A caccia del cancro, nella pista del Covid-19 – di Mario Marroccu
Alcune settimane fa due chirurghi, il dottor Antonio Macciò, ginecologo-oncologo al Businco, e il dottor Stefano Camparini, chirurgo vascolare al Brotzu, hanno eseguito un intervento eccezionale su una donna affetta da tumore maligno. Si trattava di un cancro dell’utero invadente la parte sinistra della vescica, i grossi vasi arteriosi e venosi del bacino e i muscoli pelvici di sinistra.
La paziente versava in condizioni gravissime, da morte imminente. La febbre era persistentemente alta e dagli esami del sangue risultava uno squilibrio dei globuli bianchi simile a quello che si vede nei pazienti con Covid-19 in fase terminale. La paziente non aveva contratto il Covid; era invece in preda ad una “tempesta citochinica” indotta dal cancro.
Gli americani chiamano questo genere di chirurgia: “Interventi commando”. La definiscono come le operazioni di guerra particolarmente rischiosa.
L’intervento è stato distinto in due fasi: la parte demolitiva e la parte ricostruttiva. La “fase demolitiva” ha comportato l’escissione in blocco di quasi tutto il contenuto del bacino. Sono stati asportati: l’utero e annessi, la parte sinistra della vescica e un segmento terminale dell’uretere sinistro, la grande vena iliaca comune sinistra e la vena iliaca esterna che drenano il sangue venoso della gamba sinistra, la vena iliaca interna sinistra, il muscolo otturatorio interno sinistro (che serve a muovere la coscia), tutto il contenuto della fossa otturatoria costituito da ghiandole, grasso, nervi e vasi.
E’ stata una demolizione radicale.
Nella “fase ricostruttiva” il chirurgo vascolare ha ricreato un tratto venoso protesico per scaricare il sangue venoso della gamba sinistra. Il chirurgo ginecologo-oncologo ha proceduto a ricostruire la vescica e ad impiantarvi l’uretere sinistro.
L’intervento è durato 8 ore.
E’ noto che in Italia questa chirurgia così difficile viene eseguita al Policlinico Gemelli di Roma, ma non è noto come meriterebbe che il dottor Antonio Macciò fa questa chirurgia da molti anni, e la iniziò quando lavorava all’Ospedale Sirai di Carbonia. Negli stessi anni in cui apriva la strada a questa chirurgia al Sirai, egli aveva iniziato gli studi sul comportamento delle cellule Macrofagi nel cancro dell’ovaio. I Macrofagi sono cellule tissutali addestrate alla difesa dalle aggressioni batteriche, virali e tumorali.
Per capire come ci difenda questo esercito di “soldatini cellulari”, iniziò a raccoglierli nel liquido ascitico delle donne affette da cancro dell’ovaio, e iniziò a coltivarli. Con il suo “gruppo di studio” fin dal 1999 pubblicò osservazioni interessanti. Aveva verificato che queste “cellule soldato” producono una sostanza denominata Interleukina-6, e prese a dosarla in tutti i casi di tumore.
Tale mediatore chimico è un’arma potentissima che attiva altre cellule, i Linfociti. A loro volta, il Linfociti producono Interleukine di varie categorie, e scatenano un attacco difensivo multiplo per fermare l’invasore.
Si scoprì che queste cellule fanno una battaglia senza pietà nei confronti di chiunque sia coinvolto nello scontro. Ricorda l’impiego del gas Iprite nel fronte della prima guerra Mondiale: i tedeschi lanciavano il gas contro i francesi facendo strage ma, se per caso il vento cambiava direzione, il gas tornava indietro intossicando soldati del fronte tedesco facendo molte vittime. Infatti, invece di limitarsi ad uccidere il nemico (virus, batterio, tumore), le Interleukine dei linfociti massacrano anche le cellule amiche intaccate dall’infezione. In sostanza le cellule del rene, del polmone, del fegato, del cuore, eccetera, che sono state aggredite dall’infezione vengono uccise dal “fuoco amico” dei Macrofagi e Linfociti. Questa è la tempesta citochinica dell’infiammazione.
In questa guerra fratricida avviene il blocco della produzione di Linfociti, pertanto, diminuiscono di numero nel sangue. Al contrario, le altre cellule infiammatorie del sangue, i Granulociti, aumentano.
Antonio Macciò verificò e pubblicò, dal 1999 in poi, diversi articoli nelle riviste internazionali di Oncologia, di Ematologia, e di Immunologia. In Italia, la conferma ai suoi studi, proveniva dalla scuola universitaria milanese del professor Alberto Mantovani, immunologo.
Tutte le ricerche sull’infiammazione portavano a far ritenere che il grave deperimento del paziente con cancro fosse in ampia parte dovuto al meccanismo infiammatorio autoaggressivo.
Così si spiega il dimagramento, l’inappetenza e l’anoressia, la perdita di massa muscolare, l’astenia, l’anemia, l’insufficienza epatica, il danno renale, i disturbi della coagulazione (trombosi e emorragie) dovuti al danno epatico e al danno dell’endotelio dei vasi, le trombo-embolie, la febbre, la cachessia ed il decesso.
Tutto il disastro è dovuto all’infiammazione.
Ora, il suddetto intervento ginecologico e vascolare per un cancro invasivo dell’utero allo stadio T4, consente una verifica importante, cioè: la paziente, prima dell’escissione radicale del tumore, aveva febbre persistente, un numero molto alto dei granulociti neutrofili e un numero molto basso dei linfociti nel sangue. Si tratta di un quadro di laboratorio simile a quello che si trova nel Covid-19 in fase avanzata, premortale.
Dopo la rimozione della causa dell’infiammazione (in questo caso il cancro della paziente) la conta dei Granulociti e dei Linfociti è tornata rapidamente alla normalità; il motivo del miglioramento è legato al ritorno ai livelli normali delle Interleukine. Quando il tumore non c’è più, i Linfociti si riprendono. è il segno certo che la tempesta citochinica è finita. La vita può tornare.
Il caso descritto è una prova e controprova, col metodo galileiano, che i sintomi di decadimento profondo ed i dati di laboratorio su linfociti e citochine, sia nel cancro che nel Covid-19 sono fortemente legati all’infiammazione.
Questa pista, indicata da Antonio Macciò ed Alberto Mantovani in Italia, ed approvata dal mondo scientifico internazionale, è ormai una certezza, e su di essa sono state messe a punto terapie mirate.
Questa bellissima storia, nonostante la tristezza della vicenda umana della paziente, obbliga noi Sulcitani ed Iglesienti a rigorose riflessioni:
1 – Gli Ospedali di Carbonia e Iglesias 20 anni fa stavano molto bene. Questo significa che il decadimento organizzativo a cui assistiamo oggi non è dovuto a questioni di periferia geografica ma ad altre forme di periferia culturale e politica da individuare.
2 – La buona Sanità è legata alla corretta dotazione di personale Medico e Sanitario. Questo è il settore più colpito.
3 – L’ottima Sanità è dovuta alla competenza e alle qualità personali. Quell’intervento è stato eseguito in 8 ore. Significa che è stato fatto con l’intento della perfezione e della accuratezza, ignorando il tempo che scorre. Su questo bisogna riflettere molto.
4 – I programmi sanitari negli ultimi 20 anni sono stati concepiti per soddisfare algoritmi con finalità amministrative. Il caso descritto ci insegna invece che la componente umana professionale e individuale è centrale per spiegare il buon risultato, e la bravura non è inseribile in un algoritmo.
Ne consegue l’imprescindibile necessità di ripristinare e curare il personale degli Ospedali.
Mario Marroccu