioni di lavoro e di vita e vivibili. Il testo letto minimizzava i numerosi errori di scrittura contenuti nel memoriale che propongo integralmente, dato il suo rilevante valore storico.

Allegato n. 55

Condizioni di lavoro della Miniera Carbonifera di Terras Collu

13 maggio 1908

Con onore tutta la completta compagnia di Terras Collu, trascrive alla V. S. Ill.ma Quanto appresso sarà da noi redatto.
1 Si onoriamo di far conoscere alla V. S. Ill.ma Che noi opperai appena che riviamo al posto bisogna prima di tutto a d ispogliarsi la Camiccia, restando nudi perché non si può resistere del troppo calore; e poi appena spogliati per cominciare a lavorare? Vi tocca a fare il ginocchioni, mettendo i ginocchi e le mani per terra, per causa d’essere troppo basse le coltivazioni, non potendo rimanere neanche seduti, ma col gomito per terra, raccogliendo fango ed Acqua sopra la nostra veste, inmodoché la paga che ora abbiamo è di L. 2 e 2,20, E non vi basta meno per la pulizia personale, e la famiglia? E affito casa?
2 Faciamo puro conoscere al più di essere in un posto cattivissimo? siamo proprio come condanati alla reclusione, ed anzi più ancora da dieci mille Volte; perché siamo durante otto ore proibiti di riposarsi cinque minuti, essendo il lavoro dato acottimo; ad uno impresario a prezzo tropo scarsissimo, e per trovare la sua giornata? Fa creppare il personale con molto lavoro, con due Caposciorte sempre davanti minaciando sempre con molte bestemie che fano quasi compromettere, se non fosse che siteme la giustizia, e poi che sià famiglia fano scaldare il sangue, essendo lavorando e sempre forza che forza, e se non ti piace prendi la giacca e vai fuori?
Facio pure conoscere alla S. V. Ill.ma chencie un lavoro per discendere il Carbone? Di dove si scava? al posto di caricare ivagoni per portarlo fuori in ciè una strada in salita chenciè un Vagoncino piccolo, e lo portano quattro uomini, per di scenderlo di sopra a basso, e aquesto Vagoncino lomettono due ferri nelle ruote per non caminare e quatro uomini attacati di dietro tirando sempre e non sipuò fermare, e poi a montarlo sopra Vuoto per ritornarlo a riempire che fa ispaventare anche a un animale tanto di un Cristiano.
Faciamo pure conoscere che secaso un operaio manca una giornata? per causa di cattiva Voglia o per malattia all’indomani quando riva alla compagnia? per di spetto lo fanno ritornare in dietro facendolo fare tre o quattro e fino a otto giorni di festa, overo centesimi cinquanta di multa, e premuito Che mancando unaltra Volta che lo mandano fuori del lavoro. E come deve fare l’operaio a questo caso? è obbligato a morire della fame? oh che? Bisogna pure che non siamesso il medico della Ministrazione, come è, presidente dell’infortuni, perché se viene disgraziatamente qualche operaio ferito? in lavoro Vienne dallo stesso Medico visitato, e per causa d’essere dalla parte dell’infortuni ancorachè fosse gravemente ferito. la mise sua guarigione minima da cinque giorni appunto per non darlo la sicurazione facendolo il biglietto di rientrare al lavoro ancorchè non sia ancora benne guarito. Perciò noi vogliamo che il personale sia sussidiato del giorno stesso che viene ferito; oppure malato di malattia con il sussidio di lire una, e centesimi venticinque, al giorno. Seno come può fare un padre di famiglia a camparela sua numerosa famiglia? e obbligato a mandare i suoi figli alla limosina.
Vogliamo il lavoro a conto di Ministrazione e fuori limpresari.
Pensionato il nostro personale anziano che ha molto anni di lavoro nella ministrazione, un sussidio mensile, allogio per colocazione agli operai che entrano alla sciorta di mezza notte perché quando si entra a mezza notte massimo nell’inverno? Non trovandosi Camberoni nella Mignera? Quando piove sitocca a perdere la giornata oppure entrare in galleria tutti abbagnati. Ci si è una casa, maperò la Ministrazione la affitatta a uno caposciorta.
Per i viveri della Cooperativa sicome estata fondata da noi operai stessi a prezzi che non siano tanti cari, ma un buon patto.
Crediamo che le S. V. Ill.ma nefacia conto della nostra domanda, carcolando pure che i lavori Carboniferi, non sono come i lavori Minerali, perchè siamo in mezzo del fuoco, con tanto calore lavorando nudi in modo che non possiamo resistere e perciò più di sei ore non si può lavorare, compagando pure la giornata al meno di lire otto al giorno, perché carcolando benne tra mangiare e sapone per pulizia e pagando lire dieci di affito di Casa ogni Mese, si può fare puro il contoquanto tranquillità passa per il povero opperaio nella sua famiglia.
Sarà basta perché incivuole un romanzo per la vita dei poveri opperai e con questo chiudiamo, e speriamo che la V. S. ne farà conto della nostra domanda non credendo anoi prendano pure informazioni del nostro lavoro.
Firmiamo tutti opperai Minatori e Manovale, E Vagonisti di Terras Collu Gonnesa.
Il discorso degli operai è assai significativo ed evita commenti superflui. Tuttavia, sottacerne l’importanza sarebbe una colpevole sottovalutazione. Affidato alle mani del Presidente della Commissione, lo scritto dei lavoratori segna un importante intervento di autonomia discorsiva. Cerco di spiegarmi. Mentre negli interrogatori i minatori rispondevano a domande rivolte a loro esercitando un potere di risposta, nel memoriale erano loro a stabilire l’ordine del discorso. Affermavano un potere di autonomia non solo nella scelta dei contenuti ma, soprattutto, nella gerarchia delle priorità espositive. Il documento ha una precisa struttura: prima le informazioni e poi le richieste. Inoltre, informazioni e richieste hanno un proprio ordine
interno. Al primo punto si indicano le fatiche del luogo di lavoro: il difficile modo di lavorare con le costrizioni corporee determinate dalle condizioni dei luoghi di estrazione estremante bassi, bagnati e fangosi, e il corrispettivo di paghe insufficienti perfino per la pulizia personale, oltre che per la famiglia e per l’affitto. Al secondo punto si spiegano i modi faticosi dei cottimi e le relazioni umane che li caratterizzavano: lavoro senza riposo, forzato con la forza delle minacce e delle bestemmie, subìto per paura della giustizia e per mantenere la sopravvivenza della famiglia. Successivamente si indicavano lavori pericolosi, come il vagonaggio; le malattie e il rischio della fame; gli infortuni non riconosciuti e i rientri al lavoro prima della guarigione. Nella seconda parte erano elencate le richieste. La prima riguardava i sussidi per malattia, senza i quali i figli erano destinati a elemosinare. Poi l’eliminazione degli impresari, le pensioni mensili, l’alloggio per i turni di mezzanotte, il contenimento dei prezzi della cooperativa. Alla fine nel testo si chiudeva il cerchio, tornando alle difficili condizioni di lavoro, specifiche delle miniere carbonifere dove si lavorava nel fuoco, con un caldo che non si poteva resistere per più di sei ore, e dove si giustificava l’esigenza di un minimo salariale che raggiungesse almeno otto lire al giorno.
Cominciamo a sottolineare la presenza dei cottimi, che assumeranno una parvenza scientifica negli anni Trenta. Risultano operanti fin dalle origini dell’industrializzazione mineraria. Pertanto, sull’evoluzione di questa esperienza con particolari conseguenze nella vita lavorativa dei minatori, sarà necessario riflettere successivamente in modo adeguato. Semplificando l’analisi del testo, possiamo almeno notare la sequenza dei verbi al plurale: si onoriamo di far conoscere, faciamo puro conoscere, faciamo pure conoscere, noi vogliamo, vogliamo, crediamo, chiudiamo, firmiamo tutti. Rileviamo, soprattutto, l’esplicita ed espressiva formazione di un “noi” accomunato e anche accomunante nel discorso comune performativo, in cui il noi prende appunto una sua forma. Gli aspetti di un tale noi, rivendicativo ed espansivo di riconoscimenti democratici in ambienti minerari isolani, alimenteranno le culture sindacali e politiche fino ad intrecciarsi con la carta per il riconoscimento dei diritti umani nel 1948, di cui questo documento
costituisce uno dei tanti e vari semi generativi.
L’interrogatorio del primo gruppo continuò sui prezzi degli alloggi e dei viveri, sul medico e sui sussidi di malattia, sui ritardi delle paghe, sull’acqua insufficiente, sulla distanza della miniera dal paese. Il secondo gruppo era egualmente di 7 operai: 3 di Gonnesa, uno di Tramatza, uno di Nuxis, uno di Serramanna, 1 non interrogato. Tutti erano ammogliati e con figli, da 3 a 7. Paga più frequente 2,20. Solo due arrivavano a 2,30. Confermarono l’organizzazione del lavoro a impresa e con capi-sciolta, congiuntamente agli orari dei turni. Ribadirono, inoltre, le condizioni di lavoro e le posture dei corpi. Si lavavano in ruscello. Reclamarono una specie di spogliatoio con tettoia, un riparo per far fronte agli sbalzi di temperatura. Il più giovane lavorava da un anno, il più anziano da 13. Non lavoravano in miniera né donne né bambini. Prepariamoci ora ad altri incontri.
Incontri con i gruppi dei minatori di Bacu Abis. Sopra e sotto la terra con le voci dei minatori
Il primo gruppo di interrogati era di 4 operai. Uno era nato a Guasila, uno ad Arbus, uno a Nurri e uno a Codrongianus. Due erano celibi, uno era vedovo, uno ammogliato. Due erano sotto Amministrazione e due sotto impresario. La paga andava da 2,20 a 2,60. L’orario era di otto ore per chi lavora all’interno e di 10 ore per quelli che operavano all’esterno. La paga era mensile, ma spesso si pagava dopo la scadenza. Si davano acconti. Con la venuta della Commissione, la si faceva figurare come quindicinale. Venne esibito un libretto di paga. Esaminato, risultavano pagamenti quindicinali che gli operai smentirono. I libretti erano tenuti dall’Amministrazione un paio di giorni prima di fare la paga, che veniva scritta come quindicinale. Gli operai erano assunti dall’impresario e da caposervizio. Non prendevano contanti, ma buoni.
C.B. Non prendo contanti ma buoni che sconto alla cantina di Gonnesa…Se da questa cantina prendo denaro contante pago il 10 per cento d’interesse; se domando un francobollo, siccome non ne ha, mi danno lire 0,15 e a nota si segna lire 0,18 e così una scatola di fiammiferi 0,11, invece di lire 0,10. Un’altra cantina di Targhetta sta a Bacu-Abis, come succursale di quella d’Iglesias ed è privilegiata…L’impresario fa il buono, il quale è vistato dal capo servizio per la cantina di Crotta, che sarebbe lo spacciatore pure di sali e tabacchi (che sta a Gonnesa). Poi, oltre i buoni, vi sono i ghignoni, nei quali c’è una somma fissata: buono per lire 0,10, lire 0,15, ire 0,25 e così di seguito fino ad una lira, e si possono spacciare solamente presso Targhetta.
…si usano solamente a Bacu Abis. Ha un vantaggio il ghignone sul buono di cantina, di potersi cioè scambiare.
Io ho un ghignone e dico a un amico: «Fammi il piacere di cambiarmi questo buono in denaro». L’amico mi dà il denaro e poi spende il buono, il ghignone, alla cantina di Targhetta…Alle volte con un piccolo sconto…Si tiene conto della giornata lavorata. Se l’operaio è in credito, domanda e ha il ghignone alla cantina di Targhetta, la quale in contracambio vi consegna, per l’importo della somma segnata sui ghignoni, generi da mangiare, e alle volte pure dei sigari…Occorre a Gonnesa di avere qualche soldo in tasca, e quindi scontiamo i ghignoni fra colleghi.

P.A. Ho sentito ieri che un compagno aveva 10 lire di ghignoni. Alla Cantina di Gonnesa, Crotta prende, accetta i ghignoni con lo sconto o interesse del 20, 25, 30 per cento e li conteggia poi alla pari con Targhetta…del resto Crotta e Targhetta hanno i loro interessi.

Ghignone in suo a Bacu Abis e nei centri minerari della Società Eredi di A. Roux

Ovviamente tali comportamenti non risultavano nei contratti formalmente corretti, stipulati dalle Società minerarie con le cantine, come risulta dagli allegati dell’Inchiesta Parlamentare.
Si realizzava a Bacu Abis un’esperienza di truck system, nota nell’Inghilterra mineraria: anziché in denaro si pagava in buoni validi solo in un negozio aziendale o di fiducia della Società mineraria, dove gli articoli venduti erano più cari. Un accenno, per esempio, si trova nel libro di Friedrich Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, scritto nel 1845 e pubblicato nel 2021 dalla Feltrinelli di Milano, a pagina 312. Tale esperienza situa Bacu Abis in una rete comparativa storico-culturale di estensione europea.

Contratto tra la direzione della miniera e l’esercente della Cantina di Bacu Abis

Gli interrogatori si indirizzarono successivamente sugli alloggi, provocando vivaci risposte:
C.B. Mi hanno destinato in un camerone, dove ci sono tutti gli insetti che Dio ha creato…Nel primo camerone cinque individui potevano a stento dormire, e si pretendeva che ve ne fossero sedici, mettendo le brande sospese l’una sopra l’altra in modo da raggiungere 3 piani. L’Amministrazione usa certe spilorcerie che non le fanno onore, ed appena ora che è venuta questa Commissione ha dato ordine e fatta eseguire, per astuzia, l’imbiancatura delle pareti…L’altro giorno. Anche stamane si dava, in furia, una mano di pulizia alle finestre.
D. Da quanto tempo non si imbiancavano le pareti, e si verniciavano le imposte?
C.B. Chi lo sa!
D. Le abitazioni sono sufficienti?
M.S. Per le nostre abitudini sarebbero sufficienti, ma dovunque si richiede maggiore pulizia. L’alloggio nei cameroni è gratis.
D. L’alloggio nei cameroni è gratuito?
C.B. Sì, ma i cameroni sono in tristi condizioni.

I successivi dialoghi riguardarono l’impossibilità di coltivare qualche lembo di terreno, il mancato diritto di legnatico, la distanza fra Gonnesa e Bacu Abis che era di 35-40 minuti.
Si passò successivamente alle informazioni mediche.

D. Il servizio medico v’è in miniera?
P.A. Sì, il medico viene ogni quattro o sei giorni, ed è curioso che in generale prescrive sempre medicine comuni e purganti, forse perché, non facendoci pagare medicine, l’Amministrazione vuol pagare poco.
L’armadio farmaceutico è tenuto dal medico
D. C’è l’ospedale?
U.F. Più che ospedale è un’infermeria, essendo solamente due stanze a disposizione degli operai che vi sono ricoverati.
D. C’è una cassa soccorso?
P. A. C’è e noi contribuiamo al suo mantenimento con la ritenuta del 4 per cento sul nostro salario. Alcuni dicono che propriamente la cassa soccorso non esiste. All’ammalato danno un sussidio di 4 lire al giorno.
U.F. C’è un operaio ammalato da sei o sette giorni, e appena si è presentato per essere ricoverato nell’ospedaletto, gli hanno detto: qui non c’è posto. È un pover’uomo che attende qui fuori, e vorrebbe parlare con la Commissione.
Presidente. Lo faccia entrare.
U.F. si allontana, e quindi ritorna nell’aula accompagnando l’operaio minatore S.A.
D. Di che vi lagnavate?
S.A. Che non mi hanno voluto accogliere.
D. Quale malattia avete?
S.A. Ho gonfia una gamba. Il medico mi ha visitato in miniera, e mi ha ordinato come cura alcune medicine,
fra cui anche il sale inglese.
D. Avete la ricetta?
S.A. No, perché la tengono conservata all’ospedale.
D. Qual è la vostra paga?
S.A. Lire 2,30 al giorno, e otto giorni fa mi hanno fatto la paga in cotanti, ma non mi hanno consegnato il libretto.
D. Dove state di casa?
S.A. A Capo d’Acqua nella miniera, lontano km. 1,3° da Gonnesa. Sono qui venuto in carrozza per carità, accompagnato dal caposervizio. Il medico dell’ospedale non mi ha ricevuto perché, dice, non vi è posto, ma il posto vi è.
Presidente La Commissione non può adottare provvedimenti speciali: prende intanto nota di ciò che avete riferito.

Le domande furono spostate su multe e sospensioni, su condizioni e relazioni di lavoro.

D. Quando commettete delle mancanze che punizione viene inflitta?
P.A. Si fa festa per due o tre giorni, oppure fanno lavorare, togliendo dalla paga l’importo di mezza giornata.
U.F. Si infliggono pure multe. L’anno scorso dovetti pagare una lira di multa; domandai la ricevuta, ma non me la dettero.
D. Si segna sul libretto la multa?
U.F. No
D. Potete reclamare?
U.F. No, perché quando si reclama, capita una sospensione. A proposito: è stato detto che d’ora innanzi saremo trattati peggio, perché siamo venuti qui.
Presidente. Non è possibile, state sicuri e tranquilli d’animo.
P.A. Per diciassette o venti operai i comandanti sono tre, mentre basterebbero due e si fa proprio tanto per angariarci.
C.B. È permesso a un semplice caposciolta di sospendere per una semplice, ordinaria mancanza di un operaio, mentre egli non è più di tanto. Il caposciolta non lavora come noi, basta un suo biglietto al caposervizio perché venga la punizione.
D. Il vostro è un lavoro penoso?
C.B. Sì, perché si deve lavorare sdraiati, coricati quasi, ed ogni tanto lo stillicidio ci bagna tutti, e stiamo quindi fino a otto ore nell’acqua, tutti sporchi con la polvere del carbone.
U.F. Una volta il carbone s’incendiò e con tutto ciò che avesse preso fuoco mi fecero entrare in galleria a prendere il legname: meglio salvare il legname che la vita di un uomo!
C.B. Ieri c’era tanto vento che le lampade non potevano rimanere accese, e perciò avevamo deliberato di non lavorare; ma il caposervizio ha detto: se non volete lavorare andatevene
D. Sì sono spesso verificati incendi, scoppi di gas?
C.B. No.
U.F. Una volta mi han tirato a forza fuori, con una corda per mancanza d’aria.
C.B. Sì, anche a me, ma col vagone.
D. Sono gallerie piccole?
C.B. Sì. Ci sono spazi di tre metri di larghezza per uno e mezzo di altezza e anche uno o mezzo, delle vere
fessure.
P.A. Altro che gallerie!
C.B. … e trattandosi di filoni ricchi ci fanno entrare in queste fessure vere e proprie, dove i puntelli sono messi senza imboscatura, e noi entrati, penetrati in queste fessure lavoriamo quasi coricati. I Vagocini poi si spingono a mano, ed in ginocchio.
P.A. Ieri ho fatto un brutto lavoro a Bacu Abis. Alle 2 ho fatto un buco per far passare un poco d’aria, e finitolo, l’impresario, che se n’è accorto, mi ha dato dell’asino e mi ha multato, eppure era necessario, perché il filone del carbone era basso, come è sempre.
D. Avete da esporre vostri desideri alla Commissione?
P.A. Sì: vogliamo il contratto di lavoro, l’abolizione degli impresari.
U.F. In generale un trattamento migliore.

Non so dire se fossero più drammatiche le condizioni di lavoro nelle fessure senza armature e nei filoni bassi oppure le relazioni in cui una vita contava meno di una cosa come il legname e si era multati e insultati come somari, se si creava un foro per respirare un poco. Non so. La disumanizzazione e l’assoggettamento delle persone nell’organizzazione autoritaria, dominante nel lavoro minerario di quei tempi, è una conoscenza molto dolorosa negli studi delle scienze umane.
Un secondo gruppo di minatori di Bacu Abis fu introdotto per le audizioni. I quattro minatori provenivano da Sanluri, Bitti, Asuni e Marrubiu. Uno era celibe, due erano vedovi, uno era ammogliato con 4 figli e si lamentò subito per la paga scarsa di 2,70 lire per i bisogni della sua famiglia. Le altre paghe scendevano fino a 2,25. La paga era mensile, ma nel libretto figurava quindicinale. Era senza acconti, pagata con buoni e ghignoni.

D. Quale la somma che ogni ghignone può rappresentare?
F.R. Da pochi centesimi fino a 3 lire, alle volte arrivano fino a 5 lire.
Gli interrogati mostrano alla Commissione alcuni di questi ghignoni.
D. Tutti i ghignoni sono di questa grandezza?
F.R. Sono di colore diverso e di grandezza uguali.
Il professor Dragoni si fa cedere, per incarico del Presidente, alcuni ghignoni, pagando l’importo.
D. La paga è fatta esattamente dagli impresari?
T.S. Sì: l’impresario paga quando l’amministrazione gli ha consegnati i denari
D. Per le mancanze commesse dagli operai o per inosservanza dell’orario o degli ordini impartiti dai capi, comminano multe, e sotto quali forme?
T.S. Sotto due forme: 1 o 2 lire di multa, diminuzione di paga facendo lavorare le otto ore, e detraendo la paga un terzo, mezza giornata, oppure la festa forzata.
D. L’importo della multa trattenuta, o del terzo o mezza giornata non pagata, quantunque lavorata, è segnata nel vostro libretto personale?
P.G. No.
D. Oltre il libretto c’è il foglio-paga; segnano nel foglio di paga la multa?
P.G. Noi il foglio paga non lo vediamo: non siamo cottimisti.
D. L’impresario paga in base al foglio-paga?
P.G. Sì. Tra l’amministrazione e l’impresario deve esserci un conto corrente.
D. Si pratica il riposo settimanale?
T.S. Alle volte sì.
D. Nel caso di congedo l’Amministrazione preavvisa?
P.G. Nossignore.
Neppure se si diminuisce il numero del personale?
P.G. Neppure, generalmente.
D. I buoni, i ghignoni valgono per la cantina di Targhetta?
M.M. Sì, ma si possono spendere a quella di Crozza con uno sconto piuttosto elevato, del 20 per cento, quando in cambio del ghignone si vuole denaro, e invece di lire 5 vi dà lire 4.
D. Oltre la cantina di Crozza a Gonnesa, di Targhetta a Bacu Abis, vi sono altre cantine?
F.R. Vi è una piccola cantina in campagna, poco distante da Bacu Abis, e per questa cantina pure si rilasciano buoni. C’è insomma un doppio prezzo, uno quando si paga a contanti, ed uno quando si paga a buoni.
D. Quali sono i prezzi?
P.G. ed altri. Targhetta: pane di prima qualità 0,40 (a contanti o col ghignone sono questi prezzi), di seconda qualità 0,32 – farina (semolino) buona qualità lire 0,45 – pasta 0,60, generalmente la qualità è unica, questa di lire 0,60 è la seconda, ma è buona – formaggio 1,50 il vecchio, lire 2 il nuovo, lardo 2,50, olio da ardere 1,10
D. Il cotone per la lampada è pure a vostro carico?
P.G. Sì.
F.R. La cantina di campagna ha prezzi più alti – forse per la lontananza e pel ristretto smercio – così la farina costa lire 0,47 al kg. e manca il pane di seconda e quello di prima si vende a lire 0,40 – pasta a lire 0,65 – l’olio da ardere lo stesso prezzo, da pasto 0,10 in più – il formaggio nuovo lire 1,67 e mezzo e arrotondando lire 1,68, il vecchio 2,10, 2,50.
D. E la cantina di Crozza quali prezzi fa?
P.G. Gli stessi prezzi di Targhetta, però c’è maggior pulizia.
D. C’è il medico e si danno gratuitamente le medicine?
T.S. Sì, c’è il medico e le medicine che si fruiscono, comunemente sono qualche carta senapata, sale inglese, chinino. In generale si vorrebbe a Bacu Abis una cura medica più sollecita, e pare che qualche volta ci sia troppa trascuraggine perché l’ospedaletto è troppo piccolo.

A questo punto, erano state date maggiori informazioni sugli usi dei ghignoni, sullo stato delle cantine, sui costi dei viveri, e sulle condizioni mediche. La centralità della penuria di cibo, dati i bassi salari e gli alti costi dei viveri, gravati dal pagamento in ghignoni, delinea un quadro di cinici poteri di vita, o biopoteri come direbbe Michel Foucault.

Miniera carbonifera Roux – Foto Vittorio Besso

Casa Congia e cantina 1905 (foto tratta dal volume Bacu Abis pubblicato da SEI Cagliari nel 1926)

Casa del Direttore – Foto Alinari

Mentre i minatori di Terras Collu informavano specialmente sui cottimi e sulle condizioni di lavoro rischiose per la vita, i primi due gruppi di Bacu Abis denunciavano soprattutto le penurie alimentari e mediche, lesive della salute. L’insieme di tali condizioni delinea un quadro, con i minatori delle miniere carbonifere sarde, che ha una certa coerente continuità almeno fino alla metà del secolo scorso e che è marcato da fortissime difficoltà di vita.
Venne introdotto infine un terzo gruppo composto da 5 manovali e 4 vagonisti. Uno era di Atzara, uno di Iglesias, uno di Decimoputzu, uno di Baressa, uno di San Vero Milis, uno di Tramatza, uno di Senis, uno di Macomer. Due si dissero ammogliati con figli. Le paghe andavano da 1,70 a 2,10. L’olio e il cotone per la lampada erano a carico dei lavoratori; un litro d’olio bastava per sei giorni di lavoro, di otto ore ognuno. All’esterno la giornata era di 10 ore, all’interno di 8 ore senza riposo. Sentiamo le loro voci:
G.A. All’interno c’è la tolleranza di una ventina di minuti, e per l’esterno ancora più. Nella miniera di Capo d’Acqua il lavoro è troppo forzato, intenso, siamo una quindicina con due impresari.
D. Dove e come alloggiate?
S.B. Dormo in un camerone e pago lire 5 al mese, per mia quota.
D. In quanti siete in questo camerone?
S.B. In cinque e l’Amministrazione quasi pretende di più.
O.S. Io non pago e dormo in un camerone.
D. E perché voi non pagate?
S.B. Lo spiego io. Siccome gli operai destinati a un dato camerone son scelti dall’Amministrazione, capita che si è destinati con compagni arroganti, fastidiosi, inquieti, ed allora si preferisce stare con altri di propria scelta, con amici, e quindi 4-5 operai si uniscono, prendono in affitto dall’Amministrazione un camerone, e ognuno paga la sua quota di fitto.

G.A. Vivo nella località della miniera, in compagnia di altri due operai, e paghiamo lire 6, ossia ognuno lire 2 al mese.
C.L. Vivo in casa mia.
A.A. Vivo a Gonnesa con la famiglia.
S.V. Lire 5 al mese, in Gonnesa.
D. Il medico viene in miniera? L’ospedale come è?
M.S. Il medico fa rare apparizioni in miniera. L’ospedale è infelicissimo, e da qualche tempo manca pure l’infermiere. Avviene che alle volte un ammalato esca dall’ospedale in condizioni peggiori di quelle dell’entrata. Le medicine si danno con molta renitenza, e sono sempre le più comuni.
D. Si dà un sussidio agli operai ammalati?
M. S. Sì, eguale a mezza giornata di lavoro.
Insieme al lavoro «troppo forzato» emerge anche le difficoltà dello stare insieme fra operai. I “noi” solidali non erano costituiti dappertutto. Per abitare e dormire insieme si doveva stare lontani dagli arroganti, dai fastidiosi, dagli inquieti. E bisognava pagare. Per l’insufficienza dell’ospedale, del medico, delle medicine dei sussidi di malattia continuavano le conferme.
Prima di uscire dalle pagine dell’Inchiesta è bene riferire alcuni discorsi, diversi da quelli operai. Il discorso del sindaco di Gonnesa, signor Toro, per esempio, mostra la diminuzione di autorità dei sindaci nel processo di industrializzazione mineraria:
Nello inizio della mia gestione di sindaco m’ero prefisso di fare qualche cosa per eliminare abusi da queste miniere, ma ho avuto una serie di fastidi e dispiaceri che mi è passata la voglia di muovermi…Sono stanco.
Informazioni assai interessanti furono date dai medici. Disse il dottor Sebastiano Forteleoni, direttore e proprietario di un ospedale in Iglesias:
Gli operai sono affetti in generale dall’anemia per deficienza o cattivo nutrimento, ed il miglioramento del regime alimentare dovrebbe essere la base per concorrere all’eliminazione di molti mali, come la tubercolosi che ha una certa diffusione…fra le malattie predominano…le polmoniti e si verificano dei casi d’intossicazione saturnina…i viveri sono di qualità scadente, e sono smerciati da una cantina privilegiata, cioè garantita. Certo ci vorrebbe una maggiore vigilanza igienica, non interrotta… nella miniera di Bacu-Abis si verificano delle antracosi, delle malattie derivanti dall’aspirazione delle polveri di carbone, tanto che i lavoranti sputano nero
Gli effetti dell’insufficiente nutrimento furono rilevati anche dal dottor Loi, medico delle miniere di Gonnesa, San Giovanni e Monte Onixeddu:
I viveri non sono molto buoni, e la nutrizione è deficiente o anormale…
Tutto il sistema di nutrizione influisce notevolmente sull’organismo di persone già infiacchite, le quali anche in rapporto al genere di lavoro avrebbero bisogno di una nutrizione igienica e sufficiente
La centralità dell’insufficiente nutrizione, dati gli esigui salari con effetti devastanti per la salute e per la vita, emerse con una tonalità drammatica da voci mediche, scientifiche. Sul piano antropologico della materialità dei corpi umani nelle materiali relazioni di potere è necessario formulare alcune esplicitazioni.
Soprattutto nel dialogo con gli storici che si riferiscono agli scioperi del primo Novecento criticandone il carattere salariale scapito delle coloriture politiche, gli studi di antropologia mineraria in Sardegna aprono una visione differente che raccoglie e porta in primo piano radicali rischi di vita, specialmente nel lavoro e nella sussistenza alimentare.
In queste radicalità di urgenti invivibilità vanno visti gli scioperi e i moti della fine dell’Ottocento e dei primi anni del Novecento nella Sardegna mineraria, specialmente quelli del 1904 e del 1906 con gli assalti alle case del dazio e alle cantine. Furono azioni per lo più spontanee e carenti nell’organizzazione, con tutti i limiti che ciò comportava nelle debolezze storicamente vistose dei partiti e dei sindacati. Furono azioni iniziali, ma con una loro linea di continuità, per affermare i diritti umani alla vita promulgati poi nel 1948, quasi 50 anni dopo.
Nel 1899 ci fu uno sciopero a Lula, nel 1900 a Flumini, nel 1903 Guspini, nel 1904 a Buggerru, con 3 morti, nel 1905 5 scioperi tutti nella provincia di Cagliari, nel 1906 7 scioperi con 5 morti. Fra questi si situano gli scioperi di Bacu Abis: quello del 23 Aprile 1906, documentato negli Atti Della Commissione Parlamentare nel volume secondo a pagina 365, e successivamente nella partecipazione della sua popolazione ai moti di Gonnesa del 20-21-22 maggio, con l’assalto nel giorno 20 alla cantina aziendale di Anselmo Roux di Bacu Abis, dove si comprava con i ghignoni: nel giorno seguente si ebbero 2 morti a Nebida e 3 morti a Gonnesa fra i quali una donna, Federica Pilloni.
Vorrei riprendere il filo lungo delle “lotte per poter vivere” con un salto storico a Carbonia, fino alla conclusione di una lunga vertenza con l’Azienda Carboni Italiani, durata 72 giorni, intrapresa nel 1948 dai minatori con una forte ed estesa partecipazione popolare. Vorrei fare un salto in avanti fin lì. Poi un altro fino alla nostra contemporaneità post-industriale. Infine, un passo laterale. Vedremo come. Per ora, annuncio solo un accidentato percorso a zig-zag.

