21 November, 2024
HomePosts Tagged "Tina Anselmi"

Per il prossimo Natale, vedremo un fenomeno a cui siamo abituati da anni e che può essere utile per spiegare cosa sta succedendo. In questi giorni può capitare, al momento di pagare, che alla cassa ci propongano di acquistare dei gadgets, o di fare un’offerta, a favore di un ricco ospedale, che diventerà un beneficio per i malati.
Premettiamo che un’offerta per la Sanità è un gesto altamente meritorio a cui tutti dovremmo partecipare. Questo meccanismo di raccolta fondi è anche utile per capire un fenomeno più generale diffuso in tutta Italia, soprattutto al Nord. Ci si chieda: chi ha pensato di raccogliere fondi per i malati? Forse i medici e gli infermieri? E’ poco probabile. E’ molto più probabile che l’idea provenga da un ufficio di contabilità ospedaliera. A cosa servono quei soldi? Servono senza dubbio a creare un “fondo integrativo “ per migliorare le cure del malato.
Bisogna tener presente che l’ospedale è già finanziato dal Fondo sanitario pubblico, ma il finanziamento pubblico non gli basta e raccoglie, privatamente, altri fondi. Secondo le norme i “fondi pubblici” dovrebbero essere “equamente” spartiti fra le Regioni, e assicurare “uguaglianza“ di trattamento a tutti gli italiani. La Costituzione, infatti, dispone l’“universalità“ delle cure. Ciò premesso, come vanno inquadrate quelle offerte natalizie? Si tratta di fondi extra che “integrano” il fondo pubblico, e che vengo definiti, per legge, “fondi integrativi”. Quei fondi verranno utilizzati dall’ospedale beneficiario in modo autonomo e indipendente dal controllo dello Stato, perché sono suoi, e lo Stato non interferisce nella libertà del loro utilizzo. Chi raccoglie fondi più ricchi conquista grande autonomia e grande potere di controllo sulla qualità e sulla scelta delle cure che erogherà. La differente entità di fondi integrativi esistente fra ospedale e ospedale, e fra Regione e Regione, può essere enorme; questo determinerà la differenza nella qualità di vita delle distinte popolazioni. Ciò avrà influenza sul criterio costituzionale di “uguaglianza”.
La rivoluzione dei principi di “equità”, di “uguaglianza” e di “universalità” introdotta da Tina Anselmi nella Costituzione, e da lei stessa concretizzata nella Legge 833/78, fu un’idea geniale ma venne depotenziata dal ministro Francesco De Lorenzo nel 1992 e poi dal ministro Rosy Bindi con la legge 299/1999; in quest’ultima vennero definitivamente riconosciuti i ”fondi integrativi” per finanziare gli ospedali.
Nel 2001 l’esistenza dei “fondi integrativi” ebbe un ulteriore supporto dalle modifiche portate al Titolo V della Costituzione. Gli emendamenti alla Costituzione hanno avuto conseguenze evidenti la Sanità nelle regioni ricche del Nord è una grande sanità. La Sanità nelle regioni povere è una povera Sanità. Non ci volle molto a capire che l’effetto dei fondi integrativi avrebbe differenziato gli italiani e da questa lezione prese piede l’idea nel ministro Roberto Calderoli di estendere quel metodo a tutti i servizi pubblici, e cioè, oltre alla Sanità, all’Istruzione, ai Trasporti, e a tutti i Servizi pubblici attinenti alla qualità della vita nazionale. Si tratta quei Servizi che tengono coeso un popolo. Il rischio, con la legge integrale di Roberto Calderoli, è quello di intaccare i quattro principi fondamentali della Costituzione: la Solidarietà, l’Uguaglianza, la Sovranità Popolare, i Diritti Inviolabili (articoli 1, 2, 3, 32, etc.).
Il difetto di Solidarietà e Uguaglianza si sta già vedendo nel sistema sanitario Sardo. E’ noto a tutti che, data la crisi profonda dell’assistenza sanitaria in Sardegna, molti sardi affetti da tumori, per curarsi, migrano verso le regioni più ricche del Nord Italia. Chi ha questa esperienza scopre che, secondo la Regione in cui vai, ogni malattia ha un costo diverso. Il prezzo da pagare è il DRG (Diagnosis Related Group) che permette di classificare tutti i malati dimessi da un ospedale in gruppi omogenei in base alle risorse. Ora, prendiamo il caso di una ipotetica paziente con cancro alla mammella che viene operata in un ospedale sardo. Il DRG per cancro di mammella operato in Sardegna viene pagato all’ospedale 4.500 euro circa. Se la stessa paziente venisse operata in un ospedale del Nord, il DRG per lo stesso intervento varrebbe circa 7.000 euro. Quindi l’ospedale guadagna di più e può offrire cure migliori. Chi paga l’aumento del costo, in questo caso, se il malato è sardo? Paga la Regione Sardegna. La differenza del costo dell’intervento per i malati di quella regione del Nord, viene pagato dai “fondi integrativi” della stessa regione. Tali fondi sono stati formati con un metodo paragonabile alle donazioni che facciamo nel corso degli acquisti di Natale. Si tratta cioè di fondi extra, indipendenti dal Fondo Sanitario Nazionale, che possono essere accumulati massimamente nelle regioni più ricche, sia attraverso donazioni sia attraverso una raccolta fiscale supplementare attuata dalla stessa regione.

I “fondi integrativi” di dette regioni possono essere scaricati dal conto che le stesse regioni devono allo Stato per finanziare la Solidarietà nazionale. Di fatto, quindi, tali regioni possono contribuire di meno alla formazione del Fondo sanitario Nazionale. Ne consegue che le regioni più povere possono attingere in misura minore e possono erogare una sanità di livello inferiore.
Questo meccanismo, secondo la legge sull’“autonomia differenziata” di Roberto Calderoli, dovrebbe essere esteso a tutti i Servizi pubblici, dalla Sanità ai Trasporti, dall’Istruzione e Università alla Viabilità e all’edilizia pubblica, etc.. Se passasse integralmente quella legge creerebbe una distanza incolmabile sulla qualità di vita tra i cittadini delle regioni del Nord e quelli del Sud. Lo stesso Sergio Mattarella ha messo in guardia sul pericolo che si corre nell’intaccare i diritti inviolabili della Costituzione; fatto che ci esporrebbe alla disgregazione nazionale. Verrebbero intaccati non solo i LEA (livelli essenziali di assistenza), ma anche i LEP (livelli essenziali di prestazioni); in sostanza ne soffrirebbero tutti i servizi pubblici.
Oggi la Consulta ha dato il suo parere sulla legge e sostiene che essa è costituzionale (art. 116) ma illegittima in alcune parti decisive. I Giudici, infatti, richiamano al rispetto della Costituzione e sottolineano che la forma dello Stato, insieme al ruolo fondamentale delle Regioni, riconosce i principi della Unità della Repubblica, della Solidarietà tra le Regioni, dell’Eguaglianza, della garanzie dei Diritti dei Cittadini e dell’equilibrio di bilancio. Testualmente sentenzia: «La distribuzione della funzione legislativa e amministrativa tra i diversi livelli territoriali di governo (Comuni, Province, Regioni) non deve corrispondere all’esigenza di un riparto di potere tra i diversi segmenti del sistema politico, ma deve avvenire in funzione del bene comune della società e di tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione. A tal fine, è il principio costituzionale di sussidiarietà che regola la distribuzione delle funzioni fra Stato e Regioni. In questo quadro l’Autonomia differenziata deve essere funzionale a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici e ad assicurare maggior responsabilità politica, rispondendo meglio alle attese e ai bisogni dei cittadini».
La sentenza richiama al rispetto dell’articolo 116 della Costituzione e all’osservanza dei principi fondamentali della Costituzione tutta. Principi che il proponente ignorava.
Le quattro regioni che hanno ricorso, per adesso, ci hanno salvati da un disastro.

Mario Marroccu

Tutti hanno memoria di una qualche “Tzia Maria” e della sua bottega vicino a casa. Aveva due caratteristiche:
1 – Tutti potevano acquistarvi , subito e a poco prezzo, pane, pasta, conserve, Olà, DDT e saponi.
2 – Con i soldi guadagnati, “Tzia Maria” vestiva in figli, li faceva studiare, curava il marito, pagava il macellaio, il muratore, il falegname, il sarto, comprava miscela per la motocarrozzella e  se ne restavano, li metteva nel libretto postale.
Erano soldi benedetti che, in un circuito virtuoso, alimentavano l’economia locale facendo lavorare anche altri artigiani. Era una “Catena di Sant’Antonio” che nutriva le città di un’economia circolare auto-prodotta.
Oggi quel tipo di economia auto-prodotta è superata. Compriamo tutto ai Super-Store: dal pane alla frutta, dalle scarpe ai vestiti, dagli infissi già pronti alle auto, etc… e i soldi finiscono immediatamente in conti correnti del Continente o all’Estero. La virtuosa economia circolare è stata sostituita da un’idrovora quotidiana che prosciuga dal danaro liquido le città. Al contrario dell’economia di “tzia Maria”, la redistribuzione del danaro è stata sostituita da un fiume in fuoriuscita unidirezionale, senza ritorno. Le conseguenze sono desolanti. Il nuovo quadro economico è ben rappresentato dal tipico aspetto assunto dai centri-città: negozi chiusi, palazzi disabitati, un corteo di cartelli “vendesi” affisso alla porta di ex locali commerciali e abitazioni. Tutti segni di impoverimento economico e di spopolamento.

Una delle cause è attribuibile all’accentramento delle attività economiche nei Super-Store: strutture nate per vendere ma che difficilmente reinvestono il ricavato nel luogo che le ospita.
Un fenomeno esattamente identico è avvenuto alla rete sanitaria locale che una volta ci forniva tutta l’assistenza sanitaria che abbisognava. Le nostre Province, con i loro ospedali e le loro reti territoriali sanitarie erano totalmente autonome nell’auto-prodursi il Servizio sanitario in medici, personale, strumenti e edifici proprii. Ricordiamo che le Università istruiscono i Medici ma non li formano professionalmente. La loro formazione professionale è avvenuta sempre negli Ospedali, ad opera dei primari e dei medici anziani. Una legge dello Stato, la 128/69, all’articolo 7, imponeva l’obbligo ai primari di formare culturalmente e professionalmente i nuovi medici. Così i nostri ospedali auto-producevano le nuove generazioni di medici bene addestrati. Qui si curavano le malattie internistiche dei bambini e degli adulti, si facevano gastroscopie, colonscopie, TAC ed esami di laboratorio, si operavano tutte le patologie addominali, toraciche, ortopediche, urologiche, ginecologiche, traumatologiche, e qui si nasceva in sicurezza. Tutti erano nelle condizioni di apprendere l’arte medica, a fare gli elettrocardiogrammi, le colonscopie e ad operare. Nonostante in quei tempi i medici fossero numericamente in numero inferiore rispetto ad oggi, non esisteva il problema della carenza di medici e le liste d’attesa si esaurivano in giornata o in una settimana. Il mondo poi è cambiato.
Fino al 1978 gli ospedali provinciali erano finanziati dai proventi provenienti dalle Casse mutue private e dai privati cittadini. In quell’anno Tina Anselmi abolì le Casse mutue e creò il Fondo sanitario Nazionale. Da quell’anno la Sanità fu veramente e totalmente pubblica. Lo Stato, su proposta di Tina Anselmi, istituì il Servizio sanitario nazionale (L. 833/78), diede in gestione le USL territoriali ai sindaci e ai Consigli comunali. Furono applicate esattamente le norme costituzionali che suddividono gli Enti gestori dei servizi pubblici in: Comuni, Province, Regioni.
Era chiaro che, in democrazia, la gestione pubblica spettasse al popolo tramite i suoi rappresentanti. Tina Anselmi era un personaggio complesso: proveniva da una famiglia socialista; da universitaria nel 1944 vide impiccare dai nazisti i 31 martiri di Bassano del Grappa e aderì immediatamente alle brigate partigiane combattenti in montagna. Lì, nei bivacchi, si discuteva sul come costruire la Costituzione del nuovo Stato che avrebbero creato. Fu attiva nella CGIL e poi aderì ad uno dei tre partiti che scrissero la Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Per effetto dell’articolo 3 della Costituzione, che conferiva pari diritti a maschi e femmine, poté essere candidata; nel 1956 divenne deputato della Repubblica e scrisse il testo della legge sulla “pari opportunità” Uomo-Donna. Fu il primo ministro donna nella storia italiana. Nel 1976 venne nominata ministro della Sanità e scrisse il rivoluzionario testo di Riforma sanitaria: la legge 833/78. In quasi tutte le Regioni la nuova legge di riforma venne compiutamente applicata nel 1982. Fu un’esplosione di democrazia. Durò fino al 1992 e fu il decennio d’oro della Sanità italiana. Gli ospedali crebbero di numero e in qualità. Gli amministratori locali misero in competizione le USL fra di esse. In quella gara ognuno si assicurava i migliori professionisti per dirigere i reparti e iniziò la produzione, in ciascuna provincia, di una Sanità autoctona, auto-prodotta, adeguata alle esigenze di ciascun territorio nel rispetto delle norme nazionali.
La Sanità divenne un motore economico che, attirando pazienti e finanziamenti, produsse profitto per la comunità, così come oggi lo producono il Turismo, la Cultura, e l’Archeologia. Poi venne l’anno 1992 ed entrammo in un trentennio molto controverso.
Oggi sappiamo che in quell’anno avvenne la fine dell’entusiasmo creativo dei partiti politici e della partecipazione popolare. Fu l’anno di Mario Chiesa, di “tangentopoli” e dello sconquasso dei partiti dei Padri costituenti. In quell’anno, alle dimissioni di Francesco Cossiga da Presidente della Repubblica, venne proposta la candidatura di Tina Anselmi. Se fosse stata nominata lei come Presidente, avrebbe sicuramente protetto la sua legge di Riforma sanitaria. Viceversa, venne eletto Oscar Luigi Scalfaro, il quale nominò ministro della Sanità il rappresentante del Partito liberale, on. Francesco De Lorenzo. La storia della Sanità pubblica cambiò.

