22 November, 2024
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Per il prossimo Natale, vedremo un fenomeno a cui siamo abituati da anni e che può essere utile per spiegare cosa sta succedendo. In questi giorni può capitare, al momento di pagare, che alla cassa ci propongano di acquistare dei gadgets, o di fare un’offerta, a favore di un ricco ospedale, che diventerà un beneficio per i malati.
Premettiamo che un’offerta per la Sanità è un gesto altamente meritorio a cui tutti dovremmo partecipare. Questo meccanismo di raccolta fondi è anche utile per capire un fenomeno più generale diffuso in tutta Italia, soprattutto al Nord. Ci si chieda: chi ha pensato di raccogliere fondi per i malati? Forse i medici e gli infermieri? E’ poco probabile. E’ molto più probabile che l’idea provenga da un ufficio di contabilità ospedaliera. A cosa servono quei soldi? Servono senza dubbio a creare un “fondo integrativo “ per migliorare le cure del malato.
Bisogna tener presente che l’ospedale è già finanziato dal Fondo sanitario pubblico, ma il finanziamento pubblico non gli basta e raccoglie, privatamente, altri fondi. Secondo le norme i “fondi pubblici” dovrebbero essere “equamente” spartiti fra le Regioni, e assicurare “uguaglianza“ di trattamento a tutti gli italiani. La Costituzione, infatti, dispone l’“universalità“ delle cure. Ciò premesso, come vanno inquadrate quelle offerte natalizie? Si tratta di fondi extra che “integrano” il fondo pubblico, e che vengo definiti, per legge, “fondi integrativi”. Quei fondi verranno utilizzati dall’ospedale beneficiario in modo autonomo e indipendente dal controllo dello Stato, perché sono suoi, e lo Stato non interferisce nella libertà del loro utilizzo. Chi raccoglie fondi più ricchi conquista grande autonomia e grande potere di controllo sulla qualità e sulla scelta delle cure che erogherà. La differente entità di fondi integrativi esistente fra ospedale e ospedale, e fra Regione e Regione, può essere enorme; questo determinerà la differenza nella qualità di vita delle distinte popolazioni. Ciò avrà influenza sul criterio costituzionale di “uguaglianza”.
La rivoluzione dei principi di “equità”, di “uguaglianza” e di “universalità” introdotta da Tina Anselmi nella Costituzione, e da lei stessa concretizzata nella Legge 833/78, fu un’idea geniale ma venne depotenziata dal ministro Francesco De Lorenzo nel 1992 e poi dal ministro Rosy Bindi con la legge 299/1999; in quest’ultima vennero definitivamente riconosciuti i ”fondi integrativi” per finanziare gli ospedali.
Nel 2001 l’esistenza dei “fondi integrativi” ebbe un ulteriore supporto dalle modifiche portate al Titolo V della Costituzione. Gli emendamenti alla Costituzione hanno avuto conseguenze evidenti la Sanità nelle regioni ricche del Nord è una grande sanità. La Sanità nelle regioni povere è una povera Sanità. Non ci volle molto a capire che l’effetto dei fondi integrativi avrebbe differenziato gli italiani e da questa lezione prese piede l’idea nel ministro Roberto Calderoli di estendere quel metodo a tutti i servizi pubblici, e cioè, oltre alla Sanità, all’Istruzione, ai Trasporti, e a tutti i Servizi pubblici attinenti alla qualità della vita nazionale. Si tratta quei Servizi che tengono coeso un popolo. Il rischio, con la legge integrale di Roberto Calderoli, è quello di intaccare i quattro principi fondamentali della Costituzione: la Solidarietà, l’Uguaglianza, la Sovranità Popolare, i Diritti Inviolabili (articoli 1, 2, 3, 32, etc.).
Il difetto di Solidarietà e Uguaglianza si sta già vedendo nel sistema sanitario Sardo. E’ noto a tutti che, data la crisi profonda dell’assistenza sanitaria in Sardegna, molti sardi affetti da tumori, per curarsi, migrano verso le regioni più ricche del Nord Italia. Chi ha questa esperienza scopre che, secondo la Regione in cui vai, ogni malattia ha un costo diverso. Il prezzo da pagare è il DRG (Diagnosis Related Group) che permette di classificare tutti i malati dimessi da un ospedale in gruppi omogenei in base alle risorse. Ora, prendiamo il caso di una ipotetica paziente con cancro alla mammella che viene operata in un ospedale sardo. Il DRG per cancro di mammella operato in Sardegna viene pagato all’ospedale 4.500 euro circa. Se la stessa paziente venisse operata in un ospedale del Nord, il DRG per lo stesso intervento varrebbe circa 7.000 euro. Quindi l’ospedale guadagna di più e può offrire cure migliori. Chi paga l’aumento del costo, in questo caso, se il malato è sardo? Paga la Regione Sardegna. La differenza del costo dell’intervento per i malati di quella regione del Nord, viene pagato dai “fondi integrativi” della stessa regione. Tali fondi sono stati formati con un metodo paragonabile alle donazioni che facciamo nel corso degli acquisti di Natale. Si tratta cioè di fondi extra, indipendenti dal Fondo Sanitario Nazionale, che possono essere accumulati massimamente nelle regioni più ricche, sia attraverso donazioni sia attraverso una raccolta fiscale supplementare attuata dalla stessa regione.

I “fondi integrativi” di dette regioni possono essere scaricati dal conto che le stesse regioni devono allo Stato per finanziare la Solidarietà nazionale. Di fatto, quindi, tali regioni possono contribuire di meno alla formazione del Fondo sanitario Nazionale. Ne consegue che le regioni più povere possono attingere in misura minore e possono erogare una sanità di livello inferiore.
Questo meccanismo, secondo la legge sull’“autonomia differenziata” di Roberto Calderoli, dovrebbe essere esteso a tutti i Servizi pubblici, dalla Sanità ai Trasporti, dall’Istruzione e Università alla Viabilità e all’edilizia pubblica, etc.. Se passasse integralmente quella legge creerebbe una distanza incolmabile sulla qualità di vita tra i cittadini delle regioni del Nord e quelli del Sud. Lo stesso Sergio Mattarella ha messo in guardia sul pericolo che si corre nell’intaccare i diritti inviolabili della Costituzione; fatto che ci esporrebbe alla disgregazione nazionale. Verrebbero intaccati non solo i LEA (livelli essenziali di assistenza), ma anche i LEP (livelli essenziali di prestazioni); in sostanza ne soffrirebbero tutti i servizi pubblici.
Oggi la Consulta ha dato il suo parere sulla legge e sostiene che essa è costituzionale (art. 116) ma illegittima in alcune parti decisive. I Giudici, infatti, richiamano al rispetto della Costituzione e sottolineano che la forma dello Stato, insieme al ruolo fondamentale delle Regioni, riconosce i principi della Unità della Repubblica, della Solidarietà tra le Regioni, dell’Eguaglianza, della garanzie dei Diritti dei Cittadini e dell’equilibrio di bilancio. Testualmente sentenzia: «La distribuzione della funzione legislativa e amministrativa tra i diversi livelli territoriali di governo (Comuni, Province, Regioni) non deve corrispondere all’esigenza di un riparto di potere tra i diversi segmenti del sistema politico, ma deve avvenire in funzione del bene comune della società e di tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione. A tal fine, è il principio costituzionale di sussidiarietà che regola la distribuzione delle funzioni fra Stato e Regioni. In questo quadro l’Autonomia differenziata deve essere funzionale a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici e ad assicurare maggior responsabilità politica, rispondendo meglio alle attese e ai bisogni dei cittadini».
La sentenza richiama al rispetto dell’articolo 116 della Costituzione e all’osservanza dei principi fondamentali della Costituzione tutta. Principi che il proponente ignorava.
Le quattro regioni che hanno ricorso, per adesso, ci hanno salvati da un disastro.

Mario Marroccu

Per capire quale fosse la condizione femminile fino al Referendum Istituzionale del 1946 bisogna andare a vedere il film “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi. E’ un’opera d’arte fantastica, da Oscar. Non si può raccontare la trama del film, perché è fortemente raccomandato andare a vederlo senza compromettere la sorpresa allo spettatore.
La storia raccontata nel film ha un preciso rapporto con l’Articolo 3 della Costituzione in cui si afferma che: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
Quell’articolo indusse una profonda trasformazione nella struttura sociale italiana e nel costume, perché riconobbe che Uomini e Donne sono uguali senza distinzione di genere, qualunque sia l’etnia di appartenenza, la religione professata (vedi leggi razziali), l’opinione politica (vedi la messa al bando dei partiti), il censo, la cultura, la condizione fisica ed economica. Fino ad un attimo prima della promulgazione della Costituzione, la società italiana era ancora regolamentata dallo Statuto Albertino del 1848. In quello statuto la Donna era posta “sotto la tutela del marito”. Con tale espressione si disponeva che le donne dovessero vivere sempre, sia da nubili che da coniugate, sotto la “tutela” di un uomo. Ciò comportava quella soggezione economica, culturale, sociale, politica che oggi Amnesty International definisce “sistema di sorveglianza”. La Costituzione Repubblicana liberò le donne da quella soggezione e, dal giorno in cui venne promulgato l’articolo 3, esse ebbero per la prima volta il diritto di programmare la propria vita. Quella legge nacque a conclusione di una Guerra mondiale e di una sanguinosa guerra civile combattuta tra fascisti-repubblichini e partigiani dal 1943 al 1945.
Chi non ha conosciuto quei tempi, dovrebbe vedere il film di Paola Cortellesi per capire cosa vuol dire non avere diritto a una propria identità e vivere sotto tutela a causa del genere di appartenenza.
Contemporaneamente all’articolo 3, i Costituenti dettero forma alla Sanità futura con l’articolo 32.
Anch’esso, come raccontò Tina Anselmi, era nato dalle utopie libertarie e ugualitarie disegnate nel periodo della guerra civile 1943-45. I legislatori che produssero la grande Riforma sanitaria con la legge 833/78 erano riusciti a liberare gli ospedali e la sanità territoriale dalla tutela delle Casse mutue, ma purtroppo nel 1992, per sfuggire alla grave crisi economica, si cadde nella tentazione di prendere una scorciatoia verso il risanamento economico adottando provvedimenti legislativi d’emergenza che rimisero il Sistema Sanitario Nazionale sotto la tutela di strutture formalmente pubbliche ma oggettivamente di tipo privatistico. Fu fatta una scelta che oggi equivarrebbe all’idea di rimettere le donne “sotto tutela” degli uomini per mettere sotto controllo un bilancio familiare critico. Oggi è accertato che l’ impostazione data alla gestione della Sanità italiana dal 1992 in poi è fallita. L’ha dimostrato scientificamente pochi giorni fa il più autorevole istituto nazionale che si occupa di Economia sanitaria, l’Istituto Gimbe (gruppo italiano per la medicina basato sull’evidenza) che ha reso pubblico uno studio in cui si sostiene che la Sardegna è al 19° posto fra le province e regioni autonome per inefficienza sanitaria. Le gravi condizioni in cui ci troviamo sono attestate dalla documentata insufficienza delle cure, dalla ridotta aspettativa di vita messa in rapporto alla spendita sbagliata dei fondi, dal forte aumento dei viaggi in continente per curarsi, dallo scarseggiare di medici e infermieri, dal fatto che il 45 % delle spese sanitarie in Sardegna è a pagamento mentre nelle altre regioni d’Italia lo è solo il 25%, dal fatto che circa la metà delle risorse assegnate ai cittadini non ha prodotto alcun servizio e che il Nsg (Nuovo sistema di garanzia) ha registrato un punteggio insufficiente nell’area ospedaliera. Si è calcolato che gli obiettivi di assistenza agli anziani over 65, fissati dal PNRR, sono irraggiungibili. In questo contesto di dati, si resta frastornati davanti all’evidenza che il disagio sanitario patito non è esattamente compreso dai responsabili della Sanità pubblica. Quando la popolazione lamenta le carenze ospedaliere, immediatamente le viene offerta la costruzione di nuovi edifici ospedalieri. In realtà chi lamenta la carenza ospedaliera intende riferirsi al bisogno di ottenere una maggiore disponibilità di offerta sanitaria intesa come maggiore disponibilità di attrezzature mediche e di “Personale dedicato alla cura del malato”.
Il problema del “Personale” va analizzato secondo due aspetti:
– l’aspetto numerico: cioè l’adeguatezza numerica al bisogno contrattuale di cure.
– l’ aspetto etico: cioè l’elemento valoriale che lega il prestatore al fruitore di cure tramite il vicendevole rispetto e la compassionevole solidarietà.