8 Alcuni fili di significato
Cerco di afferrare importanti fili culturali nella trama delle vicende che hanno tessuto le vite delle persone a Bacu Abis e di portarli in vista per vederne il colore che riguardava il poter viver.
Si tratta di scegliere fili di significato e di saperli intrecciare significativamente. Il primo titolo dei fili scelti riguarda i cottimi presenti da subito nelle miniere di Bacu Abis. Agli inizi non ebbe lo spessore che acquisì con il taylorismo americano dell’on best away e neppure quello delle varianti minerarie che caratterizzarono in Sardegna il sistema Bedaux. Ne troviamo tracce negli scritti gramsciani su Americanismo e fordismo. Del sistema Bedaux ho lasciato tracce nei mei studi di antropologia mineraria e nel rilevamento di modelli lavorativi dominanti e dominati in conflitto. Adottando in parte espressioni locali dei minatori ho richiamato il modello del lavoro a cottimo intensificato il modello del lavoratore bestia, incurante dei rischi di vita per sé e per gli altri. Forse, genealogicamente, è un antenato dei contemporanei negazionisti. Il modello del lavoro ragionato per risolvere i rischi fu titolo dei “maestri” minatori che generarono sicurezze lavorative personali e condivise. Produssero, insieme al minerale, luoghi e tempi vivibili, presenze gravide di futuri possibili. Ne ho conosciuti alcuni di Bacu Abis, impegnati nella vertenza della non collaborazione, durata 72 giorni. Non farò nomi per evitare di dimenticarne colpevolmente qualcuno.
Bisogna nella densità dei significati, prodotti nelle esperienze di umanizzazione securitaria alternativa ai cottimi minerari, riprendere le elaborazioni di significati connessi alla produzione di spazi e tempi vitali nel sottosuolo, insieme ai minerali. Urge portare sopra la terra tali esperienze del sottosuolo produttive di spazi e di tempi caratterizzati da sicurezze vitali, continuamente ri-assicurate, per renderle visibili e operative, generative e rigenerative a Bacu Abis e nel territorio, non solo comunale. Può apparire, in tal caso, oltre la robustezza, anche la lunghezza di tale filo di esperienze storico-culturali che ebbero continuità, oltre la prima metà del Novecento, in ogni presenza della popolazione di Bacu Abis, dei minatori e delle donne e dei giovani, in una serie di vicende e vertenze per assicurare la vitalità produttiva del territorio, giungendo alla creazione del polo industriale di Portovesme, agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso. Vorrei ricordare che si realizzarono varie esperienze in cui questa periferia della città seppe farsi centro, anzi un nuovo centro nei tempi in mutazione. Forse basta ricordare i giovani accampati davanti alla miniera per nuove assunzioni e nuovi tempi di vita. Se si sa ascoltare, se ne possono ancora sentire gli echi. Analogamente, se si legge la parte del verbale di accordo che concluse la vertenza dei 72 giorni, si sentono gli echi delle voci sui cottimi dei minatori di Bacu Abis, uditi nei loro interrogatori nel corso dell’Inchiesta Parlamentare. L’eco delle iniziative democratiche della popolazione di Bacu Abis rimbalza dal presente al passato e dal passato al presente per volgersi al futuro.

Qualcosa di analogo accade per il filo della penuria di cibo e per l’insostenibile costo della vita nel verbale con cui si chiude la vertenza del 1948. Sono risonanze che giungono alla nostra contemporaneità?
Temo di sì, fatte salve non poche differenze. Ciò significa, tuttavia, che Bacu Abis può portare la sua coscienza di luogo democraticamente generato, e fatto centrale nella modernità urbana in certi momenti storici, a inediti livelli di nuova centralità democratica, rigeneratrice nel presente e nel futuro della città e del territorio sovracomunale. Si tratta di verificare, convertire e sollecitare le disponibilità istituzionali, a vari livelli. Si tratta di concertare direzioni di produzioni vitali verso un futuro condivisibile, locale e con proiezioni territorialistiche secondo aggregati di filiere, riprendendo anche le esperienze produttive rurali messe in ombra dal mito di autosufficienza dell’industrialismo monocolturale, monopolista e poi neoliberista, a lungo dominante e ora in crisi. Non è impresa di poco momento. Ma si può iniziare dal poco, ben potenziato da un nucleo progettuale forte e dinamico per farlo procedere, in modo aggregativo e quasi “a palla di neve”, dalle storiche penurie alimentari alle attuali sicurezze qualitative del cibo localmente prodotto.

9 Una certezza e molte domande
Tornando all’incontro del 22 novembre scorso a Bacu Abis, riferirò solo la mia proposta più immediata. Ho donato le copie dei documenti, da me raccolti e organizzati, affinché possano costituire, insieme a foto storiche e attuali, una unità espositiva sia stabile, in un locale idoneo da reperire, e sia itinerante. Possono servire anche per una piccola pubblicazione, se si vuole. Intanto, è necessaria una pre-inchiesta con videoregistrazioni sulla coralità dei produttori di cibo locale che possa rispondere qualitativamente agli echi delle storiche insufficienze e insicurezze di cibo, patite dalle persone del luogo.
Il mio sguardo è lungo e va oltre il mio tempo, ma è anche largo e va oltre le discipline demo-etno-antropologiche e la stessa antropologia mineraria. Si colloca nell’ambito degli studi francesi di antropologia dello spazio (F. Choay) che hanno dialogato con l’eco-territorialismo interdisciplinare promosso in Italia da Alberto Magnaghi (2001, 2003, 2010, 2012, 2020, 2023) e dalla sua scuola. Mi appresto a studiare questo caso di un possibile riabitare, culturalmente riabilitato, unendomi anche alle riflessioni antropologiche di Pietro Clemente (2020) sulle persone e di Vito Teti (2020) sui paesi. Studi che la pre-inchiesta dovrebbe tarare, selezionando l’affollamento di numerose domande, per una fattibilità concreta di ulteriori percorsi, senza rinunciare in partenza all’ambizione di lunga gittata per rendere possibile l’apparente e immediato impossibile.
Non voglio creare contrapposizioni rispetto ad altre possibili opzioni di percorso, per esempio le patrimonializzazioni proiettate verso il futuro e i risanamenti ambientali. Mi interessa partire dalle penurie e dalle insicurezze di vita e di cibo, che hanno storicamente marcato corpi umani di abitanti insieme al territorio, sia per rilevare le esperienze di resistenza vitale che hanno connotato insieme persone e territorio, sia per misurarne la forza culturale storicamente congiunta nel passato e nel presente, sia per provare a metterne in campo l’attuale portata ed estensibilità in azioni rigenerative unitamente delle persone e dei luoghi. Mi pare necessario studiare nei luoghi percepiti come “propri”, sani o sanati producendo mondi vitali da condividere democraticamente, da riabilitare e da riabitare: forse inventando uno straordinario villaggio delle api che Primo Levi ha saputo scorgere nel territorio del piombo «velenoso» e delle «pietra nera che brucia».
Con uno sguardo antropologico forse Bacu Abis può essere aperta a speciali e inaugurali prospettive per dare centro a Carbonia come città che ora vuole vivere producendo salute del mondo e nel mondo.
Forse Bacu Abis può essere luogo della fondazione di una nuova città vitale dove le nuove industrie e i nuovi modi di industrializzarsi sanno vivere con la natura nutriente e salutare, a partire dal cibo.
In quest’epoca detta Antropocene per richiamare le responsabilità della specie umana, responsabilità in cui hanno prevalso gli interessi finanziari senza alcun limite della modernità industriale anche estrattiva, forse si può partire da un piccolo seme o da un piccolo passo: come la creazione di un sito espositivo, che diventa ‘antenna’ connessa alla Grande Miniera di Serbariu, muovendo dall’esperienza mineraria carbonifera prima del fascismo urbano-centrico. Forse può bastare per dare concretezza a una rinnovata e rinnovante coscienza, propria di quei luoghi esausti e resi marginali dal modello di industrializzazione estrattiva realizzato, vistosamente in crisi nella nostra contemporaneità. Forse. Ma vale la pena di sperimentare.

Paola Atzeni

1 Silenzi

Desidero fare una premessa. Quando Velio Spano morì, nel 1964, io lo sostituii nel Consiglio Comunale di Carbonia. Ero la prima dei non eletti, indipendente nella lista del P.C.I. Velio Spano era stato un protagonista di grande rilevanza nella politica internazionale. Aveva avuto un’esperienza politica tunisina e mediterranea, come fuoriuscito nel fascismo. Nel postfascismo di Carbonia aveva diretto positivamente un lungo e difficile conflitto politico e sindacale. Nel 1956 e durante il risveglio dei movimenti di liberazione anticoloniale, era stato responsabile della sezione esteri del P.C.I. Nel 1958 era diventato segretario del movimento italiano e membro della presidenza dell’organizzazione mondiale per la pace. Accadde anche che fosse sostituito nel Consiglio Comunale di Carbonia da una sbiadita e inesperta ragazzina di 24 anni.
Nel 1964 ero una piccolissima briciola politica che si imbatteva nei cascami del fascismo residuale, che in certi ambiti di Carbonia perdurava. Mi pagavo gli studi universitari con supplenze precarie, a nomina dei presidi. In una scuola media, con un preside che si diceva liberale, ero sempre prima in graduatoria, ma non venivo mai chiamata per supplenze, date le mie posizioni di sinistra. Residui di autoritarismo fascista erano ben presenti a Carbonia quando Velio ne scriveva e durarono anche dopo la sua morte.
Era di plateale evidenza la mia inesperienza. Tacqui al momento in cui lo sostituii, per evitare ogni inutile retorica. Nadia lo ha avvicinato a me, offrendomi certe sue dimensioni di vita personale e familiare, e facendomelo sentire vicino e amico. Oggi voglio personalmente onorare Velio Spano dicendo quanto egli ha contribuito a farmi diventare una orgogliosa e ostinata comunista italiana, ancora impegnata per realizzare compiutamente la nostra costituzione, egualitaria e pertanto antifascista.
A Carbonia non eravamo tutti comunisti. Neppure nel 1948, anno di grandi conflitti. Nanni Balestrini, invece, nel 1971 scrisse di Carbonia. Narrò la storia di un minatore da lui intervistato e usò un titolo totalizzante: Carbonia. Eravamo tutti comunisti. Questo testo fu presentato con una versione in inglese nel 2012 all’interno di Documenta, una rassegna artistica internazionale, a cadenza quinquennale, che si tiene a Kassel. Il protagonista fu partigiano, prigioniero dei tedeschi e poi nei lager. A Carbonia lavorò in miniera e del lavoro dice: quello del minatore è un lavoro duro dove la persona s’imbestialisce (p. 36).
L’imbestialirsi appare un esito lavorativo obbligato e al lavoratore assoggettato rimane la violenza.
In breve, il protagonista appare estraneo alla dimensione democratica e profondamente autonomistica suscitata da Velio Spano nelle lotte operaie del bacino carbonifero. Sono celati differenti esperienze dei minatori i quali, proprio nel vivo di quelle lotte autonomistiche si fecero soggetti autonomi rifiutando gli esodi con super-liquidazione, che il suo protagonista invece accettò. In breve, l’autore e l’opera non hanno dato a Carbonia né verità né lustro, in tale prestigiosa occasione.
Vorrei partire da una personalissima dimensione di Velio nei giorni finali della “non collaborazione” dei 72 giorni che durò dal 7 ottobre al 17 dicembre 194: quella dei suoi silenzi.
Nella sua autobiografia pubblicata nel 2005, Mabrùk. Ricordi di una inguaribile ottimista (che può essere tradotto benedetto o benedetta secondo il termine di indirizzo, oppure congratulazioni secondo il contesto o l’occasione), a pagina 323 Nadia parla del «preoccupato silenzio» quando Velio e Pietro Cocco stavano insieme mentre la vertenza non si chiudeva. Nadia me li ha raccontati come “terribili silenzi”. Nel dialogo spontaneo diceva qualcosa di assai più toccante.
I “terribili silenzi di Velio”, dopo la sconfitta delle sinistre del 18 aprile e l’attentato a Togliatti del 14 luglio di quel 1948 con le sue rischiose conseguenze, probabilmente dicevano di rischi politici che erano anche rischi vitali per il futuro di migliaia di persone, rischi che si addensavano oscurando infine quella lunga e drammatica vertenza che riguardava particolari rischi patiti. Vi invito a riflettere con me sul ruolo di Velio e di Nadia sia sul patire comune e sia sulle strategie di solidarietà democratica realizzate nei conflitti sociali e politici presenti a Carbonia localmente, ma di scala assai più ampia.

2 Oltre i silenzi. Nei discorsi “carboniesi” di Velio la cruciale matrice gramsciana

Possiamo trarre certi elementi che nutrivano quei silenzi, in una certa misura, specialmente dai “discorsi carboniesi” di Velio, in cui appare evidente una matrice gramsciana. Un esempio si trova nel libro edito da Antonello Mattone nel 1978, con titolo assai eloquente Per l’unità del Popola sardo, quando Velio afferma:
La parola centrale dell’azione di Gramsci diventa la parola UNITA’…(egli) costruiva per l’avvenire…Egli proiettava la sua opera al di là della morte. Possiamo pertanto, a mio avviso, accostare Spano a Gramsci precisamente su due versanti messi in opera da entrambi: il primo versante riguarda l’obiettivo di perseguire l’unità popolare, il secondo l’orizzonte dell’operare per l’avvenire.
Propongo questo accostamento di fondo, come un modo utile per portare con noi sia Antonio Gramsci e sia Velio Spano oltre la memoria, proiettandoli insieme nel presente della nostra contemporaneità.

3 Con Velio per lavoro e vita e per vita e lavoro. Solidarietà umana e politica nella “non collaborazione”

Carbonia e il bacino carbonifero ebbero un ruolo assai rilevante nelle vicende del secondo dopoguerra e nel corso dei processi di concentrazione monopolistica e finanziaria delle imprese. Tali processi erano ben noti a Velio che mostra di conoscere, per esempio, il lavoro di Pietro Grifone, edito nel 1945 con il titolo Il capitale finanziario in Italia. Tuttavia, nei suoi discorsi egli metteva particolarmente in luce non solo il versante dei processi di concentrazione capitalistica, ma specialmente il versante degli effetti di tali politiche monopolistiche sulla vita quotidiana della popolazione. Inoltre, egli poneva in evidenza la prosecuzione della corruzione e della repressione, imperanti come forme continuative del fascismo. Infine, portava in vista la continuità storica della miseria e della fame che continuava a colpire persone e popolazioni locali nell’Isola. Egli affermava in modo assai radicale, come appare a pagina 60 nel testo di riferimento:
Si tratta, per la Sardegna, di una questione di vita o di morte.
A pagina 71 dello stesso libro si leggono frasi che purtroppo evocano una certa attualità sarda e nazionale, sui salari insufficienti per vivere: I sardi lavorano. Ma i sardi hanno fame.
Nell’Isola, durante il dopoguerra di fame e la politica repressiva del governo Scelba, le potenziali ricchezze del carbone sulcitano, che era servito «in vista della guerra e poi per la guerra», offrivano nuove opportunità per assumere caratteristiche inedite e valide in tempo di pace. Il carbone sulcitano, infatti, poteva valere in modo storicamente innovativo diventando materiale per nuovi usi chimici, rispetto ai suoi storici usi combustibili: poteva essere valorizzata proprio la presenza di azoto, penalizzante invece nella combustione.
Gli aspetti tecnici ed economici erano stati ben studiati e avevano ottimamente preso corpo soprattutto nel secondo Progetto Levi, incentrato sull’uso chimico-industriale del carbone e volto a superare il disordine aziendale imperante. Spano ne riferì assai puntualmente nella rivista «Rinascita», pubblicata nel dicembre del 1948. Il piano dell’ingegner Levi, presidente dell’Azienda Carbonifera, era avversato dal monopolio chimico della Montecatini che aveva vari alleati fra i dirigenti delle miniere carbonifere sarde, come il fedelissimo direttore generale della stessa Azienda Carbonifera, l’ingegner Spinoglio, che preferiva assecondare «l’imbelle politica» dei finanziamenti a fondo perduto, a scapito dei progetti di rilancio produttivo.
Richiamo fatti ben noti, per sottolineare che Spano, nelle vicende della “non collaborazione” dei minatori, metteva in luce certe connessioni fra vari aspetti convergenti nella crisi produttiva aperta.
In prima istanza egli faceva emergere l’intrigo del monopolio chimico, che incombeva sul bacino carbonifero, agevolato da certi vertici della stessa Azienda Carboni Italiani. Inoltre, mostrava come la direzione aziendale non collaborava con i lavoratori per lo sviluppo industriale carbonifero e contribuiva invece ad affossare le prospettive positive. Il primo indirizzo critico riguardava le complessive inadeguatezze e debolezze, fino ai reali sabotaggi, di certi dirigenti aziendali. Dall’altro lato Velio rimarcava le scelte antisociali che l’azienda preferiva per realizzare economie, adottando misure che incidevano sui livelli di vita delle persone che vi lavoravano e delle loro famiglie.
Presentando dettagliatamente i conti della spesa, Velio provava che i provvedimenti aziendali rendevano precarie le condizioni di vita per quanti non accettavano le super-liquidazioni e le smobilitazioni con un premio di 30.000 lire.
Consideriamo con Velio, e anche un po’ con la pertinente antropologia dei poteri del filosofo Michel Foucault, i salari di quel tempo in rapporto agli aumenti del costo della vita imposti dall’Azienda come insufficienti per vivere. Un alloggetto che era costato 63 lire al mese costava poco più del doppio, 132 lire. Un posto-letto per scapolo costava ogni giorno quel che prima costava ogni mese. I sei quintali di carbone concessi erano stati ridotti a quattro. Il prezzo del carbone era stato aumentato da 12 a 300 lire, quello della corrente elettrica da una lira e mezzo a dodici lire. Tali aumenti costituivano una brusca e forte riduzione del salario per una media di 1500-2000 lire mensili, con vari rischi di sopravvivenza a seconda del numero e dei bisogni dei familiari. Si era nel campo dei poteri di vita, drasticamente ridotti ai lavoratori e alle loro famiglie.
Per chi restava al lavoro le misure imposte dall’Azienda riguardavano in particolare nuovi criteri di applicazione dei cottimi. Inasprire i cottimi significava accelerare il lavoro a scapito dei tempi da dedicare all’attenzione lavorativa e pertanto alla prevenzione dei rischi vitali. Per quanto riguarda i cottimi, la direzione aziendale che era riuscita a modificarne l’applicazione a proprio vantaggio con vari colpi di mano: sia eludendo la vigilanza delle Commissioni interne e sia con la complicità di un Comitato di Gestione addomesticato con la corruzione di qualcuno e con l’ingenuità di qualche altro, oppure evitando di convocare i membri effettivi e facendo invece partecipare i supplenti più docili. Niente era stato fatto, invece, per migliorare le condizioni di lavoro, per rinnovare le attrezzature, per eliminare gli sprechi, per eliminare il disordine amministrativo, per ovviare agli errori tecnici, per utilizzare i residui sterili.
Queste erano le informazioni che Velio Spano diffondeva sulle difficoltà di poter vivere e del poter lavorare in sicurezza nell’Azienda. I poteri di vita dei minatori erano limitati per un verso con l’aumento dei costi di beni primari per vivere (affitti, luce, riscaldamento) per l’altro verso con i cottimi che, accelerando il lavoro, indebolivano l’attenzione verso i rischi lavorativi.
I vari cottimi minerari, denominati o meno Bedaux, avevano un’ascendenza mondiale che faceva capo alla cosiddetta Organizzazione Scientifica del Lavoro, al Taylorismo e al fordismo americano. Richiamo solo le note di Gramsci su Americanismo e fordismo. I principi di accelerazione del lavoro con un modello unico imposto di lavoro accelerato, riguardavano un cambiamento epocale mondiale. In miniera, a giudizio dei minatori carboniferi più accorti, significava instaurare pratiche da “bestia lavorante” che non pensava autonomamente al valore della vita condivisa.
I migliori minatori, i “maestri” nelle miniere carbonifere avevano invece creato pratiche autonome di attenzione ai rischi, sempre più condivise e validate. Le pratiche diffuse da tali minatori erano alternative rispetto ai bestiali e rischiosi cottimi accelerati e costituivano un alternativo modello culturale di lavoro ragionato, produttivo di spazio e di tempo vitali, insieme al minerale. L’impegno di Velio contro i cottimi stabiliva una particolare solidarietà culturale e politica con le pratiche e i modelli lavorativi vitali che si diffondevano fra i lavoratori di miniera.
La “non collaborazione” dei minatori affrontava anche il nodo dei poteri di vita nella parte che contrastava i rischiosi cottimi. Nel 1948 erano morti in miniera 9 operai. L’ultimo perì durante la vertenza, il 5 ottobre. I funerali dei morti in miniera esprimevano e costituivano una solidale comunità di dolore condiviso. Erano performativi. Producevano speciali solidarietà.
La vertenza in atto riguardava complessivamente i biopoteri alimentari e lavorativi. Nel verbale di accordo che concludeva la lunga vertenza, il punto 5 riguardava interventi negli spacci aziendali con funzioni calmieratrici per l’acquisto di generi alimentari, il punto 6 stabiliva la revisione concordata dei cottimi.


Sia sul versante dei costi per i beni primari di vita e sia per i cottimi, si giunse per certi versi con Velio Spano in un campo, assai avanzato, di lotta per i diritti umani alla vita la cui Dichiarazione avvenne il 10 dicembre del 1948, mentre la lunga agitazione pareva estendere fino a lì la portata del proprio campo conflittuale. D’altra parte, quando l’azienda licenziava, restare senza lavoro costituiva un differente rischio di salute e di vita limitata in altri modi.

4 Fra i silenzi di Velio e i discorsi di Nadia: solidarietà di genere e solidarietà fra i generi

Nei licenziamenti erano comprese le donne, come Spano denunciava e come compare a pagina 103 del prezioso libro di Mattone: Hanno continuato operando licenziamenti a danno, non degli elementi superflui, ma degli elementi e delle categorie più deboli, p. es. le donne.
Le donne sono a questo punto nominate per la prima volta e appaiono in questi scritti quasi come un non detto. Possiamo vedere tali silenzi negli scritti di Velio, storicizzandoli adeguatamente come limiti politici. Possiamo considerarli per certi versi come complementari al sorgere di autonomi movimenti progressisti di donne, come per esempio l’Unione Donne Italiane, a cui non era estranea Nadia Gallico Spano, compagna e moglie di Velio. Tuttavia, la stessa Nadia ci aiuta forse a capire meglio tali questioni quando, scrivendo Mabrùk, a pagina 310 afferma:
Per noi, donne comuniste, l’attività quotidiana era estremamente difficile anche perché, come ho già detto, nel Partito molti attribuivano al voto delle donne la grave sconfitta elettorale dell’aprile 1948. Per anni ci siamo sentite accusare di aver favorito la vittoria della Democrazia cristiana. A parole i compagni riconoscevano l’importanza di un’azione tra le donne, ma questa veniva affidata esclusivamente a noi; se i risultati non erano evidenti e ottenuti in tempi brevi, venivamo tacciate d’incapacità.
Vorrei condividere un breve colloquio, donatomi da Nadia il 30 giugno del 1972, in cui risalta l’impegno democratico delle donne di Carbonia contro la fame e contro la grave povertà infantile: problema non estraneo alla nostra contemporaneità
Mi ricordo dei bambini. Dunque dovettero essere trasferiti in continente nel gennaio del Cinquanta. Mi pare, dopo lo sciopero dei 72 giorni. Fu frutto, naturalmente dell’organizzazione. Il trasferimento avveniva tramite l’UDI (Unione Donne Italiane), il sindacato e il partito locale, ma anche dei paesi ospitanti….
Quando c’erano lotte, sul piano sindacale di particolare importanza, allora risorgeva l’iniziativa. Ora se vogliamo è specifico di Carbonia e nello stesso tempo non lo è. Faccio un esempio: quando le donne di Carbonia si ponevano tra i minatori e la polizia non è che lo facessero perché in Emilia si è fatto così, ogni volta si ricrea la tradizione e si rinnova in forme specifiche. Comunque, dobbiamo dire che la polizia non le risparmiava, perché la polizia in quel periodo si scagliava indistintamente su donne, bambini, senza risparmiare nessuno
Nell’ordine del suo discorso, Nadia sembrava accostare o intrecciare due ordini di rischi: sia i rischi della fragilità dell’infanzia povera per la crisi alimentare, nella drammatica condizione delle famiglie operaie durante la cruciale vertenza con l’Azienda, e sia i rischi della repressione poliziesca durante le manifestazioni democratiche. Su entrambi i rischi affrontati delle donne carboniesi vorrei richiamare una particolare attenzione.
Le esperienze di ospitalità dei bambini carboniesi “in continente”, in realtà, erano un’espansione di precedenti e più limitate esperienze locali, come appare dallo spoglio del quotidiano comunista. Il 10 settembre 70 bambini erano partiti da Carbonia, ospitati da famiglie contadine per la “vendemmia della solidarietà” dedicata ai bambini vittime della politica scelbiana. Il 14 settembre erano diventati 85. L’Unità del 18 settembre denunciava che con 20.600 lire di salario non era possibile andare avanti. Il 23 di quel mese i bambini di Carbonia, ospitati dalle famiglie contadine della provincia, attraverso il quotidiano comunista, mandavano saluti ai parenti lontani con una foto.

Poco più di due mesi dopo, 19 novembre, mentre si dispiegava l’offensiva aziendale con il dimezzamento delle paghe, 105 bambini di Carbonia erano scelti per essere ospitati “in continente”. La decisione fu presa nel Convegno nazionale dell’UDI, svoltosi a Firenze. Nadia Spano aveva sollecitato nuove solidarietà per le lotte di Carbonia.

Ospitalità e aiuti economici furono decisi allora, insieme a beni alimentari e igienico-alimentari.

Solidarietà democratiche inizialmente a scala regionale si estesero, per opera delle donne, a livello nazionale con i bimbi di Carbonia. Quasi una settimana prima, il 13 novembre, uno sciopero di 24 ore era stato realizzato in tutte le miniere d’Italia in solidarietà con i lavoratori e la popolazione di Carbonia.
La solidarietà di donne a Carbonia e verso Carbonia risultò forte ed estesa, ma non fu l’unica dimensione dei loro modi d’agire democratici. L’agire solidaristico delle donne non deve occultarne l’intersezione con i comportamenti di fronteggiamento, di contrasto, di opposizione realizzati in proprio e per sé dalle donne stesse contro la repressione poliziesca messa in campo dal Commissario di P.S., ex repubblichino Antonio Pirrone, giunto in città il 19 giugno 1948 che non risparmiava donne e bambini.
Per spiegarmi sulla portata degli scontri delle donne con le forze dell’ordine, anticipo un fine antropologo inglese ancora vivente, Tim Ingold. Egli ci aiuta a vedere che tali donne, mentre operavano nella sottomissione difendendosene in prima persona, agivano attivamente anche su altri piani: sia sulla sottomissione stessa per indebolirla e sia su di sé per affermarsi come soggetti di autonomia e di libertà.
Egli giunge ad affermare acutamente che «il fare nel subire è opposto al subire nel fare». L’attiva padronanza su di sé nelle e contro sottomissioni sprigiona, secondo Ingold, certe capacità di autogenerarsi come persone libere. Il fare per trasformare le sottomissioni è perfino particolare cura di sé, secondo questo antropologo: crea infatti autonomamente un proprio sé di valore, valorizzato nel proprio agire.

Quando Nadia afferma che le donne avevano affinato le proprie capacità democratiche nel concreto agire solidale che non si limitava alla denuncia della fame, possiamo trovarvi il senso delle analisi fatte da Foucault sugli affrontamenti anti-autoritari che realizzano l’emergere di soggettivazioni autonome.
Possiamo rilevarvi anche certe prossimità con le analisi di Ingold che analizza l’agire contrastivo nelle e sulle sottomissioni: un agire specifico che produce d’umanità e che fa umanità contenendo le oppressioni e gli oppressori violenti.
Le donne di Carbonia realizzavano non solo solidarietà democratiche con i lavoratori in lotta, ma anche autonome strategie, in un processo autonomo di sviluppo democratico personale e collettivo. A partire da certe reazioni spontanee dopo l’attentato a Togliatti del 14 luglio nel 1948, esse erano diventate protagoniste non solo nelle dimostrazioni di piazza e nei cortei con repressioni violente, ma anche imputate nei tribunali, recluse nelle carceri, elette nelle istituzioni locali come rappresentanti del popolo. In gran parte ciò era avvenuto attraverso le loro esperienze in contrasto con Pirrone.
Ai fatti di Carbonia del 22 luglio che seguirono l’attentato parteciparono due donne, con l’assalto ai magazzini di Multineddu: Scanu Giulia e Masala Lucia. Non fu un atto di semplice vandalismo. Sarebbe riduttivo. Possiamo anche intravvedervi una logica di proprio contrasto rabbioso contro la stessa Azienda Carbonifera. Egli, infatti, vendeva a prezzi non concorrenziali e maggiorati avvalendosi dei cosiddetti boni fidus, moneta cartacea privilegiata e garantita dall’Azienda che aveva come antecedenti i noti ghignoni diffusi nelle zone minerarie inglesi e usati agli inizi del secolo a Bacu Abis, come ho ricordato lì. Alla rabbiosa devastazione delle Acli, vista come organizzazione fiancheggiatrice della politica aziendale, parteciparono sei donne. Con la sentenza del 24 dicembre del 1949, dopo quasi un anno e mezzo di carcere, due furono assolte: Farris Antonietta e Osanna Genoveffa. Quattro furono invece condannate a 2 anni e 6 mesi di reclusione: Caddeo Eleonora, Pazzaglia Teresa, Pusceddu Cicita, Ledda Luciana. Quest’ultima aveva partorito in carcere.
Per i fatti di Bacu Abis dello stesso luglio dall’Arma dei Carabinieri furono denunciate 8 donne. Furono in seguito rinviate a giudizio 11 donne e furono condannate in 13, sia pure con pene lievi, per aver invaso la sede del partito sardista con violenze e minacce: Aracri Rosa, Bonavento Vitalia, Cadeddu Assunta, Dessì Rosa, Diana Angela, Farris Carmela, Locci Angela, Pinna Francesca, Putzu Barbara, Putzu Petronilla, Sanna Beatrice, Scanu Maria Rosa, Valdés Gisella. Fu una prima fase di spontaneismo, come in altre parti d’Italia.
Nadia parlava esplicitamente di lotte delle donne di Carbonia per il lavoro e per la vita nel libro collettaneo Cari bambini vi aspettiamo con gioia nelle pagine 126-129. Nel suo libro autobiografico, a pagina 325, Nadia Gallico Spano diceva ancora di quelle lotte cittadine definendole per il diritto alla vita e al lavoro. Il diritto alla vita risultava allora in primo piano. pagina 310, Nadia ricordava con orgoglio la combattività delle donne di Carbonia, meglio organizzata sul piano democratico. In particolare, nominava Graziella Marongiu, che divenne moglie di Licio Atzeni poi segretario della Federazione del Sulcis. Ricordava anche Peppina Salaris che divenne consigliera comunale e molti di noi chiamavano Peppina Nieddu.
In quelle popolari lotte cittadine le donne facevano la loro parte importante contro i poteri che limitavano o mettevano a rischio la vita delle persone, affrontando con inedito coraggio le violenze poliziesche quando partecipavano alle manifestazioni per diritti umani vitali. Velio lo sapeva bene.
Le donne di Carbonia in quegli anni seppero andare in prima fila nei cortei fronteggiando le cariche delle forze dell’ordine, ma impararono anche a nascondersi nei cespugli, quando era possibile, per sottrarsi alle violenze delle cariche poliziesche ordinate per sciogliere i comizi dal commissario di P.S. Antonio Pirrone, ex repubblichino, condannato e riabilitato in un clima fin troppo indulgente del post fascismo. Su di lui a Carbonia ho appreso informazioni importanti dal prezioso testo inedito di Alberto Vacca, La repressione del commissario Pirrone contro i comunisti nella città di Carbonia (1948-1949). Egli sciolse così il comizio di Velio il primo settembre del 1948, quello di Nadia il 28 agosto del 1949, quello di Dessanay il 16 ottobre dello stesso anno provocando proteste parlamentari a livello nazionale e regionale. Giunto a Carbonia il 19 luglio del 1948, fu trasferito dalla città il 31 agosto 1949. Fu un tempo assai breve ma, nel ricordo delle molte persone con cui ho parlato, quel tempo era straordinariamente lungo per le violente limitazioni alla libertà subite. Nadia parla delle manganellate da lui ordinate senza risparmiare donne e bambini nella sua autobiografia, a pagina 322. Velio lo sapeva bene.


