21 November, 2024
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Nella Storia Contemporanea sono in lizza due contendenti: il Coronavirus e l’Umanità. Fin dall’inizio della Pandemia molti affermarono che il Virus si sarebbe adattato all’Uomo e sarebbe diventato un innocuo “raffreddore”. Questa sottovalutazione sta tutt’oggi condizionando le scelte dei cittadini e le decisioni dei Governi. In realtà, è molto probabile che sia vero il contrario e che cioè il virus non si adatterà mai a noi e, piuttosto, noi ci dovremo adattare al virus. Esso vive sulla terra da sempre ed è estremamente più antico dell’uomo.
L’ominide Lucy visse due milioni e mezzo di anni fa ed il primo Homo Sapiens comparve appena 500.000 anni fa. Il virus esisteva da miliardi di anni prima e, probabilmente, come sostengono i genetisti americani, sono stati l’origine della vita sulla Terra. All’inizio di tutto, dunque, c’erano i Virus.
Se questa ricostruzione è vera, dobbiamo essere più rispettosi nei confronti del virus perché è un nostro antenato. Ebbene, esso non è mai cambiato, è rimasto come era nei primordi, invece Noi siamo il risultato di molti cambiamenti evolutivi. L’idea che il virus cambi in pochi mesi, per adeguarsi alle nostre esigenze, è senza basi. Degli altri virus con cui l’Uomo si è scontrato, si conoscono le vicende: il virus del Vaiolo ha ucciso uomini ed animali in tutti i millenni della storia conosciuta; oggi esso è scomparso per effetto delle vaccinazioni obbligatorie di massa; esiste solo in laboratori speciali e, per quanto si sa, non si è mai modificato a nostro favore. Così pure i virus della Poliomielite, della Varicella e del Morbillo, non si sono mai modificati ed oggi vengono tenuti a bada dai vaccini. Non sono mai cambiati, se non in peggio, i microbi della Tubercolosi, della Difterite, del Colera, del Tetano, della Rikettsiosi, della malattia di Lyme.
Si sostiene che il microbo della Peste Nera del 1347 sia spontaneamente scomparso improvvisamente nel 1700. Non è vero. Esiste tutt’oggi nel Tibet e nel Deserto della California, ed è sempre terribilmente mortale. Piuttosto, è vero che venne battuto il vettore del microbo, cioè la pulce del ratto nero asiatico (Rattus Alessandrinus), ma ciò avvenne per un cambiamento ecologico dovuto alla migrazione in Europa del ratto marrone del Nord (Rattus Norvegicus). Questo nuovo ratto, essendo più prolifico del ratto nero, occupò, per prevalenza numerica, il territorio europeo e si sostituì al ratto nero della peste. E’ vero che ne ereditò le pulci, tuttavia il mantello lanoso del ratto marrone ha uno strato profondo di lanugine talmente fitto da creare un ambiente invivibile per le pulci, e le pulci vi muoiono. Una volta scomparse le pulci ed il ratto nero, scomparve la Peste Nera.
Si può sperare in una mutazione benigna del Coronavirus, però per ottenerla, bisogna che mutino contemporaneamente tutte le varietà esistenti al mondo oggi. Dato che ciò è impossibile, ne consegue che la teoria che il Covid-19 diventi un innocuo raffreddore è ottimistica e anche molto pericolosa, a causa della sottovalutazione che implica. La sottovalutazione è stata fin dall’inizio il vero avversario che ci ha impedito di contenere la Pandemia.
Questa premessa porta a concludere che Noi dobbiamo adeguarci al virus perché esso è vincente. Sta succedendo un fenomeno epocale. Il virus ci sta cucinando lentamente come si fa con le rane vive in pentola. Il virus ha colpito il consorzio umano esattamente nel cuore di quel meccanismo dell’evoluzione neurologica della corteccia cerebrale che ha portato allo sviluppo della specie umana. Con la crescita della massa cerebrale, che è una grande centrale di comunicazione, avvenne il distacco di un ramo dall’albero della linea evolutiva dei Primati, quello del genere Homo. Il genere Homo ha la facoltà del linguaggio, della comunicazione verbale e dello scambio di informazioni che sta alla base della associazione. La necessità di comunicare compulsivamente ha indotto questo genere di ominidi all’aggregazione, al contatto fisico tra gruppi umani diversi, allo scambio di idee e beni e all’eliminazione del distanziamento. Sfruttando queste qualità, la specie Umana ha ideato le regole della convivenza sotto forma di Politica, Religione, Cultura, Commercio, e ha dato luogo alla organizzazione sociale, dapprima a livello di tribù, poi a livello di coordinazione di gruppi sempre più numerosi fino alla fondazione delle città ed alla costituzione delle Nazioni.
Da due anni il Covid-19 ci sta costringendo al regresso delle regole di aggregazione sociale e sta inducendo la lenta e impercettibile destrutturazione delle basi su cui la Società Umana è fondata, e cioè: l’associazionismo, la libertà di movimento, il trasporto di uomini e merci, l’arte, la scuola, la famiglia. Messa in questi termini, la Covid-19 non è una semplice malattia ma è un pericolo per la Società Umana così come oggi è costituita.