La prima riforma sanitaria della storia fu propriamente una “Riforma etica”. Nacque tra quarto, quinto e sesto secolo d.C. dall’idea, di San Basilio di Cappadocia e San Benedetto da Norcia, di interpretare concretamente il significato della parabola del Buon samaritano. Il viandante ferito dai briganti rappresentava il malato, che era sacro in quanto rappresentazione del corpo sofferente del Cristo, l’oste e il suo albergo erano la rappresentazione dei curanti e del luogo fisico del ricovero, il Buon samaritano rappresentava la comunità solidale che si autotassa e fornisce le cure gratuite al bisognoso. Quello etico-caritativo fu il primo sistema sanitario nel mondo e durò fino al 1900.

Nella prima metà del 1900 nacque la Sanità basata sulle Casse mutue che erano enti assicurativi che affondavano le loro radici nelle società operaie.
La prima “Riforma ospedaliera” fu quella varata dal ministro della Sanità Mariotti nel 1968. Fu una vera rivoluzione perché istituì la prima “Rete degli ospedali pubblici” e, per la prima volta, la legge estese il diritto all’assistenza ospedaliera a tutti i cittadini a spese dello Stato. Quella riforma introdusse il concetto che gli ospedali devono essere pubblici e devono essere finanziati con la fiscalità generale. Con questo atto l’“Etica laica” entrò nel sistema sanitario italiano.
La “Prima Riforma sanitaria”, legge 833/78, introdusse il “Sistema sanitario nazionale” finanziato dalla fiscalità generale. Quella riforma abolì le Casse mutue e realizzò il dettato dell’articolo 32 della Costituzione.
Poi dopo il 1992 noi italiani, con la nostra esperienza millenaria di civiltà ospedaliera, riuscimmo a invertirne la rotta verso la sua autodistruzione.
La “Seconda Riforma sanitaria” fu la 502/92, chiamata anche Riforma italiana alla Tatcher, perché fu improntata al rigore amministrativo per ridurne i costi, e introdusse il principio della gestione manageriale della Sanità.
La “Terza Riforma sanitaria” fu quella del 1999 della ministra Rosy Bindi; fu improntata a metodi gestionali di spiccata privatizzazione con l’obiettivo della efficienza-efficacia, cioè della maggior produzione con la minor spesa possibile. Con la nuova riforma le ASL divennero aziende produttrici di servizi sanitari che venivano pagati dalle regioni secondo i DRG. I DRG sono codici di identificazione delle diverse prestazioni sanitarie; ad ogni codice viene attribuito un valore in euro (si immagini il cartellino del prezzo su un prodotto in vendita). Quanti più DRG sanitari vengono erogati tanto più l’azienda incassa.
Con i fondi incassati, ogni reparto ospedaliero si finanzia per pagare gli stipendi, i farmaci, i presìdi e le spese alberghiere. I reparti specialistici che non hanno raggiunto gli obiettivi sono stati chiusi. La ministra Rosy Bindi allargò la platea delle prestazioni che potevano essere fornite anche da Società di servizi sanitari privati e accettò che il privato accreditato potesse fornire le prestazioni dei LEA socio-sanitari a nome e per conto dello Stato. Così dal 1999 il privato iniziò a sostituire il pubblico competendo per economicità nell’impiego delle risorse e diventando più conveniente tanto da farlo preferire alle strutture ospedaliere pubbliche. Incredibilmente sfuggì che il sistema sanitario pubblico, che si occupa di patologie non assistibili dai privati (ad esempio: rianimazioni, tumori, demenze, urgenze ed emergenze “h24” nei Pronto Soccorso), era più costoso perché si doveva sobbarcare un impegno professionale infinitamente più difficile di quello che poteva fornire il privato. Ne conseguì che il diritto alla salute nel sistema pubblico, subordinato al limite delle risorse messe a disposizione dallo Stato, entrò in crisi. Sembrava che il privato accreditato, meno oneroso, potesse addirittura sostituirsi al sistema sanitario pubblico.
Qui non si tratta di capire se le intuizioni dei ministri Di Lorenzo, Garavaglia, Bindi e di tutti quelli che seguirono fossero state giuste o sbagliate, ma si tratta di ricostruire il nesso causale tra quegli eventi e l’attuale stato di disagio sanitario della nazione. Si tratta di capire perché il sistema sanitario pubblico sia arrivato impreparato davanti all’epidemia del 2020 e abbia dovuto sopportare, con poche attrezzature e poco personale, la potente spallata del Covid, soffrendone profondamente. Nello stesso periodo il sistema sanitario privato fu esentato dall’affrontare direttamente l’epidemia e resse molto bene. Le funzioni dei due sistemi sono distinte e complementari, com’è il caso delle specialistiche oculistiche e ortopediche delle Case di cura private che sono di supporto agli ospedali pubblici i quali non riuscirebbero a contenere le file d’attesa colossali che si sono formate. Si deve prendere atto, dopo l’esperienza di questi ultimi anni, che il privato non è in condizioni di garantire l’organizzazione dell’Igiene pubblica e della Prevenzione o di sobbarcarsi l’impegno a curare tutte le grandi patologie, dai tumori alle demenze, alle epidemie e alle urgenze ed emergenze. E’ ormai accertato dai più autorevoli osservatori economici che il sistema sanitario privato è del tutto incapace di sostituirsi al Sistema sanitario nazionale e la lezione che abbiamo avuto dall’epidemia di Covid ha dimostrato che solo lo Stato può garantire un Sistema sanitario nazionale efficiente. Oggi davanti al problema demografico, e con i problemi geopolitici incombenti come il rischio di guerra, l’urgenza di ricostituire un Sistema sanitario nazionale secondo i principi della legge 833/78 è ineludibile.
Un nesso causale evidente che collega le buone riforme sanitarie iniziali al decadimento attuale è rappresentato dall’estromissione dei Sindaci dalle ASL; con quell’atto venne impedito alle Amministrazioni locali il “controllo” sulla Sanità. Di fatto da allora le autorità territoriali e le Usl vennero messe “sotto tutela” e affidate a entità esclusivamente burocratiche, interrompendo la “cinghia di trasmissione” che mette in comunicazione le popolazioni e le Amministrazioni centrali.
Per liberare le donne dalla tutela del “sistema di sorveglianza” a cui le condannava lo Statuto Albertino, fu necessario superare una guerra mondiale e un’atroce guerra civile. Così si addivenne al Referendum del 1946 per la scelta della forma istituzionale da dare allo Stato. Per la prima volta votarono le donne che avessero almeno 21 anni d’età. Con quel referendum vennero eletti i deputati all’Assemblea Costituente cui spettò il compito di redigere la nuova Carta Costituzionale. Quei deputati, eletti da 12 milioni e 700mila donne e da 10 milioni e 700mila uomini, scrissero sia l’articolo 3 (uguaglianza di genere) sia l’articolo 32 (Sanità) della Costituzione. Mentre l’articolo 3 ha dato i risultati cercati, l’articolo 32 ha ancora forti difficoltà a raggiungere gli scopi immaginati dai padri Costituenti.
Per rappresentare cosa sta avvenendo in questo stato di “tutela sanitaria” in cui siamo stati posti, ci vorrebbe una Paola Cortellesi sanitaria. Per adesso non ci resta che andare a vedere il suo film “C’è ancora domani”.