Dei racconti avuti in città sulla fame rischiosa patita e sulla solidarietà politica incentrata su Velio posso offrire ora solo pochissimi frammenti: mia madre era sempre malata, a capogiro, e il medico diceva sempre che era denutrizione. Erano anni di fame e malattie. in via M ci sono tante famiglie; ci conosciamo dalla A alla Z: una vita uguale alla nostra…La miseria dava una coscienza… Una volta mia zia mi ha portato a uno sciopero, a Bacu Abis… era un corteo soprattutto di donne…Nei periodi di fame non si trovavano neppure erbe selvatiche, era tutto cercato… Eravamo in questo i più attivi della strada, specialmente mia sorella
la figura di Velio Spano come dirigente era popolare perché si spingeva nella lotta ed era sempre fra gli operai… Qui non c’è l’affetto come in paese, ma c’è l’unità politica… L’arresto mio, per esempio, comportava anche il licenziamento. Ma molti, come per i 72 giorni, sono riusciti a ottenere che fossero riassunti. E questa fu una vittoria. Non si sarebbe potuto fare, se gli operai non fossero stati convinti di avere ottenuto un successo.
Le donne democratiche di Carbonia andavano avanti con Velio e con Nadia Spano realizzando un’autonomia che partiva da sé stesse e incrociava gli operai nelle intersezioni delle esperienze subite. Si agiva insieme per indebolire chi limitava o negava sia una vita sicura e sia le libere manifestazioni di dissenso al malgoverno aziendale con proposte alternative. Tali donne creavano nuove solidarietà di genere e nuove solidarietà fra i generi per il proprio avvenire e per quello della città, del territorio locale e regionale e anche oltre, con l’obiettivo di creare una sicurezza vitale che toccava la pace diffusa.
L’asse politico generativo della solidarietà fra i generi riguardava gli innovativi usi pacifici del carbone, allora chimici, incentrati nel Progetto Levi. Gi usi innovativi del carbone come materiale non combustibile e delle stesse miniere è un tema assai attuale e ha nuove declinazioni: dal progetto Aria a una serie di nuovi progetti che vengono elaborati, per esempio, a Nuraxi Figus. Tali progetti non risultano al centro di un dibattito pubblico ampio e diffuso per scelte popolarmente condivise. Non appaiono come punti forti di orientamenti istituzionali per il futuro del territorio carboniese, sulcitano e regionale. Manca la riconoscibile visibilità dei partiti della sinistra, impegnati per innovare il piano produttivo, il piano istituzionale, il piano della rappresentanza degli interessi popolari, che risultano lasciati alla deriva populista. Vari sindaci appaiono soli e costretti a microfisiche mediazioni politiche, in assenza dei partiti. C’è molto da fare dopo le macerie delle rottamazioni e nell’avanzare delle tracotanze autoritarie.
Velio e Nadia sono qui con noi ora. E saranno entrambi presenti, ne sono profondamente convinta, in tutti i nostri impegni di pace con una nuova unità democratica per un futuro vitale condiviso: impegni in cui sappiamo trarre forza e orgoglio dalle storiche esperienze fatte con entrambi, per rigenerare e irrobustire noi stessi e le sinistre, insieme alla città e al territorio, portando a pieno compimento la Costituzione Italiana.

Paola Atzeni

1 L’antropologia dentro le miniere e le miniere dentro l’antropologia

L’antropologia come disciplina scientifica, quindi al di là della sua impropria estensione a etichetta abusata, ha maggiormente studiato le tappe positive e ascendenti del progresso umano attraverso le verificabili esperienze storico-materiali che trasformano la nostra naturale animalità nei modi culturali di farsi umani e di fare umanità, a vari livelli: individuale e sociale, di genere e di specie. Per esempio, dalla stazione eretta e al camminare, dalla manualità alla scrittura e all’arte, dalle attività individuali fino alle cooperazioni familiari e locali. Questo versante dell’antropologia positiva risulta assai ampio rispetto a quello dell’antropologia negativa che, viceversa, studia e documenta le esperienze che negano e sopprimono umanità, altrui e proprie, con varie pratiche e modi anche di violenza. Per esempio dai femminicidi alle guerre, fatti di triste attualità. L’antropologia ha teorie specifiche, nate nel 1871 e mutate nel corso del tempo, pur mantenendo la fondamentale e democratica concezione di cultura che comprende ogni esperienza umana. In quanto disciplina scientifica l’antropologia ha affinato nel tempo la propria metodologia che assomma lo spoglio di fonti scritte e il rilevamento di fenomeni documentabili con la produzione di nuove fonti: scritte e orali, fotografiche, audiovisive e filmiche. Dopo più di un secolo del suo percorso, l’antropologia è entrata nelle miniere e le miniere sono entrate nell’antropologia, determinando nuovi livelli di conoscenza e di approfondimento delle esperienze umane, soprattutto nel sottosuolo. La genealogia di riferimento per tali studi nelle miniere fa capo agli ultimi decenni del Novecento, all’antropologa June Nash e al suo libro edito nel 1979 sulle miniere di stagno boliviane: We eat the mines and the mines eat us. Dependency and exploitation in Bolivian tin mines. Solo agli inizi di questo secolo si giunge all’indicazione di una specifica antropologia mineraria, indicata e perimetrata come campo specialistico in ambito anglofono nel 2003, con il testo The Anthropology of mining di Ballard and Banks.

Nell’espansione dell’Antropologia mineraria non mancavano studi singolari che in ambiti locali indagavano le esperienze minerarie. In Italia, per esempio i primi studi antropologici editi su Carbonia risalgono al 1980 a livello internazionale. Sono infatti documentati negli Atti del Convegno Internazionale di Storia Orale che si tenne ad Amsterdam in quell’anno. Quei documenti, ora assai incrementati, riguardavano produzioni poetiche in sardo espresse prevalentemente da minatori o da loro fatte proprie, sia improvvisate e sia stampate in fogli volanti o in libretti di letteratura popolare ambulante. Fanno parte di un importante corpus documentario poetico, proprio della cultura operaia dei minatori, che può essere messo in dialogo con i documenti di altri centri archivistici o museali minerari, italiani ed europei.

Vorrei sostenere, a partire da questo punto documentario da mettere in un’ampia rete, che le temporalità antropologiche e culturali delle esperienze minerarie non si riducono al solo periodo estrattivo e neppure ad un inerte periodo cosiddetto post-minerario. Mi pare invece necessario partire da quei documenti storici per mettere in luce gli aspetti che concernono l’antropologia del rischio, lavorativo e non solo, individuale e non solo, nel passato e nel presente, avviando un nuovo corso di impegni programmatici di ricerca nelle scuole e nelle università, a partire dai morti in miniera ma estendendo la visione dei rischi e dei modi per farvi fronte democraticamente nei nuovi studi. Riprenderò successivamente il cruciale nodo del rischio e della securitas come ambito di poteri propri nell’esperienza mineraria.

L’approccio volto verso l’antropologia dei rischi a partire da quelli minerari implica l’esigenza di prendere in conto nuovi e attuali dibattiti nei quali l’antropologia mineraria giunge con una recente e più ampia definizione e perimetrazione. Riguarda la cosiddetta Antropologia delle risorse estrattive che fa capo a un libro collettaneo, The Anthropology of Resource Extractions, curato da D’Angelo e PiJpers e pubblicato nel 2022. Rispetto al libro di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola, I minatori della Maremma, edito nel 1956 sono trascorsi 66 anni. Dal mio testo pubblicato nel 1989 Tra il dire e il fare. Cultura materiale della gente di miniera un Sardegna, son passati 33 anni. Ribolla per certi aspetti impliciti e Carbonia per altri aspetti più espliciti, sia pure in tutta modestia, possono porgere le ricerche svolte sul loro terreno come etnografie situate come anticipazioni documentarie su mondi di vita e di lavoro sotto la terra che ebbero successivi sviluppi internazionali, specialmente per le perdite di vite umane e di ambienti vitali nei processi lavorativi. Cercherò di mettere in luce come tali processi eccezionali e quotidiani fossero non solo subiti, ma anche governati autonomamente dai minatori, attraverso l’emergere di soggetti di decisione e di scelta: attraverso processi di soggettivazione capaci di agentività, di agency, nonostante le condizioni di dipendenza o assoggettamento ai poteri dominanti.

Dal 2003 al 2022, come ho detto, l’intestazione di antropologia mineraria si è allargata con la dizione di Antropologia delle risorse estrattive, fino a comprendere un vasto complesso di attività di prelievo dalla natura. In tale ambito, in cui gli stessi minerali di discarica rimangono risorse di riabilitazione produttiva e ambientale, appaiono nuove temporalità minerarie. Inoltre, le miniere possono ora materializzarsi anche come specifici centri, idonei per particolari ricerche scientifiche. Tuttavia, rimane faticosamente aperto il problema di ciò che un materiale come il carbone può diventare e diventa storicamente risorsa, e di quale tipo, nei processi di valorizzazione secondo possibilità non solo scientifiche e tecniche, ma anche politiche. Penso al mancato sviluppo degli usi chimici del carbone Sulcis, data l’opposizione monopolistica della Montecatini e la conseguente riduzione del carbone a esclusiva risorsa energetica. Lascio aperta questione del rapporto fra materiali e risorse per seguire il corso generale delle esperienze minerarie. In generale, nel corso del processo di industrializzazione degli ultimi 50 anni l’attività estrattiva è triplicata, con la spinta soprattutto dai Paesi del cosiddetto BRIC: Cina, Brasile, Russia, India. Nuove materie prime, come cobalto e litio insieme a nichel e rame, hanno fatto emergere nuovi protagonisti. Molte miniere impoverite determinano ora maggiori disastri ecologici: per un’oncia d’oro si scassano 30 tonnellate di roccia. Le miniere, comunque, offrono direttamente a 40 milioni di persone opportunità insieme a sfide e rischi di vita. Le attività minerarie sono determinanti negli attuali assetti di consumo, di lavoro e di vita.

Particolarmente in questi ultimi decenni l’antropologia è entrata nelle miniere e le miniere sono entrate nell’antropologia. Numerosi studi antropologici penetrano ora nelle attività, nei processi, negli effetti estrattivi sulla vita quotidiana per capire dinamiche storiche, economiche, sociali, politiche, ambientali, con un approccio integrato. Tali dinamiche in vari casi rimuovono il dato di fondo: che l‘estrazione riguarda risorse non rinnovabili e pertanto esauribili. La dipendenza dai minerali in vari modi cresce e definisce mondi correnti di lavoro e di vita anche in base alla esauribilità dei giacimenti minerari e ai conflitti sul futuro che ricchezze e penurie minerarie acuiscono.

Le esperienze di Carbonia e di Ribolla, per esempio, si possono configurare nell’ambito che è stata definita democrazia del carbone (Mitchell 2011) per indicare il materializzarsi storico di protagonisti con differenti interessi, dipendenze e poteri, in termini di moderne inuguaglianze imposte e di nuove aspirazioni rivendicate. L’antropologia entrando nelle miniere ha colto i nodi di differenze asimmetriche di poteri, anche di vita, nelle umane relazioni lavorative. I mondi globali di macro-livello appaiono pertanto mentre interagiscono con quelli locali e di micro-livello in modi di inuguaglianze che sono per certi versi simili, per altri differenti.
Carbonia e Ribolla sono primariamente accomunate da rischi collettivi di vita subiti, in temporalità di differenti: il 1937 e il 1954. A questo riguardo inizierò prendendo in esame, sinteticamente e selettivamente, documenti ufficiali dei due incidenti mortali collettivi che avvennero in questi due centri carboniferi. Successivamente, prospetterò alcuni passi di ricerca comparativi e integrativi, dinamicamente volti al futuro nei due luoghi minerari oggetto della nostra attenzione.

2 Carbonia

Attingo notizie dalla relazione ufficiale dell’incidente avvenuto a Pozzo Schisòrgiu il 19 ottobre 1937. Redatta il 23 ottobre, tale relazione (reperibile nel testo di Mauro Pistis, edito da Giampaolo Cirronis Editore del 2022 dedicato a questo incidente) descrive il comportamento degli operai che si erano allontanati dal luogo di esplosione dopo aver caricato e acceso 39 mine. L’aria del cantiere era satura di pulviscolo di carbone, atto alla combustione per l’alto tenore di sostanze volatili in un ambiente con un solo fornello d’areazione. Determinante fu l’intensificazione produttiva giornaliera di carbone in quel luogo poco areato, tuttavia, l’incendio e l’esplosione venivano ufficialmente considerati non prevedibili. Alcuni provvedimenti di sicurezza, presi nel periodo successivo alle morti, dicono invece implicitamente le cause che alimentarono i rischi lavorativi vitali che determinarono i gravissimi fatti che fecero contare 14 morti. Tuttavia, nella relazione ufficiale si fece appello a varie ragioni giustificative per l’Azienda carbonifera: dalle maestranze non specializzate alla carenza di personale tecnico direttivo.

I dati importanti raccolti utilmente da Mauro Pistis nel suo libro sui fatti accaduti nella miniera di Schisòrgiu, richiedono però alcune elaborazioni antropologiche per individuare significative temporalità minerarie, a partire dalle morti collettive e individuali che considero ora congiuntamente. Per esempio in epoca fascista dal 1922 al 1943, dalla marcia su Roma alla fine dell’ultima guerra, i deceduti nelle miniere di Carbonia furono 154. Nel periodo della ricostruzione post bellica, dal 1943 al 1954, i morti in miniera furono 124. Dal 1955 al 1992, furono 35. Si tratta di cambiamenti non solo quantitativi, ma che riguardano resistenze e contrasti, assai forti anche in epoca fascista, sui poteri di vita. Entro questa lunga piega conflittuale, troviamo anche elaborazioni e conquiste per nuove sicurezze vitali, realizzate meglio dai minatori in epoca post-fascista, per quanto parliamo ancora generalmente di sicurezze sul lavoro ancora ampiamente disattese. Unendo gli eccidi collettivi alle morti individuali, vorrei mettere in luce due tipi d’intensificazione estrattiva. Il primo di moltiplicazione delle volate in zone di abbattimento non sufficientemente areate. Il secondo di intensificazione del lavoro fisico attraverso i cottimi e l’addomesticamento dei corpi.

In questo secondo percorso io desidero assumere il ‘farsi buon minatore’ o bravo minatore come maestro di vita, i temi del saper fare come saper vivere nel fondo, riferendomi a quell’insieme di pratiche minerarie che Giovanni Contini chiama complessivamente professionalità. Riassumendo al massimo, è utile a tal fine seguire il corso delle relazioni che riguardano i cottimi con le varianti dei Bedaux imposti e, per contro, le resistenze e le contrapposizioni dei migliori minatori che influenzarono comportamenti e valori diffusi nelle miniere specialmente carbonifere in vari decenni dopo l’incidente del 1937 e dopo il fascismo.

Richiamo l’elaborazione del minatore pensante e progettante le armature e le volate sicure per sé e per gli altri, realizzata dai migliori minatori del Sulcis, diffusa pedagogicamente contro la configurazione della «bestia lavorante» che i cottimi minerari imponevano come modello di modernità industriale di ascendenza tyloristica, o americano-fordista come aveva ben visto Antonio Gramsci. Del modello del minatore progettante il lavoro sicuro, per sé e per gli altri, dobbiamo saper cogliere due specifiche valenze. Un verso riguarda la svalutazione della professionalità considerata quantitativamente, cioè come pura “bestializzazione” del lavoratore nei contrasti politico-culturali in miniera. L’altro versante concerne le produzioni di insicurezze nei rischi minerari che l’accelerazione dei ritmi produttivi determinava a scapito dell’attenzione precauzionale. Le interviste a Quirino Melis, a Vincenzo Cutaia, a Delfino Zara, minatori di Carbonia, proiettate nel Museo della Grande Miniera di Serbariu, documentano l’eccezionale valore culturale di carattere universale dei minatori locali come produttori di sicurezze vitali nell’autonomo governo dei cottimi. La produzione materiale di spazi e tempi di lavoro sicuri in miniera da parte dei minatori di Carbonia ha una precisa temporalità storica, come abbiamo visto. Tuttavia, tale produzione di sicurezze vitali permane nel presente non tanto come memoria inerte, ma piuttosto come lascito culturale che può alimentare e orientare nuove risposte in vari rischi di vita del nostro presente. Si tratta di una pagina bianca per una nuova temporalità culturale mineraria, possibile e tutta da scrivere.

In questo quadro la produzione di vita lavorativa sicura è determinata dal farsi buon minatore e, pedagogicamente, dal lavoratore come agente di sicuro lavoro ragionato e pertanto maestro di vita. Successivamente un ruolo fondamentale ha avuto l’ingresso più recente di alcune donne in miniera nel 1980 come aiuto minatrici e nel 2006 con mansioni specifiche di addette alla sicurezza. Importanti documenti audiovisivi e filmici illustrano questa nuova fase securitaria di speciale importanza per la presenza delle donne nel sottosuolo. Tuttavia, nuovi studi devono essere intrapresi. Andiamo ora a Ribolla, cercando contatti e differenze con le esperienze dei minatori carboniesi, esperienze tragiche e non solo.

3 Ribolla

Il 4 maggio 1954 morirono nel sottosuolo di Ribolla 43 minatori, mentre estraevano carbone. L’esperienza mineraria di Ribolla è stata pensata fin qui con profondo impegno scientifico e democratico. Ciò emerge chiaramente da importanti contributi editi. Il libro di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola I minatori della Maremma, uscito nel 1956 e ristampato nel 2019, illustra bene la forza e la debolezza dei minatori e delle loro organizzazioni nell’impari conflitto per far riconoscere le responsabilità della Montecatini sul piano giuridico in merito alla morte collettiva in miniera. Alla fine del libro compaiono 17 interviste giornalistiche a protagonisti dei fatti di Ribolla. Le interviste sono assai sintetiche in ragione della scarsa loquacità dei minatori. In realtà il metodo dell’intervista giornalistica, in generale, non è quello dell’incontro e del dialogo antropologico in profondità. Tuttavia, un minatore parla della sua partecipazione allo sciopero contro il Bedaux, ragion per cui fu licenziato. Tre minatori risultano provenienti dalla Sardegna. Due, invece, avevano lavorato in miniere sarde ed erano poi tornati a Ribolla. Appaiono notizie importanti sia sul Bedaux e sia su una certa mobilità dei minatori nelle miniere italiane. I minatori sono presenti nel libro collettaneo intitolato Ribolla una miniera, una comunità nel XX secolo. La storia e la tragedia. In quell’opera, pubblicata nel 2005, era esplicitata anche l’esigenza di continuare ad approfondire alcuni problemi, essenzialmente di ordine storico che non richiamo per brevità.

Cercherò di riprendere ancora in mano il tema, caro Giovanni Contini, ch’egli designa come la professionalità dei minatori. Attraverserò il versante del lavoro a cottimo a Ribolla e la sua rilevanza nelle esperienze dei minatori, attraversando i loro scioperi e vedendolo con la lente dell’antropologia della vita quotidiana che poteva alimentare certe configurazioni individuali e sociali, anche identitarie. Per esempio, poteva alimentare il formarsi di figure di minatori maggiormente produttivi e capaci di più alti guadagni, insieme ad altre figure di lavoratori che controllavano maggiormente i rischi e operavano creando sicurezze per sé e per gli altri, mentre maturavano una coscienza critica che alimentava anche gli scioperi.

Consideriamo nel dopoguerra, precisamente nel 1951 e cioè pochi anni prima della tragedia, un momento cruciale a Ribolla fu costituito proprio dalla lotta al cottimo individuale, introdotto dalla Montecatini. A questo i minatori locali contrapponevano il mitigato e unitario cottimo collettivo con un corollario di proprie concezioni democratiche sul valore del lavoro che attraversava l’Europa. In qual contesto, l’elaborazione di una piattaforma rivendicativa su salario e tempi di lavoro, com’è stato notato da Adolfo Pepe (in I. Tognarini – M. Fiorani, Ribolla una miniera, una comunità nel XX secolo. La storia e la tragedia, Firenze, Edizioni Polistampa, 2005:20), fu una rivoluzione antropologica per una redistribuzione democratica dei poteri, prima che l’espressione di una forza contrattuale sindacale. La redistribuzione democratica dei poteri, specialmente dei poteri di vita, fu la cruciale posta in gioco nelle lotte per i cottimi, sia a Carbonia e sia a Ribolla, perché praticare ritmi di lavoro intensificati poteva distrarre i minatori dall’attenzione ai pericoli e ai rischi.

Forse non è stata adeguatamente messa in luce finora la portata dei poteri che a mio avviso riguardavano sia la forza culturale propria della professionalità securitaria di vita condivisa, sia i poteri di vita in campo (e a rischio) in miniera con i cottimi, come biopoteri. Credo che gli studi di Giovanni Contini, assunti in un’ottica prettamente antropologica, aprano un’utile pista di ricerca in questa direzione di grande portata storico-culturale. Illuminando meglio anche le vicende della tragedia di Ribolla come fatti di interesse globale nella piega dei cottimi, possiamo collegarli al tylorismo e al fordismo, visto attraverso le lenti sia di Antonio Gramsci e sia di Michel Foucault: la bestializzazione umana come de-professionalità connessa ai rischi di vita in miniera. Nel doppio attacco della politica aziendale alla professionalità e insieme alla vita è necessario saper vedere, a mio avviso, la portata dello scontro democratico di quegli anni di crisi, subito dopo che il carbone era servito alla ricostruzione post bellica. Spostiamo un attimo lo sguardo sul carbone. Se il carbone come risorsa energetica poteva apparire in quegli anni già insidiato dal petrolio, rimane da chiedersi perché il carbone è rimasto in tale stato di risorsa come mero combustibile e perché non è stato possibile sviluppare progetti alternativi per gli usi chimici del carbone, mentre il monopolio chimico della Montecatini dettava legge sulle scelte economiche nazionali.

Carbonia e Ribolla con i loro morti hanno distanze temporali e geografiche, ma anche qualche prossimità di esperienze democratiche, almeno per le lotte contro i cottimi che andrebbero forse ancora indagate nelle forme di resistenza, di contrasto, di elaborazioni alternative, secondo i periodi, compreso quello di Consigli di Gestione. Spero che rimanga qualche ulteriore scavo da fare nella direzione delle esperienze di conflitto quotidiano, contrastive e alternative ai cottimi che erano materializzate nel sottosuolo dai minatori.

Procedo in fretta, riprendendo le note sulla professionalità che Giovanni Contini colloca in modo obliquo nel lavoro estrattivo delle cave di Marmo mettendo in luce la sapienza empirica dei capi-cava. Sullo stesso piano empirico si situava la capacità sperimentale, un tempo attribuita solo ai dirigenti mentre nelle gerarchie costitutive dell’organizzazione, detta presuntuosamente scientifica, del lavoro minerario si riduceva l’esperienza operaia alla sola dimensione fisico-manuale. Contini, per sottolineare la professionalità operaia cita Raul Rossetti e il suo Schiena di vetro, pubblicato nel 1989. Usa le citazioni per introdurre la visibilità di uno stile personale di “lavoro ben fatto” che poteva essere acquisito osservando gli altri mentre lavoravano e sperimentando in proprio, come traguardo intellettuale, non solo nelle armature. Ho ricevuto, particolarmente a Carbonia, racconti importanti. Riguardavano, oltre che l’importanza delle armature prodotte e degli stessi disgaggi di rimozione dei pericoli, specialmente le progettazioni delle volate che tenevano conto della variabilità della roccia. Sui saper fare dei minatori che erano realizzazioni di alta professionalità, e anche di alto saper vivere condiviso, ho ricevuto importanti racconti di lavoro e di vita nelle miniere carbonifere.

Contini parla di un’autonomia lavorativa raggiunta dal minatore e ad esso riconosciuta. Io ho raccolto testimonianze di relazioni assai conflittuali per giungere a tali riconoscimenti di autonomia da parte dell’Azienda contro la bestializzazione dei cottimi. Il “bravo minatore” di Carbonia, riconosciuto dai compagni di lavoro anche come maestro, era capace di produrre accuratamente vita per sé e per gli altri. Era quindi capace di produrre spazio e futuro condiviso. Sulla produzione di tempo di vita condivisa come produzione di futuro condiviso bisogna meditare ancora e assai profondamente, perché a mio avviso tale esperienza mineraria costituisce un lascito culturale di viva attualità nei vari rischi vitali del presente. Egli sottolinea giustamente la conoscenza complessiva della miniera da parte dei minatori, conoscenza che permetteva di cogliere gli indizi di pericolo. Tuttavia, egli tiene opportunamente in conto anche l’imprevedibilità dell’ambiente minerario. Per questo aspetto ho appreso dai minatori incontrati che le variabilità della roccia non consentono saperi algoritmizzati, ma un continuo problem solving inventivo, una capacità creativa di trasformare, di volta in volta, i problemi che la roccia impone nei rischi, facendoli diventare opportunità di cambiamento positivo di vita e di futuro condiviso.
Alla luce di un nuovo e doppio sguardo storico e antropologico, multisituato nelle miniere carbonifere di Ribolla e Carbonia, cosa unisce i due centri minerari, oltre le morti collettive e individuali?

Pensieri ravvicinati fra Carbonia e Ribolla

A mio avviso, dobbiamo saper guardare alla carne viva delle loro lotte contro i cottimi come lotte non solo salariali e professionali, ma specialmente per i diritti alla vita e per la produzione di futuro e di spazio democraticamente condiviso. In questa attuale luce Ribolla offre il profilo collettivo degli scioperi, mentre Carbonia porge anche il lato singolare del farsi autonomi in quotidiani conflitti di ogni “bravo minatore”, di un minatore nel farsi soggetto di eccellente professionalità per dare sicurezze di vita a sé stesso e agli altri. Oltre gli scioperi e gli eccidi collettivi come fatti collettivi ed eccezionali, mi pare necessario guardare pertanto in modo complementare anche alle esperienze singolari con le lenti di un’antropologia mineraria della vita lavorativa quotidiana. Insisto nell’incoraggiare gli studi sui mondi minerari quotidiani perché riscontriamo che, nel corso dei 50 anni di studi che hanno alimentato l’antropologia mineraria, si può registrare un ampliamento di ricerche dal lavoro all’impresa mineraria con direttori ed esperti. Tuttavia, l’indagine sulle esperienze della vita quotidiane è ancora considerata imprescindibile per non pochi antropologi e antropologhe.

Il lascito culturale di un’antropologia quotidiana della vita lavorativa mineraria nei rischi e sui rischi, che riguarda i saper fare professionali minerari sicuritari, può essere fatta valere sia come riserva culturale storicamente specifica, sia come paradigma opportunamente declinabile e trasferibile, di autentico saper vivere in condizioni di rischio di vita, non solo subito ma anche governato e governabile perfino in condizioni di estrema sottomissione. Si tratta di produzioni di sicurezze vitali democratiche che toccano il nostro presente.

Questo è il lascito che l’antropologia mineraria o delle risorse estrattive dona all’’antropologia generale, alla storia sociale come alla storia culturale, non solo locale, della nostra contemporaneità. Tale lascito culturale del saper produrre tempi e spazi di vita democraticamente condivisi, apre le miniere chiuse ad una nuova temporalità culturale e antropologica. Si tratta di un lascito non tanto di memoria, ma soprattutto di progetto: come incitamento per elaborare, individualmente e in gruppi, inedite soluzioni per innovativi modi di lavoro e di vita sicuri, di fronte a vecchi e a nuovi problemi ostacolanti le vite, naturali e umane, cioè per produrre, a partire dalle miniere chiuse, innovativi progetti di vite e futuri democraticamente condivisi.

Nell’auspicio che i nostri pensieri che avvicinano Carbonia e Ribolla facciano crescere speciali qualità di iniziative che ravvicinano ancor più e ancor meglio sia associazioni culturali e sia istituzioni locali democratiche vi porgo un affettuosissimo abbraccio.

Cagliari 17 maggio 2024

Paola Atzeni

Crediamo che curare sia un atto finalizzato a far cessare una malattia, ma questo è solo un aspetto tecnico. Il significato vitale è più ampio. La cura in realtà è un “prendersi cura”, cioè un interessarsi al benessere di se stessi, della comunità e dell’ambito in cui si vive. Questo è quanto si comprende leggendo l’opera antropologica di Paola Atzeni “Corpi gesti stili”. Per corpi intende i corpi fisici che si prendono cura del sé. Per gesti e stili intende le attività svolte da quei corpi che vivono, desiderano, programmano, valutano e poi si prendono cura di tutto quanto li circonda. L’opera è una ricerca del significato ontologico della “cura”; significato che può essere sintetizzato nell’affermazione: curo, quindi sono. è un’affermazione simile al “dubito e quindi sono” di Sant’Agostino, o al “penso e quindi sono” di Cartesio.

Corpi gesti stili” è una ricerca scientifica del 1986 ed esamina un mondo “ marginale” vissuto da quattro donne delle periferie rurali del Sulcis. Non parla mai del mondo industriale, parallelo e “privilegiato”, che le ha escluse, però ne fa sentire la presenza incombente.