Francesco De Lorenzo proveniva da una parte politica che non aveva partecipato alla scrittura della Costituzione. Conformemente alle sue idee economiche, agli antipodi di quelle di Tina Anselmi, egli produsse una sua “Riforma sanitaria”, la L. 502/92, in cui applicò il concetto di “impresa” alla Sanità pubblica. Rimosse i sindaci e i Comitati di gestione. Le Unità Sanitarie Locali (USL) presero il nome di “Aziende Sanitarie Locali” e per dirigerle egli inventò la figura del “Manager”. E’ una figura tipica delle imprese economiche basate sulle regole del mercato privato. Il centro dell’attenzione, che prima era il “cittadino malato”, divenne “l’Ufficio del bilancio”. Alla direzione “democratica” si sostituì la direzione “centralizzata”. Da allora il metodo più semplice di ridurre la spesa sanitaria consiste nello spendere il meno possibile e nel “centralizzare”, quindi: meno personale, meno strumenti, meno accessibilità alle cure. Ai politici di allora sfuggì che esiste uno stretto connubio tra la democrazia, il benessere dei cittadini e la loro percezione di sicurezza. E’ per questo che i cittadini amano le libere elezioni: perché incentivano i Governi a tutelare il benessere. A queste disattenzioni consegue in genere la caduta del consenso popolare. A quel primo atto di centralizzazione del potere in un’unica Persona-Manager sono poi seguite altre “centralizzazioni”. I politici locali allora perdettero il potere di controllo sulla Sanità pubblica. Oggi lo stanno perdendo i politici regionali: la centralizzazione del controllo della Sanità regionale è stata acquisita da un’altra struttura gestionale, al di fuori dell’assessorato della Sanità, a cui è stato conferito grande potere ed autonomia. Tale nuova struttura, l’ARES, seguendo una logica amministrativamente ineccepibile e in linea col processo di aziendalizzazione dell’intera struttura sanitaria sarda, ha proceduto alla “delocalizzazione” di fatto dell’assistenza sanitaria, trasferendola dalle Province al centro della Regione. Il cambiamento è enorme.
L’impoverimento dell’apparato ospedaliero provinciale oggi impone che i nostri “corpi malati” vengano forzatamente trasferiti negli ospedali DEA di II livello di Cagliari e negli ospedali universitari per qualunque malattia, sia grande sia piccola. Tale centralizzazione sta comportando la scomparsa degli ospedali DEA di I livello, che sono gli 8 ospedali provinciali delle 8 province sarde. La conseguenza è tutti i giorni nelle prime pagine dei quotidiani. Gli ospedali cagliaritani, sommersi da un eccesso di richieste di cure provenienti da tutta la Regione, sono finiti in scompenso funzionale. In certi momenti si è rischiata la chiusura per impossibilità di accettare altri pazienti.
Certamente la soluzione non consiste nel tornare ai tempi di “tzia Maria”. Si potrebbe però applicare correttamente la legge sulla “Rete Ospedaliera Regionale” del 2017, rimasta nel cassetto.
Si potrebbe anche riportare al controllo delle ASL i sindaci del territorio, che potrebbero affiancare con funzione di proposta e controllo, i Manager.
Potremmo avere la gradita sorpresa di restituire la certezza delle cure alle Province e, forse, di innescare anche un sano circuito di ritorno economico.

Mario Marroccu

Piove dentro casa e mettiamo secchi e pentole per terra prima che l’acqua bagni i tappeti. Stiamo facendo la stessa cosa nella Sanità Pubblica dal 1992.
Quando Oscar Luigi Scalfaro si accorse che l’Italia correva il rischio del dèfault economico dette l’incarico di Governo a Giuliano Amato che ci salvò. Egli prese provvedimenti d’emergenza che erano giustificati ma che adesso, da almeno 25 anni, non lo sono più. Per risparmiare sulla spesa sanitaria egli dette l’incarico di ministro della Sanità a Francesco De Lorenzo che, da buon liberale, approntò una legge neo-liberista: la 502 del 30 dicembre 1999. Quella legge abolì il principio cardine della più grande legge italiana dopo la Costituzione: la legge sanitaria 833 di Tina Anselmi. Ne smontò il principio di uguaglianza, equità, universalità e gratuità della Sanità pubblica per tutti nella Nazione. Abolì gli organi democratici di governo delle Unità Sanitarie Locali e le trasformò in “Aziende” di tipo privatistico, con un “Manager”.
Fin qui si può capire e anche approvare quel metodo, data la confusione politica di quegli anni  Non si è mai capito, però, per quale motivo quella linea liberista, in campo pubblico, sia stata mantenuta e aggravata da ministri della stessa area politica riformista a cui apparteneva Tina Anselmi.
L’aziendalizzazione di tipo privatistico applicata alla Sanità pubblica peggiorò nel 2001 con la modifica del Titolo V della Costituzione, poi col Governo Berlusconi del 2003, col Governo Monti del 2010 (che fece leggi che indussero la riduzione di reparti ospedalieri e la chiusura di ospedali) e col governo Renzi che emanò norme ancora più restrittive per gli ospedali pubblici (DM 70/ 2015).
Tina Anselmi nel 1978 aveva abolito le Casse Mutue e l’ampio uso dell’ospedalità privata e caritativa, concentrando tutta la sanità negli ospedali pubblici ed aveva ottenuto grande soddisfazione nella popolazione. I Governi dal 1992 in poi fecero il contrario: tolsero all’ospedalità pubblica la centralità sanitaria e la suddivisero con gli ospedali privati (case di cura). Così la parola “Servizio” scomparve dall’acronimo SSN (Servizio Sanitario Nazionale) e venne sostituita dalla parola “Sistema” (Sistema Sanitario Nazionale – SSN). Allora non ci accorgemmo di quel cambiamento apparentemente insignificante, invece esso conteneva la sostanza di un cambiamento enorme: da allora la Sanità privata cominciò a lavorare facendo “Sistema“ con la Sanità pubblica. La riforma di Tina Anselmi era finita.
Fino ad allora il “Fondo Sanitario Nazionale” era stato riservato alla sola Sanità pubblica. Da allora il “Fondo sanitario” venne suddiviso fra Sanità pubblica e Sanità privata. Per pagare la sanità privata si attinse dallo stesso unico fondo a cui attingeva la Sanità pubblica.
La Sanità privata fu sempre efficiente. Si è vista, per esempio, la sua efficienza durante l’epidemia di Covid. Nel tempo, man mano che aumentava la percentuale di Fondo sanitario destinato a pagare la sanità privata, inevitabilmente, diminuì la quota rimasta per quella pubblica. Si capisce che con l’aumento della spesa per la Sanità privata, la Sanità pubblica è destinata ad essere progressivamente sottopagata. Alla fine la pubblica va in crisi per deficienza di fondi.
In Sardegna, in particolare, a questo meccanismo di morte lenta per deficit di finanziamento degli ospedali, si è aggiunto un altro meccanismo anche peggiore: la “Centralizzazione “ della Sanità ospedaliera nelle due città di Cagliari e Sassari e il depotenziamento dei 6 ospedali delle altre Province. In particolare, l’accentramento sanitario regionale è stato concentrato nell’ARNAS Brotzu di Cagliari.
La spiegazione per cui venne avviato questo progetto accentratore era semplice: «Visto che l’evoluzione della tecnologia sanitaria è costosissima, per contenere i costi ci conviene centralizzare la spesa in uno o due ospedali regionali». Questa teoria fu micidiale per gli altri 6 ospedali provinciali. Ne conseguì che i direttori generali delle altre ASL sarde ebbero il mandato di «ridurre le spese». Chi più riduceva, più veniva premiato e i direttori generali potevano, in base all’entità del risparmio, ottenere un premio economico. Ne conseguì che ci fu una gara al risparmio proprio negli ospedali provinciali e i fondi regionali si concentrarono, soprattutto, sulle due città universitarie di Cagliari e Sassari. Intanto, a causa della defunzionalizzazione progressiva dei nostri ospedali di provincia, i malati sardi cominciarono a riversarsi su Cagliari. Tuttavia l’ospedalità cagliaritana, e il Brotzu in particolare, non avevano una capacità di posti letto e personale adeguati all’aumentata richiesta. Così il Brotzu, nella notte fra il 13 e 14 luglio 2024 andò in crisi gravissima, con file di barelle alle sue porte, e vi fu una protesta pubblica di tutti i Capi dipartimento medici che si scoprirono inadeguati e impotenti davanti al fenomeno.
Per di più negli ospedali provinciali, come una valanga che si forma lentamente, i medici hanno cominciato ad andarsene. Il danno è grave perché non abbiamo medici giovani, formati ed esperti, pronti alla loro sostituzione.
Contemporaneamente, i medici di base dei territori, privati dei loro ospedali di riferimento provinciali, hanno cominciato a disdire i loro contratti con lo Stato, andando in quiescenza.
Oggi gli ospedali privati del Cagliaritano, presi d’assedio da una gran massa di pazienti rifiutati dagli ospedali pubblici, hanno liste d’attesa di molti mesi, e non riescono a compensare la carenza pubblica.
La scontentezza aumenta e a pagarne il conto sono i Pronto Soccorso. Lì, non essendo possibile assistere tutti contemporaneamente, si creano file di pazienti in attesa per ore. Alla fine, arriva la contestazione proprio contro chi non ha responsabilità.
Questa sintetica ricostruzione storica dell’origine del malcontento sanitario, dimostra che Tina Anselmi aveva ragione a puntare tutto sulla Sanità pubblica così come l’aveva formulata lei.
Aveva ragione anche Francesco De Lorenzo nel momento di quell’emergenza, così come hanno ragione coloro che mettono secchi e pentole per terra per raccogliere l’acqua piovana quando il tetto si rompe.
Nel primo momento è giusto così; tuttavia, per affrontare le piogge successive, è più corretto riparare, cioè “ri-formare” il tetto rotto. Non si può continuare a mettere secchi.
Pochi giorni fa, il governo regionale ha deliberato la spesa di 7 milioni di euro a favore degli ospedali per ridurre le “liste d’attesa”; ha anche deliberato lo stanziamento di 5 milioni di euro per le case di cura private per lo stesso motivo.
Tutto questo, in emergenza, è necessario. Finita l’emergenza si fa programmazione.
Per il futuro bisognerebbe mettersi nelle condizioni di non dover disporre secchi e pentole sotto il tetto rotto per contenere l’acqua piovana. Sarebbe auspicabile riparare il tetto e approntare una Riforma sanitaria regionale che consideri l’immediata:
– attivazione dei 6 ospedali provinciali;
– l’integrazione ospedali provinciali/territorio attraverso le strutture intermedie (case della salute).
– il decentramento sanitario e il coinvolgimento dei territori.