Mario Marroccu

Il disastro sanitario ed economico del Sulcis Iglesiente non è nato dal nulla. Ha radici nei fatti politici del 1992. E’ utile fare un viaggio nella storia di quegli eventi sia per capire e, forse, per porre qualche riparo.
Lo stato di salute della sanità pubblica è oggi talmente grave e la sua gravità è talmente complessa che, a questo punto, è difficile anche il solo sospettare che veramente esista fisicamente qualcuno che abbia programmato tanto degrado. Dovrebbe essere un genio fornito di una maligna intelligenza superiore.
Ammesso che esista un soggetto del genere, a che scopo lo avrebbe fatto? C’è chi sostiene che il danno al servizio sanitario nazionale sia stato progettato da un’ignota organizzazione al fine di favorire la sanità privata. Sarebbe un’organizzazione di matti veramente sciocchi perché sostituirsi del tutto alla Sanità pubblica non conviene a nessuno. Per esempio: a chi converrebbe accollarsi i malanni di tutti i vecchi d’Italia, soli, inguaribili e con in tasca i pochi soldi per la sopravvivenza? A chi converrebbe l’onere di assistere tutti i malati di cancro, debilitati nel fisico, nella famiglia e, soprattutto, nel conto in banca? Chi glielo farebbe fare ad assumersi l’impegno di prendersi in cura i pazienti in Rianimazione in uno stato di coma più o meno profondo? Perché dovrebbero pagare le ingenti spese dei trapianti d’organo a pazienti senza speranza e non solvibili? E gli infarti del miocardio? E tutti i casi di diabete ai limiti della invalidità? E i tossicodipendenti? E le malattie rare? I morti sul lavoro? E gli psichiatrici? E gli incidenti stradali? Chi glielo farebbe fare ad assumersi il compito costosissimo di affrontare le epidemie tipo Covid-19 o le campagne vaccinali, o le spese dell’Inail e dei Pronto soccorso?
Gli imprenditori privati non sono matti. A sé riservano le cliniche dove si curano le malattie, tutto sommato, più semplici, facili, guaribili e, soprattutto, di pazienti solventi. Ciò che compete alla Sanità pubblica è diversissimo da ciò di cui si occupa la sanità privata.
E’ assolutamente vero che negli Stati Uniti d’America esistono le assicurazioni private costosissime che si limitano a poche malattie e per tempi di cura molto limitati; in genere non pagano le spese del pronto soccorso o fanno dimettere i malati dopo tre giorni da un intervento a cuore aperto, per risparmiare sulla degenza in ospedale. Bisogna sapere che in America esiste anche una Sanità pubblica, che si chiama “Medicare”, a beneficio di chi non può pagarsi l’assicurazione privata e che, oltre ad essere molto carente, costa allo Stato il doppio di quanto costa il Sistema sanitario italiano. A questo punto, oltre al sospetto che dietro ci sia l’interesse di qualcuno, potremmo anche considerare il sospetto che dietro il nostro disastro sanitario ci sia in realtà qualche grosso errore commesso da politici poco accorti. Può anche essere accaduto che la grande Riforma sanitaria varata col DPR 833 del 1978 si sia inceppata a causa di leggi successive fatte male; può anche darsi che quelle nuove leggi non siano state lette con attenzione e che i votanti abbiano votato senza vedere gli errori che hanno prodotto queste conseguenze.
Anche questo sospetto, paradossalmente, è sommamente ingiusto, perché è anche vero che i politici italiani furono i primi al mondo a riconoscere nella Costituzione del 1948, all’articolo 32, il diritto di tutti alla salute. Quell’articolo, nella sua semplicità e completezza, fu uno degli elaborati intellettuali più geniali che un Costituente potesse generare: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti». Fu una frase rivoluzionaria contenente due principi: l’inviolabilità assoluta del diritto alla salute e la certificazione che tale bene è di rilevanza collettiva. Così fu sancita la solidarietà nazionale. Altro che privatizzazione! Altro che svantaggio a danno dei molti che non possono permettersela! Tutte le leggi che vanno contro questo principio sono incostituzionali e, se qualcuno avesse votato nuove norme contrarie a questo principio per disattenzione, sarebbe gravemente colpevole.
Esaminiamo cosa è avvenuto nella storia delle Riforme sanitarie italiane. Nell’anno 1968 la legge Mariotti istituì gli “Enti ospedalieri” che sostituirono gli ospedali caritativi provenienti dalla tradizione ospedaliera medioevale. La stessa legge istituì il “Fondo ospedaliero nazionale” e attribuì la competenza di gestione degli ospedali alle Regioni. Quel Fondo e quella legge ospedaliera furono la base su cui si costruì la Grande Riforma sanitaria con la legge 833 del 1978, concepita dalla Commissione parlamentare di Tina Anselmi. Ella raccontò in quei giorni che quell’idea era nata da discussioni e progetti formulati da gruppi partigiani riuniti intorno ai fuochi dei bivacchi di montagna. La legge 833/78 rappresentò un’utopia che si concretizzava in un documento scritto. Il sogno prese forma nella premessa della legge nel cui testo sta scritta la frase: «…Il Sistema sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture (ospedali), dei servizi e delle attività destinate alla promozione, al mantenimento, e al recupero della salute fisica e della salute psichica di tutta la popolazione». In nessuna legge del mondo era mai stata scritta questa premessa.
Mentre gli ospedali, dal medioevo al ‘900, erano stati sempre amministrati da comitati caritativi religiosi o filantropici, nella nuova legge si volle che gli ospedali fossero amministrati da rappresentanti popolari democraticamente eletti. Fu una rivoluzione. I cittadini, dopo 1.500 anni dall’istituzione degli ospedali dai tempi di San Benedetto e San Basilio, divennero per la prima volta i proprietari e gestori diretti degli ospedali. La comunicazione fra cittadino e gestore divenne immediata perché il Sistema venne dato in mano ai sindaci e ai consiglieri comunali. Essi avevano il compito di eleggere l’”Assemblea generale” che era formata da consiglieri comunali e l’Assemblea eleggeva il presidente della Usl (Unità sanitaria locale). Furono gli anni più produttivi della storia sanitaria italiana.
Scomparvero le Casse mutue e comparve il Ssn (Sistema sanitario nazionale), finanziato dal sistema fiscale universale. Ne conseguì anche che ai grandi miglioramenti si associò il crescere della spesa pubblica dello Stato. Per contenerla il ministro Carlo Donat Cattin nel 1987 abolì l’Assemblea generale ma mantenne il presidente della Asl e il Comitato di gestione, eletto dai sindaci dei Comuni del territorio.
Secondo gli indicatori economici internazionali, l’Italia godeva di un generale benessere economico tanto che nell’anno 1991 venne dichiarata quarta potenza industriale del mondo e il PIL pro capite risultava superiore a quello dell’Inghilterra.
Appena un anno dopo, la Repubblica entrò nel suo “annus horribilis”: il 1992. La commissione governativa presieduta dall’economista Piero Barucci rivelò che l’economia era al collasso a causa di un imponente debito pubblico causato dalle Partecipazioni statali. Eni, Enel, Iri, Ina, Efim, stavano portando al tracollo lo Stato. L’indebitamento aveva messo in crisi il Governo espresso dal CAF (Craxi-Andreotti-Forlani). Caduto il Governo Andreotti II e dimessosi Francesco Cossiga, si andò a nuove elezioni sotto l’effetto dell’esplodere dello scandalo di Tangentopoli. A febbraio era iniziata l’indagine della procura di Milano diretta da Francesco Saverio Borrelli e condotta da Antonio di Pietro, in seguito alle rivelazioni di Mario Chiesa, il direttore del Pio Albergo Trivulzio. Oscar Luigi Scalfaro, sostenuto dalla corrente dei “moralizzatori”, venne eletto presidente della Repubblica e immediatamente indisse le nuove elezioni; queste avvennero ad aprile contemporaneamente all’esplosione della sfiducia popolare nei partiti storici, in un clima di forte instabilità politica. I partiti tradizionali crollarono ed emerse la Lega Nord che passò da 2 a 80 parlamentari. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiutò di concedere incarichi di Governo a Bettino Craxi e nominò presidente del Consiglio il deputato Giuliano Amato. La Prima Repubblica era finita con un’ondata di arresti e di avvisi di garanzia. A maggio, ad opera della mafia, avvenne la strage di Capaci, seguita due mesi dopo da quella di via d’Amelio. Lo Stato era preso fra molti fuochi. Giuliano Amato si trovò ad affrontare una condizione di dissesto economico più grave dal dopoguerra ad allora. Si correva il rischio di non poter pagare gli stipendi pubblici. La Nazione si sarebbe fermata.
La Banca d’Italia fu costretta a vendere 48 miliardi di dollari per difendere il cambio e la lira fu svalutata del 30%. La lira uscì dallo Sme (Sistema monetario europeo); era il 16 settembre 1992, il “mercoledì nero”. Giuliano Amato per sostenere le casse dello Stato procedette al “prelievo forzoso” retroattivo del 6 per mille dai conti correnti degli italiani e, in base alle indicazioni del ministro del Tesoro Piero Barucci, dette avvio ad una grande operazione di privatizzazione delle Partecipazioni statali (banche, energia elettrica, trasporti pubblici, Alitalia, industrie manifatturiere, industrie dell’acciaio, comunicazioni, poste, idrocarburi, assicurazioni, agroalimentare, etc.). Lo Stato si spogliava di tutte le sue pregiate proprietà, nell’intento di allontanare la politica dalla gestione delle imprese statali. Su tutta la gestione pubblica, sotto l’effetto delle indagini di Tangentopoli, cadde il sospetto di possibile collusione con la corruzione e vennero varate leggi e norme fortemente restrittive nell’intento di arginare l‘idea che il malaffare fosse in agguato ovunque ci fosse la gestione del politico. In questo crollo finirono anche le miniere del Sulcis Iglesiente e le industrie di Portovesme espressione dell’Eni. Gli operai di Portovesme, per fermare i licenziamenti in massa di oltre 20mila operai promossero la famosa “Marcia per lo sviluppo”. Gli operai iniziarono a marciare il 19 ottobre e, al suono di tamburi di latta, saltarono il mare. Raggiunta Civitavecchia, percorsero a piedi le vie del Lazio fino a Roma, dove vennero accolti da Papa Woytila ma non da Giuliano Amato.
A fine anno, il vortice autodistruttivo coinvolse anche il Sistema sanitario nazionale quando il ministro della Sanità Francesco di Lorenzo il 31 dicembre varò il decreto che iniziò la “privatizzazione” del Sistema sanitario pubblico col DPR 502/1992. Le Unità sanitarie locali (Usl), rette dai sindaci, vennero trasformate in entità rette dai “Direttori generali con autonomia gestionale di diritto privato” nominati dalla Regione all’interno di un elenco di idonei. La “mission” del Sistema sanitario cambiò in modo radicale per due motivi. Primo, i sindaci, che rappresentavano la parte politica, vennero espulsi dalla gestione del sistema sanitario locale; secondo, l’obiettivo dei nuovi amministratori non fu più quello di soddisfare le richieste della popolazione locale ma venne sostituito dall’“equilibrio di bilancio”.
Questo dava ai direttori generali l’opportunità di poter modificare la risposta alle richieste provenienti dal territorio, ignorandone la soddisfazione globale e mettendo al centro il calcolo ragionieristico della salute che doveva ora attenersi a un nuovo criterio: i Livelli essenziali di assistenza (Lea). Oggi, a distanza di 32 anni, sappiamo che tutte le premesse alla legge, che promettevano Uguaglianza, Equità e Prossimità dell’assistenza sanitaria in tutto il territorio nazionale non sono state rispettate. Ciò avvenne a causa della mancanza del “controllore”, cioè la parte politica elettiva rappresentata dai sindaci. Al ministro Francesco di Lorenzo, seguirono le ministre Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi che perfezionarono l’“aziendalizzazione delle Asl”.
Nell’anno 2003 il Governo Berlusconi dettò regole per ridurre la spesa sanitaria dello 0,5% l’anno; ciò comportò il blocco del turn-over del personale andato in pensione e portò all’assottigliamento e disgregazione dei reparti ospedalieri. Col Governo Monti, il ministro Balduzzi emanò norme restrittive per i reparti ospedalieri che, ridotti in povertà di personale dalle norme precedenti, non potevano più funzionare. Ne conseguì la chiusura di ospedali.
Nel 2015 il DM 70 del Governo Renzi pose regole stringenti, basate anch’esse sul risparmio; ne conseguì un peggioramento ulteriore degli ospedali provinciali che portò alla desertificazione del sistema sanitario territoriale a vantaggio della centralizzazione della Sanità. In Sardegna la Sanità pubblica venne centralizzata a Cagliari e Sassari.
Nel 2017 la regione Sardegna, presidente Francesco Pigliaru e assessore della Sanità Luigi Arru, istituì la Ats (Azienda tutela salute). Con tale legge le 8 Asl sarde vennero ridotte a 1 soltanto, che assunse tutte le funzioni delle altre 7. Sopravvissero:
– l’Ats (a Cagliari e Sassari)
– il Brotzu di Cagliari
– il Policlinico Universitario di Cagliari
– il Policlinico Universitario di Sassari
Alle altre 7 Asl venne tolto il nome di “Azienda” e divennero “Aree sanitarie locali”. Erano diventate periferie sanitarie e persero l’autonomia programmatoria e amministrativa precedente. Ne conseguì l’esplosione delle “liste d’attesa” e l’insoddisfazione popolare. Alle elezioni del 2019 la popolazione sarda mandò a casa la Giunta Pigliaru e promosse una nuova maggioranza guidata dalla “Lega” di Matteo Salvini che, capeggiata da Christian Solinas, prometteva di restituire le vecchie ASL alle 8 province sarde. In effetti, la Giunta Solinas produsse rapidamente una sua riforma sanitaria regionale e l’assessore Mario Nieddu varò la legge regionale 24/2020 con cui istituì la Ares (Azienda regionale salute). In realtà però le vecchie Asl non vennero integralmente ricostituite; al posto delle “Aree territoriali sanitarie” vennero identificate le Asl 1-2-3-4-5-6-7-8 che, a parte il nome, non hanno nulla delle precedenti Asl; infatti, non hanno il diritto né di assumere personale, né di far acquisti e programmare. In sostanza non esistono; l’unica vera Azienda capace di programmare e gestire, centralizzando tutti i poteri gestionali, è la Ares di Cagliari e Sassari. Oggi lo stato di degrado direzionale e amministrativo nelle Province è ulteriormente peggiorato e l’insoddisfazione e infelicità dei cittadini sono esplose nelle elezioni regionali del 25 febbraio 2024 con la bocciatura del Governo regionale sardo.
Recentemente un politico esperto ha suggerito di cercare nella legge 833/78 gli strumenti per uscire dalla crisi sanitaria. Quale può essere lo strumento?
Lo strumento che si deve utilizzare nella pubblica amministrazione è sempre lo stesso: il rispetto delle regole democratiche. Queste regole prescrivono che la volontà popolare sia affidata ai propri rappresentanti eletti e, nel territorio, i rappresentati ufficiali dello Stato sono i sindaci. E’ certo che i sindaci non possono entrare nel merito di tutto, ma possono essere i “custodi” degli interessi della gente. Fra questi, oggi, l’interesse più sentito è la Sanità. Dare un nuovo ruolo ai sindaci nelle Asl è fortemente indicato.