Nel mondo privilegiato esiste una società ricca, organizzata e altera che, chiusa in un ambito impenetrabile e respingente, ha sottomesso, abbandonato e poi espulso da sé quelle donne del mondo rurale. Il mondo rurale, a sua volta esiste inferiorizzato, senza protezioni fuori dai confini del mondo tecnologico che, al contrario, è racchiuso in un guscio di sicurezze.

I casi delle donne studiate riguardano una prima donna che sa macinare il grano con un’antica macina mossa da un asino; sa cernere la crusca dalla semola e dalla farina fine, e ne fa scambio con i prodotti di altre donne assicurando una riserva alimentare alla comunità. La seconda donna sa impastare e panificare in un forno a legna e rifornisce settimanalmente la piccola comunità; la terza donna sa potare le palme nane per farne scope per l’igiene delle abitazioni, e le vende e scambia in un vasto territorio. Il quarto gruppo di donne si occupa della raccolta dello olive per la fornitura di olio alla comunità.

L’organizzazione sociale in queste comunità di donne è basata su criteri di rispetto, di tutela del prossimo e di democrazia da fare invidia ai filosofi greci del quinto secolo avanti Cristo ad Atene.

Seguendo l’iter dello studio osservazionale, protratto per circa 40 anni, si scopre che le donne del mondo rurale, nel tempo, hanno maturato un duraturo sistema di sopravvivenza superiore a quello del mondo industrializzato, creando un’organizzazione sociale tale da metterle autonomamente al sicuro dai rischi di vita per penuria alimentare, sanitaria e di difesa dalle violenze. I casi studiati dimostrano come quelle donne si siano messe al sicuro prendendosi cura ognuna di sé, della propria famiglia, e delle altre donne della comunità, attraverso l’esercizio della solidarietà.

Questo ambiente antropologico è collocato storicamente negli anni ‘80 del 1900 e, come si vedrà, ha avuto la capacità di saper sopravvivere integro dalla sua origine fino ad oggi.

Gli anni d’inizio dello studio erano quelli in cui nel Sulcis era già avvenuta la transizione dall’economia agricola a quella industriale. I maschi negli anni ‘60-’70 erano stati selezionati per il passaggio dal mondo rurale all’industria mentre le donne degli abitati rurali erano state progressivamente marginalizzate dalla società tecnologica che si stava instaurando, ed erano state costrette a sopravvivere riprendendo metodi produttivi ancestrali basati sulla cura della terra.

Mentre nel mondo “privilegiato” si creava una gerarchia comunitaria basata sullo scambio di danaro e in fabbrica si instaurava una gerarchia del lavoro basata sulla logica della ingegneria sociale, nel mondo “marginalizzato” rurale si creava una convivenza basata sullo scambio di valori. Si trattava di valori non monetizzabili come la capacità e l’abilità nel produrre sicurezza alimentare per sé e per gli altri, lo scambio democratico di privilegi basato sull’alternanza nelle posizioni gerarchiche, il riconoscimento del merito e lo scambio di rispetto e di cura, generatori di felicità. Si erano instaurati due mondi, uno privilegiato e l’altro marginalizzato, con due sistemi etici divaricanti fra essi.

Il contenuto del libro è ben rappresentato nella figura di copertina. Si tratta di un affresco in cui donne, disposte in riga, hanno il busto piegato in avanti e flesso sulle gambe diritte, nell’atteggiamento di chi sta svolgendo un lavoro in basso.

E’ un’immagine ancestrale, già vista molte volte. Rappresenta le raccoglitrici di olive in Sardegna, ma può rappresentare anche le mondine delle risaie, le raccoglitrici del cotone e del tabacco, le cernitrici delle miniere, le raccoglitrici di arselle in laguna, le vendemmiatrici, le potatrici di palme nane per ottenerne scope. Sono tutte immagini di donne al lavoro per portare nutrimento alla famiglia. Quell’affresco ricorda anche la postura delle donne degli asili infantili che assistono i bambini, le donne in divisa da infermiera inchinate sugli ammalati negli ospedali, le assistenti delle RSA chine sui pazienti non autosufficienti. Sono immagini di cura di corpi umani.

Questa immagine di donne chine al lavoro nella cura della terra e degli altri è probabilmente l’immagine più antica della storia dell’Uomo. Nel Mesolitico, al tempo in cui i cacciatori-raccoglitori migravano dal continente africano a quello asiatico ed europeo, ad un certo punto, mentre gli uomini si allontanavano per la caccia, le donne si fermarono per dedicarsi alla cura dei figli e alla produzione di alimenti coltivando cereali e allevando animali addomesticati. Furono le prime immagini di donne chine verso terra per raccogliere o coltivare qualcosa che assicurasse la famiglia dal pericolo di morte per penuria di alimenti. Lì nacquero i primi aggregati di abitazioni rurali e lì si formarono i primi villaggi. Lo fecero per prendersi cura di quei corpi che i loro corpi avevano generato, e lo fecero con gesti e stili che hanno attraversato il tempo fino a noi. Gesti e stili sempre uguali: chine, flesse ad accudire la famiglia e la comunità delle altre donne in un interscambio di cure.

Nella stesura del libro l’autrice non nomina mai la città tecnologica e l’enorme sviluppo industriale del Sulcis di 40 anni fa, tuttavia si percepisce che, col passare dei decenni, in quel mondo sono sopravvenute le crisi: quelle crisi che avvengono «quando il vecchio è morto e il nuovo non riesce a nascere».

Dopo la crisi dell’economia agricola del Sulcis, conseguente al richiamo degli uomini dalla terra all’industria, si passò in pochi anni ad una nuova crisi delle attività produttive; stavolta toccò agli operai delle industrie.

Le industrie vennero delocalizzate in altre aree dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa e il Sulcis de-ruralizzato si trovò in breve tempo anche de-industrializzato. Quell’ambito sociale, che era stato privilegiato dallo sviluppo industriale, venne a sua volta “marginalizzato”. Ripresero le emigrazioni degli operai e dei tecnici più giovani. Rimasero i vecchi e i pensionati.

Gli effetti si fecero sentire anche sul Sistema Sanitario Ospedaliero.

Negli anni ‘90 la spesa sanitaria degli Ospedali venne dichiarata insostenibile. Allora ci vennero inviati economisti di stampo bocconiano che ci insegnarono i metodi per ottenere “efficienza ed efficacia” facendoci credere che si potessero ottenere gli stessi risultati di cura riducendo, però, il personale e il finanziamento della sanità.

A causa della riduzione del personale e del mancato aggiornamento degli strumenti, avvenne il calo delle operazioni chirurgiche e dei ricoveri in medicina interna. Comparve per la prima volta la parola “doppioni”, usata per indicare i reparti ospedalieri simili fra Carbonia e Iglesias. Con la motivazione degli “inutili doppioni” si procedette alla soppressione di alcuni reparti a Carbonia e alla chiusura di interi ospedali ad Iglesias; per di più non si tenne conto che nella curva demografica stava avvenendo uno scompenso provocato dalla forte crescita delle età avanzate e, nonostante il forte aumento di tumori e di malattie vascolari, si chiusero posti letto di chirurgia e di Medicina. Fu un’euforia autodistruttiva e gli Ospedali, che sono il fulcro del sistema di cura, entrarono in crisi.

Circa quattro decenni dopo, con l’indagine antropologica di “Corpi gesti stili” siamo ad un’ulteriore svolta storica: siamo definitivamente entrati nella de-globalizzazione degli scambi commerciali e nella globalizzazione della minaccia nucleare. Questo nuovo stato di cose ci trova impreparati e non abbiamo idea di come evolverà la condizione dell’economia in questo angolo di Sardegna.

La citata opera antropologica, che fu portata a termine nel 2019, ci offre, nella terza parte del libro, riflessioni che oggi possono rappresentare un indirizzo per affrontare l’ incerto futuro economico che incombe. A tal fine, l’autrice chiama in causa tre donne scienziate, esperte di organizzazione sociale in condizioni critiche, femministe, filosofe e antropologhe: Carol Gilligan, Judith Butler e Maria Puig de la Bellacasa.

Confrontando le sue ricerche con quelle delle tre scienziate giunge alle stesse conclusioni suggerendo il recupero dei valori del mondo rurale basati sulla “cura della famiglia, del prossimo e dell’ambiente”.

Le quattro scienziate concludono in sintonia che si deve ricostruire una società umana e politica basata sulla “cura vicendevole”, la “buona cura” e la “cura orientata”, cioè deve trattarsi di un rapporto di cura interscambiabile ed esteso all’Ambiente. La Gilligan suggerisce la costituzione di un sistema di cura autoprodotto, autosufficiente e indipendente. Sostiene che l’autonomia della cura è fondamentale per assicurarsi la libertà e la sicurezza; inoltre introduce un principio innovativo con cui avverte che si deve avere la certezza che nessuno possa utilizzare il bisogno di “cura” al fine di instaurare un rapporto di dipendenza a danno di chi usufruisce di quella “cura”. Per non cadere nella soggezione di nessuno essa afferma che le comunità devono esercitare un serrato controllo sull’apparato che elargisce la “cura” e afferma: «Non mettetevi nelle condizioni di dover accettare delle cure che non siano sotto il vostro controllo, pena la dipendenza, la carenza di cure, la mancanza totale di cure o anche l’abbandono».

Sembra una premonizione di quello che sta avvenendo oggi a danno dell’apparato sanitario del Sulcis Iglesiente che a causa della dipendenza da altri è entrato in sofferenza.

Questa lezione dovrebbe costituire la base antropologico-filosofica da cui non possono prescindere i nostri sindaci, nel momento in cui si confrontano con i poteri regionali, perché i poteri sovraordinati sono difficilmente controllabili e, soprattutto, potrebbero essere “interessati ad accrescere se stessi” come afferma Judith Butler citando Nietzsche.

Dopo quasi 40 anni dall’inizio dello studio, e dopo i rivolgimenti politico-economici del pianeta, la nostra studiosa ha verificato che la società tecnocratica, a sua volta emarginata dalla globalizzazione e dalla fine delle industrie, per la propria sussistenza ha nuovamente necessità della terra per l’agricoltura, per l’allevamento, per fini di autoconsumo, e anche per fini turistici.

L’autrice, seguendo le osservazioni della filosofa-antropologa Maria Puig de la Bellacasa, che sostiene la “Permacultura” (equilibrio permanente fra Uomo e Ambiente) invita a porre attenzione sulla “Biopolitica”, e sui “Biopoteri” (quei poteri che condizioneranno la vita sulla Terra oggi che il pianeta, con suoi quasi 9 miliardi di abitanti, ha un forte bisogno di terra utile).

Per sopravvivere in questo contesto umano e planetario ella suggerisce una politica di sviluppo culturale ed economico indirizzato verso la cura di quei luoghi che prima chiamavamo “abitati rurali sparsi” che nello studio sono gestiti da donne. Essi oggi potrebbero essere una via necessaria per la futura “cura” di noi stessi e per sfuggire alla penuria di alimenti e di sicurezza che dovremmo attenderci.

Mario Marroccu

Sarà che ho appena sentito di un paziente, operato al cervello, che ha perso la PEG (il tubino per nutrirsi) e gli è stato negata l’assistenza immediata in una struttura ospedaliera. Sarà che tutti abbiamo appena sentito che sono stata chiuse le Rianimazioni del Sirai e del CTO. Sarà che con questa storia del disegno di legge sull’“autonomia differenziata” si ha la sensazione che alcune ricche regioni vogliano rompere i ponti di condivisione della Sanità pubblica e dell’Istruzione con le altre regioni meno forti. Saranno solo suggestioni ma la sensazione che intorno ai nostri Ospedali sia stia facendo terra bruciata è forte.
Tutto iniziò nel 1992 quando il ministro Francesco De Lorenzo fece approvare una legge che avrebbe trasformato gli Ospedali da Aziende sanitarie pubbliche in Aziende sanitarie di Diritto privato. Quella legge allontanò i Sindaci dalla gestione diretta della Sanità dei loro territori per darla in gestione ad apparati di tipo privatistico, con tanto di Manager, finalizzati al freddo controllo del bilancio. Non si tenne conto che la sola cura del Bilancio, confliggeva con il fatto che l’oggetto amministrato non era fatto di soli numeri ma, sopratutto, di “valori umani” contenuti dentro esseri umani.
Questa trasformazione in pura macchina burocratica dello stabilimento ospedale si aggravò ulteriormente rispetto al peggioramento che aveva sofferto tra il 1992 ed il 2020, con l’avvento del Covid, e fece definitivamente terra bruciata tra l’utenza umana bisognosa di cure ed il Sistema sanitario.
Abbiamo visto la disumanizzazione rappresentata dalle file di persone respinte fuori dagli ospedali durante la pandemia. Certamente era necessario frapporre distanziamenti tra utenti ed apparato sanitario per motivi di igiene, ma non abbiamo visto l’umanizzazione del rigore, anzi abbiamo visto l’assenza di un reale isolamento dal contagio, di sbarramenti al virus, e la messa in pericolo degli altri malati inermi e del personale d’assistenza. Secondo certi calcoli pare che il numero di morti/anno in più per malattie non-Covid, come tumori ed infarti, sia stato pari alle morti da Covid. Eppure la valutazione contabile del Sistema sanitario, basato su una complessa macchina fatta di leggi, regolamenti, norme, piani nazionali e regionali ed un’immensa, complessa burocrazia amministrativa, ha dimostrato con formule matematiche che i risultati sono stati soddisfacenti. E’ necessario precisare che la soddisfazione si divide in due varianti; esiste la soddisfazione dell’apparato contabile e quella ben diversa dei cittadini. Mentre la prima è basata su “numeri”, la seconda è basata sulla percezione del rispetto di “valori”.
Questa differenza, insistentemente ignorata, è all’origine dei fallimenti delle numerose riforme nazionali e regionali della Sanità. Oggi sta per giungere una nuova riforma: quella della digitalizzazione della Sanità. Va molto bene ma ha un difetto: non è stato previsto, nel PNRR missione 6, un capitolo per l’assunzione di personale Medico, Infermieristico e Tecnico degli ospedali. Cioè sono state previste macchine e strutture ma non è stata prevista la ricostituzione della componente umana della Sanità che deve utilizzare quelle macchine e quelle strutture.
La Sanità è un grande contenitore formato dalla tecnostruttura degli ospedali e dall’apparato burocratico che, sebbene fatto di persone, risponde a rigide esigenze di leggi e strumenti digitali. Tale contenitore, tuttavia, dovrà contenere persone con il loro carico di valori. I valori non sono misurabili né monetizzabili. Sono un’entità prodotta dal cervello umano: si tratta di ragionamenti, sentimenti, istinti, che vengono integrati insieme per produrre “giudizi” e i giudizi regolano la vita dell’Uomo, il quale agisce di conseguenza, allo scopo di raggiungere la “felicità”. Il sistema digitale tecnocratico non può capire il sistema delle astrazioni valoriali umane come: la paura, la fiducia, l’ansia, la solidarietà, la compassione, il desiderio, la giustizia, l’equità, il rispetto, l’uguaglianza e la democrazia; quest’ultima è la somma dei valori e rappresenta il riconoscimento condiviso dei valori che una comunità deve rispettare. In questo momento, non ci sono intermediari fra il “sistema dei valori” e l’apparato tecnoburocratico che governa la Sanità. Ecco perché i sindaci, che sono l’entità da tutti riconosciuta come intermediaria fra noi e la macchina amministrativa dello Stato, sono oggi gli unici referenti delle comunità destinati a mantenere i valori umani indenni da ogni forma di offesa. L’offesa nel nostro caso consiste nel non rispondere con empatia al sofferente che si rivolge con animo empatico alla struttura sanitaria chiedendo d’essere preso in cura. Se ai valori non si risponde con altri valori nascono la frustrazione ed il conflitto.
Dagli anni ‘90, con la fine della legge 833/78, esiste l’errore di considerare l’ospedale come un’officina che ripara malati. Ma c’è differenza. Le macchine guaste possono essere sistemate in attesa nel parcheggio al di fuori dell’officina, in una lista d’attesa senz’anima, ma ciò non vale per l’uomo. Il malato non ha bisogno solo d’essere curato; ha bisogno che altri esseri umani se ne “prendano cura”. La materia di cui è costituito il “prendersi cura dell’altro” è formata dal “tempo di dedizione”, dall’“empatia” e dalla “comunicazione”. Proprio questo è il punto: la macchina amministrativa di diritto privato e la macchina tecnologica supportata dall’intelligenza artificiale, ma con deficit di umanità, obbedisce ad algoritmi regolati dalla matematica e non entra in “comunicazione” con il sistema dei valori umani. Stiamo vedendo come siano ignorati.
L’incontro tra chi “si prende cura” e colui che viene “preso in cura” è un fenomeno estremamente complesso ed ha lo scopo di generare “soddisfazione”. La soddisfazione verrà a sua volta elaborata dai centri cerebrali della “ricompensa”, attraverso molecole chimiche dedicate. Questo sistema complesso della “ricompensa” è stato elaborato in milioni di anni, attraverso mutazioni genetiche molecolari, tutt’oggi in corso, che sono capaci di cambiarci ad ogni secondo che passa.
E’ un argomento estremamente difficile che riguarda il quesito del perché esistiamo e come comunichiamo, e che oggi è oggetto di studio delle Neuroscienze. Un quesito che 2.500 anni fa indusse i primi filosofi ad identificare l’esistenza di tre fattori della natura umana che non possono esistere in nessuna macchina, cioè: il Pathos, il Logos, l’Ethos (il sentimento, la conoscenza, e l’etica). Su questi elementi il primo medico, Ippocrate, formulò il suo giuramento.
Dopo filosofi e medici dei primi secoli intervenne il Cristianesimo, che assimilò i corpi dei malati al corpo martoriato di Cristo e sul concetto di “compassione” dette inizio alla fondazione degli ospedali in tutto il mondo occidentale. Millecinquecento anni dopo, gli scienziati Galileo, Cartesio e Leibniz posero le basi del calcolo matematico infinitesimale e furono i progenitori dell’odierna tecnologia digitale.
Uno di questi, Cartesio, oltre al calcolo matematico condusse studi sul significato ontologico del “prendersi cura di se stessi e dell’altro” sviluppando concetti messi a punto da Sant’Agostino. Nei secoli successivi, fino ad oggi, i filosofi-antropologi hanno elaborato il concetto che l’“essere” ed il “prendersi cura” sono fra loro indissolubili, e l’esistenza dell’“essere” è sintetizzato nella formula: «Io esisto perché mi prendo cura». Questo è l’essenza del significato dell’esistere degli ospedali pubblici e della stessa comunità umana.

E’ stato recentemente pubblicato un libro su questo tema straordinario scritto dalla scienziata antropologa Paola Atzeni. Il problema è talmente complesso che si comprende come non possa essere risolto da banali tecnici dell’ingegneria sociale. Platone, che fu il primo a scriverlo su “La Repubblica”, concluse che il governo delle cose umane dovesse essere affidato ai filosofi (escludendo i burocrati).
Questa digressione serve a dimostrare ciò che stiamo vedendo, e cioè che l’uomo malato non è amministrabile con la sola contabilità burocratica potenziata dall’apporto della migliore tecnologia dell’intelligenza artificiale, necessita dell’intervento della parte umana del sistema politico sanitario, con tutti i suoi valori.
E’ necessario prenderne coscienza e tornare allo spirito della legge di riforma sanitaria 833/78 che conteneva tre principi ampiamente inapplicati: Universalità, Uguaglianza, Equità. Tutti valori umani non trasferibili alla tecnocrazia.
Bisogna farlo prima che si faccia terra bruciata intorno agli ospedali di Carbonia e di Iglesias. Soprattutto, bisogna farlo prima che un’inopportuna legge in gestazione sull’“autonomia differenziata” tagli i ponti fra noi e la Nazione.
Bisogna che la Politica, stimolata dall’opinione pubblica, e tramite i sindaci capaci, riprenda in mano la gestione della Sanità ed impedisca che il mercato della salute senza Stato prenda il sopravvento.

Mario Marroccu

E’ stato presentato ieri pomeriggio, nella sala consiliare del comune di Carbonia, il libro “Corpi Gesti Stili – Saper fare e saper vivere di donne eccellenti nella Sardegna rurale” di Paola Atzeni, Ilisso Edizioni. Sono intervenuti l’antropologo Felice Tiragallo, Antonello Cabras ex presidente della Fondazione di Sardegna, Pietro Morittu sindaco di Carbonia, Antonietta Melas assessora della Pubblica istruzione, il medico chirurgo Mario Marroccu, l’imprenditrice Elisabetta Fois e apicoltrice Rosi Pilloni. Cristina e Susanna Maccioni hanno letto alcune riflessioni dell’autrice. 

Ha coordinato il dibattito Paolo Serra, direttore del Centro Servizi Culturali Carbonia della Società Umanitaria.

Al termine abbiamo intervistato Paola Atzeni.

 

Il titolo del libro “L’Europa al bivio” riguarda una pubblicazione, curata da Salvatore Cherchi e Gian Giacomo Ortu, che raccoglie gli scritti dello stesso Ortu, di Christian Rossi, Benedetto Barranu e Omar Chessa, introdotti da Cherchi. Complessivamente, offre ben più che un pamphlet informativo e di un insieme di stimoli importanti per una discussione. Per quanto preceda la guerra in corso che obbliga a ripensamenti non da poco e non solo sul piano politico-istituzionale, storico-giuridico ed economico-finanziario. Impegna, soprattutto, verso nuovi percorsi di pace nelle relazioni non solo fra gli Stati, ma anche dentro ogni Stato. A mio avviso questo testo rappresenta uno sviluppo rispetto al manifesto di Ghilarza che determinò il raggruppamento Sinistra Autonomia Federalismo (SAF). Pertanto, offre una più ampia base di riferimento, per successivi e auspicabili aggiornamenti. Anche nell’immediato questa pubblicazione stimola profonde riflessioni che riguardano ogni gruppo progressista nello schieramento di sinistre sarde, italiane ed europee, per andare oltre l’Europa al bivio, compreso il bivio della guerra nucleare, in un impegno di pace e di giustizia sociale fra gli Stati e negli Stati.

Ho imparato molto da tutti i saggi e anche dalla pregevole introduzione di Tore Cherchi. Ringrazio tutti. In particolare, noto che Tore Cherchi, rispetto al passato, presenta innovative convinzioni e nuove determinatezze con una propria e straordinaria forza culturale e politica che, purtroppo, non emerge nella palude precongressuale del Pd in Sardegna. È utile leggerlo con particolare attenzione politica, per cogliere i suoi nuovi orientamenti. Forse, bisogna pensare a quali associazioni possono promuovere qualche dibattito precongressuale, per conoscere meglio le attuali posizioni in campo nel Pd sardo.

Dico subito che ho attraversato questo testo, come antropologa, con la mia “cassetta degli attrezzi” che verifica vecchie e nuove disumanizzazioni e vecchi e nuovi assoggettamenti, insieme a certe capacità di farsi soggetti autonomi a vari livelli, più o meno istituzionalizzati: individuali e collettivi, di classe e di genere, socio-etnici e della specie umana. Leggendo questo libro ho tenuto conto, in particolare, di una certa antropologia economica e di un suo percorso. Per dirla in breve su questo settore, nel quadro del sistema-mondo, l’antropologia economica alla quale mi sono riferita è diventata antropologia della globalizzazione finanziaria, analizzando processi ed effetti del neoliberismo con innovativi approcci. Appadurai per esempio, con il suo percorso biografico e di ricerca, illustra anche un recente tragitto di questo settore. Egli studiava nel 2011 le aspirazioni democratiche che producono futuro e che richiedono riconoscimenti (Le aspirazioni nutrono la democrazia). Nel 2016, giungeva ad approfondire il filone di studi antropologici che riguarda i fallimenti tecnici, finanziari e di mercato (Scommettere sulle parole. Il cedimento del linguaggio nell’epoca della finanza derivata). Nel 2020 egli passava allo studio dei fallimenti del “finanziarismo” (Fallimento). In questo percorso considerava anche angosce e tossicità che accompagnavano la gig economy, compresi gli investimenti sul rischio e la frammentazione dei soggetti che subivano le crisi.

Di lavori precari e di dequalificazione delle persone e di certi lavori si è occupato, inoltre, David Graebner (Bullshit Jobs, A Theory 2018), antropologo americano alla London School of Economics, morto in Italia ai tempi iniziali del coronavirus. Incoraggio fortemente a osservare la più attuale e innovatrice antropologia, anche nelle riflessioni sul federalismo che vogliamo sostenere.

Vorrei, pertanto, indicare e richiamare ora alcune tematiche che riguardano i processi finanziari e gli impoverimenti dei soggetti umani fino al loro indebolimento, depotenziamento e annichilimento, insieme alle loro esperienze di resistenza e per un cambiamento democratico. Si tratta di temi che Appadurai affronta soprattutto nel suo saggio del 2016. Riguardano esperienze della frammentazione dei soggetti che per certi versi lo avvicinano ad Amartya Sen e ad Antonio Gramsci. Sono questioni presenti nel testo in discussione. Ne parla in un certo modo Giangiacomo Ortu, citando proprio Amartya Sen a proposito di Libertà individuale come impegno sociale. Non a caso si tratta di un’opera particolarmente vicina al Federalismo italiano ed europeo, a partire da Eugenio Colorni e dal Manifesto di Ventotene, in cui il rapporto problematico fra soggettività individuale e collettiva è assai consapevole e ben considerato. Si tratta di un tema di straordinaria importanza che merita di essere approfondito perché, a mio avviso, un nuovo federalismo deve chiamare in causa e implicare la vita di ogni persona, la dimensione soggettiva individuale nella creazione di un soggetto collettivo federale.

Tore Cherchi sostiene che bisogna ritornare a quel pensiero. Condivido tale affermazione, fatte salve, ovviamente, le opportune storicizzazioni su cui dovremmo avviare oggi qualche approfondimento ed effettuare qualche necessaria sottolineatura.

Parto dalle sottolineature. Riprendo due punti, fra i commenti del 1974 di Noberto Bobbio al Manifesto federalista di Ventotene. Uno riguarda la pace e il pacifismo transnazionale. Sono contenuti nella critica, propria del federalismo, alla sovranità assoluta. Questo punto concerne, inoltre, il rapporto fra il federalismo europeo e il federalismo mondiale, in attesa del quale pare a me che non ci si possa limitare alla sola cooperazione europea, per quanto importantissima, come soluzione funzionale e generatrice automatica di pace mondiale (Bobbio 2014:102):

In questo senso il pacifismo europeo non è propriamente una dottrina pacifista, non tanto perché a rigore se è valido il suo sillogismo – la causa delle guerre è la sovranità assoluta, per limitare le guerre bisogna limitare la sovranità – la conseguenza necessaria dovrebbe essere non la federazione europea ma la federazione mondiale (ideale che rimaneva, sì, sullo sfondo, ma non era diventata ancora un programma politico), ma perché la pace non viene considerata in seno al movimento federalista sin dai suoi inizi come il fine ultimo ma come il presupposto, la conditio sine qua non, per la realizzazione di altri fini considerati come preminenti, quali la libertà, la giustizia sociale, lo sviluppo economico e via discorrendo. (sottolineatura mia)

Si tratta di un punto che merita più che una sottolineatura. Per certi aspetti, ci rinvia a Piketty e a certe sue domande che precedono certe sue risposte, utili anche per precisare ora la nostra rotta. Quale federalismo? Per fare che cosa? Si tratta di domande contenute in un suo testo del 2015 che ha per titolo una principale domanda: Si può salvare l’Europa?

Prima di riprendere alcune proposte di Piketty, vale la pena di sottolineare un altro punto importante, indicato da Bobbio. Egli rimarca come il federalismo nasca nel crogiuolo della crisi e della risposta alla crisi con la Resistenza, volta a un nuovo assetto sociale. Egli, affermando il carattere storicamente inventivo della Resistenza e del federalismo, dice così (Bobbio 2014:108).

L’ideale federalistico si pone su questo terzo livello: la resistenza non come restaurazione ma come innovazione. La resistenza che deve chiudere e aprire, distruggere per costruire, essere negazione non in senso formale ma in senso dialettico. Che non deve limitarsi a vincere il presente ma deve inventare il futuro. Il federalismo fu, ed è tuttora una di queste invenzioni storiche. Per questo è legato a quel momento creativo della storia che fu la Resistenza europea. Una delle più alte coscienze della Resistenza italiana, Piero Calamandrei, scrisse: «Tutte le strade che un tempo conducevano a Roma conducono oggi agli Stati Uniti d’Europa». (sottolineatura mia)

Per quanto riguarda la crisi e il rilancio delle istituzioni europee tutti gli autori Rossi, Barranu e Chessa offrono con Tore Cherchi importanti riflessioni critiche e positivamente ponderate, senza autolesionismi. Le condivido con qualche più accentuata preoccupazione, già presente nei loro scritti. Per esempio, Benedetto Barranu mette in luce le importanti attenzioni europee ai parametri finanziari a fronte, tuttavia, della disattenzione verso gli obiettivi di integrazione economica, sociale e civile delle diverse regioni europee. Egli si riferisce a Piketty, ma se ne discosta in certa misura nell’ordine delle proposte. Sull’incremento della pressione fiscale, infatti, mi pare più forte in Piketty l’esplicitazione della progressività fiscale, sia come ordine prioritario e sia come ordine qualitativo, ordine che nello scritto di Benedetto Barranu risulta al quarto posto delle proposte. Mi pare, invece, che questo elemento della progressività fiscale sia considerato cruciale per poter combattere le disuguaglianze partendo dalla distribuzione, sia da Piketty e sia dal suo maestro Antony Atkinson.

Giungo a un punto democraticamente cruciale. Nelle diseguaglianze – come notano questi due autori e come sappiamo – quelle di genere hanno una particolare rilevanza. Tuttavia, particolare attenzione deve essere dedicata anche alle disuguaglianze interne ai generi. Infatti, debbono essere ora considerate con una nuova attenzione, che scientificamente riguarda le “intersezioni”. Detto semplicemente, si tratta di considerare i fili delle condizioni e delle posizioni non solo sociali, ma anche locali, per esempio infrastrutturali e ambientali, specialmente per le donne. Tali intersezioni sono anche individuate come socio-geo-culturali, per esempio considerando le relazioni di genere secondo il colore della pelle e secondo i contesti locali, anche di spopolamento o di abbandono o d’inquinamento. La questione delle disuguaglianze, in particolare di genere ma anche interne al genere, a mio avviso, è un punto dirimente per un nuovo federalismo democratico e partecipativo.

Nelle egemonie vecchie e nuove, considerate dal federalismo che si sta elaborando in Sardegna, pare rimanere in ombra il nesso con le nuove subalternità, generazionali e di genere, determinate dal neoliberismo, imperante anche nelle complessive politiche europee non solo con le politiche di austerità. Negli approcci federalistici finora da noi pubblicati, gli aspetti delle “nuove subalternità” sembrano ancora sottaciuti o impliciti, oscurati o fuori da ogni interesse programmatico di nuovo federalismo. Ovviamente la realtà non è sempre quella che appare e ciò vale anche in questo caso. I ritardi e gli offuscamenti, di cui sono anche io responsabile, sono di varia natura e riguardano anche vari impedimenti personali. Tuttavia, non possiamo restare insufficienti su tali aspetti.