Mario Marroccu

Per capire quale fosse la condizione femminile fino al Referendum Istituzionale del 1946 bisogna andare a vedere il film “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi. E’ un’opera d’arte fantastica, da Oscar. Non si può raccontare la trama del film, perché è fortemente raccomandato andare a vederlo senza compromettere la sorpresa allo spettatore.
La storia raccontata nel film ha un preciso rapporto con l’Articolo 3 della Costituzione in cui si afferma che: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
Quell’articolo indusse una profonda trasformazione nella struttura sociale italiana e nel costume, perché riconobbe che Uomini e Donne sono uguali senza distinzione di genere, qualunque sia l’etnia di appartenenza, la religione professata (vedi leggi razziali), l’opinione politica (vedi la messa al bando dei partiti), il censo, la cultura, la condizione fisica ed economica. Fino ad un attimo prima della promulgazione della Costituzione, la società italiana era ancora regolamentata dallo Statuto Albertino del 1848. In quello statuto la Donna era posta “sotto la tutela del marito”. Con tale espressione si disponeva che le donne dovessero vivere sempre, sia da nubili che da coniugate, sotto la “tutela” di un uomo. Ciò comportava quella soggezione economica, culturale, sociale, politica che oggi Amnesty International definisce “sistema di sorveglianza”. La Costituzione Repubblicana liberò le donne da quella soggezione e, dal giorno in cui venne promulgato l’articolo 3, esse ebbero per la prima volta il diritto di programmare la propria vita. Quella legge nacque a conclusione di una Guerra mondiale e di una sanguinosa guerra civile combattuta tra fascisti-repubblichini e partigiani dal 1943 al 1945.
Chi non ha conosciuto quei tempi, dovrebbe vedere il film di Paola Cortellesi per capire cosa vuol dire non avere diritto a una propria identità e vivere sotto tutela a causa del genere di appartenenza.
Contemporaneamente all’articolo 3, i Costituenti dettero forma alla Sanità futura con l’articolo 32.
Anch’esso, come raccontò Tina Anselmi, era nato dalle utopie libertarie e ugualitarie disegnate nel periodo della guerra civile 1943-45. I legislatori che produssero la grande Riforma sanitaria con la legge 833/78 erano riusciti a liberare gli ospedali e la sanità territoriale dalla tutela delle Casse mutue, ma purtroppo nel 1992, per sfuggire alla grave crisi economica, si cadde nella tentazione di prendere una scorciatoia verso il risanamento economico adottando provvedimenti legislativi d’emergenza che rimisero il Sistema Sanitario Nazionale sotto la tutela di strutture formalmente pubbliche ma oggettivamente di tipo privatistico. Fu fatta una scelta che oggi equivarrebbe all’idea di rimettere le donne “sotto tutela” degli uomini per mettere sotto controllo un bilancio familiare critico. Oggi è accertato che l’ impostazione data alla gestione della Sanità italiana dal 1992 in poi è fallita. L’ha dimostrato scientificamente pochi giorni fa il più autorevole istituto nazionale che si occupa di Economia sanitaria, l’Istituto Gimbe (gruppo italiano per la medicina basato sull’evidenza) che ha reso pubblico uno studio in cui si sostiene che la Sardegna è al 19° posto fra le province e regioni autonome per inefficienza sanitaria. Le gravi condizioni in cui ci troviamo sono attestate dalla documentata insufficienza delle cure, dalla ridotta aspettativa di vita messa in rapporto alla spendita sbagliata dei fondi, dal forte aumento dei viaggi in continente per curarsi, dallo scarseggiare di medici e infermieri, dal fatto che il 45 % delle spese sanitarie in Sardegna è a pagamento mentre nelle altre regioni d’Italia lo è solo il 25%, dal fatto che circa la metà delle risorse assegnate ai cittadini non ha prodotto alcun servizio e che il Nsg (Nuovo sistema di garanzia) ha registrato un punteggio insufficiente nell’area ospedaliera. Si è calcolato che gli obiettivi di assistenza agli anziani over 65, fissati dal PNRR, sono irraggiungibili. In questo contesto di dati, si resta frastornati davanti all’evidenza che il disagio sanitario patito non è esattamente compreso dai responsabili della Sanità pubblica. Quando la popolazione lamenta le carenze ospedaliere, immediatamente le viene offerta la costruzione di nuovi edifici ospedalieri. In realtà chi lamenta la carenza ospedaliera intende riferirsi al bisogno di ottenere una maggiore disponibilità di offerta sanitaria intesa come maggiore disponibilità di attrezzature mediche e di “Personale dedicato alla cura del malato”.
Il problema del “Personale” va analizzato secondo due aspetti:
– l’aspetto numerico: cioè l’adeguatezza numerica al bisogno contrattuale di cure.
– l’ aspetto etico: cioè l’elemento valoriale che lega il prestatore al fruitore di cure tramite il vicendevole rispetto e la compassionevole solidarietà.

La prima riforma sanitaria della storia fu propriamente una “Riforma etica”. Nacque tra quarto, quinto e sesto secolo d.C. dall’idea, di San Basilio di Cappadocia e San Benedetto da Norcia, di interpretare concretamente il significato della parabola del Buon samaritano. Il viandante ferito dai briganti rappresentava il malato, che era sacro in quanto rappresentazione del corpo sofferente del Cristo, l’oste e il suo albergo erano la rappresentazione dei curanti e del luogo fisico del ricovero, il Buon samaritano rappresentava la comunità solidale che si autotassa e fornisce le cure gratuite al bisognoso. Quello etico-caritativo fu il primo sistema sanitario nel mondo e durò fino al 1900.

Nella prima metà del 1900 nacque la Sanità basata sulle Casse mutue che erano enti assicurativi che affondavano le loro radici nelle società operaie.
La prima “Riforma ospedaliera” fu quella varata dal ministro della Sanità Mariotti nel 1968. Fu una vera rivoluzione perché istituì la prima “Rete degli ospedali pubblici” e, per la prima volta, la legge estese il diritto all’assistenza ospedaliera a tutti i cittadini a spese dello Stato. Quella riforma introdusse il concetto che gli ospedali devono essere pubblici e devono essere finanziati con la fiscalità generale. Con questo atto l’“Etica laica” entrò nel sistema sanitario italiano.
La “Prima Riforma sanitaria”, legge 833/78, introdusse il “Sistema sanitario nazionale” finanziato dalla fiscalità generale. Quella riforma abolì le Casse mutue e realizzò il dettato dell’articolo 32 della Costituzione.
Poi dopo il 1992 noi italiani, con la nostra esperienza millenaria di civiltà ospedaliera, riuscimmo a invertirne la rotta verso la sua autodistruzione.
La “Seconda Riforma sanitaria” fu la 502/92, chiamata anche Riforma italiana alla Tatcher, perché fu improntata al rigore amministrativo per ridurne i costi, e introdusse il principio della gestione manageriale della Sanità.
La “Terza Riforma sanitaria” fu quella del 1999 della ministra Rosy Bindi; fu improntata a metodi gestionali di spiccata privatizzazione con l’obiettivo della efficienza-efficacia, cioè della maggior produzione con la minor spesa possibile. Con la nuova riforma le ASL divennero aziende produttrici di servizi sanitari che venivano pagati dalle regioni secondo i DRG. I DRG sono codici di identificazione delle diverse prestazioni sanitarie; ad ogni codice viene attribuito un valore in euro (si immagini il cartellino del prezzo su un prodotto in vendita). Quanti più DRG sanitari vengono erogati tanto più l’azienda incassa.
Con i fondi incassati, ogni reparto ospedaliero si finanzia per pagare gli stipendi, i farmaci, i presìdi e le spese alberghiere. I reparti specialistici che non hanno raggiunto gli obiettivi sono stati chiusi. La ministra Rosy Bindi allargò la platea delle prestazioni che potevano essere fornite anche da Società di servizi sanitari privati e accettò che il privato accreditato potesse fornire le prestazioni dei LEA socio-sanitari a nome e per conto dello Stato. Così dal 1999 il privato iniziò a sostituire il pubblico competendo per economicità nell’impiego delle risorse e diventando più conveniente tanto da farlo preferire alle strutture ospedaliere pubbliche. Incredibilmente sfuggì che il sistema sanitario pubblico, che si occupa di patologie non assistibili dai privati (ad esempio: rianimazioni, tumori, demenze, urgenze ed emergenze “h24” nei Pronto Soccorso), era più costoso perché si doveva sobbarcare un impegno professionale infinitamente più difficile di quello che poteva fornire il privato. Ne conseguì che il diritto alla salute nel sistema pubblico, subordinato al limite delle risorse messe a disposizione dallo Stato, entrò in crisi. Sembrava che il privato accreditato, meno oneroso, potesse addirittura sostituirsi al sistema sanitario pubblico.
Qui non si tratta di capire se le intuizioni dei ministri Di Lorenzo, Garavaglia, Bindi e di tutti quelli che seguirono fossero state giuste o sbagliate, ma si tratta di ricostruire il nesso causale tra quegli eventi e l’attuale stato di disagio sanitario della nazione. Si tratta di capire perché il sistema sanitario pubblico sia arrivato impreparato davanti all’epidemia del 2020 e abbia dovuto sopportare, con poche attrezzature e poco personale, la potente spallata del Covid, soffrendone profondamente. Nello stesso periodo il sistema sanitario privato fu esentato dall’affrontare direttamente l’epidemia e resse molto bene. Le funzioni dei due sistemi sono distinte e complementari, com’è il caso delle specialistiche oculistiche e ortopediche delle Case di cura private che sono di supporto agli ospedali pubblici i quali non riuscirebbero a contenere le file d’attesa colossali che si sono formate. Si deve prendere atto, dopo l’esperienza di questi ultimi anni, che il privato non è in condizioni di garantire l’organizzazione dell’Igiene pubblica e della Prevenzione o di sobbarcarsi l’impegno a curare tutte le grandi patologie, dai tumori alle demenze, alle epidemie e alle urgenze ed emergenze. E’ ormai accertato dai più autorevoli osservatori economici che il sistema sanitario privato è del tutto incapace di sostituirsi al Sistema sanitario nazionale e la lezione che abbiamo avuto dall’epidemia di Covid ha dimostrato che solo lo Stato può garantire un Sistema sanitario nazionale efficiente. Oggi davanti al problema demografico, e con i problemi geopolitici incombenti come il rischio di guerra, l’urgenza di ricostituire un Sistema sanitario nazionale secondo i principi della legge 833/78 è ineludibile.
Un nesso causale evidente che collega le buone riforme sanitarie iniziali al decadimento attuale è rappresentato dall’estromissione dei Sindaci dalle ASL; con quell’atto venne impedito alle Amministrazioni locali il “controllo” sulla Sanità. Di fatto da allora le autorità territoriali e le Usl vennero messe “sotto tutela” e affidate a entità esclusivamente burocratiche, interrompendo la “cinghia di trasmissione” che mette in comunicazione le popolazioni e le Amministrazioni centrali.
Per liberare le donne dalla tutela del “sistema di sorveglianza” a cui le condannava lo Statuto Albertino, fu necessario superare una guerra mondiale e un’atroce guerra civile. Così si addivenne al Referendum del 1946 per la scelta della forma istituzionale da dare allo Stato. Per la prima volta votarono le donne che avessero almeno 21 anni d’età. Con quel referendum vennero eletti i deputati all’Assemblea Costituente cui spettò il compito di redigere la nuova Carta Costituzionale. Quei deputati, eletti da 12 milioni e 700mila donne e da 10 milioni e 700mila uomini, scrissero sia l’articolo 3 (uguaglianza di genere) sia l’articolo 32 (Sanità) della Costituzione. Mentre l’articolo 3 ha dato i risultati cercati, l’articolo 32 ha ancora forti difficoltà a raggiungere gli scopi immaginati dai padri Costituenti.
Per rappresentare cosa sta avvenendo in questo stato di “tutela sanitaria” in cui siamo stati posti, ci vorrebbe una Paola Cortellesi sanitaria. Per adesso non ci resta che andare a vedere il suo film “C’è ancora domani”.