Se le cose stanno in questi termini, il problema è la sopravvivenza e, pertanto, è giustificato sostenere la formula pronunciata da Mario Draghi nel mese di luglio 2012 “ Whatever it takes”, cioè: bisogna fare «qualunque cosa sia necessaria», pur di uscire dalla Pandemia. Questa formula è facile da dire ma difficile da concretizzare in atti.
Proprio in questo frangente pandemico così delicato, siamo finiti in una disarmonia di voci contrastanti. Troppi pareri estemporanei, troppe ipotesi senza fondamenti scientifici, insomma confusione.
Alessandro Manzoni, per rendere meglio una situazione di conflitto dovuto alla nebulosità delle idee, inventò la metafora dei “galli di Renzo”. Invece, Winston Churchill, non riuscendo a mettere d’accordo tutti, arrivò a mettere in dubbio l’idea stessa di Democrazia, sostenendo che essa è la “peggior forma di Governo, eccezion fatta per tutte le altre forme”.
Anche oggi sta avvenendo che, Politici, Cittadini, Nazioni, piuttosto che risolvere il problema della Pandemia con un metodo condiviso e univoco, stanno affastellando in modo caotico una serie di problemi, diversi fra di loro e tutti importantissimi come: l’obbligo vaccinale, il suicidio assistito, la questione gender, la riforma del Fisco, il reddito di cittadinanza, la quota 100, il Patto Atlantico, la Via della Seta, il terrorismo informatico Hacker, il 5G, la scelta dei motori elettrici, la carenza di microchip, etc…, e ora, come se non bastasse, l’abbandono rovinoso dell’Afghanistan.
E’ difficile armonizzare le idee su un quadro storico mondiale e nazionale così complicato. In questo contesto, necessita fare una scaletta delle precedenze sui ragionamenti da impostare. Per adesso può essere utile fermarsi a riflettere sul problema dell’obbligo vaccinale. Si o No?
In premessa, si è tentato di dimostrare che la speranza che il virus attenui la sua aggressività è un’illusione. Pertanto, il virus non si adatterà alle esigenze dell’Uomo ma sarà l’Uomo a chinare la testa e si adatterà al Virus. Date queste condizioni di debolezza non esiste possibilità di trattativa e non ci rimane altro che il “Whatever it takes” di Mario Draghi, cioè dovremo adattarci a “qualunque cosa serva” per attenuare il pericolo pandemico che incomberà per molti anni ancora.
Il Vaccino è l’unica difesa oggi esistente. Fino ad oggi sono state messe in atto procedure molto intelligenti per indurre tutti i cittadini a vaccinarsi, tuttavia, il risultato non è soddisfacente, perché persistono sacche di umanità non vaccinata nelle quali il virus selvaggio prolifera. Da lì il virus riprende forza per attaccare anche i cittadini già vaccinati. Il Green Pass è uno strumento efficace ma l’applicazione è un po’ macchinosa e genera avversione.
Il Green Pass è stato adottato per impedire l’accesso dei non vaccinati nei luoghi di assembramento sociale e viene percepito come un surrogato dell’obbligo vaccinale universale. Questo è un punto delicato che necessita di chiarezza. La chiarezza la fornisce l’Articolo 32 della Costituzione, laddove dice che «nessuno può essere costretto ad un trattamento sanitario…. eccetto nei casi in cui vi sia l’obbligo di Legge». L’articolo è esplicito: il Governo ha il potere di emanare una legge che obblighi alla vaccinazione universale tutti i cittadini. Tale legge renderebbe inutili tante procedure di controllo capillare quotidiano.
Al mistero sulla titubanza se applicare o no la Costituzione si aggiunge oggi un altro problema che, per la verità, non è un vero problema. Si tratta della cosiddetta terza dose vaccinale. Questo giornale già un anno fa rese noto che il vaccino a RNA messaggero, secondo gli sperimentatori avrebbe conferito un’immunità della durata di 8 mesi circa. Ciò significa che coloro che sono stati vaccinati con 2 dosi a febbraio 2021, si troveranno scoperti, da un punto di vista immunitario, ad ottobre 2021. Pertanto, da ottobre tutti i vaccinati di febbraio dovranno essere considerati “non vaccinati” e dovranno, necessariamente, essere rivaccinati.
Dato che il Coronavirus non se ne andrà da questo pianeta, ma rimarrà per sempre con noi, si deve desumere che dovremo vaccinarci almeno una volta all’anno per sempre. Fu per questa considerazione che proponemmo ai nostri Politici del Sulcis Iglesiente di chiedere l’istituzione di un Reparto Infettivi, o un Covid Hospital, con personale medico ed infermieristico, da mantenere attivo per molti anni ancora. Nè più né meno di quanto si fece nel 1900 con gli Ospedali ed i Preventori antitubercolari di Iglesias e Carbonia.
Nel caso della Tubercolosi quei Preventori furono efficacissimi. Produssero la rarefazione progressiva del microbatterio tubercolare fino allo stato attuale di pacifica convivenza con pochi casi all’anno.
Oggi la vista di quegli edifici per la cura e la prevenzione, ormai dismessi ed abbandonati nel nostro territorio, suscita stupore. Eppure, sono la prova certa che in periodi in cui l’Italia era veramente povera si affrontarono con decisione campagne durissime per l’eradicazione di tubercolosi, tracoma, malaria, poliomielite, ed il contenimento di difterite, morbillo, vaiolo, pertosse, echinococcosi, brucellosi, tifo, che devastavano la vita e l’economia.
Anche nel secolo scorso e nel precedente, vi furono movimenti di opinione contrari alle vaccinazioni. Ai primi del 1900 vi fu un movimento molto seguito che sosteneva, contro il vaccino antivaioloso, la teoria che l’inoculazione di materiale vaccinale antivaioloso tratto dai bovini avrebbe provocato un cambiamento (genetico) dell’Uomo inducendo il minotaurismo, ovvero la nascita di figli per metà uomini e per metà tori, come nel mito di Dedalo alle prese col Minotauro di Minosse.
I Governi di allora capirono che esisteva un’epidemia che manteneva attive tutte le altre: l’analfabetismo.
Ne derivò la necessità di alfabetizzare la popolazione, istituendo l’obbligo alla scolarizzazione elementare delle nuove generazioni. L’istruzione obbligatoria fu il primo vaccino che spianò la strada all’uscita dalle epidemie. Mi pare si possa sostenere che anche oggi la Scuola possa essere l’arma vincente.
Oggi, nell’attesa che i Governanti trovino la determinazione giusta per applicare pienamente la Costituzione, cosa possono fare i nostri Politici locali? Certamente potrebbero pretendere che nei fondi del PNRR, Missione 6, destinati alla ristrutturazione degli Ospedali decadenti, si trovi il finanziamento necessario per istituire il “Reparto infettivi” al Sirai di Carbonia, così come venne previsto con un piano governativo negli anni ’90 , quando il Commissario straordinario della ASL 17 era il dottor Tullio Pistis, e fece portare a termine i lavori per la costruzione del padiglione a tal fine dedicato. Sarebbe grandioso il sentimento di riconoscenza che avremmo se sapessimo che in un Reparto infettivi dedicato vengano curati i Covid positivi, vicini ma separati dagli altri reparti e messi in sicurezza. I progettisti previdero sistemi di aerazione a pressione negativa per impedire la diffusione del virus. Dotarono la struttura della possibilità di avere una sala parto ed una piccola sala operatoria con terapia intensiva annessa e la possibilità di avere anche un rene artificiale per la dialisi separata. Nel 1990 si realizzava fantascienza. Similmente può essere attivato il Covid-Hospital ad Iglesias, già deliberato dalla Regione un anno fa.
Queste opere, sarebbero i primi atti di ricostruzione della Sanità del Sulcis Iglesiente.