Dobbiamo, evidentemente, fare qualcosa in più e di diverso, per promuovere, specie con studentesse e studenti, nuovi protagonismi di donne e di giovani che siano non conformistici verso chicchessia, ma seriamente rigorosi nei pensieri, nelle iniziative e nelle relazioni. In ogni caso, non possiamo essere soddisfatti di una nostra cornice concettuale generale, fatta in casa, che lascia nella stagnazione e nell’opacità tali aspetti delle nuove subalternità e delle nuove inuguaglianze, specie di genere, diffuse nel mondo ultraliberistico, incontrollato e diventato imperante.

Il federalismo che Sinistra Autonomia Federalismo (SAF) richiede, a mio avviso, proprio nel piano delle nuove subalternità e delle nuove inuguaglianze, una specifica connessione con il pensiero gramsciano sulle subalternità, operante nella cultura politica globale. Vale la pena di affermarlo proprio oggi 27 aprile, in modo non celebrativo a 85 anni dalla sua morte, ma per rivelare la vitalità concettuale e operativa di parti importanti del suo pensiero.

Forse, ma non vorrei mettere troppa carne al fuoco, la nostra riflessione può giovarsi anche di una parte del pensiero berlingueriano. Egli, infatti, guardava all’eurocomunismo e al rapporto fra democrazia e socialismo in un suo orizzonte riformista dell’Europa dei popoli, e della stessa Nato. Posso solo auspicare una riflessione collettiva su tali aspetti di rilettura dell’eurocomunismo berlingueriano. Tuttavia, è necessario ponderare ora su che cosa si può fare di più e meglio in merito alle nuove subalternità e alle nuove inuguaglianze di genere e nei generi, nel nostro progetto di un “democratico federalismo sociale”.

Vorrei tornare ora alle inuguaglianze, perché credo che queste debbano essere declinate non solo a scale limitate in Sardegna, in Italia e in Europa. Penso che le inuguaglianze debbano essere inserite anche in più ampie scale transnazionali, cercando di individuare legami tematici trasversali, dalle politiche di genere a quelle ambientali. A mio avviso, infatti, è necessario far emergere un federalismo sociale, nuovo e avanzato democraticamente, in cui le nuove subalternità e le nuove inuguaglianze siano individuate e connesse fra loro secondo specifiche trasversalità e in cui la pace sia, non presupposta, ma un obiettivo permanente e mai definitivamente compiuto. Penso a un federalismo sociale europeo, gramscianamente aperto al mondo

Nel quadro delle nuove subalternità, credo che tutte e tutti noi dobbiamo dare continuità e sviluppo a un altro versante dell’impegno di Sinistra Autonomia Federalismo, avviato con Laura Pennacchi il 26 novembre 2018, per ripensare la crisi capitalistica, la socializzazione degli investimenti e la lotta agli impoverimenti attraverso la promozione del buon lavoro per tutte e tutti. L’iniziativa del novembre 2018 corrispondeva in parte, sul piano scientifico, al titolo del libro dell’economista keynesiano Hyman Philip Minsky, edito nel 2014, Combattere la povertà. Lavoro non assistenza, in cui Laura Pennacchi pubblicava un saggio introduttivo. In questo testo, come in altri impegni di questa studiosa, si affermava con particolare forza l’importanza dell’autonomia culturale nelle esperienze lavorative in cui i soggetti diventavano autonomamente protagonisti attivi di un cambiamento democratico.

Vorrei, mantenendo il focus sul lavoro, metter l’accento sul fare, sul fare immediatamente possibile che sia Piketty e sia Atkinson rendono evidente per realizzare un’Europa caratterizzata dalla democrazia ugualitaria e dal federalismo sociale. In questa Europa il buon lavoro per tutte e per tutti è un obiettivo fondamentale. Si tratta, infatti, di promuovere un democratico federalismo sociale in cui il lavoro viene garantito a chi lo chiede.

Parto da Atkinson (2015:307-308). Il titolo Sulla disuguaglianza ha come sottotitolo la domanda Che cosa si può fare? La parte finale del testo indica La strada che ci sta davanti. In questa parte egli delinea vari percorsi per andare avanti ed esplicita 15 proposte che è ora impossibile riportare o riassumere. Ne vorrei selezionare alcune, a titolo esemplificativo.

La proposta n. 3 recita: Il governo deve adottare un obiettivo esplicito per prevenire e ridurre la disoccupazione e deve sostenere tale obiettivo offrendo un impiego pubblico garantito a salario minimo a quanti lo cercano.

La proposta 8 dice: Dobbiamo tornare a una struttura di aliquote più progressiva per l’imposta sui redditi delle persone fisiche, con aliquote marginali crescenti per scaglioni di reddito imponibile, fino a un’aliquota massima del 65%, il tutto accompagnato da un ampliamento della base imponibile.

I due punti sono evidentemente connessi, ma vado in fretta e richiamo ancora qualche punto dell’elenco, rinunciando alle esplicitazioni. Per fare progressi democratici egli prevede: al punto 9 uno sconto sui redditi da lavoro; al punto 10 eredità e donazioni con imposta progressiva; al punto 11 l’imposta progressiva sugli immobili, basata sulla valutazione catastale aggiornata; al punto 15 l’assistenza allo sviluppo dei Paesi poveri da parte di quelli ricchi, elevata all’1% del reddito nazionale lordo. Si tratta di questioni all’ordine del giorno anche in Italia.

L’approccio dinamico di Atkinson, teso realisticamente al fare possibile, si riscontra anche nel suo allievo Piketty. Quest’ultimo, con altri studiosi, nel 2017 pubblicò un pamphlet: Democratizzare l’Europa! Per un Trattato di democratizzazione dell’Europa. Egli considerava la fattibilità politica di tale trattato, per la governance economica dell’eurozona. Valutava i possibili cambiamenti dell’assemblea dell’eurozona, anche di fronte a un rifiuto di vari partner. Prospettando un’alleanza fra Francia, Spagna e Italia, forniva una bozza di tale trattato di 22 articoli, che merita indubbiamente un’attenzione particolare, ora impossibile.

Successivamente, nel suo libro edito nel 2020, Capitale e ideologia, Piketty (2020:61) affermava che intendeva «delineare i contorni di un socialismo partecipativo e di un socialfederalismo basato sulle lezioni della storia». Ciò richiedeva, a suo avviso, una ridefinizione radicale dei fondamenti programmatici che sostengono le attuali categorie politiche, intellettuali, ideologiche. Si tratta di affermazioni che hanno per noi un particolare interesse, in questa occasione e in questo clima politico-culturale. Soffermandosi sulle esperienze antidiscriminatorie in India e analizzando l’esperienza delle quote sociali e di genere, egli affermava (Piketty 2020: 414).

Quando un gruppo sociale è vittima di pregiudizi e di stereotipi antichi e consolidati, come le donne un po’ in tutto il mondo o come gruppi specifici nei diversi paesi (per esempio, le caste inferiori in India), di fatto risulta insufficiente organizzare la redistribuzione unicamente in funzione del reddito, del patrimonio o del titolo di studio. In questi casi può essere necessario introdurre sistemi di accesso preferenziale e apposite quote (come le “quote riservate” in ambito indiano) basate sulla pura e semplice appartenenza a specifici gruppi. (sottolineatura mia)

Egli considerava che nel 2016 erano 77 i Paesi che utilizzavano sistemi di quote specifiche per aumentare la rappresentanza femminile nelle assemblee legislative, mentre le democrazie elettorali dei Paesi ricchi registravano la forte diminuzione dei deputati che appartenevano alle classi popolari, in particolare operai e impiegati. Altri problemi di inuguaglianza riguardavano, a suo avviso, gli accesi preferenziali all’istruzione secondaria e universitaria. Idealmente, nella sua concezione il sistema di quote dovrebbe includere e contemplare anche le condizioni del proprio superamento. Comunque, direi che tali problemi di disuguaglianza di genere, in quanto questioni di alto profilo democratico, riguardano anche un nuovo e democratico sociale federalismo della Sardegna, nella disuguaglianza compiuta e nell’uguaglianza incompiuta che caratterizza il XXI secolo. Le inuguaglianze di genere riguardano, fra l’altro, divari salariali occultati in vari modi, ancora persistenti perché le sinistre politiche e sindacali, specialmente in Italia, a mio avviso non le hanno affrontate in modo storicamente adeguato.

Le possibilità di un innovativo e democratico federalismo sociale europeo sono reali e di ampia portata, per Piketty (2020: 1009). Indurre certi Stati alla perdita del privilegio del diritto di veto non sarà facile. Tuttavia, secondo questo studioso, si può insistere sulla regola della maggioranza qualificata per le deliberazioni sui temi fiscali e di bilancio.

Nel raccordo fra sovranità parlamentare europea e sovranità parlamentari nazionali, egli sostiene, bisogna pensare a un vero e proprio trattato per democratizzare l’Europa con un asse costituito da 4 importanti imposte comunitarie: 1 una tassa sugli utili delle società, una sugli alti redditi, una sui patrimoni elevati, una sulle emissioni di CO2. I proventi potrebbero essere così ripartiti: una metà trasferiti agli Stati per diminuire il prelievo che grava sulle classi popolari e medie, l’altra metà per la transizione energetica, per la ricerca e la formazione, per agevolare l’integrazione dei migranti e renderla più condivisa.

Il progetto del federalismo sociale di Piketty è teso verso il futuro. Inoltre, contiene interessanti proposte operative per risolvere il problema della crisi del debito pubblico che probabilmente ora aumenterà, date le guerre in corso. Il suo approccio di federalismo sociale è indirizzato a un gruppo di Paesi europei che intendano attuare un’unione politica e fiscale migliorata e potenziata, che egli chiama Unione Parlamentare Europea per distinguerla dalla attuale Unione europea. Tali Paesi europei possono operare senza metter in discussione l’Unione a 27 Stati, mettendo nel conto l’ovvia opposizione dei Paesi che praticano il dumping fiscale. Tuttavia, si può procedere anche gradualmente, ma tenacemente.

Nei limiti della sintesi necessariamente sommaria che ho potuto abbozzare, alcune proposte di Piketty possono apparire radicali. Invece si iscrivono nel filone del socialismo democratico, superandone varie debolezze in cui certe opzioni socialdemocratiche avevano di socialista solo il nome, come egli dice a un certo punto di quel testo del 2020.

Gli argomenti da lui esposti sotto le etichette del socialismo partecipativo e del federalismo sociale, in realtà, riprendono sviluppi culturali che riguardano i cambiamenti delle disuguaglianze, osservabili in varie parti del mondo, che egli colloca in un’ampia prospettiva storica e mondiale. Si tratta anche di elementi suscettibili di sviluppi culturali che spesso appaiono, anche in contesti limitati, come repertori di idee di equità o come tracce democratiche, a cui attingere nei momenti di crisi.

Su questo piano frammentato, ma che può essere germinativo di cambiamenti democratici, egli afferma di essere condizionato nel suo punto di vista e nel suo percorso personale, dal suo background familiare. Ha visto le sofferenze delle sue due nonne per il modello patriarcale, subito dalla loro generazione. Una, scontenta della sua vita borghese, scomparve prematuramente. L’altra era domestica di campagna già a 13 anni, durante la seconda guerra mondiale. Da una delle bisnonne, invece, Piketty ha avuto i sofferti racconti delle guerre.

Questa genealogia culturale familiare che accomuna acute e storiche sofferenze di donne, a cui egli ricorre giungendo alla fine del libro, dà un senso alle sue opere germinate dalle relazioni intime e affettive con le donne della famiglia. A tali relazioni egli si riferisce per risolvere le nuove subalternità e le nuove disuguaglianze di genere. Attinge da tale genealogia di donne, e dalle loro sofferenze, l’impegno per un federalismo sociale culturalmente partecipato proprio dalle donne con le proprie storie, le proprie motivazioni, le proprie urgenze, individuali e di gruppo.

Le domande e le risposte contenute nel libro curato da Salvatore Cherchi e Gian Giacomo Ortu riguardano un’Europa al bivio delle crisi democratiche e della guerra. Interessano anche quale federalismo scegliamo di realizzare e per che cosa. Fanno, però, sentire la mancanza di un nuovo federalismo sociale, democraticamente partecipativo, che deve necessariamente passare attraverso un ineludibile e urgente scrutinio delle politiche di genere, anche nei nostri impegni locali.

Paola Atzeni

Gramsci e Berlinguer messi in questione nell’attuale crisi

Premessa

Il libro di Pendinelli e Sorgi, Quando c’erano i comunisti. I cento anni del PCI tra cronaca e storia, non si situa né tra i testi aprioristicamente critici, né tra quelli pervicacemente retorici sull’esperienza del comunismo italiano. È un pregevole testo, particolarmente ben scritto. Talmente ben scritto che la piacevole scrittura rischia di celare numerosi e importanti pregi di ricerca su eventi e temporalità, contesti locali e internazionali, e soprattutto su numerosi protagonisti. Si tratta di protagonisti individuali e collettivi, che possiamo cogliere in crisi e in cambiamento, mentre operano in modi trasformativi delle relazioni e di sé stessi, assumendo nuove personalità culturali e politiche.

Credo di non poter dire i numerosi pregi che ho verificato nel testo. Pertanto, elenco alcuni punti di riflessione, stimolati dalla lettura di quest’opera, che ho rilevato e tematizzato per titoli: 1 Temporalità, spazialità, soggettivazioni 2 Soggettivazioni autonome come elementi gramsciani costitutivi del socialismo pluralista 3 Soggettivazione individuale socialmente responsabile prospettata da Gramsci come connotazione d’individualismo progressista 4 Soggettivazione collettiva gramsciana, subalternità delle sinistre al neoliberismo e morte del comunismo 5 Questioni politiche della berlingueriana questione morale e dell’austerità 6 Attuale crisi a partire dal difficile poter vivere delle donne.

Gli argomenti sono numerosi e importanti. Mi rivolgerò specialmente alla parte scritta da Marcello Sorgi in cui ho rilevato temi di particolare interesse antropologico che riguardano non i soggetti già costituiti, ma il farsi soggetti autonomamente specie nelle condizioni di assoggettamento.

La parola soggetto è ambigua. Comprende sia chi assoggetta e chi è assoggettato. Richiede riferimenti soprattutto a processi relazionali di formazione reciproca. Chiamo soggettivazione il divenire umano liberantesi in modi autonomi nelle sottomissioni e dalle sottomissioni, comprendendo persone e gruppi assoggettati nell’analisi e nelle dinamiche delle relazioni di potere di sottomissione. Gramsci stesso costituisce un paradigma antropologico di cruciale importanza in tale processo, personale e collettivo, della vita quotidiana e filosofica, della realtà contingente eppure storica che emerge nella trama narrativa del testo.

1 Temporalità, spazialità, soggettivazioni

Il primo nodo narrativo dell’opera riguarda le temporalità, cioè le caratteristiche culturali dei vari tempi. Tali tempi, subiti e nel contempo in varia misura modificati individualmente e/o collettivamente, costituiscono tracce di cambiamenti antropologici, di trasformazioni d’umanità individuale e collettiva con differente forza ed estensione di marcatura storica. Si tratta di una questione concettualmente densa che implica una pluralità qualitativa di tempi narrativi che nel testo è messa immediatamente in primo piano come cruciale questione politica, storica, culturale di grande rilevanza a proposito del PCI. A mio avviso, sul piano delle varie temporalità si può rilevare nel libro una peculiare forza narrativa che appare fin dall’incipit (Pendinelli-Sorgi 2021:7).

A cent’anni dalla nascita e a trenta dalla scomparsa del comunismo italiano, una domanda è rimasta senza risposta: perché nacque e crebbe a dismisura proprio in Italia il più grande partito comunista dell’Occidente? Un partito che riuscì a sopravvivere a eventi epocali: il ventennio fascista, il terrore e lo scandalo dello stalinismo, la rivoluzione ungherese del ’56 e la sanguinosa repressione che ne seguì, mentre continuava a crescere anche negli anni del boom economico e della vorticosa trasformazione della società, condizionando con i suoi lasciti, anche dopo aver cessato di esistere, la politica italiana.

Porsi questo interrogativo ha un senso diverso oggi…

Nell’incipit i registri di qualità temporali giungono evidentemente fino all’oggi. Il secondo nodo narrativo affrontato nel libro riguarda vari registri di spazialità, anche mentale: l’Italia e l’Occidente, la Russia e l’Ungheria, per citarne alcuni. Inoltre, come terzo nodo narrativo si rileva una particolare dimensione spazio-temporale, cioè tempi e spazi narrativi s’incapsulano o s’incastrano o s’intersecano, oppure si addensano o si allargano con efficaci e significativi contrasti, come avviene per esempio nella narrazione dei funerali di Gramsci (Pendinelli-Sorgi 2021:18).

In quei giorni a Roma c’è aria di festa. «Il Messaggero» scrive che nel giardino zoologico sono giunti due leoncini catturati nella residenza di ras Sejum: «L’Urbe può ammirare questi due viventi testimoni, benché irragionevoli, dell’occupazione di Adua». Alla radio, annunciato dalla canzone Amore, amore, portami tante rose di Maria Rita Cerreto, in arte Ada Neri, in un tripudio di applausi, Mussolini alza la voce e proclama: «L’Etiopia è italiana. L’Italia ha finalmente il suo impero».

A questi brani possiamo comparare altre parti, scritte sulla diffusione della notizia della morte di Gramsci. Tale notizia si estende con specifici modi nelle carceri, durante il clima della epocale svolta staliniana, nella Terza Internazionale. Terracini racconta che la morte di Gramsci non provocò dolore fra i carcerati comunisti e che ciò fu conseguenza del dissenso espresso da Gramsci sulla svolta staliniana (Pendinelli-Sorgi 2021: 347).

Per i compagni detenuti o confinati, Antonio ormai era estraneo al partito. Perciò la notizia della sua morte passò come tante altre, fu accolta senza dolore, non suscitò emozioni. E questo atteggiamento rese ancora più acuto il dramma nostro, di quei pochi che sapevamo e che erano stati d’accordo con Gramsci.

In breve, il tempo narrativo del funerale di Gramsci è qualitativamente multi-dimensionale. Infatti, addensa o estende tempi con modi qualitativi e discorsi differenti l’evento del funerale, accaduto il 28 aprile del 1937. Sorgi evoca la voce di Mussolini e l’impero. In realtà l’impero era stato proclamato il 9 maggio 1936 ma, nella descrizione del funerale, l’impero sembra diventare ancor più vicino con l’Etiopia, mentre l’Italia sembra ancor più espandersi e apparire in tutta la grandezza e anche in tutta la fragilità imperiale e imperialistica, nella bellica politica fascista. La morte di Gramsci è temporalmente multidimensionale e spazialmente multisituata e multiprospettica. Infatti, compare anche in ambito carcerario come notizia senza cordoglio per i comunisti incarcerati e schierati a favore della svolta di Stalin.

Mi muoverò nelle mie riflessioni partendo dall’isolamento di Gramsci di cui parla Terracini (Pendinelli-Sorgi 2021:341) per connettere l’isolamento di Gramsci a cause storicamente accertate e rintracciabili nei rapporti, diventati tesi, in cui Gramsci si differenziò e si rese autonomo nel giudicare sia Togliatti e sia il PCUS. In tale controversia politica, vorrei indicare proprio contenuti e modi significativi che svelano il farsi della personalità culturale e politica differenziantesi di Gramsci.

Mettiamo a fuoco gli elementi che egli vedeva dannosi e pericolosi per il comunismo come soggetto transnazionale e per le varianti nazionali comuniste che sorgevano. Analizziamo pertanto la modificazione di tali rapporti, diventati critici, che scaturì dalla cosiddetta “lettera della discordia”. Scritta da Gramsci nel 14 ottobre del 1926 per conto del PCd’I a Togliatti, che era a Mosca come rappresentante del PCd’I presso l’Internazionale, era destinata al PCUS. Rammento che quell’anno fu assai importante per il PCd’I che aveva tenuto dal 20 al 26 gennaio il proprio congresso clandestinamente a Lione e aveva determinato una importante svolta politica per superare vari limiti soggettivi propri. Tali limiti comprendevano le posizioni formalistiche e settarie che spezzavano la completezza di visione politica, riducendo l’attività e le parole del partito a passività reale. Le tesi di Lione predisposte da Gramsci tendevano a modificare il partito e a realizzare pertanto un nuovo soggetto collettivo con una propria fisionomia e personalità nel movimento comunista internazionale. Nei propri modi distintivi il PCd’I doveva essere attivo sia al proprio interno contro i difetti estremizzanti e limitanti, sia all’esterno contro le politiche del fascismo che volevano rendere passive e inerti le avanguardie della classe lavoratrice. Gli spazi organizzativi di tali esperienze dovevano essere, fondamentalmente, i luoghi di lavoro.

Gramsci sosteneva che relazioni interne del PCUS contro le opposizioni di minoranza, per quanto finalizzate all’unità e alla disciplina, non potevano essere meccaniche e coatte. Togliatti rispose a Gramsci in modo duro, giudicando errata la sua visione e non inoltrò la lettera ricevuta al partito sovietico. Gramsci replicò al giudizio di Togliatti a titolo personale, ma con vigore e fortemente persuaso di esprimere l’opinione anche di altri compagni. Disse a Togliatti che la sua lettera gli pareva «troppo astratta e troppo schematica nel modo di ragionare». Gramsci affermò inoltre che non si potevano «lasciar passivamente compiersi i fatti compiuti, giustificandone a priori la necessità». Sostenne, infine, di aver autorizzato «modifiche che invece non erano state fatte». Gramsci esplicitò a Togliatti che il suo modo di ragionare gli aveva fatto «una impressione penosissima». Secondo Gramsci, infatti, l’unità attiva del partito era condizione esistenziale dell’egemonia del proletariato e del contenuto socialista dello Stato, mentre l’osservazione di Togliatti era «inerte e priva di valore» e il suo ragionamento era «viziato di burocratismo». Le sferzanti critiche gramsciane alla passività e all’inerzia come rinunce alle autonome trasformazioni soggettive indicano un locus, un tempus, un modus gramsciano trasformativo in corso d’opera. Si tratta di elementi presenti e coerenti non solo fra la sua elaborazione delle Tesi di Lione e i rapporti politici interpersonali, nella trasformazione delle sue relazioni e anche di sé, come persona e come dirigente del comunismo italiano nel comunismo internazionale. In tale controversia Gramsci affermava le qualità distintive della sua autonomia politica, un proprio modo di fare, di dire e di essere: attivo, trasformativo, antiburocratico, realizzativo di libertà non solo negativa (libertà da) rispetto alle posizioni togliattiane e sovietiche, ma anche di libertà positiva (libertà di) rispetto al prodursi come persona autonoma. La soggettivazione autonoma gramsciana realizzata nelle lettere del 1926 era doppiamente dis-assoggettante sul piano dei cambiamenti delle relazioni interpersonali, anche se inefficace operativamente, in quanto la lettera non fu consegnata.

Mettiamo meglio a fuoco come, nel corso della mutata relazione con Togliatti del 1926, Gramsci si trasformava, affermando la propria autonomia e quella del PCd’I sia rispetto allo stesso Togliatti e sia verso il partito comunista sovietico. I contenuti e i modi delle relazioni fra persone nei partiti e fra gli stessi partiti concernevano le questioni delle inerzie e delle burocratizzazioni, delle passività e delle passivizzazioni e, al contrario, dell’unità attiva e accomunante. Nel libro sembra prevalere una relazione continuista, fra Gramsci e Togliatti, che peraltro fu storicamente realizzata per vari aspetti importanti. Tuttavia, la parte distintiva di Gramsci rispetto a Togliatti mi pare alquanto in ombra. Vorrei affrontare, pertanto, a cominciare da Gramsci, una questione antropologica assai rilevante che affiora nel nostro libro: la questione dei personaggi che mutano mentre trasformano le loro relazioni, differenziandosi da altri e diventando differenti culturalmente e politicamente da come erano in precedenza. Gramsci è una figura antropologica primaria nel libro, progressivamente automodellizzantesi e modellizzante il comunismo italiano, attraverso le dinamiche trasformative della sua personalità: studente povero e giornalista povero, socialista e comunista, dirigente politico nazionale e internazionale, fuori e dentro il carcere, prima con una propria concezione del mondo e della vita e poi con una propria filosofia della libertà da conquistare storicamente nelle proprie pratiche in elaborazione, nella propria praxis in ponderazione, e non crocianamente considerata come data. La filosofia gramsciana della liberazione autonoma si sviluppava e si affinava in corso d’opera, nel pensiero e nella prassi che egli svolgeva congiuntamente nel corso della sua vita. Il libro documenta passi importanti del percorso di pratica filosofica liberatrice che Gramsci realizzò.

Lascio sullo sfondo questioni cruciali che Sorgi attraversa, come per esempio quello della rivoluzione passiva e del cesarismo progressivo e regressivo, per rivolgere l’attenzione antropologica al rapporto fra il Gramsci uomo e il Gramsci filosofo, rapporto messo in luce da validi studi di filosofia politica come quello di Gianni Fresu (2019). Osservo Gramsci nelle crisi di vita e nelle sue soggettivazioni pratico-filosofiche, nelle sue minute e molecolari realizzazioni che costituiscono la sua complessiva esperienza umana, come uomo capace di differenziarsi autonomamente facendosi uomo libero, nelle difficili condizioni date. Nella prospettiva antropologica risultano di una certa rilevanza, per esempio, anche gli assoggettamenti economici e di salute in cui Gramsci si trovò in varie fasi della sua vita. Senza cedere a vari determinismi, si tratta di individuare i suoi modi culturalmente caratterizzanti di superare i numerosi condizionamenti limitativi del suo agire, per verificarne varie dimensioni e connessioni reattive e trasformative, da lui praticate e sostenute per modificare le sue condizioni e le sue relazioni e, congiuntamente, anche sé stesso. Vediamo da vicino, pertanto, alcune delle limitanti esperienze quotidiane in cui Gramsci, tuttavia, agiva e reagiva per superarle

Nella trama narrativa, il locus, il tempus, il modus di certe esperienze costrittive ma anche liberatrici di Gramsci sono a Torino, città che nel 1911 è particolarmente cara per vivere (Pendinelli-Sorgi 2021:26). Diventando industriale, Torino ospita l’Esposizione Universale. La città contiene pertanto espositivamente la grande trasformazione del mondo industriale internazionale. Il piccolo contiene il grande. Tale dilatata dimensione spaziale appare anche nella stanza della pensione di Antonio. In quella stanza è contenuta Torino con la sua fame urbana, incorporata in Gramsci. Nel contesto piccolo ma esteso della stanza torinese appare Gramsci che patisce e che congiuntamente reagisce. Egli non è in condizioni di pagare l’affitto perché ancora non percepisce le settanta lire mensili della borsa di studio, scrive e racconta di sé: «Un periodo nel quale fui gravemente ammalato per il freddo e la denutrizione» (Pendinelli-Sorgi 2021:24).

Appare un frammento poco noto di autobiografia gramsciana (Pendinelli-Sorgi 2021:25). Nel racconto, usando le note di Peppino Fiori sulla vita di Gramsci, Sorgi riporta le precise spiegazioni che motivano la richiesta di Antonio a suo padre per ottenere indispensabili integrazioni finanziarie, documentando una dettagliata contabilità delle sue spese mensili e quotidiane per poter vivere. Nel libro vediamo pertanto i modi in cui Gramsci subiva e nel contempo agiva e reagiva non solo in ambito familiare, ma studiando e lavorando, per diventare soggetto autonomo e per rispondere attivamente ai rischi di assoggettamenti alla fame e alla salute. Tali assoggettamenti hanno una certa assonanza, salve le debite differenziazioni storiche, con diffusi patimenti dell’attuale difficile poter vivere, secondo le generazioni e i generi, le condizioni sociali e i luoghi.

2 Soggettivazioni autonome come elementi gramsciani costitutivi del socialismo pluralista

L’autonomia dis-assoggettante di Gramsci si realizzò in molti versanti. Oltre che nei confronti delle penurie alimentari e di salute, si materializzò politicamente nei confronti sia del fascismo e di Mussolini, sia dell’autoritarismo di Stalin, contrastando le ingerenze staliniane nella linea politica della Terza Internazionale. Su questa fase di difficile autonomia per il comunismo italiano Umberto Terracini fornisce alcune informazioni importanti, raccontando le proprie vicende nella vita carceraria. Al fine di definire meglio il coerente profilo politico-culturale dis-assoggettante di Gramsci per sé e per gli altri, personale e collettivo, è utile seguire più da vicino il suo pensiero. Si possono così mettere in luce le sue coerenze politico-culturali a proposito del divenire storicamente soggetti autonomi, individualmente e collettivamente, in un processo politico-culturale che, antropologicamente, possiamo definire di soggettivazione autonoma storicamente dis-assoggettante.

La questione dell’egemonia politica, come cultura condivisa e del consenso validante la premessa alla conquista del potere, nella visione gramsciana di un politico Ordine nuovo, è ben messa a fuoco nel libro fin dalle prime pagine (Pendinelli-Sorgi 2021:19). In particolare emerge quando Sorgi afferma (Pendinelli-Sorgi 2021:59) che Gramsci riteneva che i Consigli di fabbrica, eletti da tutti i dipendenti, anche non iscritti ai sindacati contrariamente a quanto sosteneva Tasca, potessero costruire un modello di democrazia socialista, fondato sulla partecipazione e sul consenso propedeutico e non conseguente alla presa del potere. Si tratta di un punto che ha una sua risonanza nell’attualità e nel nuovo modello di socialismo partecipativo proposto per esempio, con tutte le storiche differenze da considerare, dall’ultimo Piketty (2020 e 2021).

Nella soggettivazione collettiva in corso d’istituzionalizzazione dei Consigli di fabbrica possiamo vedere il campo aperto da Gramsci alle opportunità di farsi e di diventare nuovi soggetti non solo collettivi, ma anche individuali in corso d’opera poiché nel collettivo è possibile una specifica valorizzazione individuale, per Gramsci come per Simondon (1989). Tali nuove soggettivazioni potenzianti, collettive e individuali, furono precluse dal fascismo subordinante e uniformante, dalle fascistissime leggi anti-libertarie che proseguirono poi fino a quelle razziali del 1938, mentre continuavano le sconfitte delle opposizioni democratiche.

Nel testo (Pendinelli-Sorgi 2021:36) Sorgi afferma che, nella crisi democratica del fascismo, «Gramsci riesce a cogliere con lucidità impressionante l’inizio della decadenza delle nostre democrazie». Egli cita a tal proposito un denso pensiero di Gramsci: «La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere». Tale crisi democratica, con le sue configurazioni di apocalissi culturali e politiche, richiede qualche considerazione. Conto di riprenderla nella parte finale delle mie riflessioni.