Mario Marroccu

Rodolfo Valentino fu il massimo attore di film muto degli anni ‘20. Fu tanto amato da suscitare, nei suoi fans, il primo fenomeno di massa mai visto: la “divinizzazione”, essendo ancora in vita. Da quel fatto, ancora oggi deriva l’espressione “divo del cinema”.
La sua fama mondiale era esplosa col film “I quattro cavalieri dell’Apocalisse”, per effetto di una famosa scena in cui egli ballava il “tango argentino”. Morì a 31 anni nel più importante ospedale di New York, dopo un’operazione per appendicite acuta complicata da peritonite. In tutto il mondo, i suoi ammiratori dettero luogo a scene di disperazione isterica.
Nel 1977 si ricoverò nel reparto Chirurgia dell’ospedale Sirai di Carbonia il suo sparring partner. Anche costui era un pugliese che era emigrato in America da ragazzino. Aveva conosciuto Rodolfo Valentino a San Francisco e con lui aveva fatto squadra nelle gare di tango organizzate dalle balere americane. Erano gare pazzesche che duravano ininterrottamente per più giorni, senza dormire e senza fermarsi mai. Chi sopravviveva alla fatica vinceva cospicue somme di denaro. Quando costui si ricoverò al Sirai, a causa di una gangrena alla gamba destra, raccontò che talvolta in quelle gare vinceva Rodolfo Valentino e talvolta lui stesso. In valigia aveva articoli e fotografie di rotocalchi americani dell’epoca che lo ritraevano col “divino” e le mostrò con fierezza. Era tutto vero: era proprio il compagno di gare di Rodolfo Valentino. Invecchiando si ritrovò in solitudine e decise di tornare in Italia ma, non avendo più parenti in Puglie, decise di venire ad invecchiare a Carloforte.
Trascorreva le giornate fumando come aveva sempre fatto. In valigia, oltre ai rotocalchi americani degli anni ‘20, aveva stecche di sigarette americane. Il primario, professor Lionello Orrù, lo avvisò che per tentare di fermare la gangrena era necessario smettere di fumare lui, magrissimo, sempre sorridente e molto cortese, continuò a fumare nascondendosi in bagno o nei balconi. La suora ogni giorno gli sequestrava le stecche di sigarette ma l’indomani, sotto il materasso, si materializzavano altre stecche di Chesterfield e Pall Mall.
La gangrena peggiorò. I farmaci vasodilatatori erano chiaramente inutili e lui concordò: «Professore, non posso smettere di fumare e non posso più tollerare i dolori alla gamba. Me la tagli». Fu una scena incredibile. Lui, che aveva vissuto in virtù delle doti atletiche delle sue gambe nelle esibizioni di ballo col “divino”, preferiva rinunciare alla gamba destra piuttosto che alle sigarette. Il professore lo accontentò e dette disposizione ai suoi “aiuti” di eseguire l’amputazione a livello della coscia destra. Egli avrebbe seguito l’intervento. L’indomani il ballerino era sereno e sorridente. Continuò a fumare.
Non si capì mai chi gli portasse le sigarette: si trattava di un miracolo derivato dalla sua pensione in dollari americani. Dopo una settimana comparvero i segni della gangrena anche alla gamba sinistra. Il professor Lionello Orrù lo mise in guardia: «Se continua a fumare perderà anche l’altra gamba». Nei giorni successivi i dolori alla gamba sinistra peggiorarono e la gangrena salì dal piede alla caviglia. Nonostante tutto continuò a fumare e nessun discorso del Primario lo fece desistere. Fu lui stesso a risolvere il problema con questa proposta: «Professore mi tagli anche l’altra gamba perché io voglio continuare a fumare ma non tollero più i dolori che mi dà». Il professore lo accontentò e dette disposizione agli “assistenti” di eseguire l’intervento di amputazione, lui avrebbe seguito l’operazione. Il primario desiderava che tutti i chirurghi eseguissero correntemente quel tipo di intervento così come le operazioni per peritonite, per occlusione intestinale e per rottura traumatica di milza. Voleva che chiunque fosse presente in servizio, in sua assenza o in assenza degli “aiuti” più esperti, fosse in grado di eseguire con urgenza quel genere di operazioni salva-vita.
Era l’anno 1977 e l’ordinamento degli ospedali era ancora sotto le leggi Mariotti 132/ ‘68 e 128/ ‘69 ed esisteva nei reparti ospedalieri una struttura gerarchica dei medici ben definita; essa era formata dal primario, dagli “aiuti” e dagli “assistenti”. Tale struttura aveva un duplice fine. Primo creare una scala di responsabilità e di autorevolezza. Secondo: addestrare i medici e formarli alla professione.
La legge 128/’69 definiva esattamente, all’articolo 7, che il Primario aveva tutti i poteri, le responsabilità e tutti i doveri: doveva vigilare sul lavoro di medici ed infermieri e aveva la responsabilità di tutti i malati; era il giudice unico sui criteri diagnostici e terapeutici a cui dovevano attenersi gli “aiuti” e gli “assistenti”; formulava la diagnosi definitiva; doveva inoltre indicare la terapia medica o la tecnica chirurgica da adottarsi nel caso fosse necessaria un’operazione. Doveva eseguire personalmente sui malati gli interventi diagnostici e le operazioni chirurgiche curative che riteneva di non dover affidare ai suoi collaboratori; era l’unico che poteva autorizzare le dimissioni. Ne derivava che sui primari, con la loro responsabilità assoluta su tutto, ricadessero oneri ed onori; per tale ragione, i detrattori li definivano “baroni”. Un articolo successivo della legge 128 disponeva che il primario si impegnasse a mantenere elevato il livello culturale dei medici con una formazione continua sul campo. Egli era il caposcuola e la sua missione di insegnamento conferiva all’ospedale le funzioni di “ospedale di specializzazione”.
Insomma, per i medici il primario era il maestro e il parafulmine da tutti i guai. Gli “aiuti” venivano dopo il primario. Essi erano i medici più titolati, dotati di una certificazione di idoneità rilasciata da una commissione d’esame nazionale con sede a Roma. La legge disponeva che essi sostituissero il primario, in tutte le sue funzioni, ogni qualvolta fosse assente. Era come se la figura del “primario” fosse sempre presente e non se ne sentiva mai la mancanza. Al terzo livello erano classificati gli “assistenti”; si trattava dei medici più giovani, meno esperti, usciti da poco dall’Università, ma ancora da formare come professionisti specialisti.
Ogni Ospedale era una vera e propria scuola di formazione continua nella pratica medica. L’Università aveva fornito la cultura basilare portando gli studenti alla laurea in Medicina, e l’esame di Stato aveva garantito che il neonato medico fosse idoneo ad esercitare la professione come medico generico.
La costruzione professionale dei medici ospedalieri avveniva in ospedale ed era affidata al primario e agli “aiuti”. Mentre il primario era la figura carismatica autorevole che presiedeva la “scuola”, gli “aiuti” erano gli “istruttori” sempre disponibili e pronti a familiarizzare mentre addestravano gli “assistenti” alla professione.
La “scuola ospedaliera” di formazione alla professione di medico specialista (chirurgo, internista, ostetrico , traumatologo, pediatra, etc.) garantiva la costituzione di un perenne capitale culturale e umano all’interno dell’ospedale. Questo rapporto formativo continuo fra primario, “aiuti” e “assistenti” generava un rapporto di fidelizzazione tra medici, ospedali e territorio, e spesso induceva i medici venuti da lontano a trasferirsi nella città sede dell’ospedale, viverci tutta la vita e perfino formarvi le proprie famiglie. Le Amministrazioni ospedaliere favorivano e proteggevano questa funzione docente all’interno dell’ospedale perché così si garantiva la reputazione, la fiducia e il mantenimento di una sicura forza professionale che si sarebbe replicata, da una generazione all’altra di nuovi arrivati, senza temere mai l’abbandono degli ospedali da parte dei medici. Fin dall’inizio fu tale l’interesse che aveva l’Amministrazione ospedaliera a fidelizzare i medici e, soprattutto, i primari venuti da lontano, da costruire per essi, in prossimità dell’ospedale, degli appartamenti per la residenza loro e delle loro famiglie. Oggi non è più così.
Anche nella Medicina territoriale avveniva lo stesso fenomeno: i medici più anziani e più esperti contribuivano alla formazione professionale di altri medici, e anche lì si realizzava una catena solidale che assicurava la continuità.
Nell’ultimo decennio del secolo scorso, in conseguenza della grave crisi economica dello Stato, esplosa nel 1992, il Governo Amato tentò di arginarla con la privatizzazione delle Partecipazioni statali, ed avviò il processo di privatizzazione anche della Sanità pubblica. Le USL divennero ASL; i presidenti delle USL, che in genere erano sindaci del territorio, vennero sostituiti dai manager e tutto cambiò. Il ministro Francesco di Lorenzo fu l’artefice della legge 502 di controriforma; le ministre Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi modificarono l’assetto degli ospedali e abolirono le diversificate figure dei medici: gli “aiuti” e gli “assistenti” vennero posti ad uno stesso livello, dichiarati “dirigenti medici” e messi, praticamente, alle dipendenze del sistema burocratico. I primari vennero declassati a livello di precari, e ridefiniti col titolo di “direttori di Struttura complessa”, con incarico a termine della durata di 5 anni.
L’incarico poteva essere rinnovato previa valutazione dell’Amministrazione della ASL. Se non confermati venivano riclassificati ad un livello inferiore. Lo stipendio era uguale fra tutti i medici, corretto per anzianità, e con l’aggiunta di un’“indennità” di dirigenza per il direttore del reparto. I reparti e le Divisioni ospedaliere cessarono di esistere e furono sostituite dalla dizione “Unità operative complesse”. Terminologia usata anche per gli Uffici amministrativi. Era finita un’epoca. Del periodo che precedeva il 1992 ai medici era rimasta soltanto la “responsabilità medico-legale”. L’instabilità e l’incertezza, che ricaddero come una spada di Damocle sul loro futuro, ebbero conseguenze.
Il nuovo tipo di “direttore” non aveva più gli “aiuti” che lo coadiuvassero o lo sostituissero. Non aveva più le funzioni di “addestratore” delle nuove generazioni di medici e, in quanto sostituibile da chiunque ogni 5 anni, non aveva alcun interesse a crearsi un “competitor”.
Oggi l’improvvisa assenza del “direttore” per pensionamento o per trasferimento crea uno scompenso organizzativo, non esistendo più gli “aiuti”. Tale vuoto gerarchico e l’instabilità del primario “a tempo”, comportano un vuoto di autorevolezza e operativo.