Mario Marroccu

Il disastro sanitario ed economico del Sulcis Iglesiente non è nato dal nulla. Ha radici nei fatti politici del 1992. E’ utile fare un viaggio nella storia di quegli eventi sia per capire e, forse, per porre qualche riparo.
Lo stato di salute della sanità pubblica è oggi talmente grave e la sua gravità è talmente complessa che, a questo punto, è difficile anche il solo sospettare che veramente esista fisicamente qualcuno che abbia programmato tanto degrado. Dovrebbe essere un genio fornito di una maligna intelligenza superiore.
Ammesso che esista un soggetto del genere, a che scopo lo avrebbe fatto? C’è chi sostiene che il danno al servizio sanitario nazionale sia stato progettato da un’ignota organizzazione al fine di favorire la sanità privata. Sarebbe un’organizzazione di matti veramente sciocchi perché sostituirsi del tutto alla Sanità pubblica non conviene a nessuno. Per esempio: a chi converrebbe accollarsi i malanni di tutti i vecchi d’Italia, soli, inguaribili e con in tasca i pochi soldi per la sopravvivenza? A chi converrebbe l’onere di assistere tutti i malati di cancro, debilitati nel fisico, nella famiglia e, soprattutto, nel conto in banca? Chi glielo farebbe fare ad assumersi l’impegno di prendersi in cura i pazienti in Rianimazione in uno stato di coma più o meno profondo? Perché dovrebbero pagare le ingenti spese dei trapianti d’organo a pazienti senza speranza e non solvibili? E gli infarti del miocardio? E tutti i casi di diabete ai limiti della invalidità? E i tossicodipendenti? E le malattie rare? I morti sul lavoro? E gli psichiatrici? E gli incidenti stradali? Chi glielo farebbe fare ad assumersi il compito costosissimo di affrontare le epidemie tipo Covid-19 o le campagne vaccinali, o le spese dell’Inail e dei Pronto soccorso?
Gli imprenditori privati non sono matti. A sé riservano le cliniche dove si curano le malattie, tutto sommato, più semplici, facili, guaribili e, soprattutto, di pazienti solventi. Ciò che compete alla Sanità pubblica è diversissimo da ciò di cui si occupa la sanità privata.
E’ assolutamente vero che negli Stati Uniti d’America esistono le assicurazioni private costosissime che si limitano a poche malattie e per tempi di cura molto limitati; in genere non pagano le spese del pronto soccorso o fanno dimettere i malati dopo tre giorni da un intervento a cuore aperto, per risparmiare sulla degenza in ospedale. Bisogna sapere che in America esiste anche una Sanità pubblica, che si chiama “Medicare”, a beneficio di chi non può pagarsi l’assicurazione privata e che, oltre ad essere molto carente, costa allo Stato il doppio di quanto costa il Sistema sanitario italiano. A questo punto, oltre al sospetto che dietro ci sia l’interesse di qualcuno, potremmo anche considerare il sospetto che dietro il nostro disastro sanitario ci sia in realtà qualche grosso errore commesso da politici poco accorti. Può anche essere accaduto che la grande Riforma sanitaria varata col DPR 833 del 1978 si sia inceppata a causa di leggi successive fatte male; può anche darsi che quelle nuove leggi non siano state lette con attenzione e che i votanti abbiano votato senza vedere gli errori che hanno prodotto queste conseguenze.
Anche questo sospetto, paradossalmente, è sommamente ingiusto, perché è anche vero che i politici italiani furono i primi al mondo a riconoscere nella Costituzione del 1948, all’articolo 32, il diritto di tutti alla salute. Quell’articolo, nella sua semplicità e completezza, fu uno degli elaborati intellettuali più geniali che un Costituente potesse generare: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti». Fu una frase rivoluzionaria contenente due principi: l’inviolabilità assoluta del diritto alla salute e la certificazione che tale bene è di rilevanza collettiva. Così fu sancita la solidarietà nazionale. Altro che privatizzazione! Altro che svantaggio a danno dei molti che non possono permettersela! Tutte le leggi che vanno contro questo principio sono incostituzionali e, se qualcuno avesse votato nuove norme contrarie a questo principio per disattenzione, sarebbe gravemente colpevole.
Esaminiamo cosa è avvenuto nella storia delle Riforme sanitarie italiane. Nell’anno 1968 la legge Mariotti istituì gli “Enti ospedalieri” che sostituirono gli ospedali caritativi provenienti dalla tradizione ospedaliera medioevale. La stessa legge istituì il “Fondo ospedaliero nazionale” e attribuì la competenza di gestione degli ospedali alle Regioni. Quel Fondo e quella legge ospedaliera furono la base su cui si costruì la Grande Riforma sanitaria con la legge 833 del 1978, concepita dalla Commissione parlamentare di Tina Anselmi. Ella raccontò in quei giorni che quell’idea era nata da discussioni e progetti formulati da gruppi partigiani riuniti intorno ai fuochi dei bivacchi di montagna. La legge 833/78 rappresentò un’utopia che si concretizzava in un documento scritto. Il sogno prese forma nella premessa della legge nel cui testo sta scritta la frase: «…Il Sistema sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture (ospedali), dei servizi e delle attività destinate alla promozione, al mantenimento, e al recupero della salute fisica e della salute psichica di tutta la popolazione». In nessuna legge del mondo era mai stata scritta questa premessa.
Mentre gli ospedali, dal medioevo al ‘900, erano stati sempre amministrati da comitati caritativi religiosi o filantropici, nella nuova legge si volle che gli ospedali fossero amministrati da rappresentanti popolari democraticamente eletti. Fu una rivoluzione. I cittadini, dopo 1.500 anni dall’istituzione degli ospedali dai tempi di San Benedetto e San Basilio, divennero per la prima volta i proprietari e gestori diretti degli ospedali. La comunicazione fra cittadino e gestore divenne immediata perché il Sistema venne dato in mano ai sindaci e ai consiglieri comunali. Essi avevano il compito di eleggere l’”Assemblea generale” che era formata da consiglieri comunali e l’Assemblea eleggeva il presidente della Usl (Unità sanitaria locale). Furono gli anni più produttivi della storia sanitaria italiana.
Scomparvero le Casse mutue e comparve il Ssn (Sistema sanitario nazionale), finanziato dal sistema fiscale universale. Ne conseguì anche che ai grandi miglioramenti si associò il crescere della spesa pubblica dello Stato. Per contenerla il ministro Carlo Donat Cattin nel 1987 abolì l’Assemblea generale ma mantenne il presidente della Asl e il Comitato di gestione, eletto dai sindaci dei Comuni del territorio.
Secondo gli indicatori economici internazionali, l’Italia godeva di un generale benessere economico tanto che nell’anno 1991 venne dichiarata quarta potenza industriale del mondo e il PIL pro capite risultava superiore a quello dell’Inghilterra.
Appena un anno dopo, la Repubblica entrò nel suo “annus horribilis”: il 1992. La commissione governativa presieduta dall’economista Piero Barucci rivelò che l’economia era al collasso a causa di un imponente debito pubblico causato dalle Partecipazioni statali. Eni, Enel, Iri, Ina, Efim, stavano portando al tracollo lo Stato. L’indebitamento aveva messo in crisi il Governo espresso dal CAF (Craxi-Andreotti-Forlani). Caduto il Governo Andreotti II e dimessosi Francesco Cossiga, si andò a nuove elezioni sotto l’effetto dell’esplodere dello scandalo di Tangentopoli. A febbraio era iniziata l’indagine della procura di Milano diretta da Francesco Saverio Borrelli e condotta da Antonio di Pietro, in seguito alle rivelazioni di Mario Chiesa, il direttore del Pio Albergo Trivulzio. Oscar Luigi Scalfaro, sostenuto dalla corrente dei “moralizzatori”, venne eletto presidente della Repubblica e immediatamente indisse le nuove elezioni; queste avvennero ad aprile contemporaneamente all’esplosione della sfiducia popolare nei partiti storici, in un clima di forte instabilità politica. I partiti tradizionali crollarono ed emerse la Lega Nord che passò da 2 a 80 parlamentari. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiutò di concedere incarichi di Governo a Bettino Craxi e nominò presidente del Consiglio il deputato Giuliano Amato. La Prima Repubblica era finita con un’ondata di arresti e di avvisi di garanzia. A maggio, ad opera della mafia, avvenne la strage di Capaci, seguita due mesi dopo da quella di via d’Amelio. Lo Stato era preso fra molti fuochi. Giuliano Amato si trovò ad affrontare una condizione di dissesto economico più grave dal dopoguerra ad allora. Si correva il rischio di non poter pagare gli stipendi pubblici. La Nazione si sarebbe fermata.
La Banca d’Italia fu costretta a vendere 48 miliardi di dollari per difendere il cambio e la lira fu svalutata del 30%. La lira uscì dallo Sme (Sistema monetario europeo); era il 16 settembre 1992, il “mercoledì nero”. Giuliano Amato per sostenere le casse dello Stato procedette al “prelievo forzoso” retroattivo del 6 per mille dai conti correnti degli italiani e, in base alle indicazioni del ministro del Tesoro Piero Barucci, dette avvio ad una grande operazione di privatizzazione delle Partecipazioni statali (banche, energia elettrica, trasporti pubblici, Alitalia, industrie manifatturiere, industrie dell’acciaio, comunicazioni, poste, idrocarburi, assicurazioni, agroalimentare, etc.). Lo Stato si spogliava di tutte le sue pregiate proprietà, nell’intento di allontanare la politica dalla gestione delle imprese statali. Su tutta la gestione pubblica, sotto l’effetto delle indagini di Tangentopoli, cadde il sospetto di possibile collusione con la corruzione e vennero varate leggi e norme fortemente restrittive nell’intento di arginare l‘idea che il malaffare fosse in agguato ovunque ci fosse la gestione del politico. In questo crollo finirono anche le miniere del Sulcis Iglesiente e le industrie di Portovesme espressione dell’Eni. Gli operai di Portovesme, per fermare i licenziamenti in massa di oltre 20mila operai promossero la famosa “Marcia per lo sviluppo”. Gli operai iniziarono a marciare il 19 ottobre e, al suono di tamburi di latta, saltarono il mare. Raggiunta Civitavecchia, percorsero a piedi le vie del Lazio fino a Roma, dove vennero accolti da Papa Woytila ma non da Giuliano Amato.
A fine anno, il vortice autodistruttivo coinvolse anche il Sistema sanitario nazionale quando il ministro della Sanità Francesco di Lorenzo il 31 dicembre varò il decreto che iniziò la “privatizzazione” del Sistema sanitario pubblico col DPR 502/1992. Le Unità sanitarie locali (Usl), rette dai sindaci, vennero trasformate in entità rette dai “Direttori generali con autonomia gestionale di diritto privato” nominati dalla Regione all’interno di un elenco di idonei. La “mission” del Sistema sanitario cambiò in modo radicale per due motivi. Primo, i sindaci, che rappresentavano la parte politica, vennero espulsi dalla gestione del sistema sanitario locale; secondo, l’obiettivo dei nuovi amministratori non fu più quello di soddisfare le richieste della popolazione locale ma venne sostituito dall’“equilibrio di bilancio”.
Questo dava ai direttori generali l’opportunità di poter modificare la risposta alle richieste provenienti dal territorio, ignorandone la soddisfazione globale e mettendo al centro il calcolo ragionieristico della salute che doveva ora attenersi a un nuovo criterio: i Livelli essenziali di assistenza (Lea). Oggi, a distanza di 32 anni, sappiamo che tutte le premesse alla legge, che promettevano Uguaglianza, Equità e Prossimità dell’assistenza sanitaria in tutto il territorio nazionale non sono state rispettate. Ciò avvenne a causa della mancanza del “controllore”, cioè la parte politica elettiva rappresentata dai sindaci. Al ministro Francesco di Lorenzo, seguirono le ministre Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi che perfezionarono l’“aziendalizzazione delle Asl”.
Nell’anno 2003 il Governo Berlusconi dettò regole per ridurre la spesa sanitaria dello 0,5% l’anno; ciò comportò il blocco del turn-over del personale andato in pensione e portò all’assottigliamento e disgregazione dei reparti ospedalieri. Col Governo Monti, il ministro Balduzzi emanò norme restrittive per i reparti ospedalieri che, ridotti in povertà di personale dalle norme precedenti, non potevano più funzionare. Ne conseguì la chiusura di ospedali.
Nel 2015 il DM 70 del Governo Renzi pose regole stringenti, basate anch’esse sul risparmio; ne conseguì un peggioramento ulteriore degli ospedali provinciali che portò alla desertificazione del sistema sanitario territoriale a vantaggio della centralizzazione della Sanità. In Sardegna la Sanità pubblica venne centralizzata a Cagliari e Sassari.
Nel 2017 la regione Sardegna, presidente Francesco Pigliaru e assessore della Sanità Luigi Arru, istituì la Ats (Azienda tutela salute). Con tale legge le 8 Asl sarde vennero ridotte a 1 soltanto, che assunse tutte le funzioni delle altre 7. Sopravvissero:
– l’Ats (a Cagliari e Sassari)
– il Brotzu di Cagliari
– il Policlinico Universitario di Cagliari
– il Policlinico Universitario di Sassari
Alle altre 7 Asl venne tolto il nome di “Azienda” e divennero “Aree sanitarie locali”. Erano diventate periferie sanitarie e persero l’autonomia programmatoria e amministrativa precedente. Ne conseguì l’esplosione delle “liste d’attesa” e l’insoddisfazione popolare. Alle elezioni del 2019 la popolazione sarda mandò a casa la Giunta Pigliaru e promosse una nuova maggioranza guidata dalla “Lega” di Matteo Salvini che, capeggiata da Christian Solinas, prometteva di restituire le vecchie ASL alle 8 province sarde. In effetti, la Giunta Solinas produsse rapidamente una sua riforma sanitaria regionale e l’assessore Mario Nieddu varò la legge regionale 24/2020 con cui istituì la Ares (Azienda regionale salute). In realtà però le vecchie Asl non vennero integralmente ricostituite; al posto delle “Aree territoriali sanitarie” vennero identificate le Asl 1-2-3-4-5-6-7-8 che, a parte il nome, non hanno nulla delle precedenti Asl; infatti, non hanno il diritto né di assumere personale, né di far acquisti e programmare. In sostanza non esistono; l’unica vera Azienda capace di programmare e gestire, centralizzando tutti i poteri gestionali, è la Ares di Cagliari e Sassari. Oggi lo stato di degrado direzionale e amministrativo nelle Province è ulteriormente peggiorato e l’insoddisfazione e infelicità dei cittadini sono esplose nelle elezioni regionali del 25 febbraio 2024 con la bocciatura del Governo regionale sardo.
Recentemente un politico esperto ha suggerito di cercare nella legge 833/78 gli strumenti per uscire dalla crisi sanitaria. Quale può essere lo strumento?
Lo strumento che si deve utilizzare nella pubblica amministrazione è sempre lo stesso: il rispetto delle regole democratiche. Queste regole prescrivono che la volontà popolare sia affidata ai propri rappresentanti eletti e, nel territorio, i rappresentati ufficiali dello Stato sono i sindaci. E’ certo che i sindaci non possono entrare nel merito di tutto, ma possono essere i “custodi” degli interessi della gente. Fra questi, oggi, l’interesse più sentito è la Sanità. Dare un nuovo ruolo ai sindaci nelle Asl è fortemente indicato.