La nozione di Gramsci sullo stallo della crisi, a mio avviso, è assai problematica e domanda di essere subito storicizzata. La data, nel corso del pensiero gramsciano, è del 1930. Si trova nel primo volume dell’edizione dei Quaderni curata da Valentino Gerratana (Q 3 1975:311). La problematica questione del blocco della crisi è collegata alla questione dei giovani, determinata dalla crisi di autorità delle vecchie generazioni dirigenti. Nello stesso Quaderno 3 Gramsci affronta l’analisi delle situazioni in cui manca un’attività culturale del partito e, nella crisi, individua che il singolo si fa la cultura come può, da «sovversivo», con un odio generico che è il «primo barlume» di coscienza di classe crepuscolare. Fra i sovversivi possono essere identificati due strati distinti di «morti di fame», quello dei giornalieri agricoli e quello dei piccoli proprietari, entrambi protagonisti di sovversivismi con due facce politiche, ma che vanno sempre a destra nei momenti decisivi (Q 3 1975: 323-325). Le note di Gramsci sui sovversivismi hanno, in tutta evidenza, una particolare risonanza nella crisi della nostra difficile contemporaneità.

Ritroviamo ulteriori tracce delle attenzioni di Gramsci alle dinamiche di assoggettamenti e di mancate soggettivazioni, subite o accettate, quando egli rivolge le sue critiche alle manifestazioni storiche di conformismo socio-culturale e alle passività culturali e politiche verso i poteri dominanti da parte della sinistra. Gramsci rilevava vari elementi di passività e di inadeguatezza storica nel partito socialista: la paura di responsabilità concrete, nessuna unione con la classe rappresentata, nessuna comprensione dei suoi bisogni fondamentali, delle sue aspirazioni, delle sue energie latenti. Egli, per quanto ribadisse l’importanza delle lotte organizzate, tuttavia giudicava lo spontaneismo del 1919-1920 una prova schiacciante dell’inettitudine di quel partito socialista. A suo avviso, si trattava di esperienze che, pur con i loro limiti spontaneistici, facevano uscire dalla passività strati sociali stagnanti, strati che creavano paure nelle forze repressive, spietate nel soffocarli. Anche su certe passività dei partiti della sinistra e su certi fervori spontaneistici non mancano risonanze gramsciane nel nostro tormentato presente. Cerchiamo di fare qualche passo avanti e di assumere i vari richiami culturali di Gramsci sull’importanza cruciale di non di essere soggetti fatti da altri, ma di diventare autonomamente soggetti storici culturali e politici, individuali e collettivi.

3 Soggettivazione individuale gramsciana socialmente responsabile, come connotato d’individualismo progressista

A questo punto, per scrutare i multipli livelli antropologici del comunismo gramsciano, sarà utile individuare l’attenzione di Gramsci verso l’individualità, e pertanto fare insieme qualche passo fuori da questo libro. Egli, fortemente critico verso i limiti di un certo individualismo possessivo borghese, appariva attentissimo a che cosa l’uomo può diventare, anche la domanda si poneva domandandosi che cosa è l’uomo. La domanda nasceva (Q 10:1344) da ciò che abbiamo riflettuto su noi stessi e sugli altri e vogliamo sapere, in rapporto a ciò che abbiamo riflettuto e visto, cosa siamo e cosa possiamo diventare, se realmente ed entro quali limiti siamo «fabbri di noi stessi», nostra vita, del nostro destino. E ciò vogliamo saperlo «oggi», nelle condizioni date oggi, della vita «odierna» e non di qualsiasi vita e di qualsiasi uomo. (corsivo mio)

A questa prima e principale domanda della filosofia, Gramsci rispondeva asserendo che (Q 10:1345) noccorre concepire l’uomo come una serie di rapporti attivi (un processo), in cui se l’individualità ha la massima importanza, non è però il solo elemento da considerare. L’umanità che si riflette in ogni individualità è composta di diversi elementi: 1) l’individuo; 2) gli altri uomini; 3) la natura. Ma il 2* e il 3* elemento non sono così semplici come potrebbe apparire. L’individuo non entra in rapporti con gli altri uomini per giustapposizione, ma organicamente, cioè in quanto entra a far parte di organismi dai più semplici ai più complessi. Così l’uomo non entra in rapporto con la natura semplicemente, per il fatto di essere egli stesso natura, ma attivamente, per mezzo del lavoro e della tecnica. Ancora. Questi rapporti non sono meccanici. Sono attivi e coscienti, cioè corrispondono a un grado maggiore o minore d’intelligenza che di essi ha il singolo uomo. Perciò si può dire che ognuno cambia se (sic) stesso, si modifica, nella misura in cui cambia e modifica tutto il complesso di rapporti di cui egli è il centro di annodamento. (corsivo mio)

Si tratta di una concezione di straordinaria rilevanza antropologica per vari aspetti: per l’importanza attribuita all’impegno individuale trasformativo di sé; per la rilevanza attribuita al grado di qualità intellettuale esercitata dal singolo nell’attività lavorativa e tecnica; per la consistenza sociale dei rapporti in cui l’individualità agisce; per l’imprescindibilità della relazione attiva con la natura. Per tali aspetti Gramsci metteva in luce il carattere dinamico-modificativo dell’agire del singolo uomo nel cambiare sé stesso cambiando i suoi rapporti con gli altri e con la natura, attraverso il lavoro e la tecnica. Egli sosteneva che bisognava elaborare una filosofia in cui i rapporti individuali con gli altri appaiono attivi e in movimento, fissando ben chiaro che la sede di questa attività è la coscienza dell’uomo singolo. Non si trattava per lui di una coscienza inerte o contemplativa, ma di una consapevolezza agente e creativa nelle pratiche, nella praxis, secondo le personali concezioni del mondo e della vita, agendo con altre persone nella società e nella natura. Egli, d’altra parte, era anche assai vigile verso le esperienze che riducevano la persona umana a mera naturalità o perfino a bestialità. Infatti, osservava criticamente gli sviluppi dell’«animalità» dell’uomo nell’industrialismo americano tayloristico e ricordava la frase di Frederick Taylor sull’operaio come «gorilla ammaestrato». (Q 22:2165). Egli era attento sia alla soggettivazione e sia alla de-soggettivazione, sia al potenziamento e sia al de-potenziamento delle qualità personali, sia alla formazione dell’uomo filosofo nella prassi critico-innovativa e sia alla riduzione ad animalità dell’umanità individuale e collettiva.

Gramsci rilevava nel 1934 la rottura del vecchio nesso psico-fisico del lavoro qualificato. Questa rottura era accompagnata dalle iniziative puritane che avevano il fine di conservare, fuori dall’attività lavorativa, un certo equilibrio psico-fisico al lavoratore, socialmente disciplinato. Vorrei ricordare che la questione della dis-umanizzazione e dell’umanizzazione del lavoro in epoca tyloristica, a partire dagli anni trenta del Novecento, riguardò nella Sardegna mineraria specialmente i cottimi, in cui l’accelerazione produttiva spinta al massimo abbassava l’attenzione verso i rischi di vita, incombenti sui lavoratori nel sottosuolo. Altre forme di cottimo sono tornate in auge più di recente con la gig economy, mostrando la reversibilità delle conquiste democratiche e la portata del regressismo neoliberista. I nuovi cottimi, pertanto, mostrano nuovi assoggettamenti e anche la necessità di nuovi dis-assoggettamenti, per quanto in un ordine storico-culturale differente dai tempi di Gramsci.

Le questioni degli asservimenti e delle passività, degli assoggettamenti e delle inerzie, dei conformismi e dei burocratismi, costituiscono la faccia critica delle mancate soggettivazioni. Invece, i dis-assoggettamenti e le alternative modellizzazioni culturali e politiche, offrono i punti cruciali per rilevare l’attenzione di Gramsci verso ogni individualità, sia per le fragilità e sia per le forze psico-fisiche. La differente e progressiva soggettivazione socialmente responsabile proposta da Gramsci rispetto al regressivo individualismo proprietario socialmente irresponsabile, è da lui valorizzata. Si tratta di una soggettivazione culturale e politica progressista e di umanità espansiva con forti risonanze nel nostro presente in confronto con altre soggettivazioni regressive e di umanità riduttiva. Vediamo ora qualche elemento che tocca i modi di farsi e di diventare soggetti collettivi.

4 Soggettivazione collettiva gramsciana, subalternità delle sinistre al neoliberismo e morte del comunismo

Il modello gramsciano di socialismo come soggettivazione collettiva unitaria e pluralistica, democraticamente autoeducantesi e partecipante dal basso, fu assai performativo per il PCI. Tuttavia nel libro, verificata l’originalità del comunismo italiano, si pone un’altra fondamentale domanda d’inchiesta: che cosa ne causò la morte? Chi lo uccise? (Pendinelli-Sorgi 2021:232). Qui il testo assume i toni del giallo e della spy story.

Sorgi afferma che il partito comunista italiano trovò poi il punto più alto e l’inizio del declino con il compromesso storico di Berlinguer, come appare dal quadro storico che richiama. L’autore afferma che l’evoluzione del PCI dal 1921 fu assai lenta (Pendinelli-Sorgi 2021:233) e che il crollo del socialismo fu strutturale. Il nuovo modello consumistico del neocapitalismo e poi del «super capitalismo» (Pendinelli-Sorgi 2021:234) mostrava in più di cinquant’anni che il modello occidentale era vincente rispetto al modello sovietico. Il modello del consumismo realizzava in parte un ascensore sociale, mentre alla lunga faceva aumentare vertiginosamente le diseguaglianze, le insicurezze lavorative, le paure del futuro (Pendinelli-Sorgi 2021:235). Sorgi puntualizza che il tormentone nel PCI durò più di un anno e mezzo, dalla svolta di Occhetto nel 12 novembre 1989 al congresso di Rimini nel 31 gennaio 1991. Egli sottolinea che quell’anno segnò la data di due funerali: quello dell’originale e pluralistico comunismo italiano e quello del glaciale e monolitico comunismo sovietico.

Sorgi spiega che il PDS, di fatto, seguì acriticamente la linea liberista di Bill Clinton e di Tony Blair che assumevano il lascito di Reagan e della Thacher: il capitalismo finanziario che sostituiva quello manifatturiero con le privatizzazioni frettolose, senza un disegno unitario. Prevalse, come dice D’Alema nell’intervista riportata, l’illusione che la globalizzazione rappresentasse una grande occasione. In realtà, si realizzò, come emerge nello scritto, una forma di subalternità culturale e politica al liberismo imperante, con l’accettazione della deregulation, di un neocapitalismo senza controlli, e con la conseguente accentuazione delle diseguaglianze e della destrutturazione della società occidentale (Pendinelli-Sorgi 2021:235-236). Il racconto storico-politico più recente procede nel libro fra le temporalità della globalizzazione e delle macerie della finanza creativa, della svalutazione del lavoro (Pendinelli-Sorgi 2021:246), delle accentuate e rischiose diseguaglianze all’interno delle società occidentali. L’orientamento del testo corrisponde a critiche e proposte assai interessanti che compaiono anche nel migliore orizzonte della recente letteratura economica democratica.

In questo percorso viene attraversato il nodo dell’arretramento delle sinistre occidentali che vorrei affrontare collegando certe analisi dell’ultimo Piketty alla berlingueriana «questione morale del Paese».

5 Questioni politiche della berlingueriana questione morale e dell’austerità

Vorrei accostare alcune analisi del libro di Piketty, Capitale e ideologia del 2020, sulla trasformazione dei partiti della sinistra europea, all’intervista di Berlinguer a Scalfari del 1981 ripresa da Pendinelli-Sorgi (2021:207), sulla «questione morale del Paese», cioè sulla degenerazione dei partiti in macchine di potere e di clientela, su un sistema di potere mirato all’occupazione dello Stato. Con la «questione morale del Paese» Berlinguer indicava una situazione di crisi e di stallo, differente da quella indicata da Gramsci nel 1930 con il PCd’I disciolto e i suoi dirigenti fuoriusciti o in carcere. Tuttavia, poteva essere detto anche nel 1981 che «la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere». Ma quali erano le nuove cause della storica crisi, in particolare delle sinistre?

Piketty volge lo sguardo ai cambiamenti sociali. Non entro nel merito della duplice rivoluzione antropologica di cui egli parla per la fase dell’avanzata dello Stato sociale nella sua ultima opera, Una breve storia dell’uguaglianza (Piketty 2021:204-249). Assumo, invece, la sua domanda. Perché le coalizioni egualitarie mostrarono debolezze, a partire dagli anni ottanta nella mancanza di un progetto unitario, sia a sostegno dello Stato sociale e sia a sostegno dell’imposta progressiva? Piketty nel 2020 aveva ripreso e sostenuto l’ipotesi del cambiamento sociale dell’elettorato di sinistra e delle stesse sinistre che rappresentavano la «“sinistra intellettuale benestante”» in Francia, negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Aveva distinto invece l’Italia, lacerata da fenomeni di corruzione.

La peculiarità del caso italiano, rispetto alle altre democrazie elettorali occidentali, secondo Piketty, è costituita dal fatto che il sistema dei partiti del dopoguerra crollò per gli scandali di corruzione messi in luce dalle inchieste di “Mani pulite” nel 1992, con la caduta della DC e del Partito Socialista e il sorgere del partito leaderistico di Berlusconi e la Lega come partito antitasse e antiimmigrati. Alla sinistra, il PDS nel 1991 si trasformò in PD nel 2007 con un obiettivo unificante. Le politiche del PD renziano e specialmente del Jobs Act nel 2014, secondo questo studioso, «hanno contribuito a consolidare l’opinione che il partito non avesse più nulla a che fare con le sue origini socialiste e comuniste del dopo-guerra» (Piketty 2020:993). Questo, in estrema sintesi, è il discorso di Piketty.

Manca in questo socio-economista qualsiasi accenno alla questione morale, posta da Berlinguer come questione politico-istituzionale già undici anni prima che se ne occupasse la magistratura. Pertanto, è bene tornare ora al testo che invece individua questo nodo socio-politico, mentre Piketty non coglie pienamente né il carattere politico, né l’anticipazione politica di Berlinguer rispetto all’intervento della magistratura sulla corruzione.

Nella berlingueriana questione morale erano presenti vari piani di crisi politica, come emerge nel libro. Il punto essenziale della crisi italiana era costituito dalla degenerazione dei partiti al potere, con l’involuzione democratica che riguardava il rapporto fra istituzioni e partiti. Inoltre era criticata la loro «occupazione dello Stato» con la conseguente trasformazione dello stesso Stato nelle sue varie articolazioni, con la perversione e con il restringimento della democrazia. L’analisi di Berlinguer risulta immediatamente politica e istituzionale, incentrata sui poteri e sul sistema di potere, rispetto a quella successiva di Piketty, o mediata da mutazioni socio-culturali in Occidente o causata dall’intervento della magistratura in Italia. L’analisi della degenerazione dei partiti fatta da Berlinguer individuava precisi elementi politici che è utile richiamare proprio per esporre la rilevanza politico-istituzionale della questione morale:

…I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contradditori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “ sotto-boss”. La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora…

…Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico…sopraffazioni… favoritismi…discriminazioni

Oltre che cambiare il sistema di potere imperniato sulla DC, era necessario discutere del modo in cui superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema:

giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell’attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione.

Berlinguer differenziava nettamente le sue posizioni da quelle della socialdemocrazia:

La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s’intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne.

Le questioni politico-istituzionali della berlingueriana “questione morale del Paese” non erano avulse da questioni sociopolitiche che sostenevano l’alternativa e il differenzialismo berlingueriano. I problemi dei rischi della fame nei ceti poveri e popolari erano conosciuti da Berlinguer che aveva partecipato a manifestazioni per il caroviveri nel 1944 a Sassari, dove aveva trascorso 100 giorni in carcere. La sua attenzione politica per gli emarginati e per i ceti proletari assoggettati emerge analizzando la posizione assunta dall’ultimo Berlinguer verso la configurazione politica delle donne nell’alternativa.

Lo storico Silvio Pons ha recentemente messo in rilievo il modello di partito differenzialista ed eccezionalista prospettato dal Berlinguer con l’alternativa, come appare nel testo Dialogo sul PCI, edito recentemente da Italiani Europei (AA.VV. 2021:19). Il vivace dibattito mostra che la diversità di modelli culturali indicati da Berlinguer, sia per il sistema dei partiti nello Stato e sia per lo stesso PCI, riguardava una diversità sostanzialmente politica. Se si rilegge il testo di quell’intervista, appare chiaro che la diversità del PCI, presentata da Berlinguer in primo luogo in quanto differenziante rispetto alle socialdemocrazie, riguardava il superamento di un certo operaismo socialdemocratico e determinava, in particolare, l’apertura di una politica verso gli strati emarginati della società a cominciare dalle donne, come ebbe a dire in varie occasioni.

Cominciare dalle donne impegnava a realizzare un’alternativa politica innovativa rispetto alla situazione e ai poteri politico-culturali dominanti nella questione morale del paese. Induceva a produrre una forte innovazione rispetto all’adattamento storico, paternalista e liberista, dell’ethos del lavoro femminile a quello maschile. Anzi determinava, al contrario, un adattamento socio-politico all’ethos del lavoro delle donne. Tale nuova e ampia apertura era concepita nel quadro di una complessiva e innovativa strategia democratica che doveva caratterizzare l’eurocomunismo e che poteva avvicinare anche socialisti e comunisti, in un’ampia alternativa democratica italiana da realizzare storicamente.

Quali erano i limiti soggettivi del PCI che determinavano un suo indebolimento? Fra gli errori specifici del PCI, l’ultimo Berlinguer individuava il verticismo, il burocratismo e l’opportunismo. A ben riflettere, vediamo storicamente nel PCI berlingueriano la risonanza di alcuni rischi di trasformazione e di indebolimento democratico, in una certa misura analoghi a quelli che nel 1926 Gramsci vedeva impliciti nelle logiche di una certa inerzia e di certe astrazioni burocratiche espresse da Togliatti, e da Gramsci fortemente e ripetutamente contrastate. La degenerazione dei partiti e la crisi della democrazia riguardava, in una certa misura e in un certo modo, specifici difetti latenti nel mondo politico del PCI berlingueriano. Di tali critiche volte all’interno del suo partito, a mio avviso, non si è discusso in modo efficace né all’interno e né all’esterno del PCI. Quale tipo di verticismo, di burocratismo, di opportunismo Berlinguer vedeva presente e rischioso nel PCI del 1981, mentre il neoliberismo montava? Quale evoluzione o involuzione ebbero tali elementi che depotenziavano l’esigenza alternativista da lui posta nell’agenda programmatica?

La berlingueriana “questione morale” è stata accompagnata, dentro e fuori dal PCI, da varie interpretazioni: riduttivistiche, distorsive, fuorvianti. Parimenti, è stata poco valorizzata la posizione di Berlinguer che, fra i mali socioeconomici in quel periodo d’inflazione, indicava il problema della disoccupazione e l’obiettivo dell’occupazione per coniugare austerità ed equità. La cruciale questione morale è stata ed è ancora assai controversa sia negli scritti e sia nelle discussioni che animano il centenario pensiero del comunismo italiano di matrice gramsciana. Le interpretazioni riduttivistiche, distorsive, fuorvianti, su tale questione non hanno migliorato i soggetti collettivi de-potenziati e deboli succedanei al PCI. Cresceva e cresce con l’astensionismo il distacco elettorale dai partiti, anche della sinistra.

Il modello politico differenzialista, eccezionalista, alternativista di Berlinguer che emerse con l’alternativa democratica è stato difeso da Aldo Tortorella che ha colto nella prospettiva indicata da Berlinguer l’urgente esigenza politica di cambiare il programma della sinistra e del PCI guardando sia al femminismo della differenza che contrastava l’alleanza fra capitalismo e patriarcato, sia all’ecologismo che si opponeva al modello di sviluppo capitalistico, sia al pacifismo che manifestava contro le installazioni di missili in Occidente e in Oriente. L’ultimo Berlinguer, secondo Tortorella, cercava di promuovere una nuova identità politica per il PCI, non di conservare la vecchia (AA.VV. 2021:25). Il nuovo che Berlinguer intendeva promuovere, con certi orientamenti di traduzione gramsciana, fu sostituito da un “nuovismo” subalterno al neoliberismo. Il quadro differenzialista berlingueriano rispetto ai socialismi realizzati e a quelli non allineati ebbe una conseguente decisione berlingueriana nel 1983, con la rinuncia all’«oro di Mosca» (Pendinelli-Sorgi 2021:227) di cui parlò Cervetti con la sua pubblicazione del 1994.

Nella specificità del pensiero berlingueriano mi pare utile rilevare la forte tensione verso estesi cambiamenti politici che toccavano vari assoggettamenti e dis-assoggettamenti. In primo luogo tali cambiamenti toccavano ai partiti clientelari che occupavano le istituzioni statali. Invece, un cambiamento di specifica autonomia per il PCI berlingueriano riguardò l’affrancamento dall’«oro di Mosca». Altri depotenziamenti interni della soggettività comunista italiana -come il verticismo, il burocratismo, l’opportunismo rilevati da Berlinguer- rimasero sottaciuti o celati, comunque latenti nel partito berlingueriano. Nell’impulso critico anti-verticistico, anti-burocratico, anti-opportunistico, Berlinguer riuscì a marcare fortemente la propria personalità politico-culturale democratica, dinamica, rigorosa. Tuttavia, egli ebbe poco tempo per un’azione di cambiamento del partito che richiedeva lunga lena e maggiori convincimenti ampiamente cooperativi oltre che profondamente innovativi all’interno dello stesso partito. Tracce in parte evolute di burocratismo, di verticismo, di opportunismo si possono forse rintracciare e interpretare in alcune formazioni succedanee al PCI, ma una tale analisi esula dai miei attuali propositi.

Vediamo da vicino la narrazione del PCI dopo Berlinguer fatta da Sorgi. Il PCI fu sostituito nel 1991 con il PDS che in quel decennio con Occhetto e D’Alema realizzò un modello assai rissoso e diviso. Infatti, continuava la frattura fra il sì e il no alla svolta. Il successore del PDS, fu prima il DS (1998-2007) con Veltroni e Fassino, e poi il PD nato nel 2007 con Veltroni, seguito poi da numerosi successori. Quel percorso è problematizzato da Sorgi con considerazioni che toccano sia la nuova sinistra di Bill Clinton e Tony Blair i quali si gettarono a capofitto nel supercapitalismo. La sinistra italiana aderì in modo subalterno al liberismo imperante e alla nuova sinistra subalterna al neoliberismo. I problemi aumentarono con la crisi economica del 2008 che aprì la strada alla nascita di una nuova destra che faceva leva sul malessere sociale, lo trasformava in odio e in egoismo, mettendo in crisi i modelli di democrazia liberale.

Il libro, come ho detto, si fa apprezzare anche per una particolare attenzione verso i contributi politici delle donne in ambito nazionale e internazionale. Ovviamente, si tratta di affrontare ora altri temi per un futuro democratico di grande cimento per la sinistra, soprattutto l’aumento delle disuguaglianze, in particolare da quelle di genere. Unendo certi punti del pensiero di Gramsci e di Berlinguer che appaiono in questo libro, bisogna ora ripartire dalle donne, dai loro bisogni di democrazia politica partecipativa egualitaria, dai loro nuovi rischi di vita e dal loro ethos di vita, di cui i femminicidi e le loro libertà uccise sono solo la punta visibile.

Vorrei situare le nuove subalternità di genere, determinate dal neoliberismo, nel quadro di riferimento che il pensiero di Gramsci ha assunto in ambito mondiale con straordinaria rilevanza sia negli studi politici, filosofici, e specialmente antropologici sulle subalternità, i cosiddetti Subalten Studies. La rilevanza del pensiero gramsciano, inoltre, emerge in importanti ambiti del femminismo da Gayatri Chakravorty Spivak a Judith Butler a Nancy Frazer. In tal quadro, vorrei ricordare che in Italia il pensiero di Gramsci ha alimentato specifici orientamenti antropologici. Ha suscitato confronti da parte Ernesto de Martino nelle sue note su La Fine del mondo e nelle sue analisi sulle apocalissi culturali. Ha orientato Alberto Mario Cirese, come dice il titolo del suo manuale Cultura egemonica e culture subalterne. Nelle Università la cosiddetta “Scuola di Cagliari”, di orientamento marxiano e gramsciano, demartiniano e ciresiano specialmente in Italia, ha orientato l’antropologia del lavoro e l’antropologia industriale mineraria.

Il quadro del dibattito su Gramsci è piuttosto vivace a vari livelli. Per esempio, Kate Crehan (2010:21) ha affermato che l’approccio culturale accademico ha limitato il pensiero politico di Gramsci. All’opposto, si può affermare che molte interpretazioni politiciste del pensiero gramsciano hanno limitato l’ampia portata politico-culturale del suo pensiero, oscurandone le importanti valenze culturali che intrecciano e rafforzano le sue elaborazioni politiche. Il dibattito su Berlinguer pare di difficile decifrazione. La questione della svolta della Bolognina, posta per lo più come unica discontinuità rinnovatrice possibile, oscura in grande misura i temi e i problemi critici posti dall’incipiente svolta alternativista berlingueriana.

6 Attuale crisi a partire dal difficile poter vivere delle donne

Infine, avviandomi alle conclusioni, vorrei riprendere l’importante frase di Gramsci riportata da Sorgi, che riprende una citazione dello storico britannico Donald Sassoon, ed è considerata di straordinaria lucidità e capacità di sguardo con lunga gittata (Pendinelli-Sorgi 2021:36):

«Il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati»

Questa frase è assunta come cruciale nelle riflessioni di una recente pubblicazione della filosofa e teorica femminista Nancy Frazer (2019:30) mentre, in parte abbreviata, è stata usata nel titolo della traduzione italiana del suo saggio. Accostare questi punti d’incontro fra due autori, Frazer e Sorgi, che si riferiscono alla problematicità della crisi attuale riferendosi a questo passo riflessivo di Gramsci, è di uno straordinario interesse culturale e politico che mi limito a indicare in estrema sintesi. Segnalo, inoltre, che anche Noam Chomsky cita questa frase di Gramsci nel suo ultimo libro pubblicato in Italia Precipizio. Il capitale all’attacco della democrazia e il dovere di cambiare rotta (Chomsky 2021:12).

Secondo la Frazer, l’attuale crisi è una crisi di egemonia del neoliberismo e del suo blocco egemonico, sia nella versione del neoliberismo progressista dei nuovi democratici, alla Clinton o alla Obama o alla Blair, sia nella versione del neoliberismo reazionario alla Trump. L’analisi di questa filosofa è assai puntuale e articolata per le politiche dei due fronti e per le scelte culturali che le hanno caratterizzate. Le parole di Gramsci suonano vere nel presente, per questa studiosa. Direi, pertanto, che questa filosofa ha una posizione assai prossima a quella di Marcello Sorgi quando, concludendo il suo scritto, egli pone il problema di ricominciare da Gramsci, rivolgendosi a una sinistra che abbia voglia di ricominciare.

La Frazer afferma che l’egemonia neoliberista è in crisi, ma la sua politica rimane in vigore, specialmente contro la regolamentazione finanziaria e contro l’aumento delle tasse progressive. La sinistra ha un sacco di lavoro da fare sul piano programmatico e organizzativo. Manca, infatti, una visione programmatica e una prospettiva organizzativa che comprenda in senso gramsciano le nuove povertà e le nuove subalternità delle donne assoggettate, nel loro difficile poter vivere assai rischioso della nostra contemporaneità.

Per cominciare dalle varie ineguaglianze delle donne e per una nuova democrazia locale, europea e internazionale, la Frazer richiama anche le donne a serie scelte culturali e politiche. In primo luogo è necessario perseguire il femminismo del 99%, anziché quello del farsi avanti egocentrato e indifferente alle responsabilità sociali, proprio del femminismo elitario dell’1%. Conseguentemente, ciò richiede di tener conto delle intersezioni che toccano differentemente le donne nelle loro nuove subalternità determinate dai neoliberismi, sia progressisti e sia reazionari, riguardando le loro opportunità di vita lavorativa e riproduttiva nelle condizioni locali e ambientali: dai luoghi di emarginazione e di spopolamento, di disoccupazione e di emigrazione, a quelli d’inquinamento e di degrado ambientale, di carenze di servizi sanitari ed educativi. L’intersezione o l’intreccio di specifiche condizioni di vita delle donne, ne caratterizza la specifica configurazione culturale e politica individuale e di gruppo nella nostra contemporaneità.

Le questioni più pressanti riguardano il lavoro di cittadinanza; le tutele positive per le donne; il rapporto tra lavoro retribuito, quello retribuito al di sotto dei minimi di sussistenza, quello non retribuito affatto; il rapporto fra produzione e riproduzione sociale, compresi i lavori di cura, per nominare solo alcune urgenze. Tali urgenze tratteggiano le prime linee di un quadro programmatico, orientato a partire dalle donne, negoziato politicamente e sindacalmente, e da organizzare in una nuova agenda democratica a partire dalle donne. Si tratta di questioni che chiamano in campo i partiti e i sindacati, le associazioni e la stampa progressista, per materializzare e diffondere una nuova e forte alleanza di genere e fra i generi per un nuovo assetto di società che promuova nuove soggettivazioni democratiche, individuali e collettive, sociali e istituzionali.

Centrali questioni storico-antropologiche, specialmente gramsciane e berlingueriane, si presentano in questo libro come questioni attuali e vive e che appellano ogni-una e ogni-uno di noi democratici. Ringrazio quindi gli autori per quest’opera in cui chiamano in causa specialmente il pensiero di Gramsci e di Berlinguer, in un promemoria assai importante e pressante per nuovi cimenti democratici nell’attuale e complessa crisi.