Adesso stiamo assistendo alla crisi degli ospedali per mancanza di medici specialisti. Tale fenomeno non è dovuto solo alla “scarsità” di nuovi laureati; dipende anche dal fatto che nessun giovane medico si sente sicuro a lavorare in un reparto in cui manca il primario-direttore perché i rischi medico-legali che comporta ogni decisione, soprattutto, se presa in solitudine, sono molto, molto, molto pericolosi; meglio starsene nel territorio o nelle cliniche private. In passato la funzione del Primario era principalmente quella di prendere decisioni ad ogni momento della giornata; da essa derivava la salvezza o no del malato.
L’urgenza-emergenza era sempre in agguato. Il processo clinico che portava alla formulazione della diagnosi e del programma terapeutico costituiva di per sé lo strumento di addestramento dei nuovi medici alla professione ed era la base dalla “scuola-ospedale”. L’addestramento alle responsabilità medico-legali era una formazione imprescindibile: era l’esercizio che faceva la differenza tra il periodo dell’apprendimento universitario e il periodo della formazione professionale in ospedale.
Gli studiosi di “psicologia delle decisioni” nei dipendenti pubblici, hanno concluso ricerche che dimostrano come il sospetto che in tutto ci sia del “marcio”, dal 1992 in poi, ha indotto il ceto politico a produrre leggi che hanno generato un atteggiamento di alta avversione al rischio. Erano gli stessi anni in cui vennero soppresse e sostituite le figure gerarchiche dei primari e degli “aiuti” negli ospedali. Il timore dei dipendenti pubblici a prendere decisioni portò dapprima al rallentamento, poi alla quasi paralisi operativa. Questo è ciò che stiamo sperimentando. Gli illustri studiosi sostengono che l’alta percezione del rischio e delle conseguenze professionali genera il tipico comportamento di astensione prudenziale e il blocco decisionale.
Non è vero che la crisi sanitaria che stiamo vivendo sia da attribuirsi solo alla diminuzione dei nuovi laureati in medicina o ai pensionamenti. Questo fenomeno di decadenza dell’assistenza ospedaliera non ha solo motivazioni contabili.
Fra le cause assumono molta importanza il sovvertimento della politica sanitaria territoriale, sostituita dalla burocrazia e l’ inconsistenza delle gerarchie mediche negli ospedali, dominate anch’esse dalla burocrazia.
Prima o poi si prenderà atto che oltre al valore della contabilità esistono anche i professionisti e i loro principi etici. E’ auspicabile che venga agevolato il libero ritorno ai valori non contabili come: lo spirito critico, l’indipendenza dall’egocentrismo dei poteri centralizzati, lo spirito civico, la coscienziosità, l’altruismo, l’impegno e il sentimento di identità col territorio in cui si opera.
Adesso è urgente, per gli ospedali, ricostituire le figure dei “primari-guida” mancanti nelle Unità operative in crisi. Poi saranno loro ad attirare, con il loro prestigio, i nuovi medici.

Mario Marroccu

Lo spopolamento delle nostre città e la crisi della Sanità hanno una stessa origine che va combattuta. Analizzando le cause potremmo scoprire di non essere così impotenti come appare. In ogni centro urbano vi sono edifici pubblici o monumenti in cui i cittadini riconoscono la loro appartenenza perché hanno un valore storico, affettivo e esistenziale. Se quei luoghi vengono modificati avviene un danno nella struttura stessa del proprio vissuto. Luoghi come il Comune – sede del potere politico-amministrativo, la chiesa – sede della religione, il tribunale – sede della giustizia e l’ospedale – sede della sanità, sono l’anima vitale della città.
Se in una città viene cancellato il centro urbano, avviene un pericoloso vulnus dell’identità collettiva e sorge nel cittadino un senso di disagio, di frustrazione che sono premessa alla disaffezione, alla fuga e allo spopolamento. Ciò succede quando la città ha insufficiente potere politico e quando ha per vicino un’altra città molto più forte che si appropria di quelle funzioni urbane esistenziali.
Alcuni mesi fa un ex-presidente del Censis spiegò che lo spopolamento delle città di provincia iniziò negli anni ‘90 del Novecento quando l’esercizio della politica negli Enti locali divenne meno appetibile per i cittadini più vocati ad essa. Il fenomeno prese avvio a causa di alcune leggi. La prima fu la legge 142/90 che sottrasse agli organi politici locali il potere di amministrare gli uffici comunali.
A quell’epoca i consiglieri comunali avevano ancora il potere della gestione della Sanità attraverso le USL. Allora la legge istitutiva del Sistema sanitario nazionale dichiarava che le USL erano “articolazioni” dei Comuni, e che i Comuni dovessero esserne gli amministratori. L’assemblea dei sindaci portò gli ospedali al loro periodo d’oro. Ma durò poco. Nel 1992 iniziò la spoliazione dei Comuni. I ministri Francesco Di Lorenzo, Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi approvarono tre leggi (502-517- 229) che tolsero i poteri sulla Sanità ai politici degli enti locali e li consegnarono alle Regioni.
Fu un’opera di “centralizzazione” radicale. Finì il tempo in cui i sindaci assicuravano ai propri ospedali i migliori medici strategici per conquistarsi un prestigio sanitario. L’esclusione dalle decisioni politiche indusse la demotivazione progressiva dei cittadini all’interesse alla politica. La città maggiore che assorbiva le funzioni di gestione della cosa pubblica divenne attraente. Ne conseguì che i cittadini della provincia persero la passione per la partecipazione alla politica nella propria città, svuotata di servizi, e cominciarono a trasferirsi nelle nuove sedi del potere centrale. Cessò l’epoca del fervore per la partecipazione attiva alla politica negli enti locali e, da allora, è cresciuto il disinteresse al dibattito e alle candidature. Alla carenza di potere decisionale nonostante progetti lungimiranti conseguirono il disinteresse degli elettori e l’astensionismo.
Con un’altra legge, varata nel 2001, nota col nome di “Riforma del titolo V della Costituzione”, la centralizzazione dei poteri nella Regione aumentò ulteriormente. Contemporaneamente dallo stesso periodo iniziò il degrado della rete ospedaliera e della medicina territoriale.
A conferma di questa tendenza ad accentrare servizi sociali fondamentali nel 2011, per effetto di una rigida legge di risparmio del Governo Monti, vennero chiusi i tribunali periferici, ed anche la giustizia fu centralizzata. Secondo i sociologi del Censis lo spopolamento, l’immiserimento di servizi e l’impoverimento dell’economia, sono strettamente connessi alla “centralizzazione” voluta da un chiaro progetto che viene da lontano. Anche la salute entrò in quel meccanismo.

Mentre la salute in sé è una competenza della medicina, la “Sanità” intesa come organizzazione per dare salute al popolo è una competenza della politica. Il senso di scoramento che ci prese nel vedere l’impreparazione ad affrontare il Covid nei tre anni passati è ben motivato da quella distruzione delle gerarchie politiche locali. Oggi ci saremmo aspettati che il Sistema sanitario nazionale e quello regionale, con l’esperienza della pandemia, si fossero attrezzati meglio sia per contenere il probabile arrivo di altri virus, sia per l’epidemia demografica in atto.
E’ evidente che il problema sociale futuro sarà l’enorme aumento di richiesta di assistenza sanitaria dovuta al forte invecchiamento della popolazione e alla mancanza di progetti di “presa in carico”. In contrasto con questa evidenza, negli ospedali stanno diminuendo sia i posti letto che il personale nelle Terapie intensive e nelle Rianimazioni; nel contempo, è in campo il progetto di costruire nuove strutture murarie, che chiameremo ospedali, le quali dovranno funzionare senza il personale necessario per lavorarci.
Negli ultimi 20 anni abbiamo assistito alla distruzione del sistema ospedaliero di Iglesias, al decadimento progressivo dell’ospedale Sirai di Carbonia e alla rarefazione dei medici di base.
La Regione, un volta esclusi i Comuni, ha creato una nuova entità amministrativa di tipo privatistico che ha il compito di governare tutte le Aziende Sanitarie Locali. Tale entità si chiama ARES (Azienda Regionale Salute). Le ASL hanno oggi perso una reale autonomia di gestione: non hanno veri poteri di iniziativa e sono di fatto strutture acefale. L’unica testa pensante è ARES regionale. I poteri decisionali di questa nuova entità sovrana della Sanità pubblica sono assoluti. Per “assoluto” si intende esattamente la definizione del vocabolario: “assoluto = che non ammette limitazioni, restrizioni o condizioni, relativamente a se stesso, alla propria volontà o alle proprie attribuzioni”.
Ciò avviene perché la legge istitutiva della ARES non prevede i contrappesi della politica territoriale. Pertanto, si tratta di un’entità che non può essere scalfita dalla critica né può essere influenzata da alcunché se non dalla sua sola volontà. La legge, che ha costituito questo ente regionale, consente alla “Conferenza sanitaria provinciale dei Sindaci” la sola possibilità di esprimere pareri sul programma sanitario annuale. Ma tali pareri non sono vincolanti. Ciò significa che la volontà dei sindaci, se in contrasto con ARES, non ha mezzi per penetrarne la corazza di potere in cui è racchiusa.
La ARES venne istituita dalla regione Sardegna con la legge 24/2020, in piena pandemia, e fu progettata affinché avesse una struttura perfetta, monolitica, come un purissimo cristallo profondamente antidemocratico, impenetrabile alle influenze esterne. Il potere sanitario è tutto contenuto in questa entità e noi, popolo, siamo prigionieri all’esterno.
Mentre assistiamo al collasso della Sanità, scopriamo dalla stampa le notizie su innovazioni che dovrebbero avvenire nelle strutture ospedaliere di Iglesias, di Carbonia e dei Distretti. Si tratta di un bel disegno legato ai fondi messi a disposizione dal PNRR missione 6. Ma si tratta solo di un bel disegno, molto simile a un libro dei sogni.
Il quadro reale dello stato della nostra sanità è invece quello descritto dalle cronache dei quotidiani. Di Iglesias sappiamo molto perché è una cittadina che si lamenta puntualmente, e fa bene, attraverso gli organi di informazione. Di Carbonia sappiamo meno. Tuttavia dalle notizie che trapelano si sa che all’ospedale Sirai il corpo degli anestesisti è allo stremo. Una volta vi erano in dotazione dai 15 ai 20 anestesisti; oggi sono 6. Tre di questi sono in Rianimazione; gli altri tre assistono le sale operatorie.
Uno specialista anestesista-rianimatore è giunto all’età della pensione, pertanto, dovrebbe mancare presto per messa in quiescenza. I due restanti non sono sufficienti per un lavoro che impegna 24 ore su 24, senza interruzioni, tutto l’anno. I tre anestesisti dedicati alle sale operatorie devono assicurare l’urgenza ed emergenza e, pertanto, non possono sempre essere disponibili per le sedute operatorie di chirurgia programmata.