Mario Marroccu

E’ sotto gli occhi di tutti l’esistenza di lunghe file di pazienti che si formano davanti ai laboratori diagnostici nella prima metà di ogni mese prima che si esaurisca il magro bubget e la nostra impotenza davanti alle prenotazioni di visite tanto lontane nel tempo da dover ricorrere a specialisti privati a pagamento.
La colpa è nostra. A causa della nostra disattenzione abbiamo lasciato crescere il disservizio sanitario senza prendere provvedimenti.
Quando ci lamentiamo contro le liste d’attesa per ottenere i ricoveri, le visite specialistiche, gli esami diagnostici, ci stiamo lamentando per la nostra incapacità ad esigere i LEA ì. I LEA sono i Livelli Essenziali di Assistenza che la legge garantisce a tutti gli italiani. Si tratta del minimo assistenziale per le nostre necessità di cura. I LEA sono le prestazioni sanitarie finanziate dallo Stato e descritte in un lunghissimo elenco: dall’estrazione dei denti cariati al trapianto cardiaco; dalla pastiglia della pressione alla protesi d’anca; dagli antibiotici ai vaccini, eccetera. Inoltre vi sono descritte tutte le visite specialistiche erogabili da Medici Specialisti dello Stato, i ricoveri, gli interventi chirurgici, eccetera. I LEA erano nati nella pancia di un “cavallo di Troia” (la legge 502/1992) che era stato fabbricato dal ministro Francesco De Lorenzo per far cadere la Grande Riforma Sanitaria 833/78, rinunziando alla assistenza sanitaria gratuita per tutti.
A quella ingenua rinunzia seguì la privatizzazione progressiva delle USL (Unità Sanitarie Locali) che forse ci porterà alla sanità a pagamento all’americana. Lo strumento legale che venne approvato per trasformare le USL in Aziende Sanitarie Locali (ASL) di diritto privato fu l’esclusione degli Enti locali (Comuni) dal controllo delle USL. I Sindaci non poterono più nominare il presidente della USL e i poteri vennero assunti dallo assessore della Sanità della Giunta regionale. Questi piazzò al vertice della ASL un uomo di sua scelta: il Direttore generale. Il Direttore generale a sua volta ebbe il potere insindacabile di nominare un Direttore sanitario e un Direttore amministrativo legati a lui da un contratto privato. Così un Ente di diritto pubblico venne amministrato da una triade di diritto privato del tutto svincolata dalle amministrazioni comunali.
Le cose cambiarono ancora dopo la modifica del Titolo V della Costituzione del 2001 quando lo Stato rinunciò alla esclusiva del potere legislativo in Sanità e lo cedette alla Regioni ordinarie.
Le Regioni acquisirono la capacità di produrre leggi in materia sanitaria e procedettero a riorganizzare le ASL. Quella riorganizzazione amministrativa basata sulla “efficienza ed efficacia”, cioè il massimo risultato con la minima spesa, mandò le ASL in coma profondo. Era successo che per pagare l’aumento di spesa imprevisto essi dovettero compensare le spese con la chiusura di reparti, di interi ospedali e il blocco delle assunzioni dei medici e Infermieri. Ne derivò la “mobilità passiva” e l’ulteriore indebitamento. A questo punto da poveri corpi comatosi delle ASL si procedette al prelievo di tutti gli organi amministrativi vitali per trasferirli in un nuovo mega-corpo amministrativo centralizzato nel capoluogo chiamato dapprima ATS e oggi ARES (Agenzia Regionale Sanità). Si tratta di un ente di diritto privato che ha assorbito le funzioni delle ASL territoriali ed ha assunto l’esclusiva sugli acquisti, le assunzioni del Personale e gli appalti per tutta per tutta la rete sanitaria della Regione. Le ASL, nonostante nominalmente esistano ancora, di fatto oggi lo sono solo virtualmente perché sono state svuotate del potere di iniziativa amministrativa.
La ARES ha acquisito tutti i fondi regionali destinati alla Sanità e da allora li utilizza a sua discrezione senza vincoli di destinazione.
Da allora la storia dei LEA è peggiorata perché i LEA costano e senza soldi non si può distribuire assistenza in proporzione alle richieste dei cittadini. Di conseguenza sono stati inventati i “budget” mensili che per motivi di risparmio sono poveri, sono aumentate le liste d’attesa per le visite specialistiche, sono diminuiti i ricoveri e gli interventi. Chi arriva ai laboratori d’analisi quando il budget è finito deve pagarsi l’esame. Si pagano gli esami di laboratorio, le ecografie, i colordoppler, le TAC, le Risonanze magnetiche e, a causa della carenza di specialisti dello Stato, si pagano le visite specialistiche.
A questo punto si può concludere che l’istituto dei LEA è fallito perché non è sufficientemente finanziato dallo Stato. E’ tutta una questione di soldi. Si tratta esattamente di quei soldi che arrivano alle Regioni dai cosiddetti fondi di perequazione. In base alla legge 42/2009 quei soldi dovrebbero essere distribuiti fra i territori al fine di pareggiare le differenze di assistenza tra territori ricchi e territori poveri. Mancando quei soldi chi vuole curarsi deve pagare. E’ l’esplosione della privatizzazione forzata della sanità pubblica. Questo è il percorso che porta obbligatoriamente alle assicurazioni sanitarie per coprire le deficienze dello Stato erodendo ulteriormente il potere d’acquisto delle pensioni e stipendi e impoverendo le famiglie.
Siamo stati tutti distratti. Non ci siamo accorti di cosa stesse succedendo. Oggi la nostra impotenza è dovuta ai seguenti motivi:
– Non abbiamo rappresentanti politici delle nostra comunità all’interno della ARES e delle ASL per poter esprimere le nostre istanze.
– Non abbiamo canali per comunicare con la ARES perché la ARES è volutamente strutturata come una fortezza impenetrabile a chiunque, tranne che al presidente della Giunta regionale che ne nomina il Direttore generale;
– Possiamo comunicare con la Giunta regionale solo attraverso la “ Conferenza territoriale sanitaria e sociosanitaria” formata dai Sindaci quando, una volta l’anno, esprimono un giudizio sul Direttore della ASL valutandone l’efficienza nella realizzazione del piano sanitario annuale. E’ l’unico momento in cui i Sindaci sono ascoltati (articolo 11, comma 9 e 10 della legge regionale n. 24 del 2020; legge di istituzione della ARES).
– Il personale sanitario non ha canali per comunicare se non attraverso il “Consiglio dei sanitari”, che peraltro non ha alcun potere e forse neppure esiste se non formalmente.
A questo punto, visto che l’enorme deficit di assistenza è direttamente proporzionale alla povertà economica della ASL, è necessario sapere se siamo in condizioni di negoziare con ARES i fondi per l’assistenza sanitaria che ci necessitano.
Per farlo dobbiamo sapere quali siano i nostri diritti e quali strumenti abbiamo per esigerli.
Gli strumenti disponibili sono quelli deliberati dalla Giunta Regionale e dal PNRR. Essi sono:
1 – Il piano ospedaliero regionale del 2017;
2 – la legge 24/2020 che ha istituito la ARES e le ASL;
3 – il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza);
4 – l’atto aziendale.
Utilizzando questi strumenti prodotti con valore di Legge è possibile esigere i fondi per finanziare i LEA.
Per quanto riguarda il territorio del Sulcis-Iglesiente si pongono alcune questioni:
Prima questione: l’Ospedale Unico.
Se al Giunta Regionale decide di realizzarlo deve fare tutti i passaggi necessari conseguenti all’articolo 42 della legge regionale 24/2020, cioè deve:
– deliberare la costruzione l’ospedale Unico,
– ordinarne il progetto,
– finanziarne la costruzione,
– arredarlo e dotarlo degli strumenti necessari ai servizi,
– assumere il personale.
– E’ una questione di finanziamento. Senza soldi si tratta solo di chiacchiere.
Per ora la ARES ha escluso il presidio ospedaliero unico e prevede per la ASL 7 tre strutture ospedaliere.
Il primo ospedale è il CTO di Iglesias, dotato di 127 posti letto e destinato alle patologie d’elezione. L’ARES e l’atto aziendale non hanno ancora preso in considerazione l’obbligo di deliberare l’organico del personale per il CTO, il finanziamento in spesa corrente per gli stipendi e le assunzioni. Inoltre, non è stata ancora considerata la specifica destinazione del personale medico e sanitario al CTO.
Il secondo ospedale è il Sirai di Carbonia, dotato di probabili 187 posti letto e deliberato come DEA di I livello per l’Urgenza e Emergenza. La ARES dovrebbe deliberare tutte le Unità Operative presenti nell’atto aziendale e dotarle di pianta organica. Non esiste la delibera sulle piante organiche e il relativo finanziamento nella spesa corrente. Senza una pianta organica adeguata alle funzioni di DEA (Dipartimento di Emergenza e Accettazione) dotata di un adeguato finanziamento l’ospedale non può esistere. Per ora è soltanto una intenzione scritta nell’atto aziendale.
Il terzo ospedale è la “Grande Casa della Salute” del Santa Barbara di Iglesias. E’ stata dichiarata nell’atto aziendale la destinazione del Santa Barbara a contenere la Casa della salute , l’ospedale di comunità, l’Hospice, il Centro Diabetologico e la Endocrinologia, la Neuropsichiatria infantile, il Centro di salute Mentale, la Nefrologia, la Psicologia, la medicina dello Sport, tutti i servizi Distrettuali; la riabilitazione (codici 56-60) la riabilitazione post Covid e la terapia intensiva Covid correlata. Tutti questi servizi hanno bisogno di finanziamenti. Alcune strutture sono finanziate attraverso il PNRR.
Molti altri servizi non hanno un esplicito finanziamento. Pertanto, non sono credibili se questo non esiste.
Seconda questione: problemi della medicina del territorio risolvibili con adeguati fondi.
– Carenza di Medici di medicina generale e pediatri.
– Liste d’attesa troppo lunghe.
– Insufficienza del budget per i laboratori analisi e radiologie.
– Fuga dei pazienti verso le ASL vicine più dotate.
-Recupero della autosufficienza specialistica perduta.
Terza questione: il problema demografico, dovuto a.
– forte invecchiamento della popolazione certificato da questi dati
a) numero degli ultrasessantacinquenni in Italia = 21 %
b) “ “ in Sardegna = 24 %
c) “ “ nel Sulcis = 28,5%
Numero assoluto di ultrasessantacinquenni nel Sulcis Iglesiente = 34.000 ( su 119.000 abitanti)
Nota Bene : Con questi dati demografici esiste un diretto rapporto con le malattie cardiovascolari,
tumorali , degenerative, demenze, insufficienze renali, eccetera.
Esiste inoltre una grave denatalità. L’ISTAT certifica che la nostra è la natalità più bassa del mondo
Natalità nell’Africa (Nigeria) = 44 nati per 1.000 abitanti
“ Francia = 12 “ “ “
“ Italia = 8 “ “ “
“ Sulcis = 5,2 “ “ “ La più bassa nel mondo

Questi dati che certificano la forte incidenza di malattie da invecchiamento giustificano la forte necessità di assistenza ospedaliera e la più forte mortalità. Va ricordato che la massima percentuale della spesa sanitaria (tra il 70 e 90%) si concentra nel primo e nell’ultimo anno di vita.
Considerata la più alta percentuale di Baby boomers nel nostro territori ne consegue che questo sarà il territorio più gravato in Italia dalla maggiore necessità di fondi per spesa sanitaria. Si tratta del territorio che ha la maggiore urgenza di risolvere il problema della esigibilità dei LEA con un forte finanziamento sia degli ospedali che della sanità territoriale, pena un intollerabile impoverimento delle famiglie.
Quarta questione: il problema dei posti letto in ospedale.
I posti letto attribuiti al Sulcis Iglesiente sono 313 per acuti e riabilitazione (fortemente sottostimati rispetto ai 3,7/1000 prescritti dalla legge Balduzzi). Dovrebbero essere attivi almeno 357 per acuti e 84 per riabilitazione Totale = 441 posti letto.
Consideriamo questi rapporti di disparità di posti letto:
313 posti letto totali nella ASL 7 di Carbonia Iglesias
5.790 in Sardegna (di cui 1.643 pubblici e 1.147 privati)
2.400 a Cagliari (di cui 1.800 pubblici e 600 privati)
E’ evidente il forte spostamento della bilancia a favore della città metropolitana di Cagliari (430.000 abitanti) rispetto alle limitazioni del Sulcis Iglesiente con i suoi 119.000 abitanti.
Da ciò nasce l’urgenza di esigere un riequilibrio territoriale dei servizi sanitari a protezione del territorio più debole, così come prescritto dalla legge n. 42/2009 che imporrebbe la redistribuzione dei finanziamenti regionali e dei fondi perequativi dello Stato.
Quinta questione: realizzare la mission 6 del PNRR nel territorio. Non è noto se esista un progetto approvato per la realizzazione della struttura di Grande Casa della Salute del Santa Barbara per cui dovrebbero essere spesi 5 milioni di euro entro il mese di giugno del 2026 e se esista un progetto da 260.00 euro per le COT.