Paola Atzeni

Cagliari, 10 gennaio 2022

Riferimenti bibliografici

AA.VV. 2021

Il nostro Partito. Dialogo sul PCI, Roma, Edizioni Solaris

Chomsky, N. 2021

Precipizio. Il capitale all’attacco della democrazia e il dovere di cambiare rotta, Milano, Ponte alle Grazie, ed. or. 2021

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Gramsci, cultura e antropologia, Lecce, Argo, ed. or. 2002

Fraser, N. 2019

Il vecchio muore e il nuovo non può nascere. Dal neoliberismo progressista a Trump e oltre, Verona, Ombre corte, ed. or. 2019

Fresu, G. 2019

Antonio Gramsci. L’uomo filosofo, Cagliari, Aipsa Edizioni

Gramsci, A. 1975

Quaderni del Carcere, a cura di Gerratana, V., Torino, Einaudi

Pendinelli, M. – Sorgi, M. 2020

Quando c’erano i comunisti. I cento anni del PCI tra cronaca e storia, Venezia, Marsilio

Piketty, T. 2020

Capitale e ideologia, Milano, La nave di Teseo, ed. or. 2020

Piketty, T. 2021

Una breve storia dell’uguaglianza, Milano, La nave di Teseo, ed. or. 2021

Simondon, G. 2001

L’individuazione psichica e collettiva, Roma DeriveApprodi, ed. or. 1989

Paola Atzeni (Cagliari 1940) è stata la prima docente in Italia di Storia della Cultura Materiale, cattedra istituita per la prima volta nel 1986, nell’Università Cagliari. Ha condotto le sue ricerche specialmente nel campo delle tecnologie e delle ontologie minerarie. Fra i suoi lavori: 1989, Il corpo, i gesti, lo stile. Lavori delle donne in Sardegna, Cagliari, CUEC; 2007,Tra il dire e il fare. Cultura materiale della gente di miniera in Sardegna, Cagliari, CUEC, (1^ ed. 1988); 2017, Saper vivere. Antropologia mineraria della Sardegna nell’Antropocene, http://www.parcogeominerario.eu/images/Documenti_Ufficio_Stampa/P_Atzeni_Saper%20Vivere_Rev.pdf; 2017, Saper vivere nel Gerrei minerario della globalizzazione, in AA.VV., Miniere e minatori nelle terre del Gerrei, Villanova Monteleone, Soter editrice; 2018, La cultura dei minatori delle Alpi. Una svolta negli studi antropologici italiani?, in «Lares», n. 2, maggio-agosto

Prima di tutto, vorrei esprimere un’osservazione generale. Il libro di Tore Cherchi è un gran bel libro. Ben scritto, ben fatto, ben vestito. Oltre il principale contributo dell’autore, il testo ha una pregevole produzione, in comunanza con altri. Mi spiego. Ha notevole importanza la generosa e acuta prefazione di Antonello Sanna, che coglie rilevanti stratificazioni narrative nello scritto. Ha grande valore il significativo dossier fotografico dell’architetta Laura Tuveri. Ha raro pregio la veste editoriale che offre Giampaolo Cirronis. Si tratta, pertanto, di un libro di molti pregi in comunanza.
Tuttavia, il testo è il prodotto di un imprescindibile impegno di lavoro dell’autore, un lavoro assai accurato. Basta controllare la cura storico-narrativa di Tore Cherchi per le date dei fatti narrati, per le persone incontrate, per i libri e gli autori citati, per rendersene conto. In breve, il libro è assai apprezzabile e fa onore alla città, facendone un segno distintivo. Il libro è avvincente. Bisogna, pertanto, stare attenti a non farsi prendere dalla narrazione fino a perdere la necessaria distanza critica.
Procederò in questo modo percorrendo il testo: 1) motiverò il mio sguardo antropologico; 2) seguendo la narrazione dell’autore, metterò in evidenza Carbonia fra identificazioni attribuite da altri e realizzate da sé in modi propri, cioè fra identità eteronome e autonome; dalla città industriale a quella post-industriale, attraverso la de-industrializzazione subita; 3) in questo profilo, farò emergere tre nuclei di stile di governance autonomistica, governance che caratterizza il sindaco Tore Cherchi. Si tratta di nuclei che individuo in tre nodi narrativi che riguardano: il suo progetto di conoscenza, la sua politica dello spazio, la sua politica del tempo; 4) inoltre, metterò in rilievo la sua politica unitaria delle culture industriali e rurali; 5) sosterrò, infine, la tesi che Tore Cherchi è stato come sindaco, ed è inoltre con questo libro, produttore di futuro.

1. Lo sguardo antropologico, l’antropologia delle istituzioni, qualche non detto nella narrazione
Ho letto il libro con uno sguardo antropologico, e ciò richiede qualche spiegazione. L’antropologia, etimologicamente, è studio dell’uomo. Ma l’etimologia dice poco e può perfino risultare androcentrica. In modo descrittivo, posso dire che studia i modi socio-culturali di farsi umani o disumani dell’umanità femminile e maschile, e non solo, a vari livelli: individuale e socio-etnico, dei generi e della specie umana. In modo problematico, posso dire che l’antropologia democratica e critica studia i modi di farsi umani e disumani, specialmente nei rapporti di potere e di violenza, a vari livelli: guerre, femminicidi, sottomissioni, inuguaglianze… L’antropologia tratta pertanto, oltre la paleo-antropologia, anche temi di viva contemporaneità. L’antropologia nacque nel 1871, offrì un nuovo concetto scientifico di cultura che comprende tutto ciò che umanamente è detto e fatto, più o meno incorporato, abolendo la distinzione fra cultura “alta” e “bassa” e ampliando l’ambito di ricerca scientifica sulla cultura. Ha sviluppato un ampio apparato di concetti e metodi: osservativi, interpretativi, di produzioni documentarie creando nel tempo fonti scritte, fotografiche, audio-visive. Gli studi di antropologici hanno favorito non poche specializzazioni, sia tematiche e sia territoriali: antropologia storica, contemporanea, economica, sociale, culturale, politica, giuridica, delle religioni, delle istituzioni, medica, urbana, migratoria, rurale, meridionalistica, alpina, industriale, esotica, africanistica, americanistica, orientalistica, dei generi, dello spazio, del paesaggio, dell’ambiente… In poche parole, l’antropologia non è un insieme di racconti acritici di usi e costumi passati o presenti, come impropriamente e diffusamente si crede e talvolta si fa, raccogliendo semplicemente racconti o opinioni e pensando di fare antropologia.
L’antropologia, invece, è una scienza empirica, osservativa e critica, che svolge generalmente spogli documentari e rilevamenti con “ricerche sul campo”, non in laboratorio. Produce dati critici d’informazione, cioè fonti di conoscenza codificate e controllabili, sia teoricamente e sia metodologicamente. Fra i più recenti sviluppi, troviamo l’antropologia mineraria e industriale. In questo campo specialistico, Carbonia emerge come particolare laboratorio antropologico di cambiamenti di valori culturali condivisi, come ethos identificante e identitario, secondo i tempi e i modi. Pertanto, questa città ha avuto e ha parte rilevante nell’antropologia mineraria, industriale e urbana, specialmente nell’antropologia italiana ed europea.
La domanda antropologica, da cui parto nel dispormi a osservare le vicende dal punto di vista dell’antropologia delle istituzioni, è la seguente: fino a che punto Tore Cherchi è giunto per democratizzare, e quindi per umanizzare, sia le istituzioni nelle quali è entrato e sia sé stesso, sia come autorità istituzionale e sia come persona? Come ha agito per potenziare dal punto di vista dei poteri istituzionali la città e la sua personalità di sindaco?
Carbonia è la città che costituisce il centro dell’analisi di antropologia istituzionale per interpretare le azioni e i processi politico-culturali messi in opera da Tore Cherchi. Si tratta, stiamo attenti, di un’analisi bifacciale o doppia: riguarda il luogo fisico della città di Carbonia con una precisa messa in forma storico-istituzionale, democratizzante e umanizzante realizzata dal sindaco, e concerne anche il modo di democratizzarsi e umanizzarsi dello stesso protagonista istituzionale.
Segnalo subito che la narrazione dell’autore può avere un’immediata rilevanza antropologica in quanto parte di una narrazione autobiografica, come spezzone di vita personale, tranche de vie. Inoltre egli è, metodologicamente, un informatore privilegiato sulla città. Può dare, infatti, molte informazioni da vagliare criticamente come fonti storico-antropologiche. Non è questa la sede, né l’occasione per approfondire tanti aspetti di interesse accademico. Limiterò, invece, i mei passi nella sua narrazione, come ho premesso, e cerco subito di provocare alcune sue risposte.
La narrazione biografica e prevalentemente urbana di Tore Cherchi, è necessariamente piegata sulla sua esperienza di sindaco della città e poi di presidente della Provincia, cioè sulle sue esperienze amministrative. Egli lascia non dette le sue importanti esperienze legislative, sia alla Camera e sia al Senato. Tali esperienze legislative, a mio avviso, non riguardano solo conoscenze di bilancio e di visione istituzionale, di fonti di finanziamento e di procedure. Riguardano anche alcune scelte storiche, com’è avvenuto per esempio con la soppressione delle le PP.SS. Si tratta di scelte governative nazionali che hanno avuto una loro importanza nel delimitare il perimetro delle traiettorie operative che gli consentirono poi di amministrare sia la città e sia la provincia, successivamente fino al Piano Sulcis. Mi fermo un attimo sulle esperienze legislative perché lì si situa l’arretramento complessivo dell’intervento dello Stato, a partire dall’economia e dall’industria, che interessarono la nostra città.
Gli anni dell’esperienza parlamentare di Tore Cherchi, dall’ottanta al duemila del Novecento, sono stati i primi due decenni di neoliberismo montante. Sono stati, in parallelo, decenni di indebolimento, di arretramento, di sottomissione dello Stato a interessi neo-proprietaristici e privatistici. In quegli anni si realizzò un processo di sottomissione dei poteri pubblici da parte di un ipercapitalismo incontrollato delle nuove inuguaglianze (Piketty 2020). Lo scioglimento nel 1993 del Ministero delle PP.SS., che ha avuto un peso determinante nel Sulcis, si situa in quel processo. Come si deve tener conto di quel processo nelle nostre vicende locali?
Credo sia necessario esplicitare ora qualche parola non detta nel libro. Guardiamo al processo complessivo. L’iniziale ridimensionamento della presenza dello Stato nel settore alimentare, certo necessaria, è continuato poi in campo industriale senza individuare efficacemente settori strategici. Il ruolo dello Stato si è ridotto perfino in ambito culturale, eliminando sia enti inutili e sia enti utili. Non di tutte le privatizzazioni (avvenute dal 1985 al 2007), c’è da essere orgogliosi. Il Comitato di garanzia per le privatizzazioni della Corte dei Conti nel 2010 e nel 2012 ha in parte svelato il lato oscuro delle privatizzazioni di ex aziende pubbliche e ha rilevato, fra l’altro: 1 l’aumento delle tariffe di certi beni e servizi più alte in Italia rispetto ad altri paesi europei; 2 il mancato recupero di efficienza per migliorare servizi e infrastrutture privatizzate, 3 la scarsa trasparenza dei nuovi proprietari privati. Pertanto, è necessario un esplicito ripensamento critico per attivare, anche localmente, una nuova proposta di rinvigorimento democratico del ruolo pubblico dello Stato italiano nel contesto istituzionale europeo, nel quadro dei nuovi processi economici e istituzionali.
La domanda da cui parto ora, pertanto, è la seguente: perché Tore Cherchi, protagonista di alto valore nelle istituzioni nazionali, come si vede anche in internet, preferisce parlare della sua esperienza di amministratore locale?
L’ambito delle istituzioni economiche nazionali è stato ristretto ed ha assecondato l’affermarsi del neoliberismo incontrollato. Carbonia permette di verificare, nella narrazione di Tore Cherchi, la portata dell’arretramento economico dello Stato sia nel campo industriale e sia nelle sue articolazioni locali, comunali. Insisterò nel domandare pertanto se e quanto, nell’arco storico proprio del neoliberismo incontrollato, di arretramento dello Stato e di indebolimento delle sue articolazioni locali, Carbonia è stata importante per democratizzare-umanizzare l’istituzione comunale che veniva indebolita nella sua forza autonomistica e, congiuntamente, è stata importante per il democratizzarsi e per l’umanizzarsi personalmente di Tore Cherchi. Egli, come sindaco autonomistico, si cimentava in modi alternativi rispetto all’indebolimento delle articolazioni locali dello Stato. Vorrei, a tal proposito, insistere fortemente nel mettere in luce che l’impegno locale di Tore Cherchi si realizza in un contesto di indebolimento, di de-potenziamento, di assoggettamento dei poteri pubblici, statali e delle articolazioni locali, da parte del neo liberismo che realizzava e determinava politiche di abbandono (Elisabeth Povinelli 2011), che produceva «espulsioni» e «terre morte» (Saskia Sassen 2014), con de-localizzazioni e de-industrializzazioni in certi territori e neo-localizzazioni industriali in altri luoghi del mondo.
I due fuochi di lettura che seguo, istituzionale e personale, in entrambi i piani riguardano pertanto il passaggio da soggetti sottomessi a soggetti agenti per diventare più autonomi nell’articolato sistema delle autonomie, sottoposte a un preciso attacco democratico nel corso del neoliberismo che si affermava, come ha recentemente messo in evidenza Noam Chomsky (2021).
Questo linguista democratico continua e irrobustisce un internazionale filone critico-democratico che si è ben distinto negli studi di economia politica e specialmente nella critica delle multiple ineguaglianze (Minsky 2013, Atkinson 2015, Stiglitz 2016, Mazzucato-Jacobs 2016, Pennacchi 2018, Piketty 2020).

I due processi di soggettivazione istituzionale e personale, del Comune di Carbonia e del sindaco Tore Cherchi, che partono da assoggettamenti o da varie riduzioni dei poteri
autonomistici, permettono di cogliere due piani antropologici di soggettivazioni autonomistica, con dinamiche che muovono dalla subordinazione in parte subita per giungere, tuttavia, a una maggiore autonomia soggettivizzante: autonomia relativa ma importante perché rende i soggetti istituzionali assoggettati più padroni di sé. Si tratta di cambiamenti istituzionali, relazionali e culturali, davvero cruciali nella nostra storia non solo locale.

2. Carbonia, identificazioni attribuite e autonomamente realizzate, dall’industrializzazione fascista al post-industriale attraverso la de-industrializzazione
La riflessione di Tore Cherchi sulla città si muove a partire da alcune identificazioni attribuite a Carbonia, solo in parte sovrapponibili: città di fondazione, città industriale, company town (p. 4). Provo ad uscire dall’ambito nazionale ed eurocentrico per dare il giusto valore a questo libro in un’ampia scala. Sulle minerarie città aziendali si trovano interessanti narrazioni antropologiche comparative, a partire dalla cosiddetta “scuola di Manchester”. Si tratta di un gruppo di antropologi inglesi che, negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, privilegiò nello Zambia lo studio delle città minerarie della zona del Copperbelt, la fascia territoriale a prevalente estrazione di rame, come dice il nome. Vari studi di antropologia mineraria, sulle migrazioni o altro, hanno poi attraversato i centri urbani minerari fino ai tempi più recenti, anche nello studio del lavoro e delle imprese minerarie in una prospettiva globale e del neoliberismo. Fra le più importanti voglio ricordare James Ferguson (1999, 2006, 2009); Stuart Kirsh (2014); Robert Pijpers e Thomas Eriksen (2019). Li ricordo per dire che il libro su cui discutiamo non ha un interesse limitato, parrocchiale e di portata localistica, quando parlo di istituzione locale. In un ampio quadro comparativo globale, appare che l’aziendalismo pubblico ebbe peculiari caratteristiche distintive, funzionalmente e politicamente differenti da vari aziendalismi privati di altre company town. Carbonia, infatti, ebbe una storia industriale determinata non da un’azienda privata ma pubblica, nel quadro politico dello Stato fascista a partire dai bellici obiettivi mussoliniani, poi nella ricostruzione post-bellica e infine nella nascita della Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio.
Come acutamente e consapevolmente afferma Tore Cherchi, la sua esperienza amministrativa si situa nell’ambito della relazione fra l’esperienza urbana industriale e quella del
cosiddetto post-industriale, nella abusata marea dei “post-qualcosa”, come egli dice usando il corsivo nel testo (p.54). Si tratta di un filone di riflessioni che si può far risalire alla crisi della modernità espressa nel pensiero filosofico di Jean-François Lyotard del 1979 con il titolo La condizione postmoderna in cui emerge la fine delle narrazioni del progresso, promesso dalla modernità specialmente industriale che si realizzava. Le esperienze di modernità industriale diventano sempre più importanti negli attuali studi storico-antropologici, locali e globali. Studi storici e antropologici, pertanto, si annodano con precise peculiarità leggendo questo scritto.
L’autore analizza alcune nozioni di industriale e post-industriale, specialmente sociologiche.
Riprende la nozione di post-industriale del sociologo francese Alain Touraine, che nel 1969 connetteva la nozione di post-industriale alla società dell’informazione e nel 1998 poneva il problema della fine della fabbrica fordista e dei nuovi soggetti del cambiamento: i giovani, le donne e i movimenti ambientalisti. L’autore considera inoltre la nozione del sociologo americano Daniel Bell, che nel 1973 connetteva i cambiamenti all’avanzare della conoscenza teorica e scientifica. Nota anche la nozione di post-industriale dell’influente tecnologo Jerry Kaplan, che nel 2017 collegava lo sviluppo tecnologico alla produzione di capitali. Infine, pondera la concezione di post-industriale dell’economista di Cambridge Ha John Chang il quale nel 2018 criticava il mito dell’economia post-industriale. Tore Cherchi declina tali nozioni a suo modo e riprende come questione aperta il tema dei soggetti sociali del cambiamento posta da Touraine. Gli approfondimenti dell’autore percorrono un articolato dibattito sociale, tecnico, economico e sono di indubbio ed evidente spessore culturale. Tuttavia, al di là del suo serio impegno analitico, prevale l’impressione che manchino alcune parole, politicamente incisive. Cerco di chiarire.
L’autore rileva la contrazione dello Stato sociale e l’espansione delle ineguaglianze, parla di problema aperto per la sinistra politica e sindacale. Tuttavia, mancano parole incisive sull’indebolimento democratico dei partiti della sinistra. Egli, inoltre, criticando correttamente l’abuso semplificatorio della parola post-industriale, lamenta la rinuncia dei Paesi più sviluppati a realizzare una moderna industria manifatturiera. Anche sulla rinuncia a perseguire una innovativa industrializzazione manifatturiera, ho sentito la mancanza di precise parole riguardanti da un lato l’incontrastato avanzamento delle politiche neoliberistiche e dall’altro lato il debole ruolo della sinistra politica e sindacale, non solo locale, per contrastare il dominio incontrollato neoliberistico che in questi nostri luoghi de-industrializzava il territorio, dopo la liquidazione delle PP.SS.
Al di là di certe parole non dette sui processi politici globali e nazionali che influenzavano le vicende territoriali e urbane di riferimento, nel libro si trovano passi espliciti e preziosissimi. Si tratta di parti imprescindibili, perché risultano assai validanti dell’impegno di grande eccellenza democratica di Tore Cherchi, come sindaco personalmente teso verso l’affermazione autonomistica della vita durevole condivisa di Carbonia. Egli, infatti, si situa in una linea drammatica che riguarda la vita stessa della città. Si tratta di impegni di alto profilo di cultura democratica che esorbitano certe parole non dette. Vediamo ora, pertanto, qual’é la sua articolata e caratteristica governance.
3. Il modello e lo stile di governance autonomistico caratterizzante Tore Cherchi: la politica di conoscenza, la politica dello spazio e la politica del tempo
Individuo tre nuclei operativi nel modello personale di governance istituzionale realizzata da Tore Cherchi, che presenta un preciso e raro stile autonomistico nell’ambito di una originale politica dis-assoggettante il Comune di Carbonia:
1. il nucleo di politica di conoscenza, che lui chiama «progetto di conoscenza» (Cherchi 2021:70), costituisce una traiettoria non breve. Parte dalle identificazioni attribuite alla città (città fascista, città della ricostruzione industriale, città delle chiusure delle miniere, città della nascita di Portovesme, città dell’abbandono delle PP.SS. e dello Stato) per giungere, con una precisa azione istituzionale e personale caratterizzante, a una nuova identificazione conoscitiva e trasformativa di Carbonia, come città dei servizi e di rigenerazione urbana. Tale percorso, trasformativo e potenziante dell’autonomia locale, è antropologicamente assai rilevante.
Assistiamo, dal punto di vista storico-culturale, a una capacità istituzionale della città di mutare le identità istituzionali e culturali attribuite, creando nuove identità autonomamente realizzate. Tore Cherchi fa realizzare alla città un’importante metamorfosi identitaria innovativa, come città dei servizi e di rigenerazione urbana. Le metamorfosi identitarie, acquisite dalla città che si rigenerava, appaiono ben dinamiche. In tutta evidenza, non si presentano oggi statiche o «sospese», come è stato scritto improvvidamente nel dossier per far riconoscere Carbonia capitale nazionale della cultura. Tale identificazione sospensiva attribuita, di particolare provenienza sociologica su migranti, non mi pare culturalmente pertinente ad alcun momento storico di Carbonia, sia dal punto di vista delle aspirazioni di chi abitava la città nel suo primo decennio di vita, sia dal punto di vista delle istituzioni nazionali e dell’immediato post-fascismo che determinavano il ruolo istituzionale della città.
Complesse identificazioni culturali e identitarie, imposte e autonome, secondo i poteri, sono state rese storicamente e dinamicamente possibili in vari modi in città, come mostra il testo.
Anche grazie a questo testo in discussione, considero non fondate certe interpretazioni identitarie della città che le attribuiscono un’identità sospesa senza elementi storico-culturali probanti.
Sostengo, invece, che varie dinamiche, culturali e identitarie, attribuite e autonome, costituiscono il forte e mobile patrimonio antropologico dei Carbonia che richiede continue e aggiornate rigenerazioni, come mostra bene questo testo.
Si tratta ora, pertanto, di seguire le traiettorie dell’impegno dinamico del sindaco Tore Cherchi per un processo nella città e della città, impegno che ha consentito all’ente locale di diventare soggetto di progetti e di scelte autonome, pur in una fase critica in cui le autonomie comunali erano sottomesse a un multiplo centralismo: globale e europeo, nazionale e regionale.
Non potendo entrare in tanti dettagli, invito chi legge a seguire questa linea culturale della soggettivazione istituzionale, come linea autonomistica dei fatti e delle relazioni dis-assoggettanti il Comune di Carbonia, nell’azione del sindaco Tore Cherchi.
Vediamo, oltre la complessiva azione autonomistica, qualche elemento che caratterizza lo stile di governance di Tore Cherchi. Il suo stile è duplice, conoscitivo e insieme securitario, a mio modo di vedere. Tale stile emerge fin da quando egli parla della necessità e dell’importanza della conoscenza profonda per decidere cosa fare e come fare (Cherchi 2021: 70).
Per fare bisogna conoscere e a fondo. Non fu uno slogan annunciato e accantonato: l’Amministrazione promosse un “progetto di conoscenza” (in corsivo e fra virgolette nel testo)

Vorrei richiamare l’attenzione su questo punto importante. Infatti, il progetto di conoscenza di Tore Cherchi non fu solo un cimento d’esordio. Fu, invece, un vettore culturale continuo. Dell’importanza della conoscenza, pertanto, egli parla anche nella parte finale del testo dove ricorda il suo impegno nella Provincia, nel 2011, ancora come «progetto di conoscenza» (Cherchi 2021:123). La caratteristica della sua governance riguarda l’asse portante e di lunga durata di un suo profondo progetto di conoscenza.
Restando agli inizi del testo, vediamo l’autore mentre racconta che, per il suo progetto di conoscenza, fu essenziale il rapporto con l’Università di Cagliari e in particolare con il Dipartimento di Architettura. Egli dice che i rapporti istituzionali furono ampi e inclusero studiosi della Facoltà di Ingegneria mineraria, di medicina del lavoro, storici, studiose e studiosi di antropologia… Sul rapporto con quella che forse possiamo chiamare la “scuola territorialistica di Antonello Sanna”, Tore Cherchi spende molte pagine giustamente meritorie e gratificanti. Mette in luce studi e opere, formazione di studiosi e di professionalità, capacità di dialogo professionale migliorativo con i tecnici e con le strutture del Comune che non si esauriscono nelle tesi e nelle pubblicazioni importanti e di lungo corso, da quelle con Giorgio Peghin (2009 e 2011) a quelle più recenti con Giuseppina Monni (2020). Entrambe le opere sono ben citate in questo libro. Vorrei rimarcare pertanto, a questo punto, un tratto culturale che, a mio modo di vedere, unisce Tore Cherchi e Antonello Sanna: è il loro democratico e continuo modo di “lavorare con”, cioè di realizzare uno speciale modo cooperativo e unitario, collettivo e creativo di un “noi” inclusivo, ma rispettoso di ogni-uno e di ogni-una, sia come persona e sia come disciplina accademica.
A proposito del Premio sul paesaggio del 2010-2011, l’autore scrive con molta cura nel suo libro pagine interessantissime che invito a leggere: sui concorrenti, sui riconoscimenti e sulle motivazioni del premio. Richiamo, inoltre, l’attenzione su un libro, a cura di Giorgio Peghin e Antonello Sanna (2011), Il patrimonio urbano moderno, perché fu frutto di un incontro, che avvenne a Carbonia subito dopo il premio, non solo per celebrare gli onori acquisiti, ma specialmente per continuare l’impegno collettivo di vari studiosi sul patrimonio urbano moderno.
In breve, nessuno, a partire dal sindaco, si adagiava sugli allori, dopo il premio ottenuto. Fu un incontro di altissimo impegno culturale e democratico, presieduto da un illustre studioso, Carlo Olmo. Egli dirigeva allora il Giornale dell’Architettura, era stato preside della Facoltà di Architettura al Politecnico di Torino, aveva insegnato all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, al Mit di Boston e in numerose università straniere, come Londra e Barcellona.
L’incontro aveva un’immediata e ampia valenza, non solo nazionale. Fu un incontro immerso nel passato e nel presente della città e, congiuntamente, ancora una volta teso al suo futuro.
Dobbiamo colmare ora, dolorosamente, il triste vuoto di un compagno di lavoro, come Stefano Asili, che non è più con noi. E non è vero che uno vale l’altro. I talenti individuali sono differenze culturali assai importanti per una valida orchestrazione culturale collettiva, come accade in ogni lavoro di gruppo, come insegnava Gilbert Simondon (1989), e come ho verificato assai istruttivamente analizzando le relazioni in certe squadre operaie di miniera.
Dal punto di vista dell’antropologia delle istituzioni l’azione autonomistica realizzata da questo sindaco ha un forte valore culturale, come ho cercato di esplicitare. Dirò qualcos’altro, pertanto, su due importanti nuclei operativi di governance locale autonomistica di Tore Cherchi.
Riguardano sia le traiettorie culturali che si annodano nella sua politica dello e nello spazio, sia le traiettorie culturali che si annodano nella sua politica del e nel tempo, per la città e della città.
Le traiettorie culturali che si annodano nelle sue politiche dello e nello spazio manifestano che lo stile di governo di Tore Cherchi, informato e conoscitivo, è teso a creare cambiamenti autonomistici soggettivanti, per creare futuro sicuro nella città e della città, per la città e per le sue persone. Gli obiettivi di sicurezza abitativa e di qualità della vita abitativa perseguiti da Tore Cherchi scaturiscono da matrici antropologiche che vorrei portare alla luce.
2. Il nucleo della politica spaziale e paesaggistica intrapresa da questo sindaco è ben connessa alla dimensione antropologica del paesaggio che egli fa propria. Indico alcuni aspetti che ben compaiono in questo libro. Nel solco del premio sul paesaggio Tore Cherchi continua ad impegnarsi, com’è evidente, anche con questo libro, come «responsabilità da onorare» il premio (Cherchi 2021:19). Cosa che egli fa, a suo modo. Nella quarta di copertina, infatti, egli riporta la nozione di paesaggio contenuta nella convenzione europea sul paesaggio che marca fortemente, in tutta evidenza, un mutamento concettuale dalla concezione estetica del paesaggio alla concezione antropologica del paesaggio, una valenza antropologica spesso ignorata, sottovalutata o dimenticata: paesaggio designa una determinata parte del territorio, così com’è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione dei fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni. (corsivo mio)
Con una citazione in quarta di copertina Tore Cherchi dà spazio, ancora una volta, a una visione antropologica che non riguarda solo i manufatti architettonici e urbanistici con i loro contenuti di saperi, ma anche il sentire incarnato nelle e delle persone negli edifici e nei luoghi abitati. Abbiamo nell’isola, a tal proposito, un antropologo sardo che ha scritto per primo in Italia sull’antropologia del paesaggio. Credo che egli possa ben contribuire alla continuazione di un dialogo universitario interdisciplinare sul paesaggio, e su Carbonia. Ora però mi preme sottolineare, nelle conoscenze di Tore Cherchi, il passaggio da una conoscenza del paesaggio estetico a una più ampia conoscenza del paesaggio antropologico della città.
Elenco i passi del percorso antropologico, paesaggistico e spaziale, autonomistico-istituzionale e personale, realizzati da Tore Cherchi, richiamando soltanto certi capitoli, per sottolinearne l’importanza: la Grande Miniera di Serbariu, ovvero il Lingotto del Sulcis; Piazza Roma, Frammento del vuoto; altri spazi pubblici, la piazza Venezia di Cortoghiana e piazza Santa Barbara di Bacu Abis, i parchi; il nuovo piano urbanistico comunale e il piano particolareggiato per il centro storico, le residenze della città di fondazione; il CIAM; la cultura, l’arte contemporanea; una nuova architettura e il centro intermodale. Le 44 pagine, che comprendono i titoli richiamati, spiegano con rara efficacia la politica spaziale e istituzionale di soggettivazione autonomistica e di antropologia istituzionale a cui Tore Cherchi diede speciale impulso per Carbonia nel suo progetto di rigenerazione urbana.
3. Per capire meglio in tutte le valenze la sua politica dello spazio, dobbiamo portare ora la politica autonomistica di rigenerazione dello spazio realizzata da Tore Cherchi nella sua politica del tempo. Dobbiamo pertanto saper vedere un’altra intersezione dopo quella fra autonomia dell’istituzione comunale e personalità autonomistica sindaco. Dobbiamo, infatti, situare ora l’operativa cultura politica autonomistica spaziale di Tore Cherchi in un incrocio con un arco storico. Mi riferisco a uno specifico arco storico in cui Carbonia era città di fondazione, avendo scuole e ospedale, ma rimaneva una città Aziendale, per quanto pubblica: una città senza proprietà comunali e in gran parte incompiuta (Cherchi 2021:43-44). Tore Cherchi assunse pienamente questo lascito storico-culturale della città di fondazione fascista, incompiuta e ancor più carente a fronte di nuove esigenze. Vediamo dunque ora la sua politica del tempo per incrociarla a quella dello spazio.
Percorro, andando all’indietro, la prima parte del suo libro in cui la città industriale è declinata soprattutto nel tempo (Cherchi 2021:27-50). Tore Cherchi delinea un arco temporale, antropologicamente significativo per la sua azione amministrativa. Infatti, inizia unendo la città di sotto alla città di sopra. Comincia, assai significativamente, dal patire della città del sottosuolo che emerge nella città visibile. L’inizio è avvincente: è il pathos dei morti in miniera nel 1938, l’anno della inaugurazione della città: 5 morti per una venuta d’acqua e un totale di 15 morti nel 1938. I morti in miniera diventano 32 nell’anno seguente. Questi fatti narrati dicono la precarietà della vita nel lavoro di miniera durante il regime fascista orientato alla guerra, e che destinava pertanto la città, nata in fretta, a una vita breve. Tore Cherchi ricorda oltre 300 morti nelle miniere di Carbonia, dei quali 138 a Serbariu. Richiama la vicenda della medaglia d’argento al valor civile, conferita alla città nel 2011 dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Riprende il patire dei lutti storici come problematico bene comune del presente.
Egli, a mio modo di vedere e come ho avuto modo di verificare, nel suo impegno come sindaco raccoglie il pathos dei lutti e del difficile poter vivere di miniera insieme al versante delle esperienze minerarie capaci di diventare produttive di vita. Unisce ai lutti, cioè, le esperienze caratteristiche e le capacità tecniche e culturali dei minatori di trasformare i rischi mortali in opportunità di vita. Egli pertanto, a mio modo di vedere, assume i saper fare che producevano securitas biografica individuale e collettiva di vita in miniera, e che erano anche saper vivere solidali, traducendoli in significati culturali amministrativi di nuova securitas in ogni iniziativa rigenerativa di vita per la città, nella città e della città. Egli, in tal modo, fa proprio e mette in continuità il filone storico-culturale del produrre sicurezze di vita a partire dagli spazi rischiosi di miniera. Assume il saper fare come saper vivere dei bravi minatori, per tradurlo in linee operative della sua amministrazione. Per esempio, realizza opere significative di rigenerazion e di ri-vitalizzazione di vari siti, democraticamente condivisi dalle persone come luoghi pubblici, dando loro nuovi tempi di funzioni e di vita. La grande miniera di Serbariu è forse l’esperienza più vistosa di rigenerazione di un sito nella complessiva rigenerazione urbana, che ha anche una precisa valenza di rivitalizzazione temporale. Nell’arco temporale, ogni intervento di questo sindaco che ri-crea nuovi luoghi di vita si può intendere, antropologicamente, come una congiunzione storico- culturale con la migliore cultura securitaria creata dai bravi minatori della città, capaci di trasformare i luoghi di rischi di vita in luoghi di opportunità di vita sicura. La rigenerazione urbana, a ben vedere, è per lui produzione di nuove sicurezze di vita durevole, condivisa nel tempo. Come viene ponderata tale misura, tale metrica di rivitalizzazione dei luoghi e dei tempi di vita cittadina?
Tore Cherchi usa particolari misure ponderate per congiungere i bisogni collettivi con quelli individuali. Per esempio, la sua ponderazione operativa, calibrata su differenti bisogni, appare chiaramente quando parla con pacata comprensione di interventi edilizi esteticamente discutibili, da lui ripresi con soluzioni messe in campo per accogliere bisogni individuali, riqualificando tali bisogni in uno storico e collettivo patrimonio edilizio qualificato. Tore Cherchi porta quindi ad un livello culturale molto alto e fortemente solidale il bisogno di vivere e di vivere bene in una bella città: un livello che marca quel suo presente amministrativo aprendovi un futuro al meglio, anche se dopo di lui, in tutta evidenza, è avvenuto un peggior tempo istituzionale a Carbonia. La cultura del tempo vitale per la città, nella e della città, come quella dei minatori nella quotidianità del sottosuolo e nelle loro storiche lotte popolari democratiche, è una cultura che tende a produrre futuro nell’azione amministrativa complessiva di questo sindaco. Egli tende ad affermare insieme la vita e la qualità della vita della città. La mia tesi principale, pertanto. riguarda Tore Cherchi come produttore di futuro e di miglior futuro per la città. Seguiamo, a tal proposito, la sua politica del tempo.
Gli incontri di Tore Cherchi con Renato Mistroni e con Giorgio Carta nella sua narrazione, a mio modo di vedere, si inseriscono nell’arco del loro impegno per una di vita durevole per la città, democraticamente condivisa. Riguardano, per alcuni versi, certe consonanze che i modi d’agire di quelle persone in quei tempi avevano con le tensioni democratiche che premevano Tore Cherchi.