Mario Marroccu

In natura non vi sono regole morali. Al contrario, vige la regola del più forte. La storia naturale delle epidemie e delle catastrofi è la storia di una “prova di forza” continua tra il più forte ed il più debole e, davanti al bisogno di sopravvivere, la lotta viene condotta senza esclusione di colpi. Ecco alcuni esempi.
La “Peste nera” del 1347/1348 si diffuse dopo alcuni anni di freddo globale che gli storici chiamarono “Piccola glaciazione”. Gli unici, tra Europa ed Asia, che riuscirono a produrre cereali per gli uomini e gli animali, furono i contadini dell’Ucraina. Il loro mercato si trovava nei porti della Crimea, sul Mar Nero.
Per questo i commercianti italiani si rivolsero agli armatori genovesi che avevano i granai nei loro magazzini a Caffa, in Crimea. Per arrivarci, le navi italiane dovevano attraversare il Mar Egeo, lo Stretto dei Dardanelli ed il Mar di Marmara. Quindi, superata Istanbul accedevano al Mar Nero. Da qui puntavano la rotta a Nord, verso la Crimea. Si tratta dello stesso percorso seguito dai soldati sardi che combatterono la Guerra di Crimea del 1854-56. La Russia aveva occupato la Crimea (esattamente come oggi) ed il Regno di Sardegna fece parte dell’alleanza che andò a liberarla. I Sardi si trovarono nel pieno di un’epidemia di colera e ne morirono 3.000. In quella occasione vennero assistiti dalla signora Florence Nightingale che, dopo quell’esperienza, fondò l’ordine mondiale delle Infermiere. Anche nel 1347 i marinai genovesi si trovarono implicati in una guerra tra Mongoli e Ucraini e anche allora gli italiani si trovarono nel bel mezzo di un’epidemia. Era avvenuto che i Mongoli, abituali incursori nelle campagne cinesi, quell’anno le avevano trovate deserte e con i granai vuoti. I contadini cinesi erano morti a causa di un’epidemia di Peste provocata dalle pulci del ratto nero (rattus alessandrinus). In mancanza di preda “l’Orda d’Oro” dei guerrieri mongoli si diresse ad Ovest verso i granai di Caffa per impadronirsene. Si misero al loro seguito anche i ratti, con le loro pulci infette, mossi anch’essi dalla fame. I mongoli assediarono la città di Caffa ma vi fu una strenua resistenza. Allora il capo mongolo, Gani Bek, pronipote di Gengis Khan, ebbe l’idea di lanciare oltre le mura, con catapulte, i corpi di soldati mongoli morti di Peste. Così la peste entrò nella città ed il morbo mortifero si diffuse. Alcune navi genovesi riuscirono a scappare col loro carico di grano e, con sé, portarono anche i ratti della peste. Mentre gli equipaggi morivano, le navi entravano nel porto di Messina. Fu la prima città europea ad essere appestata. Da Messina partirono altre navi, col loro carico di merci e di Peste, verso Napoli, Genova, Venezia, Cagliari, Alghero, e diffusero la peste in tutta Italia. L’Italia fu la porta d’ingresso dell’epidemia in Europa.
Esattamente come oggi col Coronavirus, il percorso del contagio fu: Cina, Italia, Europa. E’ dimostrato che la diffusione della Peste Nera fu facilitata dall’estrema debolezza del sistema immunitario delle popolazioni stremate dalla carestia. La carestia, a sua volta, derivava dal lungo periodo di freddo della “piccola glaciazione”. In quel “braccio di ferro” tra uomini e microbi vinsero i microbi.
La pandemia di “Spagnola” del 1919 esplose alla fine della Prima Guerra Mondiale. Le Nazioni erano indebolite dalla scarsità alimentare provocata dalla mancanza di uomini nelle campagne perché impegnati nello sforzo bellico.
Anche le epidemie di Vaiolo e di Febbre Petecchiale esplodevano a ridosso di guerre e di carestie. La Campagna di Russia di Napoleone del 1812 si trasformò in una disfatta a causa di un’epidemia di Tifo Petecchiale da Rikettsia Prowazeki. La Rikettsiosi era endemica negli eserciti ed esplodeva incontrollata per l’associazione tra carenze igieniche e carenze alimentari. Sappiamo che già due anni prima del 1812 era iniziata una grave carestia in Sardegna (“Su famini de s’annu doxi”). Nel vicino Nord Africa la situazione alimentare era ancora più grave perché alla carestia si era sovrapposta anche una invasione di cavallette che divoravano i pochi raccolti. I Bey di Tripoli, Tunisi e Algeri, che già abitualmente equilibravano il bilancio annuale dei loro Stati con i proventi delle scorribande, in quell’anno ripresero con più frequenza a rapinare le coste sarde. Nel 1812 le incursioni barbaresche si aggravarono, soprattutto, sulle coste del Sulcis. In quell’anno la famiglia reale viveva a Cagliari, dove aveva trovato riparo dagli eserciti napoleonici. Fu allora che avvenne l’assalto al “Forte del Ponte” di Sant’Antioco, la cattura di schiavi ed il furto di derrate alimentari. Di quell’episodio esiste un grandioso affresco nel Palazzo Viceregio di Cagliari.
Persistendo la carestia in Nord Africa, i corsari tunisini attuarono una nuova incursione su Sant’Antioco il 16 ottobre 1815. Furono fatti schiavi 130 antiochensi e uccisa parte della popolazione. Nei mesi successivi esplose una epidemia di vaiolo che si portò via tutti i bambini nati nei cinque anni prima un centinaio. Fu un fatto grave ma era stata ben più grave l’incursione su Carloforte del 1798 che era costata quasi 1.000 sequestrati destinati ad essere venduti al mercato degli schiavi di Algeri, Tripoli e Derna.
Le popolazioni cercavano consolazione nella religione pregando: «Alla crisi economica, dalla epidemia, e dalla guerra liberaci o Signore» («A famine, a peste, a bello libera nos Domine»).

Anche oggi le paure delle popolazioni sono le stesse: la crisi economica, la pandemia, i conflitti fra Stati.
La pandemia attuale da Coronavirus avviene in un pianeta afflitto da centinaia di guerre locali e da una competizione commerciale fra i potenti ai limiti della guerra finanziaria come mai si era vista. In modo simile alle pandemie del passato anche oggi assistiamo al crescere di una crisi economica globale. Anche nel nostro piccolo mondo locale assistiamo ai problemi del commercio, dell’iniziativa privata e del lavoro in generale.
Come affermano gli osservatori economici, la crisi finirà solo quando cesserà la crisi sanitaria. E la crisi sanitaria finirà quando verrà posto riparo alla deficienza di Servizio sanitario in cui ci troviamo.
Ieri il direttore generale del CENSIS, il dottor Massimiliano Valeri, ed il presidente dell’Agenzia Nazionale per i Servizi sanitari regionali (AGENAS) dottor Enrico Cosciani, hanno pubblicato un documento, destinato al Governo, in cui si dice testualmente: «La pandemia ha squarciato il velo sulle fragilità strutturali in Sanità. La pandemia ha travolto le nostre vite, con un forte impatto sociale e economico. Ma, di fatto, rappresenta un potente ed improvviso fattore di accelerazione dei processi».