Gli strumenti da apprestare con urgenza e utilizzare si trovano nelle leggi.
a) E’ necessario che i 23 Sindaci del territorio creino il canale di comunicazione con la Giunta regionale, per avere risposte dalla ARES, deliberando ed eleggendo la “Conferenza territoriale Sanitaria e Socio-sanitaria” della nostra Provincia, così come è prescritto dalla legge 24/2020.
b) Costituire il “Consiglio dei sanitari” della ASL, come previsto nell’atto aziendale e nella L. 24/2020.
c) La Conferenza provinciale deve esigere la delibera di Giunta regionale che definisca le piante organiche degli ospedali e i relativi finanziamenti. Sulla base di queste si potrà procedere alla soluzione del problema del personale. In assenza di queste delibere l’atto aziendale non ha valore.
d) La Conferenza provinciale deve esigere la progettazione della grande casa della salute del Santa Barbara con tutti i servizi previsti nell’atto aziendale, e peraltro già finanziati dal PNRR. Il ritardo nella procedura può comportare la perdita dei fondi europei.
e) Attuare la creazione del “Comitato locale LEA” per la verifica della corretta applicazione della ripartizione dei fondi e della erogazione delle prestazioni incrementando il budget per i laboratori.
f) Finanziare adeguatamente le convenzioni per la medicina specialistica.
g) Finanziare l’apertura di una Scuola per infermieri professionali.
L’esperienza maturata con i LEA insufficientemente finanziati induce ad un controllo serrato.
Ricordiamo che il ministro Francesco De Lorenzo legiferò nell’anno 1992 per la nascita dei LEA simultaneamente alla rinunzia degli italiani alla Grande Riforma di Tina Anselmi. Il primo elenco dei LEA si vide molto tardivamente e ampiamente incompleto dopo 10 anni, nel 2002. Il completamento dell’elenco si raggiunse nell’anno 2017, cioè dopo altri 15 anni. In tutto ci vollero 25 anni. Nonostante ciò il LEA promessi sono ampiamente falliti per scarsità di fondi.
Oggi si affaccia un‘altra promessa in cambio di un’altra rinunzia. E’ quella contenuta nel disegno di legge sull’Autonomia Differenziata. Stavolta si promettono i LEP (livelli essenziali di prestazioni).
I LEP sono stretti parenti dei LEA. Riguardano oltre il servizio sanitario anche l’istruzione, la assistenza sociale, i trasporti locali. In cambio di quest’altra promessa ci chiedono di rinunziare ai finanziamenti per sanità, istruzione, assistenza sociale e trasporti che oggi ci arrivano attraverso il fondo perequativo della fiscalità generale dello Stato. Stavolta, oltre al servizio sanitario, potremmo perdere l’adeguato finanziamento per la scuola, per l’università, per i trasporti e per l’assistenza sociale. Oltre alla sanità pubblica potremmo veder cadere anche altri servizi essenziali.
Timeo Danaos et dona ferentes.

Si è concluso il progetto “Ti presento la donna”, ideato dalla Libreria Lilith in collaborazione con l’assessorato comunale della Pubblica Istruzione e con la partecipazione delle scuole della città di Carbonia e del territorio.

«Un evento importante che ha visto gli studenti e le studentesse diventare per un giorno professori e professoresse e cimentarsi nel raccontare ai propri compagni la biografia di donne che hanno fatto la storia del nostro Paese e non solo, tra cui Tina Anselmi,
Liliana Segre, Rita Levi Montalcini, Frida Kahlo, Marie Curie, Eleonora d’Arborea e le donne dell’Assemblea Costituente. Un ringraziamento va a tutte le volontarie della libreria “Lilith” e in  particolare alla presidente Anna Lai e a tutti i docenti e gli studenti che hanno contribuito alla riuscita dell’iniziativa», ha commentato l’assessora della Pubblica Istruzione Antonietta Melas.
Il progetto ha avuto inizio nella giornata dell’8 marzo con l’avvio delle attività di studio e di ricerca finalizzate alla riflessione e alla successiva condivisione.
Così è stato individuato un percorso didattico educativo che ha visto le classi di grado superiore scegliere e studiare la storia di una donna che si è distinta per vari motivi e nei campi  più diversi. Nello step successivo i ragazzi e le ragazze hanno preparato una lezione da proporre alle classi di grado inferiore: dalla secondaria superiore alla primaria, in un perfetto esempio di condivisione del sapere.
Al termine della presentazione, alle classi partecipanti è stato consegnato un attestato di partecipazione.
Hanno aderito al progetto “Ti presento la donna” gli istituti comprensivi Don Milani e Satta di Carbonia, Marconi di San Giovanni Suergiu, IPIA Emanuela Loi e gli Istituti tecnici Angioy e Beccaria di Carbonia.

La “rana” di Noam Chomshy non può salvarsi. Se volessimo salvarla bisognerebbe fermare la mano del “cuoco”. Chi volesse salvare gli Ospedali di Carbonia e Iglesias potrebbe farlo leggendo l’articolo di Antonello Cuccuru nella versione online de “la Provincia del Sulcis Iglesiente” e il documento del “Movimento Sanità nel Sulcis” di Tore Arca che analizzano i fatti e propongono percorsi di recupero.
La metafora della rana che viene cotta lentamente affinché non scappi, è nota a tutti, tranne che alle rane. Per un semplice motivo: perché le rane messe in pentola dal cuoco muoiono tutte e nessuna sopravvive per svelare alle altre rane quanto sia subdolo l’inganno dell’acqua che viene scaldata lentamente. Il cuoco fa credere, a te rana, di volerti immergere a sguazzare in un laghetto tiepido, invece ti mette nell’acqua di una pentola e fa salire lentamente la fiamma fino a cucinarti per bene. Siamo tutti rane, bravi a cantare, ma non a reagire. Il cuoco si trova nell’apparato di potere centralizzato della Regione. Noi siamo le vittime, ma anche i colpevoli, perché abbiamo accettato distrattamente di tornare ad una cultura di sudditanza che ingannò i popoli fino al 1789. Fino ad allora ci avevano fatto credere che i re avessero il potere sovrano per incarico divino, e che quel potere non fosse criticabile. I francesi, accortisi dell’inganno, fecero la Rivoluzione, e da allora sono ancora a Place de la Concorde a ribellarsi. Il primo atto della presa di coscienza popolare fu la promulgazione della “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 26 agosto 1789″. Allo articolo 16 di quel documento che svegliò il mondo venne espresso un concetto illuminante: «Ogni società in cui la garanzia dei Diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una Costituzione». Abbiamo sì il testo scritto della Costituzione Italiana del 1° gennaio 1948, ma il suo articolo 32 che dichiara che la Salute è un diritto del Cittadino e interesse della Nazione, pare sia solo formale. Così pure l’articolo 3 sull’uguaglianza fra i cittadini. Per la verità un tentativo eccellente di applicarlo venne fatto nel 1978 con la legge 833 proposta dalla Commissione presieduta da Tina Anselmi. Con quella legge venne garantito un uguale diritto alla Salute a tutti i cittadini indistintamente attraverso l’istituzione del Fondo Sanitario Nazionale e la redazione del primo Piano Sanitario Nazionale. Inoltre, secondo il principio giuridico fondamentale della separazione dei poteri nello Stato di diritto di una democrazia liberale, si stabilì che, riservato il potere legislativo allo Stato, si attribuiva il potere amministrativo esecutivo alle Aziende sanitarie locali (Asl) in qualità di “articolazioni dei Comuni”. Allora la Sanità nazionale fu concepita come una “federazione” di ASL controllate dai Comuni. Gli Italiani erano riusciti ad applicare alla Sanità pubblica lo spirito dell’articolo 16 della “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino” con la separazione dei poteri sul governo della Salute; il metodo fu: Decentralizzazione dei poteri dello Stato e Federazione delle ASL. In quegli anni tutti gli Ospedali delle ASL sarde brillarono per efficienza. Non si era visto mai in tutta la Storia un miglioramento della qualità delle cure al ritmo di allora. Poi noi rane siamo stati messi in pentola dalle leggi di marcia indietro che riformarono la Legge 833 e, infine, i cuochi della politica regionale, dal 2001, sollevarono lentamente la potenza della fiamma finché oggi, dopo 22 anni, siamo all’ebollizione, e le rane sono tutte lesse.
Seguendo l’evoluzione sembrerebbe che gli atti più gravi che hanno portato alla condizione attuale siano stati la legge 229/1999, che trasformava le ASL da articolazioni dei Comuni in articolazioni delle Regioni, e la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 che, messi insieme, ebbero l’effetto di accentrare nelle Regioni tutti i poteri, legislativo, amministrativo ed esecutivo. Venne fatto l’esatto contrario di quel principio della separazione dei poteri proclamato dalla Dichiarazione dei Diritti del Cittadino e poi accettato dalle Costituzioni di tutti gli Stati democratici e liberali. Il potere legislativo ed esecutivo furono assommati, in un unico Ente, la Regione, esattamente come li assommava in sé il re di Francia prima che nel 1789 il popolo glielo contestasse.
Per smontare la centralizzazione monarchica i francesi si rivolsero ad un medico geniale, il dottor Joseph Ignace Guillotin, che inventò uno strumento chirurgico per risanare i mali generati da quel conflitto di interessi legalizzato.
I documenti di Antonello Cuccuru e di Tore Arca vanno letti. Il primo analizza lo stato di grave disagio popolare in sanità riportato da articoli autorevoli. Il secondo, utilizzando le leggi regionali pubblicate dal BURAS, avanza proposte logiche sui provvedimenti riparatori da adottarsi nell’immediato, non cadendo nelle illusioni prospettate da piani sanitari regionali belli ma fantasiosi.
La fotografia dello stato sanitario pubblico che ne risulta è questa: annullamento quasi completo degli splendidi ospedali iglesienti di 20 anni fa; degrado fino all’impotenza funzionale dell’apparato ospedaliero di Carbonia; mancanza di un efficiente sistema sanitario pubblico nel territorio; impossibilità a realizzare il sogno della medicina di prossimità con case della salute e ospedali di comunità per la mancanza del personale che dovrebbe operarvi.
Chi pratica la professione sanitaria sa che, sia durante l’epidemia Covid che oggi, le uniche strutture ospedaliere che sono in grado di prendere in cura in tempi ragionevoli i malati sono le case di cura convenzionate. Per capire questo fenomeno esiste un motivo ben preciso: le case di cura non sono soggette al dovere di ricevere malati in stato di urgenza ed emergenza. L’urgenza assorbe totalmente le energie dell’ospedale pubblico e gli impone un impegno ad altissima intensità. E’ un impegno faticosissimo, fortemente coinvolgente sul lato emotivo e medico-legale, inoltre non è remunerativo. Le case di cura private invece hanno il vantaggio di potersi dedicare esclusivamente alle malattie d’elezione. Ciò consente una facile programmazione del lavoro con turni di piena attività nelle ore del mattino, mentre la sera, la notte e nei giorni prefestivi e festivi il lavoro si riduce alle guardie interne e al controllo. Per tale differenza di impegno del personale, ne consegue l’esistenza di organici più ridotti nelle case di cura. Inoltre i turni di lavoro così agevolati attirano i medici specialisti esperti, messi in quiescenza dagli ospedali pubblici, facendo loro guadagnare senza sforzo un capitale culturale e di esperienza impareggiabile. Detto questo si capisce il motivo per cui le case di cura private sono state una manna per la Sanità durante il Covid, quando gli ospedali pubblici erano in profonda crisi. Precisato l’aspetto positivo esiste tuttavia un altro aspetto che riguarda la Medicina in generale: il pericolo che si passi dalla attuale assistenza sanitaria pubblica ad una forma di Sanità del tutto privatizzata, all’americana, in cui, al posto dello Stato, si finisca nel dover acquistare a caro prezzo la salute dalle assicurazioni private. Questa sarebbe una svolta preoccupante.
Da queste osservazioni ne discende l’urgenza di risolvere il problema del cuoco instancabile che continua a immergere le rane in pentola. Il cuoco è l’apparato regionale che ha concepito un sistema sanitario duro da digerire in un regime democratico: il sistema di conduzione della sanità pubblica “centralizzato”, senza contrappesi politici a rappresentare gli interessi del territorio. La “centralizzazione”, per definizione, è quel fenomeno politico basato sull’accentramento dei poteri in un unico gruppo di entità governative e amministrative connesse fra di loro nel capoluogo, e ne esclude la provincia. La conseguenza della mancata separazione tra potere legislativo e amministrativo in Sanità si è tradotto in un comportamento da conflitto di interessi, che porta a vantaggi per abuso di potere, per cui assistiamo ad una vera e propria “obesità” sanitaria del capoluogo che è avvenuta per prosciugamento di risorse dal territorio provinciale. All’eccesso di posti letto, di ospedali, di medici e infermieri nel centro regionale, corrisponde un vistoso stato miserevole delle deperite strutture sanitarie della periferia. E’ stata un’operazione lenta durata vent’anni e le popolazioni si sono adattate al peggio non accorgendosi che, intanto, venivano svuotate del diritto d’accesso alla Sanità, alla Giustizia, e anche all’Istruzione, nelle città provinciali. Lo sbilanciamento è estremo.
E’ un fatto gravissimo ed è ancora più grave che i politici regionali siano ciechi davanti al fatto che l’accentramento dei poteri e dei servizi è la causa dello spopolamento del Sulcis Iglesiente, ed è gravissimo che nessuno dei governanti abbia prestato attenzione al fatto che nel nostro territorio stia avvenendo un crollo demografico per cui oggi, abbiamo un indice di invecchiamento del 293%, e mentre in Francia nascono 12 bambini ogni 1.000 abitanti, e in Nord Africa una media di 40 bambini ogni 1.000 abitanti, nel Sulcis Iglesiente sta avvenendo esattamente il contrario. Questo fatto gravissimo sta avvenendo a noi, e solo a noi, in tutta la Sardegna. Nessuno si assume la responsabilità della fuga delle giovani coppie in età fertile dal Sulcis Iglesiente, avvenuta per mancanza di servizi e prospettive per i figli, per cui nel 2021 abbiamo avuto 5,2 nati ogni 1.000 abitanti: la più bassa natalità del mondo. E’ talmente grave che il patron di Tesla e Twitter, il magnate Elon Musk, ha voluto rilasciare su tale anomalia una dichiarazione ai giornali sostenendo che di questo passo in pochi decenni scompariremo. Ci ha ridotto in questo stato demografico un tipo di cattiva politica molto simile a quella che venne applicata nella “fattoria degli animali” di George Orwell. Ricordiamoci a chi finì il potere.
Bellissimo il documento di Tore Arca che fa alcune considerazioni e perviene a conclusioni concrete. Le sue considerazioni mettono in dubbio le promesse di costruzione di un “ospedale unico” e il funzionamento di quelle strutture territoriali di medicina di prossimità proposte nel PNRR, nel piano ospedaliero regionale e nelle bozze rese pubbliche di atto aziendale della ASL 7. Molto concretamente, glissando le illusioni, egli propone:
– che si proceda alla definizione, con delibera, del numero esatto degli organici di medici e infermieri che servono per far funzionare davvero gli ospedali e le strutture distrettuali;
– che la nostra ASL sia libera di assumere senza interferenze regionali;