Di fatto, la situazione è gravissima e può portare, essa da sola, alla chiusura dell’Ospedale. La persistenza di queste condizione immobilizzerebbe la Chirurgia Generale. L’Ortopedia ha i limiti della Chirurgia Generale. L’Urologia sarà presto senza primario e probabilmente perderà 4 medici per trasferimento in altri Ospedali. Ne resteranno due che eroicamente dovranno prendersi cura dei problemi urologici dei 119.000 abitanti della ASL 7. Impossibile.
La Medicina è presa tra Covid e malattie non-Covid. Il Pronto Soccorso è ora senza primario; ha pochi medici di ruolo e deve ricorrere a convenzioni con esterni. Inoltre, deve assicurare tutte le urgenze del Sulcis Iglesiente. La Cardiologia è sovraccarica di lavoro ed è fortemente impegnata nel settore dell’urgenza. Il Laboratorio non esiste più in sede da nove mesi. Ora pare che debba riaprire la notte. La Radiologia ha l’organico del personale sottodimensionato. La Dialisi per i nefropatici è ridotta a tre medici e presto ne perderà uno. Come faranno a lavorare anche la notte, il sabato e la domenica, Estate e Inverno, sempre, e per tutto il Sulcis Iglesiente in urgenza, non si sa.
Questo quadro descrive uno stato di necessità sanitaria che, così grave, non si era mai visto. Sembra d’essere alle porte della caduta dell’Ospedale. Tutti i professionisti che lavorano nella struttura amministrativa dell’ospedale manifestano competenza e buona volontà. Se ne avessero i poteri, sicuramente affronterebbero i problemi della carenza di personale e li risolverebbero. Purtroppo, non hanno i poteri né di assumere liberamente il personale che necessita né di procedere liberamente agli acquisti. Tutti i meccanismi amministrativi per il funzionamento della sanità provinciale sono stati trasferiti dai nostri uffici di Carbonia e Iglesias quelli della ARES (vedi le competenze nell’articolo 3 della legge di istituzione).
A chi possono rivolgersi i dirigenti della ASL 7 per procedere alla soluzione dei problemi, senza vincoli, e secondo le necessità? Ai sindaci? Sarebbe la soluzione migliore, ma i sindaci sono stati estromessi dalla gestione della Sanità. Il problema è nato dalla centralizzazione dei poteri a Cagliari; non esistono responsabilità di questo disastro né ad Iglesias né a Carbonia.
Esiste una sola soluzione: cambiare la legge 24/2020 della regione Sardegna. Non è necessario cambiare tutta la legge, è sufficiente attenuare l’articolo 3 e aggiungere una riga dell’articolo 9 per iniziare a tornare alla partecipazione democratica nella sanità, questa (al punto – a -):

Articolo 9
Organi dell’azienda Sanitaria.

Sono organi delle Asl e dell’Azienda ospedaliera:
a) il presidente della ASL, che sarà un eletto tra i componenti della Conferenza provinciale sanitaria dei sindaci.
b) il direttore generale
c) il collegio sindacale”

Dando la carica di presidente a un sindaco si stabilirebbe perlomeno un controllo degli Enti locali all’interno della ASL. Con questo provvedimento si consentirebbe ai sindaci di svolgere realmente le funzioni loro attribuite dal Testo unico degli Enti locali, e salveremmo subito gli ospedali e la medicina di base.
Dai quotidiani apprendiamo che stanno nascendo Comitati per la difesa delle sanità territoriale in tutte le province della Sardegna. Questo movimento popolare in supporto ai sindaci è un bene perché i sindaci non possono essere lasciati soli ad affrontare l’ignoto che sta arrivando sul nostro futuro sanitario.

E’ tempo che tutti, maggioranze e opposizioni, parti sociali e enti locali di tutta la Provincia, comincino a discuterne. Il Sistema Salute è da ripensare prima che lo spopolamento e l’inerzia chiudano le città.

Mario Marroccu

I Sindaci chiedono ogni giorno, per la nostra Sanità, servizi concreti come:

– I “Pronto soccorso” funzionanti

– L’azzeramento delle “liste d’attesa”

– Ospedali attivi e con posti letto sufficienti

– Medici di base presenti “qui e subito”.

Fino ad ora le risposte dei Governanti sono apparse irrealizzabili, con un linguaggio burocratico poco accessibile, basate su schemi di progetti-tipo, come:

– Reti ospedaliere.

– Reti territoriali.

– Allegati vari.

Siamo nella nebbia.

Finalmente, in questa nebbia fitta, si vede una tenue indicazione che ha dell’incredibile: nell’ultima legge di riforma, che si chiama “DM 77”, nell’introduzione dell’allegato “1” viene riportato in auge il principio su cui si basò la Grande Riforma sanitaria 833/78 di Tina Anselmi.

Per intenderci, è quella Riforma che assicurava l’assistenza sanitaria gratuita a tutti “dalla culla alla tomba”. Quella Riforma fu un successo perché funzionò. E qui sta il mistero: perché funzionò?

Funzionò perché si pensò di affidare la concretizzazione del Piano sanitario nazionale ai sindaci dei vari territori. I Sindaci divennero Presidenti delle ASL e dei Comitati di gestione; i consiglieri comunali divennero componenti delle Assemblee generali delle ASL. Cosa fecero per rendere concreto il disegno della nuova Sanità? Utilizzarono i soldi del Fondo sanitario nazionale, suddivisi equamente fra tutte le ASL, per raggiungere gli obiettivi della legge di riforma. Vennero costruiti nuovi ospedali e nuovi reparti specialistici usando il buon senso: puntarono tutto sui professionisti strategici che avrebbero trainato il sistema sanitario nel futuro. Così ogni ASL cercò di accaparrarsi i primari migliori e gli specialisti più motivati e più capaci; vennero assunti contabili eccellenti e furono istituite scuole per la formazione di infermieri.

La strategia contenuta nella legge prevedeva che il Direttore sanitario potesse essere eletto fra i primari dei reparti; ad eleggerlo erano i rappresentanti dei medici, degli infermieri e dei tecnici. Ne conseguiva che il Direttore sanitario era un vero leader. La sua autorevolezza era indiscussa; l’obbedienza era certa; il controllo che esercitava era potente e ben accetto. Tutti sostenevano lo scopo del Direttore sanitario che era quello di far funzionare bene l’Ospedale. Il Direttore sanitario aveva lo scopo di soddisfare i desiderata del Presidente e del Comitato di gestione che provenivano dalle istanze democratiche della popolazione.

Questa fu la strategia.

Poi la legge 833/78 venne affondata dal ministro Francesco De Lorenzo nel 1992 e dal ministro Rosy Bindi nel 1995-1999. Questi due ministri trasformarono la ASL da aziende di Diritto pubblico in Aziende di Diritto privato. Le Aziende sanitarie privatizzate cambiarono la”mission” della legge 833 . Quella legge era basata sulla “solidarietà” che si esprimeva nell’idea di “dare il servizio sanitario secondo tre principi fondamentali: universalità, uguaglianza, equità”. Con le nuove Aziende pubbliche di Diritto privato la nuova mission fu: la “contabilità”.

La sostituzione della solidarietà con la contabilità finanziaria comportò un’altra sostituzione: i sindaci ed i primari vennero espulsi dalla funzione di controllo e di direzione del Sistema sanitario nazionale e al loro posto vennero nominati i “manager”, apolitici.

Lo scopo era quello di passare da una “costosa” amministrazione pubblica ad una (supposta) “meno costosa” amministrazione privata. Si voleva estendere all’Italia intera la riforma sanitaria della regione Lombardia che negli anni ’90 aveva affidato la cura della popolazione al sistema delle Case di cura.

Però, c’è un “però”. Mentre il padrone della Casa di cura privata produce Sanità a pagamento per trarne un utile, e per avere questo utile deve trasformare i cittadini-pazienti in suoi “clienti” attraendoli con servizi efficienti, i manager pubblici, che non hanno gli interessi di un padrone di clinica, hanno un solo fine: ottenere l’equilibrio di bilancio, anche a costo di ricorrere alla riduzione della spesa. La richiesta di spendere poco in Sanità divenne esplicita col governo Berlusconi del 2003 che con legge vietò nuove assunzioni negli ospedali, impose il blocco dei turn-over di chi andava in pensione e la riduzione dello 0,4% annuo della spesa sanitaria. Il risparmio della spesa sanitaria venne attenuto riducendo: il personale, l’acquisto di farmaci e l’aggiornamento tecnologico e strutturale.

In quegli anni la Sanità privata migliorava se stessa assumendo i migliori specialisti ed acquisendo le migliori tecnologie. Con ciò diventava l’oggetto del desiderio dei pazienti, mentre la Sanità pubblica diventava sempre più grigia, professionalmente e strutturalmente.

Maturò nella mentalità collettiva un effetto respingente della Sanità pubblica. Così, mentre la Sanità privata faceva un balzo in avanti, quella pubblica faceva molti passi indietro. Nel 2012 vi fu un potente salto all’indietro con ministro della Salute Renato Balduzzi, essendo presidente del Consiglio Mario Monti. In quell’anno, quel ministro emanò un decreto con cui imponeva la drastica riduzione dei posti letto ospedalieri a 2,7 posti letto per 1.000 abitanti. Tutti i manager si precipitarono al taglio dei posti letto, alla chiusura di reparti specialistici e di Ospedali.

Nell’anno 2015 venne emanato il DM 70 che è una legge di Riforma della rete ospedaliera voluta dalla ministra Beatrice Lorenzin ed approvata dal Governo di Matteo Renzi. Quella legge pose condizioni capestro ai piccoli Ospedali che non avessero raggiunto un certo numero di procedure chirurgiche e di alte indagini specialistiche, senza curarsi di verificare se i risultati fossero stati indotti dal declassamento delle strutture ospedaliere, impoverite dalle leggi di risparmio emanate dai Governi precedenti. Dato che i piccoli ospedali sono nelle province ed i grandi ospedali, con i loro grandi numeri, sono nelle città capoluogo, ne consegue che gli Ospedali territoriali (provinciali) vennero ulteriormente ridotti e messi nelle condizioni di chiudere, mentre i grandi ospedali dei capoluoghi crebbero ulteriormente in dimensioni e ricchezza.