«Ci siamo scoperti vulnerabili dopo anni di contenimento della spesa pubblica che hanno provocato la riduzione dei posti letto e la chiusura di piccoli Ospedali.»
Se analizzassimo la regressione del Sistema Sanitario del Sulcis Iglesiente, attuato ad arte negli ultimi 20 anni ricorderemmo che negli anni ’90 l’Ospedale di Carbonia aveva una dotazione di 384 posti letto, ed era stato appena costruito un padiglione separato destinato ad ospitare il reparto specialistico per le Malattie Infettive. Era Commissario il dottor Tullio Pistis e presidente il geometra Antonello Vargiu. Il padiglione, destinato ai pazienti affetti da AIDS, non venne mai utilizzato ed il Centro Infettivi non sorse mai. Iglesias aveva un ottimo Ospedale Traumatologico Ortopedico attrezzato per fornire un servizio di alto livello secondo la scuola del Rizzoli di Bologna. Vi era inoltre un Ospedale per le patologie generali, il Santa Barbara, che soddisfaceva la popolazione. Ad Iglesias vi era inoltre un grande complesso, l’Ospedale Fratelli Crobu, destinato alla malattia infettiva più diffusa nel secolo scorso: la Tubercolosi.
Nel 1983, quell’Ospedale, venne convertito per ospitare un reparto di Chirurgia pediatrica, un reparto di Pediatria ed uno di Otorinolaringoiatria. All’inizio ebbe successo, poi col calo demografico venne progressivamente ridimensionato fino alla sua completa chiusura. Oggi è nell’abbandono.
Negli anni ’90 il numero degli operatori sanitari dipendenti del Sistema sanitario del Sulcis Iglesiente si attestava sulle 2.000 unità. Oggi, tra Carbonia ed Iglesias, il numero di dipendenti è ridotto ad appena un migliaio.
Dove sono finiti i mille dipendenti che mancano ai nostri Ospedali?
Si capisce immediatamente dove sono andati a finire quei posti di lavoro se si osserva la crescita tumultuosa dei presidi ospedalieri e universitari di Cagliari. Contemporaneamente al depauperamento del nostro personale abbiamo assistito alla chiusura di interi ospedali ad Iglesias ed alla soppressione di reparti e Servizi al Sirai di Carbonia. Carbonia, che aveva in passato 384 posti letto, oggi ne vanta poco più di 100.
Così come le incursioni corsare dei secoli scorsi nelle nostre coste avvennero per motivi economici, anche nell’ultimo ventennio le crisi economiche nazionali sono state contenute depredando i nostri ospedali di personale, strumenti scientifici, interi reparti e fondi destinati “pro rata” al nostro territorio per dirottarli verso altri centri già ricchi e saturi di servizi sanitari.
Il direttore del CENSIS ed il direttore di AGENAS osservano anche, nel loro documento, che la distruzione della rete degli Ospedali provinciali ha condotto alla:
– riduzione e soppressione di visite specialistiche, accertamenti diagnostici;
– riduzione dei ricoveri di medicina interna;
– screening per la prevenzione dei tumori.
Inoltre affermano testualmente: «Anche se non ci fosse stata la pandemia, la transizione demografica ci avrebbe obbligati a rivedere l’offerta sanitaria a causa dell’invecchiamento della popolazione. Investire in Sanità è un moltiplicatore di processi di sviluppo e creazione di occupazione. Servono 58mila medici e 72mila infermieri per la Sanità del futuro.»
Ora bisogna stare molto attenti.
Con i soldi del “Recovery plan” inserito nel “Next Generation EU”, si potrà procedere a quelle assunzioni.
I nostri politici locali dovranno sorvegliare chi stilerà il programma di spesa.
Se non staremo attenti potrà avvenire un ulteriore peggioramento a nostro danno.

Nei nostri Ospedali provinciali abbiamo bisogno di quei 58mila medici e 72mila infermieri. Ci servono per ricostituire i reparti specialistici che ci sono stati sottratti a favore delle città. La teoria degli “Hub and spoke”, cioè della “centralizzazione” è stata il grimaldello con cui sono state divelte le basi della nostra Sanità. Ci hanno sottratto i fondi, il personale, i servizi specialistici, per trapiantarli nella città capoluogo.
Con la sottrazione di quei Servizi ci hanno sottratto almeno 1.000 posti di lavoro, che equivalgono a mille stipendi al mese sottratti alla nostra rete commerciale. La scomparsa di quegli stipendi va di pari passo con la scomparsa di clienti dai negozi per l’edilizia, dai negozi di abbigliamento, dai ristoranti, etc.
La scomparsa di quei mille operatori sanitari va di pari passo con la scarsità di offerta sanitaria nel nostro territorio, con l’allungamento delle liste d’attesa per essere operati e per ottenere le visite specialistiche, le TAC, le Ecografie, le Risonanze magnetiche e l’efficienza dei Pronto soccorso. In un articolo comparso giorni fa in un quotidiano regionale ci è stato riferito che la Regione ha speso per analisi cliniche strumentali nel 2020 una somma pari a 15,6 euro per abitante a Cagliari mentre ha speso 2 euro per abitante nel Sulcis. Questo dato la dice lunga sulla disparità di distribuzione di danaro per la sanità tra Cagliari e Carbonia Iglesias.
La stessa scarsità di personale a cui ci hanno ridotti è all’origine della riduzione dei posti letto nei nostri reparti ospedalieri, che a sua volta ha portato alla fusione di reparti specialistici in piccole Unità Operative, rese obbligatoriamente piccole dalla povertà di medici e infermieri. Il personale, che si trova carente di numero, mal motivato, e sovraccaricato della responsabilità di un bene prezioso come la salute degli altri ha bisogno di un forte supporto politico e popolare.
Come giustamente sostengono il presidente del CENSIS e quello dell’AGENAS, la riassunzione di quelle 1.000 persone che ci mancano dagli Uffici, tra gli Infermieri e tra i Medici, equivarrà ad un investimento economico. Assumere urgentemente nuovo personale è la via giusta per dare più Sanità a tutti e, investito in assunzioni nella nuova generazione, porterà nuovi posti di lavoro, nuove coppie, nuovi figli, e nuovi clienti per negozi e artigiani. Cioè: benessere.
In fondo questo è il fine di chi ha inventato il fondo del Next Generation EU. Dobbiamo volere che la suddivisione dei fondi provenienti dalla Comunità Europea venga fatta con una redistribuzione equa tra le province della Sardegna. Dobbiamo impedire un nuovo catastrofico accentramento di Sanità nel capoluogo. E’ necessario che i politici locali veglino su quei fondi per salvarci dal prossimo disastro: la povertà.