– che si deliberi l’entità della somma destinata ai lavori di adeguamento dell’ospedale Santa Barbara per tutti i servizi promessi;
– che si proceda ad istituire una scuola provinciale di formazione per infermieri professionali;
– che si metta a punto il piano operativo per la realizzazione delle strutture distrettuali descritte nel PNRR specificando l’entità dei finanziamenti realmente stanziati per le strutture, gli strumenti e il personale da assumere a tempo indeterminato;
– che il personale certamente destinato al Sulcis Iglesiente, non ci venga più sottratto a beneficio del capoluogo regionale già abbondantemente dotato;
– che si chieda l’immediata attivazione della Commissione provinciale sanitaria dei 23 sindaci per rapportare il nostro territorio direttamente con il centro di potere regionale.

L’esame sulla gravità in cui versa Il Sistema Sanitario dei tre distretti del Sulcis Iglesiente e le semplici ma efficaci proposte avanzate necessitano di un grande sostegno politico. Finora nessun politico del posto, delegato dai cittadini alla Regione, è riuscito a fermare il crollo degli ospedali delle due città.
Per le prossime elezioni regionali dovremmo contrattare bene il nostro voto con i candidati che verranno a chiedercelo. Non importa di quale parte politica saranno o quale sarà la città del Sulcis Iglesiente da cui proverranno. Ci servono tutti, Ci interessa che siano consapevoli della colpa che abbiamo tutti insieme indistintamente per non aver fermato la predazione attuata sui nostri reparti ospedalieri e sugli altri servizi pubblici essenziali. Il successo non è assicurato ma, se non ci riusciranno, il Sulcis Iglesiente si svuoterà, non per infertilità, ma per una penuria di sicurezza sanitaria, sistematicamente indotta dal centro che ci governa, che non vuole fermarsi.

Il castello dei valori umani su cui si basava la Sanità Ospedaliera del Medioevo si sgretolò durante l’epidemia del 1347-48 : l’etica del sistema di mutua assistenza si era infranta davanti all’incapacità di affrontare la peste. La gente moriva in massa nelle proprie case, nelle campagne e per le strade.
L’apparato sanitario, governato dagli Ufficiali di Sanità, gestì il problema dei morenti e dei morti con metodi spicci. Li caricava sui carretti e li smaltiva in fosse comuni. Questo fu il massimo del “prendersi cura”. I medici , pochi, spaventati e impotenti, seguivano i consigli di Galeno: «Fuge, longe, tarde» («fuggi lontano e torna il più tardi possibile»). L’inconsistenza del sistema di sicurezza prodotto dai governanti generò, nel popolo, odio contro i medici. Il disprezzo per i medici fu tale che per un secolo persero credibilità e scomparvero dalla storia. Nel 1348 il più grande odiatore dei medici fu Francesco Petrarca, il poeta. La sua amata, la bella Laura De Sade, morì di peste, nonostante le cure dei migliori specialisti di Avignone. Per offendere i medici del tempo li chiamò “maccanici”. Con questo termine, che di per sé non è offensivo, voleva dire: «La vostra professione è senza spiritualità; curate i corpi malati come se fossero macchine rotte e non vedete che dentro hanno un’anima carica di valori etici».
La medicina era caduta talmente in disgrazia che per un secolo i malati trovarono conforto soltanto in ricoveri gestiti da personale di assistenza, fratres et sorores, che agivano autonomamente e si mantenevano con le donazioni dei benefattori. Tali strutture erano destinate al ricovero dei vecchi non autosufficienti, dei poveri, dei folli, dei bambini abbandonati e degli infettivi. Anche in questi ricoveri la spiritualità si deteriorò davanti alla tentazione di arricchimenti personali con le donazioni incamerate.
A Milano un secolo dopo, nel 1448, vi fu un duro intervento di  ri-spiritualizzazione” degli ospedali caritativi del tempo. L’arcivescovo della città degli Sforza, Enrico Rampini, sostenuto dal Papa Nicolò V, fece demolire 16 di questi infami ricoveri e costruì il Grande Ospedale dell’Annunciata che poi venne chiamato  Ospedale Maggiore”. Fu una rivoluzione. La gestione sanitaria dell’ospedale venne affidata ai medici, per la prima volta assunti in pianta stabile, e quella amministrativa fu affidata ad una commissione cittadina di persone di fiducia. Con l’intervento dell’architetto Filarete fu progettato un ospedale in cui i letti erano singoli, avevano un armadietto esclusivo per ogni malato e un sistema igienico di scarichi che allontanava i residui di umanità direttamente nei navigli. Si concordò che quello fosse l’“Ospedale per acuti”, da dove i malati dovevano essere dimessi dopo poco tempo guariti o morti. Alle porte di Milano fu costruito l’“Ospedale per i cronici”, destinato ai vecchi, ai folli e agli incurabili. Non se ne usciva mai se non da morti.
L’Ospedale Maggiore di Milano era costruito a “crociera”. Due ali della croce erano destinate alle donne; le altre due agli uomini. Al centro, dove si incrociavano le quattro corsie dell’ospedale, era posto un altare col Santissimo esposto, a significare: «Noi vi curiamo ma è Lui che vi salva». Fu chiara a tutti l’equa divisione delle responsabilità.
Il Sistema Sanitario Milanese attirò la curiosità di tutta l’Europa e molti Governi inviarono i loro medici e architetti per copiarlo. Così si diffusero gli “Ospedali Maggiori” nel mondo occidentale.
La Riforma Sanitaria dell’arcivescovo Rampini fu fondamentalmente una “ riforma etica©. Quella concezione di Ospedale, in Italia e in Europa, rimase fino alle riforme sanitarie sperimentate dopo la Seconda Guerra Mondiale.
La stessa eticità venne ripresa nella Riforma Sanitaria allestita dalla Commissione ad hoc presieduta da Tina Anselmi. Fu lei a presentare il testo della legge n° 833 del 1978 alle Camere. In un’intervista raccontò al giornalista che le idee fondanti erano emerse dalle discussioni fra partigiani nei bivacchi di montagna. Raccontò che fu lì che si decise di introdurre nella riforma i tre valori guida: l’Universalità delle cure, l’Equità e l’Uguaglianza. Lo slogan che sintetizzava lo spirito della nuova sanità fu: «Dalla culla alla tomba, gratuita per tutti». Fu il trionfo della solidarietà.

Recentemente uno dei massimi chirurghi viventi in Italia ha ricevuto l’incarico da un’importante rivista medica americana, di scrivere un articolo sulla “spiritualità” nella chirurgia del cancro in stadio avanzato. Per chi opera negli ospedali di questo tempo, l’articolo commissionato al chirurgo, è stupefacente.
L’obiettivo di chi ha commissionato l’articolo è quello di ridare all’ospedale il significato di “luogo etico” in qualità di contenitore di “valori”. Ciò contrasta con l’idea dell’ospedale come semplice luogo di produzione aziendale secondo calcoli economici di tipo privatistico. Quel chirurgo sicuramente esplorerà l’angoscia di chi non ha più speranza e che non si sente ancora pronto alla fine, e discuterà la “compassione” del medico in questo passaggio. Nella stessa “compassione” che letteralmente significa “sentire la sofferenza insieme all’altro” è coinvolto il personale infermieristico e chi svolge il ruolo di care-giver.

Oggi lo Stato, con il PNRR missione 6, certifica un altro “valore”: il diritto del malato alla “prossimità” del luogo di cura e di chi lo cura. Il luogo più prossimo è la propria casa, poi vengono la
Casa della salute e gli Ospedali.
Negli Atti aziendali di varie ASL qualcuno ha cercato di definire quanto deve essere vicina questa “prossimità”. Vi è chi suggerisce che i luoghi di cura debbano essere distanti non più di un chilometro e mezzo dal luogo in cui sorge l’improvviso bisogno di cure; vi sono altri che invece quantificano la distanza in tempi di percorrenza non superiori ai 15 minuti. Secondo questa visione della “prossimità” si esclude l’accentramento esasperato dei servizi ospedalieri nelle grandi città e cresce l’idea che l’ospedale debba tornare alla sua dimensione etica mantenendo il suo radicamento nel territorio.
Il problema è come fare a tornare allo spirito della legge 833 di Tina Anselmi superando le riforme fallimentari che si sono succedute.
In questo periodo storico di indeterminatezza della percezione del senso del diritto, della giustizia e della politica, è stata citata una dichiarazione del giurista Carlo Arturo Jemolo. Egli ha sostenuto che la Carta costitutiva dell’ONU, così come la Costituzione Italiana, pur piene di buoni principi, sono destinate a rimanere “pezzi di carta” se non esiste un’Istituzione che le faccia rispettare.
La differenza tra quella prima riforma e le successive sta nel fatto che la 833/78 conteneva al suo interno un Istituto di controllo con funzioni assimilabili all’idea di Jemolo.
L’Istituzione in oggetto era rappresentata dal Presidente della ASL e dal Comitato di gestione. Nella nostra esperienza i componenti erano tutti consiglieri comunali delle 23 città del Sulcis e dell’Iglesiente. Gli assistiti allora erano abbastanza soddisfatti dei loro ospedali. Eppure allora avevamo meno medici di oggi. Al Sirai c’erano una trentina di medici contro il centinaio degli attuali. Ad Iglesias i rapporti erano simili. Si dovrebbe concludere che quei consiglieri comunali fossero dei geni del management sanitario. Invece no. Non avevano alcuna formazione in sanità, però avevano una grande capacità politica di interpretare i bisogni del personale sanitario e dei malati. Essi non si sostituivano al personale dell’apparato amministrativo ma facevano rispettare i valori umani di cui erano rappresentanti: la dignità, la sicurezza, la speranza, la condivisione, il coraggio, la compassione e, soprattutto, avevano l’umiltà di ascoltare. Quella capacità di “ascolto” in seguito si attenuò fino a scomparire. Dall’umanizzazione della Sanità pubblica si passò all’ingegnerizzazione della Sanità.
La lettura accurata delle leggi sanitarie di oggi fa emergere la centralità di un nuovo complicatissimo apparato burocratico. Vi si possono leggere centinaia di pagine che descrivono processi, uffici e commissioni, senza mai incontrare le parole: medico, infermiere, malato. Queste tre figure che dovrebbero essere centrali, si trovano invece alla periferia dei programmi; talvolta non sono neppure alla periferia, sembra che proprio non ci siano.
La sede di comando del potente apparato burocratico centrale è un luogo indefinibile della mente, impenetrabile, distante fisicamente e psicologicamente. E’ avvolto da una forma di indeterminatezza e di estraneità per cui è difficile instaurare quei sentimenti empatici che invece con i politici locali erano la norma. La sensazione che ne risulta è che il nuovo sistema sia respingente, come se si trattasse di una corazzata impenetrabile che non lascia spiragli per accedervi.
Leggendo gli atti, si ha la sensazione che tale apparato sia inaccessibile ed escludente pure per i Direttori generali, a cui sono preclusi tutti i poteri essenziali per la reale gestione della ASL, come la facoltà di assumere personale ed acquistare strumentazione con decisioni indipendenti.
Perdendo i nostri sindaci e i nostri politici locali alla guida della sanità, abbiamo perso la cinghia di trasmissione che ci faceva entrare in contatto con i vertici. Ormai siamo al di fuori della possibilità di controllo di questa entità superiore.
Sicuramente non è un’esperienza nuova nella storia dell’uomo.