Nell’arco temporale, culturale e democratico, aperto da quelle due persone, questo sindaco si dispone prendendo in carico una città che storicamente è capace di elaborare culturalmente i suoi lutti e che risponde ai lutti affermando il proprio voler vivere e saper vivere solidale, in miniera e in città. Dell’esperienza antropologica vitale del sottosuolo e della città, Tore Cherchi comprende e assume antropologicamente nelle sue azioni amministrative il diritto a poter vivere, diritto che costituisce la trama culturale quotidiana dell’antropologia mineraria e urbano-mineraria della Carbonia solidale. Si tratta di una trama di antropologia quotidiana, di uomini e di donne che rifondarono la città non sulla durezza delle pietre, ma sulla forza relazionale della solidarietà. Tale forza nutrì non solo i grandi scioperi a partire dal 1948, ma sostenne l’istituzione locale quando ebbe i suoi migliori sindaci, tali da produrre un futuro condivisibile e tali da incoraggiare, per programmi e per qualità personali, una grande partecipazione elettorale, come accadde con le elezioni di questo sindaco.
Tore Cherchi si situa in un solco storico e democratico, popolare e istituzionale, di un diritto a poter vivere, e di poter vivere nel bello artistico delle persone e della città, attraverso la produzione di un futuro condiviso democraticamente di vita durevole e di bellezze artistiche per la città. Non mancano, a questo punto, quando ricorda le dimissioni da ogni incarico da parte dell’ingegner Giorgio Carta, le sue misurate parti critiche rivolte alla degenerazione e alle ingerenze dei partiti nella nomina dei dirigenti di società pubbliche. Quando detto sul forte arco storico-culturale per affermare il diritto a una vita durevole condivisa nel bello, propria di Carbonia e della cittadinanza, attraversa vari tempi e costituisce la politica del tempo caratteristica dell’azione di governo comunale di Tore Cherchi. Ma a quale cittadinanza si rivolgeva Tore Cherchi?
4. La politica unitaria delle culture industriali e rurali realizzata da Tore Cherchi
Vorrei ora spostare l’attenzione verso uno speciale versante, che non può  essere sottovalutato. Come sindaco, l’autore racconta di aver assunto storicamente il contesto comunale, territoriale e culturale, come città e come campagna. Si tratta di un’affermazione assai rilevante, istituzionalmente e culturalmente. Riguarda un territorio comunale antropicamente e antropologicamente negato dal fascismo mussoliniano, o meglio ridotto al livello di territorio spopolato, con un plateale falso storico nella inconfutabilità della parola del duce. Per capire l’importanza della scelta e delle parole di Tore Cherchi bisogna risalire al discorso inaugurale di Mussolini a Carbonia, il 18 dicembre del 1938. Mussolini, nella sua svolta industrialista e bellicista che abbandonava il precedente ruralismo, parlò del Sulcis come una “landa quasi deserta”. In realtà, nel Censimento del 1936, i Comuni sulcitani istituiti erano diventati ben nove: Giba, Gonnesa, Narcao, Palmas Suergiu, Portoscuso, Santadi, Serbariu, Teulada, Tratalias. Si trattava di Comuni autonomi, nati dall’evoluzione degli abitati sparsi a partire dalla loro nascita nella seconda metà del 1700.
Tore Cherchi racconta che 20 medaus furono tutelati come beni paesaggistici alla stregua del centro storico della città, fra gli 82 che costituiscono l’abitato rurale sparso comunale, rilevati nel 2006 come complessiva trama dei medaus per l’elaborazione del PUC, approvato dalla Regione nel 2011, sindaco Tore Cherchi (Cherchi 2021: 92-93). Egli ne sottolinea l’ampia valenza culturale quando, considerando il valore non solo archeologico, ma anche antropologico del sito di Medau Is Maccionis o Medau sa Grutta, afferma la validità di farne «l’epicentro di un progetto culturale sul territorio rurale e sulla civiltà agropastorale di Carbonia e del Sulcis, l’altro mondo convivente con quello industriale» (Cherchi 2021:112).
Questo sindaco esprime una concezione assai avanzata e molto utile, anche operativamente, del rapporto fra cultura industriale e rurale, rapporto che costituisce la ricca trama culturale unitaria della città. Fra l’altro, consente di riprendere le linee progettuali dell’Ecomuseo, elaborate dall’Istituto di discipline socio-antropologiche dell’Università di Cagliari negli anni Ottanta del secolo scorso e di tradurla in un immediato futuro, con i necessari adeguamenti. Permette, inoltre, di riprendere parternariati inevasi dal Comune di Carbonia con quella Università, per declinare nuovi modi che possono caratterizzare le esperienze rurali con le loro eccellenze tecno-culturali, anche di nuova economia circolare e sostenibile, a cui l’autore fa in generale riferimento nel suo libro. Sottolineo ancora, pertanto, che Tore Cherchi ha assunto, in tutta evidenza, la città e la campagna di Carbonia come impegno unitario delle due culture, industriale e rurale, di non breve momento e particolarmente volto al futuro. Tale impegno richiede di essere ora sviluppato.
5. La produzione di futuro realizzata da Tore Cherchi. Un fatto culturale di grande rilevanza che continua nel libro e che il libro riapre nel presente
Prima di concludere, per riassumere senza presentare un quadro idilliaco delle attività amministrative di Tore Cherchi, segnalerò due rapporti critici che lui ha avuto trattando con altre istituzioni, o come sindaco o come Responsabile del Piano Sulcis. Sul primo versante critico segnalo il rapporto critico con il Parco Geominerario che è «divenuto di nessun aiuto al bacino minerario» (Cherchi 2021:77). Sul secondo lato indico i ritardi dei finanziamenti del piano Sulcis da parte della Regione (Cherchi 2021:131-132). Entrambe le esperienze critiche, in tutta evidenza, hanno limitato il suo perimetro di azione.
Non posso soffermarmi, per evidenti ragioni di tempo, sulla valorizzazione artistica della città, né sulla qualificazione della mobilità realizzata da Tore Cherchi che possono essere sottolineate da altre persone. Richiamerò invece per concludere solo due tesi, emergenti dalla lettura del libro, sull’eccellente lavoro autonomistico e di cultura democratica raccontata.
Riguardano lo stile autonomistico di questo sindaco, sia per le produzioni di futuro durevole condiviso, come ho in parte detto, e sia per le produzioni di partecipazione democratica: produzioni che caratterizzano lo stile e la cultura politica autonomistica dis-assoggettante di questo sindaco per Carbonia come istituzione locale ed anche per sé, come sindaco. Per tali fini, esplicito alcune mie posizioni.
Sostengo che la produzione di fatti amministrativi volti al futuro da parte di Tore Cherchi è, in sé, una produzione culturale di futuro. Cito solo nelle mie conclusioni, per rafforzare la mia tesi non avendo tempo sufficiente per argomentare più compiutamente, il libro di Arjun Appadurai del 2013 e tradotto in Italia l’anno seguente, Il futuro come fatto culturale: Saggi sulla condizione globale.
Affermo, inoltre, che la produzione di un’attiva partecipazione della cittadinanza alle imprese culturali, promosse da Tore Cherchi come sindaco, è stata un tratto caratteristico del suo stile amministrativo produttivo di nuova socialità: produttivo di nuovi modi solidali di stare insieme e di creare nuovi “noi” di cittadinanza solidale. Riprendo dal libro, a tal proposito, alcuni ricordi. In primis l’importanza qualitativa dei reperti situati nella Sezione Antropologica, con il prezioso contributo delle ricercatrici Claudia Fenu e Maura Murru, come fa l’autore (Cherchi 2021:78). Ricordo inoltre l’importante contributo dell’assessora Maura Saddi alle feste dei donatori a cui partecipavano anche molti donatori anonimi che non voglio dimenticare. Segnalo pertanto che il nostro validissimo consulente André Dubuc, direttore del pluripremiato Museo Minerario di Leward a Pas-de-Calais, nel Nord della Francia, valorizzava ogni piccolo dono, affermando che quei reperti erano preziosissimi un quanto davano forte carattere di autenticità culturale al museo che nasceva a Serbariu. Devo ricordare anche lo straordinario contributo della Società Umanitaria e in particolare di Tore Figus, contributo partito con il sostegno regionale di Fabio Masala che aveva sollecitato e ottenuto impegni nazionali della società Umanitaria già nella fase di elaborazione delle linee culturali della rete di Ecomuseo territoriale che Carbonia doveva promuovere. Richiamo, riferendomi ancora al testo, l’insostituibile apporto della Sezione di Storia Locale del Sistema Bibliotecario Interurbano del Sulcis (SBIS), ben diretto da Maria Giovanna Musa nel lavoro archivistico e ben portato avanti da tutte le collaboratrici scientifiche della cooperativa.
Ricordo, in particolare, l’iniziale raccolta di foto che faceva diventare beni comuni i beni privati, costituiti dalla foto degli album di famiglia, come accadde poi in generale per gli oggetti di miniera, con molte donazioni anonime. Le fotografie ebbero esito culturale in vari calendari e un libro, intitolato Carbonia in chiaroscuro, edito nel 2002. Le fotografie ebbero poi una postazione, a video multipli, nella Sezione Antropologica e, infine, in città, nei totem del CIAM a cui quella raccolta, organizzata dalla Società Umanitaria e di cui avevo la direzione scientifica, ha dato un suo imprescindibile contributo.
Entrambi gli obiettivi perseguiti da Tore Cherchi, sia l’obiettivo di produzione di futuro durevole condiviso e sia di attiva partecipazione democratica, devono essere ora rilanciati e corroborati in forme e contenuti nuovi, considerata la crisi della democrazia partecipativa, specialmente a livello locale dove i passi indietro, anche di partecipazione elettorale, sono assai vistosi.
Nel racconto di Tore Cherchi emergono varie direttrici, numerosi strati e pieghe di narrazione, fra cui io ho privilegiato gli assi e le prassi culturali delle soggettivazioni autonomistiche: cioè, come ho detto, del farsi soggetti potenziantesi di scelte autonome, sia dell’istituzione comunale e sia del sindaco stesso, come sindaco autonomistico di particolare eccellenza.
Ho privilegiato gli assi e le prassi delle soggettivazioni, istituzionali e personali, come antropologicamente rilevanti e che s’incrociano nell’antropologia delle istituzioni e nel farsi persona, nel piano ontologico. Infatti, la trasformazione del comune di Carbonia, ente assoggettato ai vari centralismi dominanti, nel suo divenire autonomo soggetto di scelta e di decisione, interseca il divenire di Tore Cherchi mentre realizza una propria trasformazione da sindaco sottomesso ai vincoli dei poteri di livello più alto, Egli diventa, tuttavia, capace di operare anche per una propria autonomia personale, culturale e politica, di sindaco autonomista, nel non subire passivamente i vincoli, ma operando nel superarli anche verso di sé, in quanto sindaco, a partire dal rafforzamento dell’autonomia della città per volgere la nuova forza decisionale della città come nuovo rafforzamento del proprio ruolo personale di sindaco. I finanziamenti ottenuti dalla città ai tempi di Tore Cherchi, infatti, furono dovuti a una straordinaria e personale capacità di vincere vari bandi pubblici, nazionali ed europei, attraverso i quali le spese d’interesse per i mutui e le quote partecipative ai finanziamenti furono assai inferiori rispetto agli enormi benefici di risorse acquisite per la città (Cherchi 2021:128).Un nuovo percorso autonomistico di Tore Cherchi si apre ora, a partire da questo libro.
Ho mostrato come egli abbia concettualmente e praticamente attraversato molte temporalità di Carbonia, molti tempi con caratteri storici e identificazioni culturali, imposte o autonome, differenti: città fascista incompiuta, città della ricostruzione industriale, città dei vari tempi delle chiusure delle miniere, città della nascita di Portovesme, città dell’abbandono delle PP.SS. e dello Stato, città dei servizi e della rigenerazione urbana volta a un futuro durevole condiviso.
Ho sottolineato come Tore Cherchi abbia realizzato a Carbonia un’esperienza autonomistica assai fruttuosa nel tempo, per tutti noi e per la Sardegna. Si tratta di un’esperienza da ripensare ora adeguatamente, in questi nostri tempi di molteplici rischi di vita.
Questo libro induce a un importante ripensamento per la nostra contemporaneità. Ciò può avvenire con nuovi progetti di conoscenza, suoi e anche nostri. Per esempio, sull’abbandono delle PP.SS. appare nel libro la giustificazione di uno stato di necessità che forse va ora accompagnato da qualche ripensamento delle politiche pubbliche, come appare dagli studi di economisti democratici raccolti, per esempio, da Mazzucato e Jacobs nel loro libro Ripensare il capitalismo (2016). Si tratta di un ripensamento che riguarda l’Europa e gli Stati europei in chiave di federalismo democratico, di un socialismo partecipativo e di un’Europa da democratizzare, se si seguono le traiettorie dell’ultimo Piketty attento alle ideologie neoliberistiche ineguaglianti, ancora ben vive e attive, per quanto visibilmente in crisi (2017, 2020, 2021). Il ripensamento tocca anche l’autonomismo regionale nel quadro di un federalismo democratico, e non di autonomie differenziate ed inferiorizzanti, come vogliono le destre sovraniste assolutamente libere da ogni responsabilità sociale, verso le quali l’azione politica delle sinistre in Sardegna mostra gravi carenze culturali e politiche.
Nei quadri d’epoca di autonomia democratica, che si susseguono negli spazi e nei tempi della narrazione del libro, Tore Cherchi appare pertanto produttore di futuro e di partecipazione democratica condivisa, sia nel fare amministrativo e sia nel fare narrazione scritta. Di entrambe le esperienze gli sono assai e profondamente grata.
Nella scrittura di questo libro l’asse culturale antropologicamente rilevante è l’impegno per un complesso di cambiamenti partecipativi tesi a un futuro durevole, democraticamente condiviso.
La mia tesi è che Tore Cherchi, come sindaco e come autore di questo libro, è stato ed è produttore di futuro e di partecipazione democratica come fatto culturale di rilevanza antropologica, nel solco del pensiero di Appadurai.
Con questo libro, a mio avviso, si apre a una nuova temporalità autonomistica di Carbonia e della Sardegna: sia nei rischi diffusi creati dalla globalizzazione neoliberistica, in crisi e tuttavia ancora economicamente e ideologicamente forte, e sia nei rischi di incompiutezza e di precarietà della nostra stessa costituzione, non realizzata in certi aspetti istituzionali e sociali, specie localmente nel Meridione italiano e nei luoghi di spopolamento, come la nostra città. Si tratta di rischi esistenziali che la post-pandemia, a ben vedere, pone in un nuovo piano di rischi democratici, che richiedono ineludibili e di urgenti interventi.
Tore Cherchi, con questo libro, apre nuove prospettive, su molti piani:
– per inedite produzioni di futuro durevole condiviso democraticamente, come fatti culturali antropologicamente rilevanti, a partire da Carbonia e dalla nostra Isola;

– per innovative imprese di democratizzazione dell’Europa attraverso un federalismo democratico e a orientamento sociale partecipativo, nei vari rischi dell’ineguale e difficile poter vivere del presente;
– per inventivi e sperimentali modelli di democrazia partecipata, a varie scale territoriali e istituzionali, che riguardano anche il futuro e lo sviluppo degli studi antropologici.

Paola Atzeni

Antropologa

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N.B. Le foto allegate sono state scattate il giorno della presentazione del libro, svoltasi nella sala Centro di documentazione di Storia locale della Grande Miniera di Serbariu.

Nel lessico politico della città di Carbonia, nei programmi e negli impegni culturali che cominciano ad apparire, se ho visto bene, non compare la parola antropologia che studia le esperienze delle relazioni umane, con i loro valori e disvalori culturali. Si tratta di un fatto assai significativo. Il noto antropologo francese Marc Augé nel 1994 scriveva così nel suo Storie del presente. Per un’antropologia dei mondi contemporanei, proprio nella prima frase del primo capitolo: «Il termine «antropologia» è oggi servito in tutte le salse». Egli affermava che l’antropologia poteva rallegrarsene, ma poteva anche inquietarsene.
Infatti, mentre il nocciolo del discorso antropologico combinava la triplice esigenza della scelta di un terreno, dell’applicazione di un metodo, e della costruzione di un oggetto di ricerca, l’antropologia era diluita in vaghe allusioni, non fondate scientificamente. Non è il caso della cultura politica carboniese e dei programmi di politica culturale cittadina, in cui la parola antropologia pare del tutto assente. Si tratta di un fatto che richiede spiegazioni dai protagonisti di tali discorsi e di tali programmi.
A questo proposito, vengo subito all’antropologia come punto importante e inespresso di discorsi politici per obiettivi culturali realizzabili nella città e della città. Si tratta di un punto che riguarda la valenza antropologica, distintiva e caratterizzante l’esperienza urbana di Carbonia, che ha reso durevoli originali valori democratici della città, propri della sua cittadinanza democratica per lungo tempo: la capacità culturale delle persone che davano vita alla città, non solo tecnicamente ed economicamente, ma con specifici modi di lavorare e di abitare che producevano originali relazioni di umanità solidale. Si tratta di un complesso e ricco fenomeno culturale con spessori ed ampiezze che fece e fa di Carbonia uno straordinario
laboratorio antropologico: aperto e funzionante in un antifascismo e in una democrazia a trama minuta e quotidiana. Un laboratorio antropologico che si è palesato in varie lotte popolari per un futuro vivibile egualmente condiviso. Carbonia appare differente da altri centri minerari con esperienze di grande valore culturale. Altri centri minerari non ebbero una fondazione voluta da un fascismo che si volle imperiale e razzista e che il razionalismo architettonico non può far dimenticare. La città seppe uscire democraticamente dalle contingenze della sua fondazione fascista, nonostante l’impianto urbanistico gerarchizzante, la toponomastica che esaltava il fascismo e la negazione della storica antropizzazione rurale locale che Mussolini riduceva alla definizione di “landa quasi deserta”, nella sua svolta industrialista e bellica che determinava la nascita di Carbonia.
Studi antropologici nella e della città hanno contribuito a far nascere e operano ancor oggi per far valere, specialmente in Italia e in Europa, una specifica antropologia mineraria e industriale. Tali studi agiscono nell’ambito di una disciplina condizionata storicamente dal colonialismo, dall’esotismo, dal ruralismo. L’antropologia è stata, generalmente, poco attenta a certe differenze culturali, locali e globali, sociali e di genere, proprie della modernità industriale e delle sue crisi, con esperienze umane disumanizzanti ma anche resistenziali o alternative, emancipative o liberatrici. La democratica antropologia mineraria è stata ed è ancora impegnata in un confronto accademico, non solo teorico ma anche pratico, condizionato da asimmetriche relazioni e assetti di potere accademico. Tuttavia, tale antropologia mineraria democratica si cimenta assai valorosamente in vari confronti all’interno della disciplina stessa,
con un orientamento che riguarda ora principalmente, ma non solo, il cosiddetto “post-industriale”. Nel post-industriale di nuova attenzione culturale, Carbonia assume una particolare rilevanza antropologica, e politica, specialmente nell’attuale fase di necessaria transizione ecologica.
In questo periodo storico, certe necessarie trasformazioni locali e territoriali richiederanno di essere sostenute, perfino con certi nuovi progetti amministrativi che faranno capo a finanziamenti europei, partendo dallo spoglio e dal confronto delle fonti storiche. L’archivio comunale, pertanto, non solo deve essere sottratto all’incuria e all’abbandono, ma deve necessariamente essere informatizzato e valorizzato come vera e propria “miniera di dati”, da cui estrarre informazioni, ordinabili e tematizzabili con efficaci opzioni, anche per rendere realizzabili e validabili nuovi progetti. Il nuovo ordinamento dello storico Archivio Comunale, aperto a nuove fruibilità, riguarda ovviamente anche l’organizzazione della stessa struttura comunale, per la quale un nuovo assetto informatico fu previsto fin dal 1979, con una precisa delibera del Consiglio Comunale. Tali aspetti, interessano anche l’antropologia delle istituzioni, cioè il modo in cui l’amministrazione vorrà caratterizzare l’operatività comunale, tenendo conto anche dei trattamenti che riserverà agli accessi conoscitivi e agli esiti deliberativi, passati, presenti e futuri, per rendere partecipe la popolazione delle esperienze storico-antropologiche della città.
L’antropologia nella città e della città di Carbonia non è solo depositata nei libri e nei confronti accademici di convegni, seminari, dibattiti, tesi di laurea ed altro ancora. Ha trovato spazio localmente, per esempio, nel raro impegno culturale del sindaco Tore Cherchi che ha consentito l’istituzione della Sezione Antropologica nella Grande Miniera di Serbariu. In poco più di 100 metri quadri, che corrispondono a uno dei corridoi con le docce della miniera, dialogano varie discipline: antropologia mineraria, etnografia visiva, storia, ingegneria mineraria, medicina del lavoro, archivistica, museologia, espografia, grafica…Il dialogo interdisciplinare, sgorgava da un comitato scientifico ben vivo e attivo, istituito e reso dinamico da periodici incontri, attivati dallo stesso sindaco che vi contribuiva continuamente. Il comitato scientifico, a cui l’antropologia ha dato impegni non sottovalutabili, non è stato più convocato e non mi risulta che sia stato rinnovato con nuove nomine. Per Medau Sa Grutta, inoltre, egli aveva sollecitato un progetto etno-antropologico, dal momento che gli studi antropologici sugli habitat sparsi sulcitani avevano interessato le ricerche sull’architettura popolare e avevano trovato spazio sia in un’importante collana nazionale edita da Laterza, sia in un testo sulla Sardegna, pubblicato in quella collana nel 1988. Tuttavia, l’antropologia è stata bandita da Medau Sa Grutta e non sta a me fornirne spiegazioni.
Tore Cherchi ha dato all’antropologia uno spazio qualitativamente importante e ben visibile sebbene ridotto, uno spazio prima negato per molto tempo all’antropologia, se si pensa che l’Università di Cagliari e in particolare l’Istituto di Discipline Socio-Antropologiche, fin dai primi anni Ottanta, presentò all’Amministrazione Comunale di Carbonia le linee di un progetto museale territoriale chiamato Ecomuseo, allora poco conosciuto e assai innovativo, ispirato da modelli francesi. Si tratta di un progetto finito nel nulla.
Richiamo alla memoria una costellazione di fatti. Nel 1982 l’Amministrazione Comunale formulò una richiesta di collaborazione all’Istituto di Discipline Socio-Antropologiche Nel 1983 promosse un Convegno dal titolo Carbonia. Un progetto per la memoria storica e la cultura materiale. Nel 1987 il Comune di Carbonia acquistò il progetto preliminare dell’Istituto di Discipline Socio-Antropologiche con le linee ispiratrici del progetto attuativo di un museo territoriale, chiamato Ecomuseo. Una delibera del Consiglio Comunale approvò una Convenzione tra l’Amministrazione Comunale e il Consiglio di Amministrazione dell’Università di Cagliari, il quale approvò quella Convenzione nella seduta del primo settembre 1988. Era stato fatto tutto quanto era necessario sul piano istituzionale. Non so quali successive delibere cambiarono quelle decisioni e stornarono le relative spese in bilancio. Sappiamo bene che Ecomusei si fecero altrove, nel Sulcis e in Sardegna, come in altre Regioni italiane. Ricordo, doverosamente, che il progetto era sostenuto per la Società Umanitaria regionalmente da Fabio Masala, oltre che da dirigenti nazionali di questa società che vennero ripetutamente da Milano, partecipando a  vari convegni per sostenere la realizzazione di quell’obiettivo ecomuseale.
Pare a me, nell’attuale fase di transizione per la riconversione ecologica, che una innovativa amministrazione comunale abbia non poche ragioni culturali per riprendere, rimotivare, rimodulare, rifinalizzare le direttrici antropologiche e multidisciplinari delineate in quello storico progetto di Ecomuseo territoriale, a partire dalle sue sedi dislocate e articolate, come “antenne”, nella rete delle frazioni industriali e rurali, inurbate e non inurbate. La concezione del museo era, ed è ancor più oggi, assai cambiata. Il museo non è più un mero deposito di oggetti, staticamente esposti. Il museo si caratterizza ormai da molto tempo, secondo la nuova museologia, come fabbrica di esposizioni a lavorazione continua per produrre mostre temporanee, possibilmente interattive: in genere almeno quattro all’anno, che accompagnano la mostra permanente, prevista istituzionalmente come stabile. Le mostre possono essere residenziali o itineranti per far conoscere la città. Sono orientate dal Comitato scientifico interdisciplinare, ma si servono di varie competenze legate a ricercatori, sia stabili e sia legati ai vari progetti.
A mio avviso, un tale innovativo progetto museale, antropologico e multidisciplinare, a carattere diffuso di Ecomuseo territoriale, come continua fabbrica di mostre residenziali e specialmente itineranti, potrebbe comprendere le bonifiche delle discariche minerarie ed essere aperto alle varie esperienze artistiche e creative. Potrebbe, soprattutto in questa fase, esporre e valorizzare ogni innovazione produttiva che ha marcato e marca il territorio cittadino e la zona, anche con esposizioni aziendali culturalmente validate, dando un forte senso culturale ad ogni iniziativa di transizione ecologica, in opera o via via realizzata. Potrebbe, infatti, collegare elementi della fase contemporanea di transizione ecologica alle storiche e caratterizzanti esperienze umane di saper vivere e di saper far vivere che marcarono culturalmente, secondo i tempi e i modi, sia certe relazioni antropologiche nella città e sia le identità della città: continuamente reinventata da rurale a industriale, da industriale a terziaria, non più monocolturale ma tesa verso un futuro di vita durevole.
Credo che tale cimento, articolato e precisato negli obiettivi di risorse finanziarie e umane, in connessione a vari programmi europei per modi e cronoprogrammi, sia il necessario risarcimento di attenzione e di impegno che una seria amministrazione deve in primo luogo alle future generazioni della città. Tale impegno può essere attraversato e realizzato proprio grazie all’apporto delle discipline antropologiche, trascurate e neglette, non si sa se per limiti culturali di certe politiche amministrative o per miopi calcoli basati solo sul peso elettorale di tali discipline, considerato esiguo.
Il peso culturale delle discipline antropologiche, in realtà, non è irrisorio nel presente, e neppure nel futuro della politica culturale della città. Non si tratta, infatti, di un recupero né di “radici”, né di “semi”, né di “DNA”, espressi dal senso comune senza fondamenti scientifici per essere validati come fatti culturali.
La dimensione culturale non può essere ridotta solo al biologico, anche se la cultura è prodotta da corpi viventi, può essere conosciuta mentalmente e può essere incorporata negli stili di vita individuali e comunitari. Non si tratta quindi di recuperare semplicemente elementi significativi delle identità del passato, ma di saper cogliere l’imprescindibile contributo scientifico che le discipline antropologiche hanno dato e danno per capire il senso e la portata dei continui cambiamenti delle identità individuali e di gruppi, locali e territoriali. Tali aspetti, riguardanti i rapidi mutamenti culturali e identitari negli ambienti minerari, sono emersi con particolare vigore specialmente in un recente incontro internazionale, promosso dall’Università di Cagliari nel novembre del 2019. L’incontro aveva un titolo significativo che richiamava le esperienze di cambiamento culturale personale e collettivo, dei luoghi e dei territori nella complessiva vita
globale delle miniere, nel minerario e nel post-minerario, fra estrattivismo e creazione di un patrimonio: The Global Life of Mines. Mining and post-mining between Extractivism and Heritage-Making.
Si tratta di temi e di problemi antropologici che risultano ormai non più rinviabili per una attuale politica culturale nella e della città, nell’avanzare del tempo e dei nuovi bisogni culturali che implicano in certi modi le relazioni sia di genere e sia di giovani generazioni, le cui identità sono annichilite nelle disoccupazioni e frantumate nei “lavoretti” precari. Tali relazioni sono particolarmente sollecitative per realizzare una politica culturale adeguata alle nuove domande socio-culturali, più o meno esplicitate ma assai importanti nei rischi e nelle opportunità del nostro difficile poter vivere. Si tratta di bisogni culturali che sollecitano cambiamenti delle culture politiche locali e delle politiche culturali, particolarmente urgenti nel fragile presente di salute e di istruzione formativa, industriale e rurale, che Carbonia vive dolorosamente: per produrre un nuovo futuro, condiviso con pratiche accomunanti creative e inventive, capaci di caratterizzare antropologicamente innovative identità personali e collettive in metamorfosi nella  città e della città, abili nel farla in nuovi modi solidale e durevole.

Paola Atzeni