Mario Marroccu

Foto del Premier Mario Draghi licenza CC-BY-NC-SA 3.0 IT

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I “nodi” della Sanità sono “arrivati al pettine”. Naturalmente il pettine è il Coronavirus.
Su di lui si stanno infrangendo le “distorsioni ottiche” che hanno fatto dirottare il Sistema Pubblico dalla via tracciata dallalegge di Riforma Sanitaria n. 833/78.
Il dirottamento avvenne a metà degli anni ’90, quando dagli apparati burocratici dei Ministeri emerse un’idea innovativa: trasformare le ASL pubbliche in Aziende di tipo privato. Bisognava che i sistemi di amministrazione assomigliassero a quelli delle Aziende lombarde, che erano divenute il motore economico dell’Europa. L’idea era semplice: espellere i Consigli di Amministrazione delle ASL ed affidare tutto ad un Manager con pieni poteri. Fino ad allora i “Consigli di Amministrazione delle ASL” erano costituiti da delegati dei Sindaci del territorio.
Fino a quel momento la ASL Carbonia Iglesias (17) aveva avuto molta creatività e risultati concreti.
– Era stato rimesso in funzione l’Ospedale “Crobu” ed erano stati istituite la “Chirurgia pediatrica”, la “Otorinolaringoiatria” e la “Oculistica”.
– Il nuovo Ospedale Santa Barbara era stato dotato di una forte Chirurgia generale con un reparto di Anestesia e Rianimazione; erano stati inoltre istituiti i Servizi di Cardiologa, Dialisi, Diabetologia e di Endoscopia digestiva.
– Al “Sirai” di Carbonia erano state istituite la Cardiologia, l’Urologia, e la Dialisi. Inoltre, erano stati attrezzati un efficientissimo reparto di Anestesia e Rianimazione, un Centro Trasfusionale autonomo, una sezione di Pneumologia e un Servizio di Medicina nucleare.
– Era stato sviluppato e portato a realizzazione il progetto della nuova Psichiatria. Inoltre, era stato costruito un edificio isolato per Malattie infettive, dotato di sistemi anti-diffusione di contagio avveniristici.
– L’amministrazione venne situata in una sede più ampia nel centro città.
– Nel territorio fiorirono i Consultori per l’utenza femminile, e a Carloforte venne istituito il Pronto soccorso.
– Vennero istituiti i Centri Dialisi territoriali di Buggerru e Carloforte.
– Di pari passo si procedette all’assunzione di Medici, Infermieri, Tecnici, Amministrativi ed Ingegneri.
Gli ultimi amministratori di quell’epoca felice furono il geometra Antonello Vargiu ed il dottor Tullio Pistis.
Poi iniziò la “distorsione ottica” del mondo reale, indotta dalle nuove teorie di gestione sanitaria.
Dal Continente arrivarono, ad innovare, intelligentissimi “bocconiani” che decretarono la fine dei Consigli di Amministrazione delle ASL.
Iniziò l’era del potere concentrato in un “uomo solo al comando”.
Tutto il personale dipendente venne appositamente addestrato a pensare in un modo diverso.
La prima lezione di quei professori cominciò così: «Conoscete la storia del dentifricio Colgate? E’ questa: la grande azienda aveva conquistato il mercato di tutto il mondo e non sapeva cosa fare per espandere ulteriormente il mercato di dentifricio. Un cameriere che serviva il caffè buttò lì quest’idea: fate il buco più grande».
In effetti, fino ad allora, il tubo da cui si spremeva la pasta dentifricia aveva all’uscita un piccolo pertugio di 2 mm. Dietro quel consiglio il pertugio venne ampliato fino al diametro di 6 mm. Ogni volta che si spremeva usciva il triplo della pasta dentifricia necessaria e l’eccesso andava sprecato.
Il consumo del prodotto e le vendite aumentarono di tre volte e l’Azienda si arricchì ulteriormente.
La morale del docente era: «Trovate qualunque via pur di incassare di più». Questo obiettivo fu la conseguenza di un’altra innovazione: oltre ai “Manager” e alla “Aziendalizzazione” delle ASL, erano stati introdotti i DRG. Cosa sono? Sono un sistema contabile per quantificare il valore di ogni singola prestazione sanitaria. Chi sapeva usare con destrezza i DRG, poteva aumentare gli incassi dell’Azienda. Si creava così un automatismo di autofinanziamento basato sulla quantità di DRG prodotti, spendendo il meno possibile per produrli. Era stato inventato un prototipo contabile, capace, in teoria, di far funzionare l’Azienda in modo autonomo. Era qualcosa di simile al prototipo delle auto che viaggiano senza autista, o dell’aereo senza pilota. Lo scopo? Ridurre la spesa per gli stipendi di autisti e piloti d’aereo, senza modificare l’obiettivo del trasporto degli utenti da un punto all’altro. Ne derivò che certi servizi sanitari, invece che produrli, si potevano comprare da altri ospedali (cagliaritani) risparmiando sul personale, sui posti letto e sulle attrezzature. Così si svuotò progressivamente di significato il ricorso agli ospedali territoriali e iniziò la mobilità passiva della Sanità. Il bilancio della nostra Asl finì sempre più in rosso.
L’applicazione del nuovo meccanismo gestionale del Sistema Sanitario condusse alla rimozione del pilota umano (Sindaci) e all’affidamento della Sanità ad un Sistema senz’anima, funzionante con i riflessi meccanici di un algoritmo.
Il Coronavirus ci ha messi di fronte al crudo risultato di quella ideologia contabile applicata alla sanità Pubblica.
Il Sistema Sanitario Milanese è crollato al primo impatto. La percentuale di morti lombardi non è stata ancora superato neppure dal Brasile e dagli Stati Uniti.
L’ottima Sanità Privata Lombarda è, appunto, ottima per la cosa privata ma del tutto inadeguata a contenere l’impatto devastante di una pandemia. L’esperienza ci ha spiegato che chi non ha una buona Sanità pubblica, non si salva.
Noi non abbiamo ancora visto gli effetti del Coronavirus nel Sulcis Iglesiente, però vediamo quotidianamente il decadimento della Sanità Pubblica. L’unica che abbiamo.
Il sistema gestionale del “tubo di dentifricio” ha indotto una distorsione ottica del mondo reale e si è tradotto in un raggiro. La macchina sanitaria, privata dall’anima dell’Amministrazione territoriale, ha applicato un algoritmo rovinoso. Per raggiungere il fine contabile del bilancio ha provveduto a riequilibrare i conti con:
– La chiusura di reparti ospedalieri;
– La chiusura di Ospedali;
– Il mancato turn-over di personale qualificato andato in quiescenza;
– La riduzione dei posti letto ospedalieri da 700 circa a 180 circa;
– La mancata apertura delle Case della Salute;

