26 December, 2024
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Rodolfo Valentino fu il massimo attore di film muto degli anni ‘20. Fu tanto amato da suscitare, nei suoi fans, il primo fenomeno di massa mai visto: la “divinizzazione”, essendo ancora in vita. Da quel fatto, ancora oggi deriva l’espressione “divo del cinema”.
La sua fama mondiale era esplosa col film “I quattro cavalieri dell’Apocalisse”, per effetto di una famosa scena in cui egli ballava il “tango argentino”. Morì a 31 anni nel più importante ospedale di New York, dopo un’operazione per appendicite acuta complicata da peritonite. In tutto il mondo, i suoi ammiratori dettero luogo a scene di disperazione isterica.
Nel 1977 si ricoverò nel reparto Chirurgia dell’ospedale Sirai di Carbonia il suo sparring partner. Anche costui era un pugliese che era emigrato in America da ragazzino. Aveva conosciuto Rodolfo Valentino a San Francisco e con lui aveva fatto squadra nelle gare di tango organizzate dalle balere americane. Erano gare pazzesche che duravano ininterrottamente per più giorni, senza dormire e senza fermarsi mai. Chi sopravviveva alla fatica vinceva cospicue somme di denaro. Quando costui si ricoverò al Sirai, a causa di una gangrena alla gamba destra, raccontò che talvolta in quelle gare vinceva Rodolfo Valentino e talvolta lui stesso. In valigia aveva articoli e fotografie di rotocalchi americani dell’epoca che lo ritraevano col “divino” e le mostrò con fierezza. Era tutto vero: era proprio il compagno di gare di Rodolfo Valentino. Invecchiando si ritrovò in solitudine e decise di tornare in Italia ma, non avendo più parenti in Puglie, decise di venire ad invecchiare a Carloforte.
Trascorreva le giornate fumando come aveva sempre fatto. In valigia, oltre ai rotocalchi americani degli anni ‘20, aveva stecche di sigarette americane. Il primario, professor Lionello Orrù, lo avvisò che per tentare di fermare la gangrena era necessario smettere di fumare lui, magrissimo, sempre sorridente e molto cortese, continuò a fumare nascondendosi in bagno o nei balconi. La suora ogni giorno gli sequestrava le stecche di sigarette ma l’indomani, sotto il materasso, si materializzavano altre stecche di Chesterfield e Pall Mall.
La gangrena peggiorò. I farmaci vasodilatatori erano chiaramente inutili e lui concordò: «Professore, non posso smettere di fumare e non posso più tollerare i dolori alla gamba. Me la tagli». Fu una scena incredibile. Lui, che aveva vissuto in virtù delle doti atletiche delle sue gambe nelle esibizioni di ballo col “divino”, preferiva rinunciare alla gamba destra piuttosto che alle sigarette. Il professore lo accontentò e dette disposizione ai suoi “aiuti” di eseguire l’amputazione a livello della coscia destra. Egli avrebbe seguito l’intervento. L’indomani il ballerino era sereno e sorridente. Continuò a fumare.
Non si capì mai chi gli portasse le sigarette: si trattava di un miracolo derivato dalla sua pensione in dollari americani. Dopo una settimana comparvero i segni della gangrena anche alla gamba sinistra. Il professor Lionello Orrù lo mise in guardia: «Se continua a fumare perderà anche l’altra gamba». Nei giorni successivi i dolori alla gamba sinistra peggiorarono e la gangrena salì dal piede alla caviglia. Nonostante tutto continuò a fumare e nessun discorso del Primario lo fece desistere. Fu lui stesso a risolvere il problema con questa proposta: «Professore mi tagli anche l’altra gamba perché io voglio continuare a fumare ma non tollero più i dolori che mi dà». Il professore lo accontentò e dette disposizione agli “assistenti” di eseguire l’intervento di amputazione, lui avrebbe seguito l’operazione. Il primario desiderava che tutti i chirurghi eseguissero correntemente quel tipo di intervento così come le operazioni per peritonite, per occlusione intestinale e per rottura traumatica di milza. Voleva che chiunque fosse presente in servizio, in sua assenza o in assenza degli “aiuti” più esperti, fosse in grado di eseguire con urgenza quel genere di operazioni salva-vita.
Era l’anno 1977 e l’ordinamento degli ospedali era ancora sotto le leggi Mariotti 132/ ‘68 e 128/ ‘69 ed esisteva nei reparti ospedalieri una struttura gerarchica dei medici ben definita; essa era formata dal primario, dagli “aiuti” e dagli “assistenti”. Tale struttura aveva un duplice fine. Primo creare una scala di responsabilità e di autorevolezza. Secondo: addestrare i medici e formarli alla professione.