In queste condizioni di depauperamento la nostra rete ospedaliera nazionale e la Sanità territoriale sono giunte ad affrontare lo tsunami dell’epidemia di Covid-19 del 2020. Il risultato è stato disastroso ma molto istruttivo. Si è visto come la Sanità privata sia inefficiente nell’affrontare i grandi problemi di salute pubblica. Infatti, soprattutto la Lombardia ed il Veneto, che sono state le regioni iniziatrici della privatizzazione della Sanità pubblica, sono state all’inizio del tutto incapaci ad affrontare l’epidemia. Il disastro fu tale che vennero in soccorso medici dalla Cina, dalla Russia, da Cuba, dalla Romania e gli Ospedali tedeschi e francesi misero a disposizione i loro posti letto per accogliere i nostri malati per aiutare il nostro sistema al collasso.

L’insufficienza sanitaria italiana fu talmente grave e penosa che la Unione europea concesse all’Italia un super-fondo, in parte regalato, in parte in prestito, per ricostruire la Sanità e il sistema produttivo.

Il Governo Draghi ha pubblicato il progetto per la spendita di 230 miliardi – Recovery Fund – per la ripresa e resilienza. Il Piano è distinto in sei “mission”. La “mission n° 6” è destinata alla Sanità. Saranno spesi per la Sanità 16 miliardi di euro. Quei fondi verranno spesi in preponderanza per la medicina territoriale e di prossimità.

Per spiegare come spendere quei soldi il Governo ha emanato il DM 71 e il DM 77 /2022. Mentre il DM 70 del 2015 dava disposizioni per la Riforma degli Ospedali, i DM 71 e 77 rappresentano la Riforma della medicina territoriale.

Il 22 giugno 2022, cioè pochi giorni fa la Gazzetta ufficiale fa pubblicato il DM 77 (decreto 23 maggio 2022).

Cosa contiene? Contiene il Piano di riforma sanitaria del territorio, quindi la medicina di prossimità.

Dal 26 giugno 2022 il Decreto è legge e quindi già da oggi dovremmo vedere realizzato il Piano. Esso contiene il progetto di:

– il Distretto sanitario

– le Case della Comunità

– gli Ospedali di Comunità

– la COT (Centrale Operativa Territoriale)

– gli IfoC (infermieri di famiglia o comunità)

– i LEPS (livelli essenziali delle prestazioni sociali)

– il Nea (numero europeo armonizzato 116117)

– il PAI (progetto di assistenza individuale integrato)

– il PNC (piano nazionale cronicità)

– il PNP (piano nazionale prevenzione)

– il PRI (piano riabilitativo individuale)

– il PUA (punto unico di accesso)

– il PDTA (percorso diagnostico terapeutico individuale) e tante altre cose.

In quel Piano c’è tutto il desiderabile. E’ un grande progetto. A leggerlo si rimane ammirati, tuttavia c’è una assenza importante: manca la strategia.

E’ come ricevere dall’architetto il progetto per costruirsi la casa. Si ha in mano un bel disegno ma ci manca l’ingegnere che realizzi la costruzione dell’edificio. Mancano i muratori, gli elettricisti, gli idraulici, il materiale da costruzione con porte e pavimento compresi.

Ecco. Manca la strategia di realizzazione della Riforma. Per questo, dalla riforma Balduzzi del 2012, e dalla riforma Lorenzin del 2015 in Sardegna abbiamo assistito alla demolizione di Aziende ospedaliere ma nessuna ricostruzione. Stesso destino, probabilmente, spetta alla Riforma dell’assistenza territoriale.

A questa immensità di progetti, ben disegnati ma talmente belli da sembrare irrealizzabili, fa da contraltare la realtà quotidiana del pensionato sulcitano o iglesiente che manda in piazza i propri sindaci e sindacalisti per chiedere almeno un medico di base che fornisca le ricette periodiche dei farmaci.

La situazione della Sanità reale è questa:

1 – Pochissimi posti letto negli Ospedali pubblici per effetto delle leggi dal 2003 ad oggi. Quelle leggi per la riduzione della spesa sanitaria vennero applicate, paradossalmente, solo negli Ospedali pubblici ma non negli Ospedali privati. Nell’ultimo anno in Italia sono stati inaugurati 12 Ospedali di cui solo uno è pubblico.

2 – Gravissime carenze nei Pronto Soccorso che, ricordiamolo, si trovano solo negli Ospedali pubblici.

3 – L’attribuzione ai medici del territorio di funzioni complesse che hanno l’effetto di complicare le procedure di assistenza al paziente.

4 – La persistenza della dualità fra medicina degli Ospedali e del territorio. Ne deriva l’assenza di un raccordo razionale, immediato ed efficiente, fra reparti ospedalieri, Pronto soccorso e medici del territorio.

Oggi il DM 77 merita attenzione e curiosità per un motivo singolare: perché dopo che i vari Governi che si sono succeduti hanno distrutto la Legge di Riforma sanitaria 833/78, il Governo attuale in premessa al decreto scrive: «Il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), uno dei primi al mondo per qualità e sicurezza, istituito con la Legge n. 833 del 1978, si basa su tre principi fondamentali: universalità, uguaglianza, ed equità».

Per chi legge queste righe sulla Gazzetta Ufficiale, la frase equivale ad un atto di dolore per aver affondato la Legge 833/78. A questo punto, se questa premessa fosse una sincera dichiarazione di pentimento per aver prodotto, negli ultimi 30 anni, leggi sanitarie affette da “aborto abituale”, potremmo sperare nella comprensione di quanto sarebbe utile riportare in vita la strategia di applicazione che venne adottata per rendere reale la Riforma 833/78.

In particolare la Regione Sardegna dovrebbe prendere atto che l’istituzione di un Ente di diritto privato che gestisce la Sanità pubblica corrisponde alla rinuncia dell’autorità politica alla gestione diretta della Sanità regionale.

Di necessità la corretta impostazione della riforma, per funzionare, dovrebbe comportare:

1 – Il conferimento del potere di Presidenza, dell’Azienda regionale sanitaria, all’assessore regionale competente. La gestione al Direttore generale.

2 – la delega delle attribuzioni e dei poteri di Presidenza delle ASL ai Sindaci del territorio e, l’attribuzione dei poteri di gestione, ai Direttori generali.

3 – La suddivisione equa del fondo sanitario regionale fra le ASL.

4 – l’indicazione inequivocabile degli Ospedali di base e quelli di I livello.

5 – l’interpretazione autentica delle funzioni attribuite alle tre tipologie di ospedali. Identificazione del personale e dei reparti coinvolti nel DEA.

6 – La centralità ed il potenziamento dei Pronto Soccorso sia come sede di valutazione dell’urgenza, sia come raccordo immediato fra i servizi chirurgici e medici d’urgenza, e i medici del territorio.

7 – l’ampliamento degli organici dei Pronto soccorso.

8 – l’ampliamento dei posti letto per le degenze ordinarie e le terapie intensive.

9 – Sanità territoriale ed ospedaliera fusi e interconnessi in un unico sistema di servizio continuo e complementare. Il Pronto Soccorso inteso come estensione dell’Ospedale nel territorio con l’intento di superare la dualità esistente.

10 – Attribuzione di un nuovo ruolo strategico ai Primari delle Unità Operative specialistiche intesi some figure strategiche della ASL.

11 – Direzione Sanitaria costituita dal Direttore Sanitario eletto, fra i Primari, dalla Commissione dei Sanitari, e coadiuvato da un ufficio di Direzione costituito da medici legali, specialisti in igiene ospedaliera, avvocati, amministrativi e ingegneri sanitari. Queste strutture burocratiche sono già esistenti.

Per procedere in questa direzione le leggi attuali (legge regionale n. 24/2020) devono essere adeguatamente implementate. L’unica modifica sostanziale consiste nell’introduzione dell’assessore regionale alla Presidenza dell’ARES e dei sindaci del territorio alle Presidenze delle ASL, con funzioni di controllo e deliberanti, coadiuvati dai Direttori generali per la gestione.

Riferimenti:

Legge 833/78

Riforma Balduzzi 2012

Riforma Lorenzin 2015

DM 71;

DM 77

FOSSC (Forum delle società scientifiche dei clinici ospedalieri e universitari italiani).

Dai quotidiani sardi ci provengono tre generi di notizie preoccupanti:

  • Gli incendi 
  • Il ritorno in “zona gialla”
  • La carenza  di medici.

Gli incedi sono dovuti alla meteorologia e a calcoli criminali.

La “zona gialla” è una minaccia concreta.

La mancanza di medici è invece un mistero da chiarire, visto l’enorme numero di medici in pensione non utilizzati.

Gli unici che si preoccupano e che si agitano, nella piramide della politica, sono i sindaci. Ovunque, in Sardegna, avvengono manifestazioni spontanee di Sindaci, con tanto di fascia tricolore a tracolla, che sfilano in piazza per protestare, ritenendo che la carenza dei medici di base nei paesi e nei Pronto soccorso degli ospedali sia una forma di abbandono delle autorità sovraordinate. Paradigmatica è stata la dimostrazione di sindaci nella superstrada 131.

Negli ospedali di Iglesias e Carbonia il depauperamento degli organici negli ospedali è serio: i reparti di ricovero e servizi specialistici sono dimezzati, gli altri reparti sono  ridotti ad un quarto del personale medico e tecnico; altri reparti ancora sono costretti ad essere accorpati e ridotti per sopravvivere; altri ancora sono chiusi per consentire le ferie estive che la legge impone al personale. Tutto questo, sta avvenendo nel bel mezzo di una pandemia recrudescente.

In questo periodo vacanziero, da cui proviene il 13 per cento del PIL nazionale, stanno avvenendo manifestazioni contro il green pass; c’è chi ritiene che bastino i vaccini a fermare il virus. Ciò avviene, nonostante i mezzi governativi di informazione stiano ripetendo che c’è una ripresa della mortalità da Covid-19 e che il 14 per cento dei morti è stato vaccinato con due dosi; tale dato certifica che il vaccino non protegge dal virus ma serve ad attenuare la gravità della malattia. Tutti, anche i vaccinati, la possono contrarre, ne è la dimostrazione il caso del signor G.L di Carbonia, anni 74,  regolarmente vaccinato con due dosi, che questi giorni è finito sui giornali perché, avendo manifestato i sintomi ingravescenti di un Covid-19 in forma acuta, è finito all’ospedale Sirai; da qui, imbarcato su un’ambulanza, è stato trasferito all’ospedale Binaghi di Cagliari. Giunto al Binaghi, che funge da centro per pazienti Covid, i medici si sono affrettati a comunicargli che il loro reparto era pieno di malati in terapia intensiva e non potevano accettarlo. Il nostro concittadino è rimasto ricoverato nell’abitacolo dell’ambulanza per 24 ore, in attesa che si liberasse un posto letto nella struttura ospedaliera.