Oggi il nodo più grosso che è arrivato al pettine del Coronavirus è: l’effetto dello “Esautoramento dei Sindaci dal controllo della Sanità”.
Questo è il guasto più grave della distorsione ottica insita nella “Aziendalizzazione della Sanità”.
Per effetto di ciò, stanno avvenendo fatti che sfuggono al controllo come:
– La scarsa efficienza dello strumento diagnostico di processazione dei tamponi, e l’immane lavoro di prevenzione affidato ad un manipolo di Medici e Assistenti Sanitari la cui dotazione di personale si può contare sulle dita di una mano. Purtroppo, laddove ci vorrebbe un esercito, siamo difesi da un plotone di ardimentosi, bravi ma pochissimi. Eppure, quell’apparato è fondamentale per tracciare l’avanzata capillare del virus nelle nostre case e nelle scuole;
– L’impotenza dei nostri rappresentanti politici alla Regione, a cui va comunque riconosciuto lo sforzo di opporsi alla carenza strumentale e personale del servizio;
– Il pubblico lamento del sindaco di Gonnesa che dice ai suoi cittadini “Dobbiamo fare da soli”. In queste parole c’è il senso di massimo abbandono di una comunità.
C’è solo una terapia per salvare la Sanità che ancora ci resta: ricostituire il Consiglio di Amministrazione delle ASL, formato dai Sindaci del territorio.

Mario Marroccu

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Venerdì 25 settembre, presso la circoscrizione di Bacu Abis, si è svolta la commemorazione “In ricordo del Dottor Enrico Pasqui”, storico medico della città, giunto tra i primi per svolgere la sua professione presso l’ospedale Sirai (inaugurato nel 1956), scomparso il 16 maggio di quest’anno, all’età di 91 anni.

Nato il 28 luglio del 1928 da padre toscano e madre cagliaritana, Enrico Pasqui si laureò a soli 25 anni, diventando presto un eccellente medico, tra i fondatori del sistema sanitario pubblico territoriale del dopoguerra. Apparteneva ad una famiglia agiata ma, nonostante questo, visse con umiltà, nel rispetto di tutte le lotte portate avanti dai minatori.

La serata è stata organizzata dall’associazione culturale “Bacu Abis e Sulcis Iglesiente” col patrocinio del comune di Carbonia e i relatori che si sono susseguiti sono stati introdotti e coordinati dal presidente dell’associazione, Gianfranco Fantinel, che ha portato i saluti della Sindaca Paola Massidda e dell’assessora della Cultura del comune di Carbonia, Sabrina Sabiu, impossibilitate a presenziare.

Tra le personalità il primo a prendere la parola Antonangelo Casula, ex sottosegretario di Stato per l’economia e le finanze ed ex sindaco di Carbonia; a seguire la lettura da parte del presidente di due scritti inviati da Irma Cancedda, presidente dell’Avis Provinciale e del primario dell’ematologia del Sirai  Angelo Zuccarelli che non hanno potuto essere presenti.

A seguire l’intervento dell’ingegnere presidente dei Lions Mario Porcu, del dottor Cesare Saragat ex primario del reparto di medicina del Sirai, del dottor Giorgio Mirarchi primario del reparto di Nefrologia del Sirai, del dottor Pietro Chessa, ex primario del reparto di Chirurgia dell’ospedale Sirai ed ex direttore generale della Asl 7 e dell’ex manager della Usl 17 di Carbonia Tullio Pistis.

Tutte le testimonianze hanno raccontato di un medico professionalmente molto preparato, che contribuì sin dal suo arrivo al nosocomio, a curare terribili malattie con le sue brillanti intuizioni, dovute ad uno studio molto attento e preciso.

Enrico Pasqui è stato un grande maestro, rispettoso e riservato nel comunicare ai suoi collaboratori, ai quali ha insegnato tanto, un errore medico, facendolo sempre personalmente, in privato, senza mai mettere in difficoltà chi lo commetteva. Paziente e mai alterato, disponibile e cortese in ogni occasione, amato e rispettato da tutti.

L’impegno sociale di Enrico Pasqui andava anche oltre, occupato in associazioni a scopo filantropico e sempre supportato dalla sua famiglia.

Dopo le personalità ha preso la parola la signora Gabriella, vedova del dottor Enrico Pasqui che, commossa, ha ringraziato per le belle parole rivolte alla memoria di suo marito e ha raccontato alcuni aneddoti sul suo amato sposo, da giovane promettente calciatore che scelse la strada della medicina anziché inseguire la carriera sportiva che avrebbe potuto essere economicamente più conveniente, sposo che conobbe quando ancora era un bambino di 10 anni, già attento e studioso, ragazzino che crescendo, divenne poi marito e padre esemplare. Erano presenti anche la figlia e la nipote, orgogliose di tanto dir bene per questo pilastro importante della loro vita.

Al caro e indimenticabile dottor Enrico Pasqui vanno tanti ringraziamenti che potrebbero concretizzarsi con la riuscita di un’iniziativa, nata sin dai primi giorni della sua scomparsa, la raccolta delle firme promossa da Giorgio Melis su Change.org, la piattaforma di petizione online per cambiare nome all’ospedale Sirai e dedicarlo alla sua memoria.

La serata si è svolta nel totale rispetto delle norme anti-Covid che salvaguardano la salute e contribuiscono a non diffondere il virus che tanti problemi sta creando alla società.