La legge 128/’69 definiva esattamente, all’articolo 7, che il Primario aveva tutti i poteri, le responsabilità e tutti i doveri: doveva vigilare sul lavoro di medici ed infermieri e aveva la responsabilità di tutti i malati; era il giudice unico sui criteri diagnostici e terapeutici a cui dovevano attenersi gli “aiuti” e gli “assistenti”; formulava la diagnosi definitiva; doveva inoltre indicare la terapia medica o la tecnica chirurgica da adottarsi nel caso fosse necessaria un’operazione. Doveva eseguire personalmente sui malati gli interventi diagnostici e le operazioni chirurgiche curative che riteneva di non dover affidare ai suoi collaboratori; era l’unico che poteva autorizzare le dimissioni. Ne derivava che sui primari, con la loro responsabilità assoluta su tutto, ricadessero oneri ed onori; per tale ragione, i detrattori li definivano “baroni”. Un articolo successivo della legge 128 disponeva che il primario si impegnasse a mantenere elevato il livello culturale dei medici con una formazione continua sul campo. Egli era il caposcuola e la sua missione di insegnamento conferiva all’ospedale le funzioni di “ospedale di specializzazione”.
Insomma, per i medici il primario era il maestro e il parafulmine da tutti i guai. Gli “aiuti” venivano dopo il primario. Essi erano i medici più titolati, dotati di una certificazione di idoneità rilasciata da una commissione d’esame nazionale con sede a Roma. La legge disponeva che essi sostituissero il primario, in tutte le sue funzioni, ogni qualvolta fosse assente. Era come se la figura del “primario” fosse sempre presente e non se ne sentiva mai la mancanza. Al terzo livello erano classificati gli “assistenti”; si trattava dei medici più giovani, meno esperti, usciti da poco dall’Università, ma ancora da formare come professionisti specialisti.
Ogni Ospedale era una vera e propria scuola di formazione continua nella pratica medica. L’Università aveva fornito la cultura basilare portando gli studenti alla laurea in Medicina, e l’esame di Stato aveva garantito che il neonato medico fosse idoneo ad esercitare la professione come medico generico.
La costruzione professionale dei medici ospedalieri avveniva in ospedale ed era affidata al primario e agli “aiuti”. Mentre il primario era la figura carismatica autorevole che presiedeva la “scuola”, gli “aiuti” erano gli “istruttori” sempre disponibili e pronti a familiarizzare mentre addestravano gli “assistenti” alla professione.
La “scuola ospedaliera” di formazione alla professione di medico specialista (chirurgo, internista, ostetrico , traumatologo, pediatra, etc.) garantiva la costituzione di un perenne capitale culturale e umano all’interno dell’ospedale. Questo rapporto formativo continuo fra primario, “aiuti” e “assistenti” generava un rapporto di fidelizzazione tra medici, ospedali e territorio, e spesso induceva i medici venuti da lontano a trasferirsi nella città sede dell’ospedale, viverci tutta la vita e perfino formarvi le proprie famiglie. Le Amministrazioni ospedaliere favorivano e proteggevano questa funzione docente all’interno dell’ospedale perché così si garantiva la reputazione, la fiducia e il mantenimento di una sicura forza professionale che si sarebbe replicata, da una generazione all’altra di nuovi arrivati, senza temere mai l’abbandono degli ospedali da parte dei medici. Fin dall’inizio fu tale l’interesse che aveva l’Amministrazione ospedaliera a fidelizzare i medici e, soprattutto, i primari venuti da lontano, da costruire per essi, in prossimità dell’ospedale, degli appartamenti per la residenza loro e delle loro famiglie. Oggi non è più così.
Anche nella Medicina territoriale avveniva lo stesso fenomeno: i medici più anziani e più esperti contribuivano alla formazione professionale di altri medici, e anche lì si realizzava una catena solidale che assicurava la continuità.
Nell’ultimo decennio del secolo scorso, in conseguenza della grave crisi economica dello Stato, esplosa nel 1992, il Governo Amato tentò di arginarla con la privatizzazione delle Partecipazioni statali, ed avviò il processo di privatizzazione anche della Sanità pubblica. Le USL divennero ASL; i presidenti delle USL, che in genere erano sindaci del territorio, vennero sostituiti dai manager e tutto cambiò. Il ministro Francesco di Lorenzo fu l’artefice della legge 502 di controriforma; le ministre Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi modificarono l’assetto degli ospedali e abolirono le diversificate figure dei medici: gli “aiuti” e gli “assistenti” vennero posti ad uno stesso livello, dichiarati “dirigenti medici” e messi, praticamente, alle dipendenze del sistema burocratico. I primari vennero declassati a livello di precari, e ridefiniti col titolo di “direttori di Struttura complessa”, con incarico a termine della durata di 5 anni.