Qui si delinea un mistero della nostra ASSL. Abbiamo dimenticato che un anno fa venne deliberato dalla Giunta regionale l’istituzione di un Covid-hospital al Santa Barbara di Iglesias per accogliere i pazienti del Sulcis Iglesiente. L’omissione è finita nella “cupio dissolvi” della nostra organizzazione sanitaria. Iglesias, tra le nostre città, è la più colpita dall’impoverimento sanitario. In questi giorni, al CTO di Iglesias verrà chiuso il reparto di Chirurgia generale per mancanza di personale medico ed infermieristico, e tutte le urgenze verranno convogliate al Sirai di Carbonia. Anche a Carbonia vi è il problema del personale medico ed infermieristico e, per compensare la carenza d’organico, si sono dovuti accorpare due reparti chirurgici, riducendone le sedute operatorie routinarie ad una per settimana. Tutto ciò, è conseguenza della penuria cronica di personale;  non ci risulta che esista un piano strategico risolutore, e nessuno avanza proposte.

Per la verità, un Piano c’è, ed è molto grosso: si chiama PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza). La parte del Piano che dovrebbe ricostituire la macchina sanitaria si chiama “Missione 6”. L’ha confezionata il governo Draghi ed è stata approvata dalla Commissione europea da Ursula Van der Leyen. Il finanziamento messo a disposizione dall’Europa è enorme. Si tratta di 209 miliardi di euro. Di questi, ben 80 miliardi sono un regalo dell’Europa, mentre 129 miliardi sono puro debito da restituire. Il finanziamento eccezionale va speso entro i prossimi 5 anni. Ben 20 miliardi del Piano sono destinati alla Sanità. Cinque miliardi sono stati già impiegati per altro; ne rimangono 15 da spendere.

Le voci di spesa sono queste:

  • Digitalizzazione del SSN (Sistema Sanitario Nazionale);
  • Medicina di prossimità nel territorio (Case della salute e Ospedali di Comunità); 
  • Strumenti tecnologici (TAC; risonanze magnetiche; ecografi, etc…)
  • Finanziamento Centri di Ricerca;
  • Corsi di aggiornamento per il personale dipendente;
  • Ristrutturazione degli Ospedali fatiscenti.

Gli Ospedali in Italia sono tanti ma soltanto 280 di essi sono veramente importanti. Sono quelli di I e di II livello. In Sardegna ci sono 2 ospedali di II livello (Brotzu e Azienda ospedaliero universitaria di Sassari) e 7 ospedali di I livello. L’ospedale Sirai di Carbonia è uno di questi 7. Questi ospedali verranno dotati di formidabili  apparecchiature tecnologiche e qui scatta un primo mistero: non verranno assunti né medici, né infermieri, né tecnici a tempo indeterminato. Ciò avverrà perché esiste l’ordine della UE di non aumentare la “spesa corrente.  La “spesa corrente” dello Stato è quella che tutti i mesi finanzia gli stipendi dei dipendenti e le pensioni. Ne consegue che è vietato assumere per non generare altra spesa corrente. Sono ammesse solo assunzioni temporanee. La domanda che sorge è questa: «Chi dovrebbe far funzionare le TAC e le Risonanze Magnetiche se non verrà assunto il personale specializzato dedicato? Lo sanno che al Sirai di Carbonia avevamo 9 radiologi e che oggi sono ridotti a 3?». Lo stesso ragionamento si applica per i tecnici specializzati. Conclusione: sugli ospedali e, soprattutto, su quelli del Sulcis Iglesiente, pende la “Spada di Damocle” del fallimento. Da questo si desume che tutti noi siamo candidati al destino del signor G.L. di 74 anni di Carbonia, ad essere rifiutati dal nostro Ospedale, ad essere imbarcati su un’ambulanza che dovrà condurci verso una destinazione senza speranza: gli ospedali respingenti di Cagliari.

Una grossa somma del Piano PNRR di Draghi è destinato alla “medicina di prossimità” nel territorio: si tratta della costruzione delle “ Case della salute” e degli “Ospedali di comunità”. Le prime non sono altro che gli attuali poliambulatori. Anche qui non si prevede l’assunzione di medici specialisti, però si prevede che vadano a lavorarci i medici di base. Per ora, si tratta solo di una ipotesi, perché tutti i sindacati dei medici di base non sono d’accordo e i medici staranno nei loro ambulatori.

Per quanto riguarda gli “Ospedali di Comunità” si progetta di darli in gestione agli Infermieri. E’ evidente che, senza i medici, gli infermieri, che non potranno certificare diagnosi né prescrivere farmaci, si limiteranno alla cura della persona (igiene) e i malati veri verranno inviati in ospedale; qui, per i motivi organizzativi anzidetti, faranno la fine del signor G.L. di Carbonia, ed imbarcati su un’ambulanza con destinazione…il nulla.

Con i fondi del PNRR verrà creata una rete digitale per la comunicazione tra il paziente adagiato a casa e l’ospedale; attraverso essa i nostri anziani avranno una pronta consulenza. E’ evidente che il redattore del Piano non ha esperienza di quanto sia difficile parlare con i pochi medici dei nostri ospedali, oberati da un lavoro che li assorbe totalmente; figuriamoci quanto saranno disponibili a rispondere alle infinite e-mail che riceverebbero dai 128.000 potenziali malati o parenti di malati del nostro territorio.  Non mi sembra tanto realistica neppure l’idea che vengano facilmente prodotti a domicilio tanti esami ECG e tante ecografie da spedire al cardiologo o al radiologo o al chirurgo dell’ospedale, visto la carenza disastrosa di medici di base nel territorio. Si tratta di un piano grandioso di acquisto di attrezzature tecnologiche che finiranno in un sottoscala visto che non è stata prevista l’assunzione del personale medico che dovrebbe utilizzarle.   

Senza il personale non si andrà da nessuna parte. Il PNRR ne vieta l’assunzione a tempo indeterminato e tutto comincia ad avere i connotati di un grande sogno a cui seguirà un brusco risveglio in un mare di debiti da ripianare.

Il caso del signor G.L. di Carbonia è un sintomo certo di una patologia che sta covando e stupisce che nei giornali e nella politica manchi un benché minimo accenno di dibattito su questo tema.

Gli unici che hanno percepito questa anomalia sono i sindaci, scendendo in piazza con striscioni e bloccando il traffico nella Superstrada per Sassari. Sono gli unici che hanno percepito che “non di apparecchiature TAC vive la Sanità” ma di “personale”.

Le radici dei mali del Sistema Sanitario Nazionale si trovano nel passato.

Dopo i tempi meravigliosi sperimentati con la Riforma 833/1978 del SSN, di Tina Anselmi, si iniziò l’arretramento sanitario nel 1992 col ministro liberale Francesco De Lorenzo. Quel ministro decretò il passaggio alla “privatizzazione” della Sanità pubblica. Con tale formula si intendeva risparmiare sulla Sanità attraverso la riduzione della spesa per il personale ed i Servizi.

Nel 1999 il sistema di risparmio venne regolamentato dalla ministra Rosy Bindi.

Poi nell’anno 2004, col Dlgs 311, il Governo Berlusconi pose un tetto alla spesa sanitaria minimizzando la sostituzione del personale andato in quiescenza. Addirittura si decretò che la spesa sanitaria, per ogni anno successivo, diminuisse del 1,4 per cento rispetto alla spesa del 2004.

Nel 2012, ai tempi del Governo Monti, il ministro Balduzzi ridusse drasticamente il numero dei posti letto negli ospedali da 6 posti letto per 1.000 abitanti a 3,7 posti letto per 1.000 abitanti. Proporzionalmente si ridusse il personale dipendente. Erano gli anni in cui in tutti i decreti compariva il proposito di “efficienza ed efficacia”. Con tali termini si intendeva «spendere di meno, con meno personale, ottenendo gli stessi risultati assistenziali».

Nell’anno 2015, col governo di Matteo Renzi, venne varata la legge nota con la sigla DM 70. Questa legge pose altri limiti ai posti letto e al personale.

Gli esecutori regionali sardi, nell’applicare la legge furono “più realisti del re”. Fu un disastro. Non soltanto non vennero rispettati i bassi parametri di posti letto e personale che ci veniva riconosciuto ma, per il Sulcis Iglesiente si procedette alla chiusura definitiva di reparti ospedalieri e dal depauperamento del personale medico e infermieristico ancora superstite.

Dal 1° gennaio 2020 la Sardegna è passata dalla Riforma della ATS alla riforma della ARES. Anche con questa Riforma non è stato preso in considerazione l’aumento dell’organico del personale sanitario.

Ora siamo in attesa di una legge che definisca i nuovi standard sugli organici del personale dei Servizi sanitari della Sardegna. E’ necessario che qualcuno dei nostri segua bene l’iter di questa nuova legge e verifichi che il nostro territorio non venga ulteriormente sacrificato.

Da questa ricostruzione storica si ricava l’informazione che il disastro sanitario in cui ci troviamo ha i nomi e i cognomi degli autori. Hanno partecipato tutte le parti politiche e tutte, alla pari, ne hanno la responsabilità.

Ci rimane una speranza. I sindaci.

Tuttavia i sindaci hanno bisogno d’essere sostenuti dall’opinione pubblica, la quale dovrebbe controllare i controllori che sono stati eletti.

Chi sono i controllori? Sono i rappresentanti dei cittadini inviati alla Regione, alla Provincia, alle Camere e al Governo.

Ma ancora più responsabili sono i controllori dei controllori, cioè Noi stessi.

Onestamente tutto questo disastro l’abbiamo lasciato crescere senza controllo e ne siamo responsabili. Siamo Noi stessi gli  autori della triste esperienza in cui è incappato il concittadino  G.L., di 74 anni, di Carbonia. Siamo in molti: 128.000 abitanti del Sulcis Iglesiente, e abbiamo la colpa di non aver stimolato adeguatamente i nostri rappresentanti. 

Mario Marroccu

Nella foto di copertina i sindaci della provincia di Oristano che hanno manifestato due settimane fa uniti in difesa del sistema sanitario territoriale

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La prossima settimana una delegazione della commissione parlamentare antimafia guidata dalla presidente Rosy Bindi arriverà in missione in Sardegna per fare il punto sulla situazione della criminalità organizzata nella regione.

Martedì 16 maggio in Prefettura a Cagliari si terranno le audizioni dei prefetti di Cagliari, Sassari, Nuoro e Oristano, successivamente sarà ascoltato il procuratore distrettuale del capoluogo. Nel corso della missione, verranno approfondite le tematiche relative alla gestione dei detenuti in regime di 41 bis e mercoledì 17 verranno effettuati sopralluoghi alla casa circondariale di Cagliari Uta e al carcere di Sassari.

«La visita della commissione antimafia guidata dalla presidente Rosi Bindi in Sardegna per una missione dedicata al sistema carcerario sardo è un’iniziativa opportuna – commenta il senatore Silvio Lai -. Sarà l’occasione per verificare la sicurezza delle carceri ed il sistema della prevenzione delle infiltrazioni mafiose nell’isola.»

«Il sistema carcerario sardo è certamente uno tra quelli che ha superato il problema della qualità delle strutture dato che sono stati chiusi sia il carcere di Buoncammino a Cagliari sia quello di San Sebastiano a Sassari, sostituiti da strutture moderne, predisposte per ospitare i detenuti sottoposti al regime 41bis. Ritengo sia importante – conclude Silvio Lai – chiedere alla commissione in questa sua missione la massima attenzione per il sistema di sicurezza delle carceri tenuto conto della particolare condizione territoriale e del fatto che deve ospitare figure appartenenti alla criminalità organizzata che non ha presenza in Sardegna.»