Nadia Pische

 

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L’Ospedale di “Carbonia” ha un gemello. Si trova a PAIMIO in Finlandia. Fu progettato da ALVAR AALTO e dalla moglie AINO MARSIO, architetti finlandesi. Quel progetto nel 1928 vinse un concorso e divenne famoso tanto che oggi viene studiato in tutte le Università del mondo e citato nei testi di Storia della Architettura. Gli Americani si convertirono subito al progetto di ALVAR AALTO e presero a costruire ospedali simili. Quell’Ospedale venne portato a termine nel 1933.
Il primo Ospedale costruito in Italia con quei criteri futuristici fu: il “Sirai” di Carbonia. Venne edificato 4 anni dopo l’Ospedale di Paimio.
ALVAR AALTO è tutt’oggi considerato uno dei più grandi architetti del 1900, assieme a LE CORBUSIER.
ALVAR AALTO e AINO MARSIO, nati nel 1898, avevano vissuto gli orrori della Pandemia Influenzale chiamata “SPAGNOLA”. La Pandemia durò dal 1918 al 1920 e fece 50 milioni di morti. Immediatamente dopo, a causa di quella pestilenza e della fame patita per gli effetti economici della Grande Guerra il popolo, indebolito nel fisico e nelle difese immunitarie, divenne preda di una massiccia diffusione della tubercolosi. Anche questa si prese le sue vittime.
Negli anni della Spagnola tutte le Nazioni adottarono le procedure di “distanziamento sociale” che oggi stiamo sperimentando. La gente indossava mascherine chirurgiche simili a quelle di oggi e si manteneva in “isolamento domiciliare”.
Nei pochi Ospedali dell’epoca, già provati dallo sforzo di curare i soldati massacrati dalla Guerra, entrò un popolo di derelitti che, in gran parte, non ne uscì più. All’interno si sviluppavano focolai che decimavano Pazienti, Medici e Personale di assistenza. AALTO e la moglie, appena 7 anni dopo la Pandemia di Spagnola, progettarono l’Ospedale sotto l’ impressione di quella esperienza.
AALTO conosceva l’esigenza del “distanziamento sociale” per contenere il virus e progettò un Ospedale che avesse la fondamentale funzione di “barriera architettonica” ai contagi. Inoltre si prese la cura di creare un posto gradevole dove gli esseri “umani” trascorressero le lunghe giornate godendosi gli effetti benefici della luce solare, viricida e antibatterica. «Dove entra il sole non entra il dottore», si diceva allora. Nell’idea di Alvar la luce solare doveva essere usata come ulteriore ostacolo agli agenti infettivi.
L’Ospedale di AALTO , da cui fu copiato il “Sirai”, era un ospedale a sviluppo “verticale”. Già in questo di differenziava radicalmente dagli “Ospedali Maggiori” di tutta Europa che erano a sviluppo “orizzontale” su un unico piano. L’“Ospedale Maggiore” di Milano fu fatto costruire dal Cardinal Rampini nel 1480 circa; fu il primo Ospedale pubblico gestito dallo Stato. Da notare che anche l’Ospedale Maggiore era nato per contrastare le epidemie che allignavano facilmente negli “ospedali caritativi” privati; in essi ogni letto ospitava da 4 a 10 malati contemporaneamente. Il Cardinal Rampini volle, come “misura di distanziamento” i letti “singoli”. Fu una grande rivoluzione presto copiata da tutta Europa.

L’altra caratteristica architettonica rivoluzionaria stava nell’orientamento dell’Ospedale rispetto all’arco solare. Le camere di degenza vennero, da AALTO, tutte orientata verso Sud Sud-Est in modo da ricevere luce solare diretta per la gran parte del giorno. Le camere, esposte al sole, erano fornite di ampie fenestrature ad ante scorrevoli. Le ampie fenestrature e gli alti soffitti, assicuravano un rapido ricambio dell’aria, senza produrre correnti. Questo è tutt’oggi un metodo efficace per allontanare rapidamente i microrganismi sospesi nell’aria ed abbassarne drasticamente la carica.
I reparti del nuovo Ospedale erano sistemati tutti su piani diversi. Si poteva accedere alle corsie di degenza solo dopo aver attraversato una zona filtro. Nella zona filtro e nelle camere erano disposti lavandini per il lavaggio delle mani.
Per evitare che il rumore dello scorrere dell’acqua disturbasse gli altri malati, AALTO progettò lavandini con il piano di fondo inclinato, insonorizzando il getto.
Il riscaldamento era “a pavimento”.
Il personale Medico ed Infermieristico alloggiava in corpi separati ed accedeva all’Ospedale in divisa da lavoro.
I parenti in visita dovevano fermarsi prima della zona filtro e non potevano accedere alle corsie di degenza per non portarvi batteri e virus.
I servizi e le sale operatorie erano sul versante Nord dell’edificio. Il versante soleggiato era riservato alle ampie fenestrature delle camere di degenza.
Questi pochi elementi descrittivi sintetizzano l’intelligente uso delle barriere architettoniche per contrastare la  circolazione degli agenti d’infezione all’interno dell’Ospedale.
Ogni piano era perfettamente isolato da quello sottostante e soprastante. Non vi era contiguità dei reparti, ma un efficace “distanziamento” ottenuto con intermezzi strutturali.
Chi conobbe l’Ospedale Sirai negli anni ’60-’70, ricorderà che i pazienti accedevano al ricovero dopo essere stati accettati dal Pronto Soccorso, che era disposto al piano terra. In quella sede avvenivano tre operazioni.
PRIMO: la visita.
SECONDO: la compilazione dei moduli di accettazione,
TERZO: la presa in carico del paziente. Che avveniva così:

-1- il paziente veniva completamente privato dei suoi indumenti e, se il caso lo richiedeva, immerso in vasca e lavato.  Gli indumenti venivano sistemati in un sacchetto e contrassegnati; quindi venivano introdotti in una “bocca di lupo” della parete, e fatti cadere direttamente nel reparto lavanderia, situato nei sotterranei. Gli indumenti, una volta lavati e sanificati, venivano confezionati e riconsegnati al paziente in camera. Idem per le calzature.

-2- Venivano controllati i capelli e, se vi era il sospetto di una malattia del capillizio e cuoio capelluto a carattere infestante o contagioso, si procedeva alla rasatura.

-3- Il paziente, così sapientemente sanificato, veniva rivestito con abbigliamento da camera sterile, adagiato su una barella, e condotto in reparto.

Negli anni ’90, quando era presidente della Giunta regionale Antonello Cabras, assessore della Sanità Giorgio Oppi, commissario straordinario della USL Tullio Pistis e presidente del Consiglio di amministrazione Antonello Vargiu, venne costruito un corpo separato destinato al Reparto Infettivi, per contrastare la temuta epidemia di AIDS. Questo corpo, posto a debita distanza dall’edificio centrale, non venne mai utilizzato perché l’epidemia fu scongiurata dall’avvento dei nuovi farmaci anti-retrovirali. Venne utilizzato per sistemarvi il Centro Diabetologico; il centro Trasfusionale e la Sterilizzazione. Quell’edificio, unico nel suo genere in Sardegna, per caratteristiche strutturali e dotazioni, era stato progettato da un team di Ingegneri e Architetti venuti da Roma, e costruito da un’impresa specializzata. Tanto grande era l’interesse del Governo per il contrasto all’epidemia.