Nel 15° secolo un rappresentante dell’Aragona davanti alla Cortes catalana espresse al re un giuramento di obbedienza in questi termini: «Noi che siamo leali come lo sei tu, giuriamo a te, che non sei migliore di noi, di accettarti come nostro re e signore sovrano, purché tu rispetti le nostre libertà e le nostre leggi; ma se non le rispetti, non ti riconosciamo». Da “La Spagna imperiale. 1469-1716” di John Elliott.

Mario Marroccu

Un nemico invisibile si aggira tra i malati tumorali: è il consumo inutile del tempo che resta, ed il tempo è l’essenza della vita.
Un’anima alla Sanità venne data dalla Commissione di Tina Anselmi la quale raccontò che la sua Riforma Sanitaria era nata sulle montagne durante la resistenza del dopoguerra. Ella aveva sognato un’assistenza sanitaria fondata su tre valori: l’Universalità, l’Uguaglianza, l’Equità. In quella Riforma, apparirono per la prima volta i Livelli Essenziali di Assistenza: i L.E.A., tutelati dalla Costituzione.
I LEA contengono tutte le prestazioni sanitarie: da quelle ambulatoriali a quelle ospedaliere. Vanno dalla cura dei denti alla cura dei tumori e ai trapianti d’organi. L’elenco dei LEA viene aggiornato quasi annualmente da AGENAS; l’Agenzia Nazionale e regionale Sanità, che è una emanazione del Ministero della Salute. AGENAS sorveglia la corretta erogazione dei LEA all’interno dei Piani Sanitari.
I LEA hanno reso il Sistema Sanitario Nazionale italiano uno tra i migliori del mondo, tuttavia ad un attento esame dell’elenco delle prestazioni garantite si nota la mancata citazione di un fattore essenziale: il tempo da dedicare alla assistenza al malato.
Nonostante il tempo sia la struttura portante su cui si sviluppa la vita di ognuno di noi, quando lo descriviamo lo facciamo come se parlassimo in lingue diverse, perché la sua percezione è diversa secondo i nostri diversi modi di sentire.
– La percezione del tempo nei giovani è misurata in termini di futuro , e non finisce mai.
– La percezione del tempo negli anziani è prevalentemente calcolata sul passato e poco sul futuro.
– La percezione di chi è malato terminale, in prossimità del fine vita, limita la fine del tempo in giorni, mesi od ore.
– La giovinezza e la vecchiaia sono percepite secondo il tempo consumato e quello che resta da vivere.
– Con la nascita si percepisce l’ ingresso nel tempo , e col fine vita se ne percepisce l’uscita.
Anche le malattie vengono suddivise secondo il tempo in : malattie croniche e malattie tempo-dipendenti.
Le malattie tempo-dipendenti si identificano con le emergenze che concedono poco tempo come l’infarto del miocardio, il politrauma, o l’ictus.
Le urgenze mediche sono state distinte in: urgenze differibili e urgenze indifferibili, in base al molto o poco tempo a disposizione per intervenire.
Le “urgenze differibili” sono una contraddizione in termini perché tutto ciò che è urgente implica l’immediatezza delle cure. Le urgenze si classificano in base al tempo disponibile per salvare la vita del paziente. In tutti i casi non c’è tempo da perdere.
Nei Pronto Soccorso degli Ospedali l’urgenza viene identificata con un colore: verde, azzurro, arancione, rosso. E’ il triage ed è una suddivisione legata al tempo.
Moltissime urgenze sono classificate come differibili. Fra queste sono compresi i tumori maligni.
Il tempo è la componente fondamentale per classificare gli Ospedali in base al tempo di intervento più o meno urgente per l’inizio delle cure; per questo lo Stato individua gli Ospedali pubblici come sedi di Emergenza ed Urgenza.
Gli Ospedali privati in Sardegna non sono deputati all’urgenza ed emergenza e pertanto non sono tenuti ad un controllo serrato del tempo di intervento.
Il fattore tempo è inoltre determinante per stabilire le distanze che gli Ospedali devono avere dalla popolazione: devono essere in prossimità per motivi di tempi di percorrenza.
Il tempo come lo spazio è un mistero: di ambedue non si sa dove e quando inizino e dove e quando finiscano. Sono concetti talmente difficili da definire che hanno alimentato per millenni gli studi di filosofi, scienziati, e teologi.
Forse l’impalpabilità del tempo, la mancanza di una sua forma e volume, o aspetto, lo fanno ritenere una astrazione, o un sentimento, impossibili da definire.

Gli antichi cominciarono a misurare il tempo con le meridiane durante il giorno e con le candele durante la notte. Si pensò di identificare il tempo con il succedersi di eventi naturali. Era pur sempre una entità poco maneggevole, più vicina alla percezione di un sentimento che alla concretezza degli oggetti fisici.
Ci sono voluti millenni per distinguere se il tempo fosse un’entità astratta o una materia concreta.
Nel sesto e quinto secolo avanti Cristo i greci Parmenide, Zenone, Platone, Aristotele, studiarono il tempo. Poi nei primi secolo dopo Cristo lo studiarono sant’Agostino ed altri suoi discepoli.
Nell’epoca moderna fu vivace il dibattito fra tempo assoluto e tempo illusorio fino ad arrivare ad un inquadramento scientifico concreto con Isaac Newton e Galileo Galilei. Finalmente nel 1905 Albert Einstein, con la teoria della Relatività ristretta dimostrò matematicamente la struttura fisica del tempo nella famosa equazione “E = M C quadro”. La “C” indica la velocità della luce, misurata in chilometri al secondo (spazio per tempo). Sviluppando l’equazione si dimostra che il “tempo” è un’entità fisica concreta, e in quanto tale viene misurato, utilizzato e valutato come oggetto di scambio in ogni commercio umano: si misura col tempo la durata dei Governi, la durata delle pene, la durata del lavoro, etc.
Anche la Biologia va nella stessa direzione della fisica einsteiniana.
I nostri bisnonni calcolavano le ore notturne col tempo impiegato da una candela di cera per consumarsi, ottenendo cosi il calcolo del tempo consumato.
Qualcosa di simile alle candele si trova nei nostri cromosomi. Si è visto che i cromosomi possiedono alle loro estremità due “code” che vengono chiamate “Telomeri”. I telomeri misurano la durata della vita.
Sono lunghi alla nascita e si consumano, accorciandosi, con l’invecchiamento; quando sono del tutto consumati, come fanno le candele, la replicazione cellulare si ferma: avviene la morte.
La mancanza di una regolamentazione sull’uso del fattore tempo è esiziale per l’efficienza del nostro Sistema sanitario, sopratutto nelle fasi di fine vita.
Il nesso di causalità tra il “consumo di tempo” e la “morte” è certo. Ne consegue che l’inutile consumo di tempo in attesa di cure va evitato.
Chiunque quotidianamente assiste a scene di consumo di tempo per motivi di salute:
– le file davanti ai laboratori per analisi;
– le file davanti agli studi professionali convenzionati;
– le file ai Pronto Soccorso in tutti gli Ospedali;
– Le lunghe liste d’attesa per visite specialistiche;
– le lunghe attese per indagini complesse e interventi chirurgici;
– i lunghi viaggi verso Ospedali lontani che offrono prestazioni diagnostiche.
In questa elencazione suscita particolare amarezza il destino dei malati tumorali per:
– le lunghe attese per giungere alla diagnosi di certezza con TAC, RMN, endoscopie, biopsie. Iter che durano mesi:
– le lunghe attese dei malati per ottenere il ricovero nei centri dedicati;
– le lunghe attese aspettando il turno per ricevere le terapie fisiche antineoplastiche;
– i viaggi della speranza in continente, faticosi, dolorosi, costosi e spesso inutili.
I malati tumorali sono i pazienti che più di tutti hanno uno stretto rapporto col “tempo che resta”. Più che il dolore, in questi pazienti e nei loro cari, fanno soffrire l’angoscia e la disperazione per un destino già scritto. In questa fase della vita serve il rispetto di regole dedicate al tempo.
Per quanto possibile i LEA dovrebbero imporre tempi di attesa certi per l’esecuzione degli esami diagnostici e delle cure. L’iter delle procedure di indagine e di cura dovrebbe essere brevissimo, senza interruzione e, esattamente come si fa per il politrauma e per l’infarto, dovrebbe esistere un “118” oncologico perché il tempo di vita è poco. Nessuno farebbe attendere, ad un infartuato che arriva il venerdì mattina, l’inizio del trattamento di disostruzione coronarica, fino al lunedì successivo solo perché ci sono di mezzo il Sabato e la Domenica di riposo. Come l’infarto del miocardio anche il cancro non si ferma nei giorni di festa. I reparti di diagnosi e cura del cancro dovrebbero essere continuamente attivi, e dovrebbero essere evitate le interruzioni secondo il calendario. Il calo della presenza del personale negli Ospedali dello Stato nei giorni festivi e prefestivi è perfettamente legittimo ed è regolato dal Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro. Senza dubbio tutti i lavoratori hanno il diritto e anche il dovere di godere del riposo settimanale pertanto, per i malati che soffrono di patologie che non danno più tempo, ci vuole una diversa organizzazione.
Per assicurare le cure ai pazienti urgenti e ai tumorali, senza interruzione, esiste una sola soluzione: incrementare il personale dipendente tanto da mantenere perennemente in attività i servizi di diagnosi e cura.

Le conseguenze benefiche sarebbero:
– la somministrazione tempestiva delle cure;
– esami diagnostici anch’essi tempestivi;
– il precoce ritorno a casa dei malati;
– la riduzione dei tempi di ricovero:
– la maggiore disponibilità di posti letto per pazienti oncologici in attesa.
Il tempo e la sua amministrazione sono al centro di questo ragionamento.
Eppure dalla Riforma Mariotti del 1968 ai giorni nostri vi fu solo un Ministro che varò una Riforma Sanitaria degli Ospedali usando come parametro il “fattore tempo” ed il “fattore organici del personale” commisurato al numero dei posti letto ed alla intensità delle cure. Il Ministro si chiamava Carlo Donat Cattin, un sindacalista prestato alla politica. La legge di riforma era il DM 13 Settembre 1987 che dettava norme sugli Standard Ospedalieri. Con quelle norme egli assegnò immediatamente agli Ospedali 12.700 medici e 67.900 infermieri professionali. Allora il numero dei posti letto ospedalieri era pari a 6,5 posti letto per mille abitanti. Cioè quasi il doppio di quelli attuali che sono pari a 3,7 posti letto per 1.000 abitanti. La legge imponeva che i servizi diagnostici (radiologie, laboratori analisi) dovessero lavorare in due turni giornalieri per 12 ore al giorno. La suddetta Riforma ebbe il pregio di indicare lo standard degli organici uguale per tutte le regioni e per tutti gli ospedali, sia nei capoluogo che nelle Province.
Nel 2006, nel nuovo Ospedale di Forlì, venne applicata sperimentalmente una nuova struttura degli organici del personale legata alla intensità di cure. Fu un esempio nazionale ed europeo. Vi furono organizzati reparti perennemente attivi e reparti che godevano dei riposi e chiusure settimanali. La differenza stava nella numerosità del personale Medico ed Infermieristico commisurata all’intensità dell’impegno professionale.
In passato avevamo norme per definire gli Organici di Personale da attribuire equamente agli Ospedali secondo l’intensità di cure. Oggi ne siamo privi perché le ASL non possono produrre gli Atti Aziendali, e gli Atti Aziendali non possono essere prodotti perché mancano le linee guida che, a loro volta, devono essere fornite dagli organismi centrali della Amministrazione Sanitaria Regionale. In mancanza di una legge che definisca come si devono formare gli Organici è praticamente impossibile procedere ad assunzioni e la macchina ospedaliera si ferma.
L’insoddisfacente gestione del tempo di vita dei pazienti tumorali deriva dalla carenza relativa di Personale, di posti letto e dall’insufficienza dei Servizi diagnostici così, molti, non possono essere curati in regime di ricovero. Tanti malati vengono rispediti al loro domicilio con consigli terapeutici e liste di esami, anche complessi, da fare ambulatorialmente. Non è eccezionale sentire storie di pazienti affetti da tumore maligno, e da metastasi ossee dolorosissime, che sono costretti a partire dalle loro abitazioni, situate nelle città del Sulcis, verso Ospedali lontani come Bosa, Olbia o Muravera, per eseguire una TAC o una Risonanza Magnetica.
Visto che la misericordia per questi malati è solo un valore morale, è utile farla diventare un obbligo civile regolamentato.
E’ bene essere consapevoli di questo stato di cose.
Siamo tutti destinati a viaggiare nella stessa barca e, che si voglia o no, il tempo che resta è limitato.

Mario Marroccu