L’incarico poteva essere rinnovato previa valutazione dell’Amministrazione della ASL. Se non confermati venivano riclassificati ad un livello inferiore. Lo stipendio era uguale fra tutti i medici, corretto per anzianità, e con l’aggiunta di un’“indennità” di dirigenza per il direttore del reparto. I reparti e le Divisioni ospedaliere cessarono di esistere e furono sostituite dalla dizione “Unità operative complesse”. Terminologia usata anche per gli Uffici amministrativi. Era finita un’epoca. Del periodo che precedeva il 1992 ai medici era rimasta soltanto la “responsabilità medico-legale”. L’instabilità e l’incertezza, che ricaddero come una spada di Damocle sul loro futuro, ebbero conseguenze.
Il nuovo tipo di “direttore” non aveva più gli “aiuti” che lo coadiuvassero o lo sostituissero. Non aveva più le funzioni di “addestratore” delle nuove generazioni di medici e, in quanto sostituibile da chiunque ogni 5 anni, non aveva alcun interesse a crearsi un “competitor”.
Oggi l’improvvisa assenza del “direttore” per pensionamento o per trasferimento crea uno scompenso organizzativo, non esistendo più gli “aiuti”. Tale vuoto gerarchico e l’instabilità del primario “a tempo”, comportano un vuoto di autorevolezza e operativo.

Adesso stiamo assistendo alla crisi degli ospedali per mancanza di medici specialisti. Tale fenomeno non è dovuto solo alla “scarsità” di nuovi laureati; dipende anche dal fatto che nessun giovane medico si sente sicuro a lavorare in un reparto in cui manca il primario-direttore perché i rischi medico-legali che comporta ogni decisione, soprattutto, se presa in solitudine, sono molto, molto, molto pericolosi; meglio starsene nel territorio o nelle cliniche private. In passato la funzione del Primario era principalmente quella di prendere decisioni ad ogni momento della giornata; da essa derivava la salvezza o no del malato.
L’urgenza-emergenza era sempre in agguato. Il processo clinico che portava alla formulazione della diagnosi e del programma terapeutico costituiva di per sé lo strumento di addestramento dei nuovi medici alla professione ed era la base dalla “scuola-ospedale”. L’addestramento alle responsabilità medico-legali era una formazione imprescindibile: era l’esercizio che faceva la differenza tra il periodo dell’apprendimento universitario e il periodo della formazione professionale in ospedale.
Gli studiosi di “psicologia delle decisioni” nei dipendenti pubblici, hanno concluso ricerche che dimostrano come il sospetto che in tutto ci sia del “marcio”, dal 1992 in poi, ha indotto il ceto politico a produrre leggi che hanno generato un atteggiamento di alta avversione al rischio. Erano gli stessi anni in cui vennero soppresse e sostituite le figure gerarchiche dei primari e degli “aiuti” negli ospedali. Il timore dei dipendenti pubblici a prendere decisioni portò dapprima al rallentamento, poi alla quasi paralisi operativa. Questo è ciò che stiamo sperimentando. Gli illustri studiosi sostengono che l’alta percezione del rischio e delle conseguenze professionali genera il tipico comportamento di astensione prudenziale e il blocco decisionale.
Non è vero che la crisi sanitaria che stiamo vivendo sia da attribuirsi solo alla diminuzione dei nuovi laureati in medicina o ai pensionamenti. Questo fenomeno di decadenza dell’assistenza ospedaliera non ha solo motivazioni contabili.
Fra le cause assumono molta importanza il sovvertimento della politica sanitaria territoriale, sostituita dalla burocrazia e l’ inconsistenza delle gerarchie mediche negli ospedali, dominate anch’esse dalla burocrazia.
Prima o poi si prenderà atto che oltre al valore della contabilità esistono anche i professionisti e i loro principi etici. E’ auspicabile che venga agevolato il libero ritorno ai valori non contabili come: lo spirito critico, l’indipendenza dall’egocentrismo dei poteri centralizzati, lo spirito civico, la coscienziosità, l’altruismo, l’impegno e il sentimento di identità col territorio in cui si opera.
Adesso è urgente, per gli ospedali, ricostituire le figure dei “primari-guida” mancanti nelle Unità operative in crisi. Poi saranno loro ad attirare, con il loro prestigio, i nuovi medici.

Mario Marroccu