Attualmente il complesso ospedaliero del Sirai è costituito dal corpo centrale ed altri corpi separati.
Questi sono: Il Centro DIALISI, la PSICHIATRIA, la RADIOLOGIA, la ex PEDIATRIA, l’ex INFETTIVI. Il corpo centrale ha subìto modifiche aggiuntive al Piano Terra: la RIANIMAZIONE posta a Est; il Nuovo PRONTO SOCCORSO a Sud-Est; il nuovo INGRESSO a Ovest.
Fino agli anni ’90 il corpo centrale ospitava:
– Pronto Soccorso e Traumatologia al piano terra;
– Chirurgia Generale al primo piano;
– Medicina Generale al secondo piano,
– Ostetricia e Ginecologia al terzo piano.
L’elemento architettonico ideato da ALVAR AALTO ha sempre conservata il “DISTANZIAMENTO” fisico-strutturale fra i reparti. Questa distanza fisica di garanzia è mantenuta ancora oggi, nonostante la comparsa di nuovi Reparti, che sono:
– La CARDIOLOGIA al V piano;
– La STROKE UNITY al III piano;
– ONCOLOGIA al IV piano;
– UROLOGIA al II piano.
Questi reparti non contengono “Infettivi”.

Con questa dotazione difensiva della Sanità Ospedaliera Sulcitana dovremo, con grande attenzione, e senza commettere imprudenze, affrontare la FASE 2 dell’epidemia da Coronavirus.
L’idea di Ospedale di Alvar Aalto ci protegge ancora. Speriamo che nessuno la modifichi.

Mario Marroccu

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Sono emerse novità molto interessanti per il futuro della pesca del tonno rosso nel comprensorio del Sulcis, dal convegno “Pesca del tonno – Ieri e oggi”, svoltosi venerdì sera nella sala riunioni della Tonnara Su Pranu, nell’ambito della 47ª edizione della Sagra del tonno, organizzata dall’associazione turistica Pro Loco di Portoscuso, con il patrocinio dell’assessorato regionale del Turismo e dell’assessorato del Turismo del comune di Portoscuso ed il contributo di Tonnare Sulcitane.

Al convegno, tra gli altri (il sindaco Giorgio Alimonda, il maestro Renzo Sanna, Tullio Pistis, il comandante della Guardia Costiera Rocco Chiuri ed il tonnarotto Pino Pinna), erano invitati due rappresentanti della società Tonnare Sulcitane, Andrea Farris e Giovanni Cozzolino, e proprio dall’intervento di quest’ultimo, esperto della pesca del tonno e da qualche anno consulente della Tonnare Sulcitane, sono emersi elementi di grande interesse che fanno ben sperare in un futuro diverso, capace di creare una nuova realtà industriale, significativa anche in termini occupazionali, per il Sulcis.

Invitato a chiarire l’annosa questione delle quote che penalizzano la pesca in Sardegna, Giovanni Cozzolino ha spiegato che le quote sono state create nel 2000 per porre un freno alla pesca senza regole che minacciava la sopravvivenza della specie, a forte rischio di estinzione, con una differenziazione tra i vari sistemi di pesca: circuizione, palangaro, tonnara fissa e pesca sportiva.

A livello nazionale, il D.M. 17 aprile 2015, pubblicato nella G.U. il successivo 26 maggio 2015, Serie Generale n. 120, ha previsto per il triennio 2015-2017 la rimodulazione delle percentuali relative al TAC (Totale Ammissibile di Cattura) della specie tonno rosso tra i vari sistemi di pesca operanti. Il provvedimento ha decretato che alle 12 imbarcazioni autorizzate alla pesca del tonno rosso con il sistema della “circuizione” venisse assegnato il 74,12% della quota (pari a circa 1.706,78 tonnellate), che alle 30 imbarcazioni autorizzate alla pesca del tonno rosso con il sistema del “palangaro” venisse assegnato il 13,53% della quota (pari a 311,67 tonnellate), che alle 3 tonnare fisse (quelle operanti nel Sulcis) venisse assegnato l’8,45% della quota (pari a 194,06 tonnellate), che alla pesca sportiva venisse assegnato la percentuale di 0,47% della quota assegnata (pari a 11,00 tonnellate), che il restante 3,19% (pari a 79,29 tonnellate) restasse quale quota indivisa.

Giovanni Cozzolino ha sottolineato che, in attesa della modifica di queste quote, per la quale sono state avviate diverse iniziative a livello politico, per le tonnare del Sulcis la soluzione per la valorizzazione del pescato (nella stagione in corso le quote spettanti di circa 200 tonnellate sono state già raggiunte, con alcune migliaia di tonni finiti nelle reti delle tre tonnare), la soluzione risiede nella realizzazione di una “farm off-shore” per la stabulazione dei tonni e la loro lavorazione nel Sulcis, con la creazione di una vera e propria filiera, evitando così la vendita del pescato ai giapponesi, come è avvenuto fino ad oggi. In questo modo si avrebbe un alto valore aggiunto sulle circa 200 tonnellate di tonni pescati, con ricadute importanti in termini occupativi.

La Società Tonnare Sulcitane s.r.l., due anni fa ha presentato alla Regione Sardegna un’istanza di concessione demaniale marittima, per fini di acquacoltura, per uno specchio acqueo di mare territoriale prospiciente il comune di Portoscuso – Capo Altano, della superficie di 46.125 metri quadri, per il posizionamento di 4 gabbie da adibire a “farm off-shore” per la stabulazione del tonno rosso.

L’iter procedurale ha subito uno stop per un problema e la società, d’accordo con i tecnici della Regione Sardegna, una volta risolto il problema, ha provveduto alla presentazione di una nuova istanza di concessione demaniale marittima, che ora si spera possa procedere celermente.

Andrea Farris ha aggiunto che, una volta realizzata la “farm off-shore”, si aprirebbero spazi anche per altre iniziative imprenditoriali legate alla lavorazione del tonno, che verrebbero accolte con favore dalla Tonnare Sulcitane.

Si tratta, in definitiva, di un progetto importante, che merita di essere sostenuto, per valorizzare la pesca del tonno, attività che ha fatto la storia di Portoscuso e Carloforte e che potrebbe dare importanti risposte in termini occupative, come accadeva in passato.

Giampaolo Cirronis